domenica 7 marzo 2021

"I due macroperiodi della storia della Cina"(Post-rivoluzionaria) - Vladimiro Giacché

Da: Vladimiro Giacché, Leconomia_e_la_proprietà. Stato_e_mercato_nella_Cina_contemporanea.

Vedi anche: Economia socialista e mercato in Cina - Vladimiro Giacché 

La Cina nel mondo multipolare: Forum della Rete dei Comunisti

Socialismo con caratteristiche cinesi


[...]

La storia della Cina può essere raggruppata in due macroperiodi: dal 1949 al 1978 (il periodo «maoista»), e dal 1978 (ossia dall’avvio della «politica di riforme e apertura» promosse da Deng) a oggi. Il secondo periodo, come noto, rappresenta una svolta importante rispetto al primo. Ma non vanno dimenticati neppure gli elementi di continuità.5 Il successo della politica di «riforme e apertura» infatti riesce a far leva su alcuni aspetti dell’economia cinese consolidati nel primo periodo (in particolare la pianificazione, la nazionalizzazione della terra e l’importanza delle imprese pubbliche, ma anche i progressi conseguiti nell’alfabetizzazione). Anche per questo l’attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, ha potuto affermare che le due fasi «presentano enormi differenze», ma «non sono in contrasto tra loro», e non si può «usare una per negare l’altra, e viceversa».6 

Ciascuno dei due macroperiodi può ovviamente essere ulteriormente suddiviso in diverse fasi, ma non sarà possibile farlo in questa sede.7 Degli stessi periodi principali presenteremo soltanto uno schema sintetico, riferito agli elementi chiave. 

La prima fase: 1949-1978. Mao e la costruzione del «sistema socialista di base»

Gli elementi fondamentali della prima fase dell’economia cinese post-1949 sono la riforma agraria, la nazionalizzazione delle imprese, l’industrializzazione accelerata e in generale la costruzione di un’economia centralizzata.

La nazionalizzazione delle imprese in una prima fase (1949-1956) riguarda solo le concessioni straniere e il «capitale monopolistico burocratico», risparmiando per contro le industrie e imprese commerciali di proprietà dei capitalisti nazionali. Dal 1956 il partito comunista decide di avviare un’industrializzazione accelerata sulla base di una pianificazione centralizzata e assegnando priorità all’industria pesante, sulla base del modello sovietico. Questa strategia, che nasce anche da necessità militari di difesa, è di fatto una strategia di sostituzione delle importazioni (non soltanto in relazione ai beni di consumo, ma già alle macchine per produrli). Tipicamente, questo tipo di strategia comporta la necessità di tenere bassi i tassi d’interesse, sopravvalutare la valuta nazionale e fissare prezzi artificialmente bassi per i fattori della produzione e i beni di prima necessità.8

Nello stesso 1956 si realizza la nazionalizzazione completa delle imprese industriali, anch’essa funzionale alla strategia di sviluppo incentrata sulla priorità dell’industria pesante.9

Nel modello economico centralizzato che si viene affermando non vi è nessuna autonomia delle imprese e dei rispettivi manager rispetto al piano deciso centralmente. Si ha così la «trinità» del sistema economico pre-riforme, in essere sino al 1978: prezzi distorti, allocazione delle risorse centralizzata/pianificata, assenza di autonomia dei manager. È importante osservare che queste caratteristiche sono in effetti razionali rispetto all’obiettivo prefissato, in un contesto – come quello cinese dell’epoca – in cui vi erano risorse scarse da mobilitare per l’industria pesante, tipicamente capital intensive.10

In questo stesso contesto vanno inseriti gli sviluppi riguardanti l’agricoltura. 

Il punto di partenza è rappresentato dalla riforma agraria. Nel 1952 i proprietari terrieri vengono espropriati, le terre nazionalizzate e distribuite ai contadini (come già avvenuto in precedenza, ancora prima della conquista del potere nell’intera Cina, nelle zone conquistate dai comunisti). Il lascito durevole della politica agraria sotto Mao sarà questo: la terra è di proprietà dello Stato, che la dà in usufrutto ai contadini.

