Da: Nuovo Quotidiano di Puglia (Brindisi) - https://www.facebook.com/francesco.fistetti.5 - francesco fistetti insegna Storia della Filosofia Contemporanea, Università di Bari.
“I filosofi hanno solo interpretato il mondo diversamente: importa cambiarlo” (K. Marx)
La chiesa cattolica, in virtù della sua natura interclassista, quando assume posizioni critiche nei confronti del sistema capitalistico non può evitare di ricorrere, e dilimitarsi, a un approccio etico-morale con forti connotati universalistici.
È questo il caso anche della recente enciclica "Fratelli tutti" di papa Bergoglio.
A noi però tocca il compito di chiarire che la rivendicazione della fratellanza umana non può limitarsi a una dichiarazione di principio ma deve essere il risultato di cambiamenti effettivi e radicali del modo di produzione di distribuzione della ricchezza socialmente prodotta.
Ciò non significa negare il carattere umanistico e solidaristico dello scritto in questione, bensì riportarlo alla sua reale ispirazione, che risiede in un appello a valori i quali, per quanto ampiamente condividisibili in quanto tali, non hanno di per sé la forza di cambiare nemmeno di una virgola il reale stato delle cose.
La dottrina sociale della Chiesa nasce, storicamente, in contrapposizione ai movimenti socialisti. Nonostante i vari tentativi di adeguarsi allo sviluppo del mondo capitalistico e alle crescenti diseguaglianze che ne costituiscono l'essenza e il risultato - e qui si potrebbero citare molti esempi a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II - la Chiesa cattolica non è mai stata in grado di compiere una decisa scelta di campo: il suo atteggiamento si potrebbe definire un riformismo equanime e cauto, che fa appello a una " umanità" data come già esistente sulla base di un assunto teologico, vale a dire la comune appartenenza degli uomini a una dimensione trascendente che li rende "Fratelli tutti" perché tutti figli di dio.
Ma questa prospettiva unificante sul piano metafisico non ha impedito alla Chiesa di stipulare concordati con fascismo e il nazismo o di appoggiare , più o meno esplicitamente, regimi sanguinari e oppressivi come quello di Pinochet e della dittatura militare argentina, per citare solo due esempi fra i più clamorosi. E non mi sembra che nessun papa abbia mai chiesto perdono per tali scelte. La Chiesa è lenta e prudente. Ha impiegato più di quattrocento anni per riconoscere, e con molte sottili precisazioni, di aver esagerato - per usare un eufemismo - nei confronti di Galileo.
D'altra parte, papa Wojtyla, nemmeno moltissimo tempo fa, rifiutò di abbracciare il nicaraguense teologo della liberazione Ernesto Cardenal, colpevole di posizioni eterodosse non sul piano teologico, ma politico. E quel papa è stato proclamato santo a furor di popolo.
Insomma, eguaglianza e umanitarismo sì, ma solo come effetto di una conversione spirituale e non di lotte per l'emancipazione. A noi non sembra una posizione che porti lontano. Anzi ci appare come una sorta di appello perché tutto cambi senza cambiare nulla. L'universalismo cattolico senza la lotta di classe serve a poco. E se riprende la lotta di classe, allora non serve più. (il collettivo)
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La lettura dell’ultima enciclica di papa Francesco,
“Tutti fratelli” (http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html), per la radicalità del messaggio che intende trasmettere, non solo conferma quanto la figura dell’attuale pontefice risulti invisa a una struttura di potere consolidatasi nei secoli, ma soprattutto rivela un’idea di cristianesimo che, proprio rifacendosi alle fonti originarie del Vangelo e delle Scritture, si propone di parlare direttamente alle nazioni e ai popoli della terra. Coinvolgendo in questo gesto di apertura tutte le confessioni religiose e le comunità di credenti, ma al contempo la cultura laica nelle sue espressioni più alte di valorizzazione della dignità umana (filosofiche, politiche e scientifiche).
Si potrebbe dire che questa enciclica è ecumenica non tanto perché è indirizzata al genere umano nella sua interezza, quanto piuttosto perché pone al centro della riflessione il destino stesso del genere umano e le vie da percorrere per salvarsi da una catastrofe incombente. Sotto questo profilo, l’orizzonte di pensiero entro cui l’enciclica si muove è un orizzonte planetario (l’Ecumene della globalizzazione e, in particolare, l’Ecumene squassata dal capitalismo finanziario globalizzato). Non a caso la metafora più usata è quella nautica: siamo tutti sulla stessa nave e possiamo salvarci solo se recuperiamo e poniamo in essere i valori dell’eguaglianza e della solidarietà.