Negli anni Cinquanta viene però effettuato – in gradi successivi – un ulteriore passo: la collettivizzazione delle campagne. Essa procede in parallelo con l’introduzione, nel 1953, del monopolio statale nell’acquisto di grano e cotone, i cui prezzi sono calmierati, e poi dal 1954 anche degli altri beni agricoli. Questi beni rientrano nel prezzo di uno dei fattori fondamentali della produzione, cioè la forza-lavoro, e, in una strategia di sviluppo economico incentrata sulla creazione dell’industria pesante, il loro prezzo deve essere fissato in modo artificiosamente basso. Si ha di fatto in questo modo il finanziamento dello sviluppo urbano e industriale da parte delle campagne, secondo modalità che ripropongono l’accumulazione originaria socialista proposta da Preobraženskij per la Russia degli anni Venti e successivamente adottata da Stalin.11 Vale la pena di aggiungere che, in una situazione di penuria di capitali e di assenza di capitali disponibili di provenienza estera,12 questa soluzione del problema del finanziamento dello sviluppo dell’industria pesante ha poche alternative.

La collettivizzazione è finalizzata al miglioramento della produttività nelle campagne, attraverso l’aumento delle economie di scala. La cosa avviene in diverse tappe. Si ha dapprima la costituzione di cooperative «di base» di 20-30 famiglie, che all’inizio produce buoni risultati. Poi, nel 1956-1957, si passa a cooperative «avanzate» di 150-200 famiglie alle quali si aderisce o se ne esce su base volontaria. Gli anni 1953-1958 sono in effetti caratterizzati da una crescita della produzione agricola. Nel 1958, infine, si passa alle molto più grandi comuni agricole (5.000 famiglie), oltretutto caratterizzate dal fatto che l’uscita non è più volontaria. Questo aspetto, unito alla distribuzione egualitaria (non basata su un’eguale prestazione di lavoro), è senz’altro tra i fattori che determinano un crollo della produzione agricola tra il 1959 e il 1961, in una situazione aggravata dalla circostanza straordinaria rappresentata da tre cattivi raccolti consecutivi: la produzione diminuisce del 15% nel 1959, e perde un ulteriore 15% l’anno successivo.13

Milioni di persone muoiono di fame nelle campagne. La situazione nel paese è drammatica, e viene aggravata dalla rottura con l’Urss (1960) e dal conseguente rimpatrio di tutti i consiglieri e tecnici sovietici. 

Dal 1962 l’unità di produzione viene ridotta a 20-30 famiglie (dimensione rimasta inalterata sino al 1978). Negli anni successivi si punta, con buoni risultati, al miglioramento della produzione di grano e riso grazie alla ricerca scientifica e alla meccanizzazione dell’agricoltura. Ma soltanto tra il 1978 e il 1984, con l’introduzione del sistema di responsabilità familiare, di cui si dirà più avanti, si avrà un incremento decisivo della produzione agricola.

Come noto, il primo periodo della storia della Repubblica Popolare Cinese fu caratterizzato anche da gravi errori, come il «grande balzo in avanti» di fine anni Cinquanta e gli anni della «rivoluzione culturale» (1966-1976). Ciò nonostante, in questa fase l’accumulazione del capitale fu molto elevata, come si può vedere nella tabella seguente.14

  The capital accumulation rate, 1952-1978               % of GDP 

First Five-Year Plan (1953-1957)                                   24.2 

Second Five-Year Plan (1958-1962)                              30.8 

(1963-1965)                                                                    22.7 

Third Five-Year Plan (1966-1970)                                  26.3 

Fourth Five-Year Plan (1971-1975)                                33.3

Source: China Compendium of National Income Statistics (1949-1985), compiled by Department of Equilibrium Statistics on National Economy, National Bureau of Statistics of China

Gli investimenti furono indirizzati principalmente verso l’industria pesante, come si può vedere dalla tabella seguente.15

La crescita industriale nel periodo fu del 6% annuo, un tasso tutt’altro che trascurabile.16


Sectoral share of investment in capital construction, 1952-1978 (%)

                                                          Agricolture     Light Industries     Heavy Industries     Other

First Five-Year Plan (1953-1957)             7.1                     6.4                          36.2                50.3

Second Five-Year Plan (1958-1962)        11.3                   6.4                          54.0                28.3

(1963-1965)                                              17.6                   3.9                          45.9                32.6

Third Five-Year Plan (1966-1970)            10.7                   4.4                          51.1                33.8

Fourth Five-Year Plan (1971-1975)           9.8                    5.8                          49.6                34.8

Source: Statistics on China’s Investment in fixed assets (1950-1978), compiled by Department of Statistics on China’s Investment in Fixed Assets, National Bureau of Statistics of China


È interessante considerare quali siano i punti di forza e di debolezza di questo periodo nella percezione che ne ha oggi il Partito comunista cinese. Al riguardo nel 2010 Han Baojiang, Vice direttore del dipartimento economico della Scuola di Partito Centrale del Pcc, ha affermato che in sintesi il modello cinese pre-1978 è quello di un’economia costruita sul modello dell’Urss di Stalin, caratterizzata in particolare da: 1) proprietà pubblica generalizzata, 2) sistema distributivo egualitario e 3) economia altamente pianificata.

Viene riconosciuto che questo modello imperniato sulla 1) proprietà pubblica generalizzata ha consentito di dotare il paese di una base industriale, ne ha garantito l’indipendenza nazionale (anche attraverso lo sviluppo della bomba atomica e della bomba H) e ha costruito quello che in Cina è chiamato il «sistema socialista di base». D’altra parte, tale modello, secondo lo stesso Han Baojiang, era viziato da una contraddizione interna: «La sua contraddizione consisteva nel fatto di essere un sistema socialista con bassi livelli di produttività». 

Per quanto riguarda 2) il sistema distributivo, l’egualitarismo nelle imprese pubbliche comportava una bassa qualità del lavoro. 

Infine, 3) il modello di economia pianificata adottato comportava un’allocazione molto inefficiente di risorse. Ne derivava un uso inefficiente del capitale, con forti squilibri interni a spese dei consumi e delle campagne.17

Come hanno osservato Herrera e Zhiming, è comunque sbagliata l’idea di una sostanziale stagnazione sotto Mao, pur a fronte di un’accelerazione della crescita nel periodo successivo. Dal 1952 al 2015 la crescita media annua in Cina è stata infatti dell’8,3%, così ripartita per periodo: tra il 1952 e il 1978 il 6,3% annuo, tra il 1979 e il 2015 il 9,9%.18 

Ma vediamo più da vicino questo secondo periodo. 


La seconda fase: dal 1978 a oggi. La svolta di Deng e la «politica di riforme e apertura»

                                              For the past 35 years, China has been the best performing economy in the world. 

China’s... GDP has grown faster for longer than that of any other economy in history. 

                                [B.J. Naughton, The Chinese Economy: Adaptation and Growth, Cambridge (Mass.), MIT Press, 2018, p. 1]


Nel 1978 Deng inaugura la «politica di riforme e apertura ». Essa è caratterizzata dall’incoraggiamento allo sviluppo di rapporti mercantili e dall’apertura al mercato mondiale.

L’espressione «politica di riforme e apertura» può essere assunta come caratterizzante questo intero secondo periodo, e non soltanto l’opera di Deng in senso stretto. Non è un caso che anche Xi Jinping abbia ribadito che «La riforma e l’apertura sono in continuo divenire, non avranno mai fine», come recita il titolo stesso del discorso tenuto il 31 dicembre 2012, durante la seconda sessione del gruppo di studio dell’Ufficio politico del XVIII Cc del Pcc.19.

La politica di riforme inizia nelle campagne, dove le comuni vengono smantellate, ma senza giungere alla privatizzazione delle terre. Si afferma invece il «sistema di responsabilità familiare».20 

Nato nel 1978 dal basso (nel villaggio di Xiaogang), esso prevede tre elementi chiave: 

1) la titolarità della proprietà della terra rimane collettivamente in capo al villaggio, ma 

2) i diritti di utilizzo sono distribuiti alle famiglie e, 

3) in base a un «accordo di responsabilità» tra i contraenti, ognuno è responsabile di profitti/perdite nel proprio lotto. 

In questo modo si ha una sintesi esemplare tra diversi ordinamenti: 

1) quello socialista/collettivista,

2) quello tradizionale cinese imperniato sulla famiglia, e 

3) un contratto più proprio della tradizione borghese. 

Ma soprattutto si tratta di una sintesi che funziona. I vantaggi del sistema sono evidenti: la responsabilità familiare, ma col contestuale mantenimento della proprietà collettiva, permette l’autosufficienza alimentare delle famiglie e al tempo stesso impedisce la vendita dei terreni e dunque l’accumulazione della ricchezza in poche mani. Il sistema conosce un enorme successo e si diffonde rapidamente in tutta la Cina: nel 1984 il 99% dei nuclei di produzione seguono questo modello. 