A differenza del naufrago del lucreziano “De rerum natura” che, giunto a riva, contempla il mare in tempesta e si compiace di essere scampato alla tragedia, al giorno d’oggi l’umanità, per riprendere una formula suggestiva del filosofo austriaco Otto Neurath, è paragonabile ad una nave che non può attraccare in nessun porto sicuro, e che può mettersi in salvo solo se i passeggeri collaborano tra loro nel riparare le falle che rischiano di affondarla. La fratellanza invocata nel testo rinvia alla costituzione di un’etica senza confini, ad un “noi” capace di “prendersi cura” del “mondo che ci circonda” e della Terra che ci ospita. Questo “sentimento di comune umanità” non contrasta con il sentirsi radicati in una cultura, in un determinata comunità, in una specifica tradizione, che però non possono e non devono trasformarsi in “muri” di egoismo e di indifferenza. Tra essere cittadini del mondo e sentirsi parte di una comunità nazionale (regionale, locale) non c’è contraddizione: sono due facce della stessa medaglia. È questo il significato autentico del “diritto di non emigrare” che l’enciclica annovera tra i diritti umani fondamentali: creare le condizioni necessarie per condurre una vita degna di essere vissuta per sé e per i propri figli. Ma a produrre quello che un tempo, con un’espressione autoassolutoria per l’Occidente, si chiamava “sottosviluppo”, non è stato altro che sfruttamento e saccheggio di risorse esercitati da potenze statali o da organizzazioni economiche multinazionali. È l’effetto di una struttura del mondo che genera ingiustizie, diseguaglianze, dissimmetrie al punto tale che il pericolo di autodistruggersi non è più una distopia letteraria, ma una possibilità dietro l’angolo.
Alla luce di questa visione cosmopolitica dell’enciclica, la realtà geopolitica degli Stati appare del tutto inadeguata ad affrontare la sfida di costruire una convivenza tale che, come avrebbe detto Marcel Mauss, ci consenta di “contrapporci senza massacrarci”, vale a dire una convivenza in cui il conflitto sia una forza propositiva (dei singoli e delle comunità) e non distruttiva. Il pluralismo delle culture, che è stato giustamente celebrato come una delle maggiori conquiste della razionalità critica dei tempi moderni, sembra oggi impotente a produrre una concezione capace di dare una risposta d’insieme ai problemi che quotidianamente nascono dall’interdipendenza. I cosiddetti sovranismi di marca nazionalistica sono il sintomo di una fuga dalle responsabilità a cui il mondo globale ci mette di fronte. E le culture dei vari Paesi, invece di opporsi a questa deriva tribalistica, molto spesso l’assecondano esaltandone le tradizioni più integralistiche e razzistiche, se non proprio le velleità di potenza.
Per converso, l’enciclica ha una radicalità teologico-politica che non si era mai registrata nella storia della Chiesa, e ciò in un duplice senso: in primo luogo perché, come abbiamo detto, essa guarda ai mali del nostro tempo in un’ottica planetaria, ma la vera novità è che si tratta di un’ottica post-occidentale. In altri termini, nell’enciclica non vi è traccia di eurocentrismo o di occidentalismo: sarebbe come dire che non c’è più un centro, che l’Europa e gli Stati Uniti sono solo una “provincia” del mondo, e di un mondo policentrico in cui il tema della convivenza e della sopravvivenza sono la comune posta in gioco del futuro immediato. Infatti, che cosa può significare che “siamo una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca”?
Anzitutto, è la lezione che dovremmo apprendere dalla pandemia del covid-19 e che vorremmo volentieri rimuovere, perché prenderne coscienza comporta progettare una trasformazione delle istituzioni della nostra convivenza e delle nostre stesse forme di vita. Infatti, il paradosso è che questa pandemia ci ha fatto scoprire all’improvviso la nostra “fratellanza” oggettiva, cioè l’essere noi degli individui fragili e vulnerabili, come il cristianesimo insegna da sempre sul piano teologico o come già sapevamo dalle filosofie della finitezza che nel Novecento hanno criticato il complesso di onnipotenza dell’uomo moderno.