Proprio grazie al diffondersi di questo sistema, la crescita dell’agricoltura nel periodo passa dal 2,9% annuo del 1978 al 7,7% annuo del 1984;21 i raccolti agricoli risultano in pochi anni aumentati del 42% e il prodotto interno lordo delle campagne raddoppia.22 

Si tratta di un sistema tuttora in uso.23 Esso – assieme alla «politica del figlio unico» (introdotta nel 1980 e cessata nel 2015) – è risultato decisivo per il conseguimento dell’autosufficienza alimentare da parte della Cina.

Il passo successivo è stato l’introduzione dei rapporti di mercato anche nelle città. Questo avviene a partire dal 1985 attraverso una forma societaria sui generis: le «imprese di municipalità e di villaggio», generalmente indicate nella letteratura economica con l’acronimo inglese TVE (township and village enterprises); si tratta di imprese rurali ma il cui business non è agricolo.24 

Le TVE sono il prodotto della riorganizzazione delle imprese rurali industriali che appartenevano alle comuni. A queste imprese è consentito di vendere «al di fuori del piano» su base locale. Titolare dei diritti di proprietà è la comunità rurale; i profitti restano alla comunità per essere reinvestiti nelle TVE o per iniziative di welfare locale. Questa forma di imprese conobbe una grande fortuna sino alla metà degli anni Novanta: se nel 1980 le TVE erano 1,4 milioni e contavano 30 milioni di lavoratori, nel 1996 il loro numero era salito a 23,4 milioni per un totale di 135 milioni di addetti. Nel 1995 questo settore produceva il 30% del prodotto interno lordo cinese.25

La produzione industriale di queste imprese nel 1995 era superiore anche a quella delle grandi imprese pubbliche, le imprese di proprietà statale (SOE, State Owned Enterprises).26 

Le TVE assunsero caratteristiche differenti nelle diverse province. Dopo il 1996 il fenomeno si ridimensionò: molte TVE furono ristrutturate, altre divennero imprese private.27

Dalla metà degli anni Ottanta vengono introdotte in Cina anche imprese private in senso stretto. Si tratta di un processo graduale. Esse vengono autorizzate a partire dal 1984, ma la prima legislazione al riguardo risale a quattro anni dopo.

Dal 2001 anche i business owners (in altre parole, i capitalisti) possono iscriversi al Partito comunista. Ma solo nel 2004 la Costituzione è stata modificata per includervi il diritto di proprietà: «la proprietà privata conseguita legalmente dai cittadini – si legge ora nell’art. 13 della Costituzione – è inviolabile ».28 Oggi sono di proprietà privata (POE, Private Owned Enterprises) i 2/3 delle imprese cinesi per quantità; esse rappresentano ¼ della capitalizzazione delle imprese industriali, il 45% del prodotto e 1/3 dei profitti industriali (quota che nel 2016 è quasi raddoppiata rispetto a quella del 2007). 

A quanto sopra vanno aggiunti gli investimenti diretti esteri (FDI, Foreign Direct Investment) effettuati da multinazionali in imprese industriali cinesi. È importante osservare che gli investimenti esteri sono stati consentiti solo nella forma di joint-ventures con imprese locali, rendendo in tal modo possibile il trasferimento tecnologico. Quanto all’apporto di capitali esteri, va però sottolineato che in questi decenni in Cina l’accumulazione non è mai stata eccessivamente dipendente dal capitale straniero, a differenza di quanto avvenuto in Vietnam; inoltre sembra che il ruolo delle imprese straniere in Cina sia diminuito dopo il 2007/8. 29

In ogni caso il totale di POE e FDI assomma al 70% delle imprese industriali, che controllano il 40% degli asset industriali, realizzano quasi il 60% della produzione industriale e guadagnano il 60% dei profitti.

I problemi dell’industria che la politica di riforme e apertura si trova a dover fronteggiare sono: squilibri strutturali, una carente coordinazione di fatto (pur nel contesto di un’economia fortemente centralizzata), e la mancanza di incentivi adeguati per lo sviluppo della produttività del lavoro.30 

Viene quindi promossa una maggiore autonomia delle imprese statali (SOE) e sono introdotti incentivi materiali: si ha la progressiva introduzione di una logica di mercato anche per queste imprese, per le quali è ritenuta necessaria (ed effettuata in vari modi) una riforma,31 ma che sono ciò nonostante ritenute indispensabili: in altri termini, in Cina, a differenza di quanto accaduto in Urss e nei paesi dell’Est europeo, non si procede a una generalizzata privatizzazione delle imprese statali.

Si crea invece una cornice normativa che introduce progressivamente rapporti di mercato nell’economia. Sul lato del commercio internazionale, viene posta fine al monopolio statale del commercio estero. Il risultato è una crescita del volume del commercio estero e della sua importanza all’interno del pil, che passa dal 9,9% del prodotto interno lordo del 1978 al 44,7% del prodotto interno lordo del 2009. 32

Per agevolare lo sviluppo vengono introdotte zone economiche speciali (ZES) in cui gli insediamenti industriali ricevono agevolazioni fiscali e di altro genere. Sotto il profilo dei valori, il perseguimento della ricchezza viene incoraggiato.

Lo stesso motto «diventare ricchi è glorioso», attribuito a Deng (probabilmente apocrifo), non soltanto esprime bene l’obiettivo di sviluppare le attività commerciali e imprenditoriali che era parte integrante della «politica di riforme e apertura», ma riecheggia l’incitamento ad arricchirsi rivolto da Bucharin ai contadini russi nel 1925, durante la Nuova politica economica sovietica (NEP); e la rottura rappresentata dalla NEP nei confronti del comunismo di guerra fu obiettivamente un punto di riferimento nella prima fase delle riforme di Deng.33

Nel corso degli anni emerge una contraddizione tra riforme dal basso (micro) e il modello di pianificazione statale in uso; questo conduce a riforme olistiche (macro). 

Dal 1993 si comincia a parlare di «economia di mercato socialista», in cui il mercato è il «fattore di base [o fondamentale] nell’allocazione delle risorse». Più di recente, nel 2014, il mercato è divenuto il «fattore decisivo».

In tutte queste evoluzioni non viene però mai meno una strategia di sviluppo (sia a livello regionale che nazionale) guidata dallo Stato e dal partito comunista. Non si ha mai, in altri termini, un’apertura pura e semplice alle dinamiche di mercato; nel 1990-1991 sembra venire imboccata questa strada, ma essa subito rientra. Non vengono seguite le ricette del Washington Consensus, che spinge tra l’altro per una privatizzazione massiva delle imprese pubbliche, e viene mantenuta una politica industriale.

Si ha in altri termini una dual-track reform, una riforma cioè che corre su due binari paralleli, in cui il piano disegnato dallo Stato si integra con le dinamiche di mercato.34 È stato constatato che il risultato di questo specifico itinerario cinese è risultato molto migliore della Shock therapy applicata in Urss e nei paesi dell’Est,35 imperniata su tre elementi fondamentali: liberalizzazione dei prezzi, privatizzazione delle imprese e perseguimento dell’equilibrio di bilancio (stabilità macroeconomica).36 

In effetti, come noto, la transizione al capitalismo degli Stati dell’ex Urss e dell’est europeo ha avuto un costo economico e sociale estremamente elevato: e mentre i casi di successo anche nel lungo medio-periodo si contano sulle dita di una mano, addirittura 7 dei paesi interessati, abitati da 80 milioni di persone, cioè dal 20% della popolazione complessiva dei paesi ex socialisti, nel 2013 non solo non erano ancora tornati al reddito del 1990, ma erano ancora molto al di sotto di esso.37

Nei decenni successivi all’inizio delle riforme la Cina ha conosciuto un enorme sviluppo, ma anche una forte crescita della disuguaglianza, sia pure in un contesto di forte e generalizzato aumento del benessere economico (alla forte crescita della produttività del lavoro ha corrisposto un marcato incremento dei salari); l’indice di Gini ha raggiunto il picco di 0,491 nel 2008, e da allora è in lieve calo; mentre marcati dislivelli nella distribuzione della ricchezza sono evidenti non soltanto a livello sociale, ma anche geografico.38 Questo ha a che fare con i tempi diversi di sviluppo della diverse zone della Cina (dalle zone costiere, le prime a conoscere una forte crescita economica, all’entroterra, di più recente sviluppo), ma ovviamente anche con i cambiamenti conosciuti nelle forme di distribuzione e di proprietà. 


Forme di distribuzione e di proprietà nella Cina contemporanea

I cambiamenti nella distribuzione intervenuti a partire dal 1978 conoscono diverse fasi.