Eppure, il dato della vulnerabilità degli esseri umani e di tutti gli esseri viventi era lì davanti a noi, come la lettera rubata del celebre racconto di E. A. Poe, ma non lo vedevamo: gli equilibri del nostro ecosistema sconvolti, i mari avvelenati, l’aria delle metropoli e di intere regioni resa irrespirabile, la biodiversità in pericolo per l’estinzione progressiva di numerose specie animali e vegetali. Il papa aveva suonato l’allarme nell’enciclica precedente, («Laudato si’» - Jorge Mario Bergoglio), sempre sulle orme del Santo di Assisi. Ma invano. Come una megamacchina lanciata a folle velocità l’economia-mondo ha continuato a girare come prima. Poi è arrivata la Grande Glaciazione, la faglia che ha terremotato la struttura del mondo e che ha costretto ad aprire gli occhi sulla nostra vulnerabilità e sulla nostra interdipendenza. Solo allora ha iniziato a farsi strada l’idea che c’è un destino comune degli esseri umani e, si badi, non degli esseri umani “isolati” in gruppi più o meno grandi, in Stati nazionali distinti, in culture diverse l’una dall’altra, ma degli esseri umani nella loro unità di genere. Ed è questa condizione di comunanza che fa emergere oggettivamente in primo piano la “fratellanza” cristiana o la “fraternità” della Rivoluzione francese (quel concetto che nell’età moderna è stato trascurato rispetto ai concetti di libertà ed eguaglianza, e che era stato uno dei princìpi ispiratori del comunismo di Marx, il quale, come sappiamo, è stato distorto dai regimi totalitari dell’Unione Sovietica e dell’Est europeo).
Non bisogna nemmeno dimenticare che il principio della fratellanza/fraternità aveva trovato una parziale realizzazione nelle diverse forme di welfare State che, grazie alle lotte operaie e popolari d’ispirazione socialista e cristiano-sociale, sono state edificate negli Stati dell’Europa occidentale durante i “trent’anni gloriosi” del secondo dopoguerra. Poi l’ondata neoliberista a partire dalla fine degli anni Settanta ha progressivamente smantellato quelle conquiste e quei diritti, che, come la stessa enciclica sottolinea, non sono qualcosa di scontato e di acquisito una volta per tutte.
Ma l’enciclica spazza via anche l’illusione che quella fase storica del welfare State, con tutto ciò che essa comportava, possa tornare come d’incanto o in varianti più o meno aggiornate. Un’altra lezione, forse la più importante, della pandemia del covid-19 è questa: nulla può tornare come prima, perché la megamacchina si è inceppata, e il meccanismo dello sviluppo così come l’abbiamo conosciuto, fondato sul mito della crescita illimitata, si è bloccato.
A sentire discorsi del genere, molti gridano alla “decrescita felice” di Serge Latouche. Ma bisognava aspettare l’annuncio della necessità di un Green New Deal dell’Unione Europa per cominciare a prendere coscienza che è finita la Belle Époque della crescita illimitata e dai costi umani insopportabili.
L’enciclica avverte: “Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà”.
È un’affermazione perentoria che contiene una sorta di imperativo categorico: non è più moralmente e politicamente accettabile tornare allo status quo ante, a far funzionare la megamacchina della crescita illimitata che produce “scarti” umani, nuove schiavitù, la divisione dell’umanità in “uomini e topi” (J. Steinbeck), l’emigrazione biblica di popoli per fame e miseria, la disoccupazione di massa, le catastrofi ambientali, la riduzione degli esseri umani a consumatori passivi e a animali da gregge dei social media, manipolati da temibili apparati di controllo dei nostri comportamenti.
“Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati”.
La sfida planetaria sottesa a molti passaggi dell’enciclica è, dunque, la seguente: poiché non abbiamo più molto tempo prima che la nave affondi, dobbiamo trovare un modello di sviluppo che non sia più trainato dal Mercato e dall’utilitarismo generalizzato che esso alimenta sacrificando una parte del genere umano a vantaggio dell’altra.
Uno sviluppo che sia umano o, ciò che è la stessa cosa, commisurato alle sofferenze dell’umanità attuale e alla preservazione del pianeta Terra che abitiamo.
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