Si ha in primo luogo la rottura con l’egualitarismo precedente (il cosiddetto sistema di distribuzione «big pot», in cui la remunerazione era uguale per ciascuno e quindi non correlata alla prestazione lavorativa individuale). Al riguardo, si è parlato di «ricostruzione del sistema di distribuzione in base al lavoro».39 

La distribuzione in base al lavoro è esplicitamente prevista dalla Costituzione cinese, in coerenza con quanto previsto da Marx nella Critica al programma di Gotha con riferimento alla prima fase del comunismo: «a ciascuno secondo il suo lavoro» (come vedremo tra poco la citazione, che non è letterale, è riportata tra virgolette nella Costituzione cinese).

Nel 1997, il 15° congresso del PCC stabilisce, oltre alla distribuzione in base al lavoro, anche la distribuzione in base a un fattore produttivo essenziale. Nel 2002, il 16° congresso menziona quali fattori produttivi essenziali il lavoro, il capitale, la tecnica e il management.40 

Nel 2004 viene di conseguenza modificato l’art. 6 della Costituzione, al quale è aggiunto un secondo comma in cui si legge tra l’altro che «la distribuzione attraverso il lavoro è predominante e coesistono diversi modi di distribuzione».41 

Al tempo stesso, nel settembre 2004, la IV sessione plenaria del 16° comitato centrale del PCC richiede che sia prestata una maggiore attenzione all’equità sociale. Lo stesso doppio binario è riproposto nel 2007 al 17° congresso, in cui si esplicita l’obiettivo di accrescere la parte della distribuzione che va al lavoro, obiettivo cui però è affiancato quello di consentire a più persone di avere redditi legati alla proprietà. Nello stesso congresso è proposta un’altra importante distinzione: quella tra distribuzione primaria, legata al mercato, e distribuzione secondaria, legata allo Stato (servizi pubblici, sicurezza sociale, trasferimenti fiscali, ecc.).

Più di recente, in un discorso tenuto il 18 gennaio 2016, Xi Jinping ha fatto esplicito riferimento quale obiettivo finale al principio di distribuzione ideale di Marx/Engels, relativo alla seconda fase del comunismo come prevista dalla Critica al programma di Gotha: «da ciascuno secondo la sua capacità e a ciascuno secondo i suoi bisogni»;42 ha però aggiunto che oggi la Cina si trova ancora nella fase primaria del socialismo ed è quindi lontana da quell’obiettivo. Ciò nondimeno, viene ribadito l’obiettivo di incrementare progressivamente la condivisione della prosperità, migliorando «il meccanismo della distribuzione secondaria», e di procedere a poco a poco verso la prosperità per tutti.43

Nella concezione marxista, come noto, i rapporti di distribuzione discendono dai rapporti di proprietà. Questo stesso schema si ritrova nella Costituzione della Repubblica popolare cinese, i cui articoli 6 e 7 recitano come segue: 

Articolo 6: La base del sistema economico socialista della Repubblica Popolare Cinese è la proprietà pubblica socialista dei mezzi di produzione, cioè proprietà dell’intero popolo e proprietà collettiva da parte dei lavoratori. Il sistema della proprietà pubblica socialista supera il sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo; esso applica il principio «da ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro». 

Nello stadio primario del socialismo, lo Stato sostiene il sistema economico di base in cui la proprietà pubblica è predominante e diverse forme di proprietà si sviluppano l’una a fianco all’altra e tiene fermo al sistema di distribuzione in cui la distribuzione secondo il lavoro è predominante e diversi modi di distribuzione coesistono.

Articolo 7: L’economia di proprietà dello Stato, cioè l’economia socialista sotto il possesso dell’intero popolo, è la forza trainante dell’economia nazionale. Lo Stato assicura il consolidamento e la crescita dell’economia di proprietà dello Stato.44

Questi articoli ci dicono che la proprietà pubblica, e più precisamente le imprese di proprietà dello Stato, rappresentano la forma predominante di proprietà, se non altro nel senso di rappresentare la «forza trainante dell’economia nazionale».

Ci dicono però anche che questa forma di proprietà coesiste con altre forme di proprietà. È per questo che alla distribuzione secondo il lavoro si affiancano altre forme di distribuzione, tra cui quella derivante dall’esercizio di proprietà – ossia i profitti da capitale.

È evidente che questo ci pone un problema piuttosto serio di classificazione della formazione economico-sociale attualmente vigente in Cina, almeno dal punto di vista dell’inserimento in una delle caselle in cui – secondo una tradizione dicotomica consolidatasi nel Novecento – siamo stati abituati a ripartire le forme prevalenti di società del mondo contemporaneo: la Cina è insomma «socialista» o «capitalista»?

Più avanti saranno esaminate alcune risposte date a questa domanda. Ma ai fini di una trattazione seria di questo argomento è intanto opportuno approfondire il tema delle «diverse forme di proprietà» che «si sviluppano l’una a fianco all’altra» in Cina, e del ruolo effettivo che in questo contesto gioca la proprietà pubblica. 

Possiamo raggruppare le forme di proprietà sotto due macrocategorie.

1) Da una parte abbiamo le imprese di proprietà privata (POE), con e senza partecipazione di capitali stranieri (FDI).

2) Dall’altra abbiamo una pluralità di forme di proprietà, accomunate dal fatto di non essere assimilabili a proprietà privata. 

A questa seconda categoria appartengono:

a) le società di proprietà integralmente statale (SOE);

b) le imprese miste a controllo pubblico, le quali dal punto di vista della forma societaria possono a loro volta essere ripartite in

b1) LLC (limited liability companies, assimilabili alle nostre s.r.l.) e in

b2) SHC (shareholding companies, assimilabili alle nostre società per azioni); queste imprese sono molto più orientate al mercato delle SOE in quanto operano in settori più competitivi (manifatturiero); quasi il 30% delle imprese domestiche sono LLC (le SHC invece sono poche, ma più grandi per dimensione e capitalizzazione, nonché per prodotto);

c) le cooperative;

d) le TVE;

e) le imprese agricole familiari (Household-based Farm o HF) che non utilizzano stabilmente forza-lavoro non appartenente alla famiglia;

f) le CSHE (Cooperative Shareholding Enterprises, rurali o urbane).45

Va notato che le società ascrivibili a 2), cioè non assimilabili a società di proprietà privata, nel loro complesso impiegano il 70% della forza lavoro in Cina. Queste società sono state definite da Alberto Gabriele come «imprese non capitalistiche orientate al mercato» (Non-Capitalist Market Oriented Enterprises, NCMOE) in quanto, pur vendendo le proprie merci sul mercato, non sono di proprietà di capitalisti. 

[...]


Note: 

5 Su questo aspetto insistono R. Herrera, Z. Long, La Chine..., cit., passim, 2019 e Z. Jiamu, Several Issues of Deepening the Concept of Socialism with Chinese Characteristics, in Frontiers of World Socialism Studies.Yellow Book of World Socialism 2013, L. Shenming (a cura di), Istanbul Berlin London Santiago, Canut International Publishers, vol. 2, 2013, p. 29

6 Xi Jinping, Governare la Cina, 2014; tr. it. Firenze, Giunti – Foreign Languages Press, 2016, p. 27.

7 Al riguardo si veda R. Herrera, Z. Long, La Chine..., cit., p. 21 sgg e, per quanto riguarda il periodo post-1978, Chen Engfu in Interviste ai marxisti cinesi Chen Enfu, Deng Chundong, Lv Weizhou, F. Maringiò (acura di), Bari, Edizioni MarxVentuno, 2017, pp. 9-10.

8 Sui limiti di questa strategia si veda J.Y. Lin, Demystifying the Chinese Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, pp. 71-73. In particolare la distorsione dei prezzi (ossia la soppressione del meccanismo di determinazione dei prezzi attraverso il mercato), osserva Lin, comporta «shortage», penuria di beni, come rilevato da János Kornai nel suo Economics of Shortage, Amsterdam, New Holland, 1980; ma Lin ritiene che Kornai sbagli ad attribuire questa caratteristica alla «natura del socialismo»: fenomeni di «shortage» sono infatti rilevabili, in presenza di distorsione dei prezzi, non soltanto nei paesi socialisti, ma anche in altri paesi che hanno seguito la stessa strategia di sostituzione delle importazioni (vedi J.Y. Lin, Demystifying..., cit., pp. 76-77).

9 Id., pp. 78-79.

10 Id., p. 80.

11 In merito si veda E.A. Preobraženskij, La legge fondamentale dell’accumulazione originaria socialista (1924), in N. Bucharin, E.A. Preobraženskij, L’accumulazione socialista, a cura di L. Foa, Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 7-72. Sulla teoria di Preobraženskij e sulla sua successiva applicazione da parte di Stalin, si veda R.C. Allen, Farm to Factory. A Reinterpretation of the Soviet Industrial Revolution, Princeton e Oxford, Princeton University Press, 2003, rispettivamente pp. 57-58 e 172 sgg.

12 Vale la pena di ricordare che all’epoca la Cina subiva un embargo assoluto di merci e capitali da parte dei paesi capitalistici.

13 Per una ricostruzione delle cause della crisi agricola tra 1959 e 1961 vedi J.Y. Lin, Demystifying, cit., pp. 88-90.

14 Fonte: J. Y. Lin, Demystifying, cit., p. 97.

15 Fonte: Id, p. 98.

16 Ibid.

17 Han Baojiang, lezioni svolte a Pechino nel luglio 2010.

18 R. Herrera, Z. Long, La Chine..., cit., pp. 52-53; i dati sono del National Bureau of Statistics (NBS) cinese.

19 Il testo è ora raccolto in Xi Jinping, Governare..., cit., pp. 81-84.

20 In argomento si vedano J.Y. Lin, Demystifying..., cit., pp. 155 sgg. e S. Seu, La politica agricola nelle aree rurali, in La Cina della Nuova Era, cit., pp. 87-93.

21 J.Y. Lin, Demystifying..., cit., p. 156.

22 S. Seu, La politica agricola..., cit., pp. 90-91.

23 Sui suoi sviluppi successivi al 1984 si può vedere J.Y. Lin, Demystifying..., cit., pp. 157 sgg.

24 Delle TVE ha trattato G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, 2007, tr. it. Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 398-400, ma soprattutto A. Gabriele, Enterprises, Industry and Innovation in the Popular Republic of China. Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War, in corso di pubblicazione presso Springer (uscirà nel marzo 2020); i successivi riferimenti a questa importante opera, in quanto basati sul manoscritto, non conterranno rinvii al numero di pagina.

25 E.C. Perotti, L. Sun e L. Zou, State-Owned versus Township and Village

Enterprises in China, in Comparative Economic Studies, luglio 1999, Vol. 41, N. 2-3, pp. 151-179, qui p. 152.

26 A. Gabriele, Enterprises..., cit.

27 Su questo ridimensionamento e sui problemi statistici e di definizione connessi vedi Id, cit.

28 China’s Constitution of 1982 with Amendments through 2004, constituteproject. org, 19 agosto 2016; scaricabile da: http://extwprlegs1.fao. org/docs/pdf/chn164427.pdf .

29 A. Gabriele, Enterprises..., cit.

30 J.Y. Lin, Demystifying..., cit., p. 173.

31 Id, pp. 189 e 191 sgg.

32 Quindi rispetto a un prodotto interno lordo che nel frattempo era diventato molto maggiore.

33 Questa la frase di Bucharin, pronunciata durante l’attivo del Partito comunista di Mosca del 17 aprile 1925: «A tutti i contadini complessivamente, a tutti gli strati di contadini bisogna dire: arricchitevi, accumulate, sviluppate le vostre aziende. Soltanto degli idioti possono dire che da noi deve sempre esserci la povertà; oggi dobbiamo effettuare una politica tale per cui la povertà scompaia». (N. Bucharin, La nuova politica economica e i nostri compiti, in N. Bucharin, E.A. Preobraženskij, L’accumulazione socialista..., cit., p. 168). Il rapporto della «politica di riforme e apertura» con la Nep è ammesso da Cheng Enfu con riferimento alla prima fase delle riforme: «All’inizio delle riforme economiche del 1980, vale a dire durante la prima fase del rapporto tra piano e mercato..., la Cina ha fatto riferimento alla Nuova Politica Economica di Lenin. Ma il contenuto della riforma economica ha gradualmente valicato l’epoca della NEP» (Cheng Enfu in Interviste ai marxisti cinesi..., cit., p. 10).

34 J.Y. Lin, Demystifying, cit., p. 153.

35 Id, pp. 154 e 264 sgg.

36 Oltretutto, come osservato da Lin, lo shock derivato ai paesi interessati dalle prime due misure ha reso impossibile per lungo tempo il perseguimento della terza (Id, pp. 203-205).

37 B. Milanovic, For Whom the Wall Fell? A balance-sheet of transition to capitalism, in «globalinequality» [blog], 3 novembre 2014; articolo scaricabile da: http://glineq.blogspot.com/2014/11/for-whom-wall-fellbalance- sheet-of.html.

38 Per un approfondimento sulla disuguaglianza in Cina si può vedere B. Milanovic, Capitalism..., cit., pp. 98 sgg. Sugli squilibri regionali si veda quanto riportato in Zhang Boying, Il socialismo con caratteristiche cinesiPerché funziona?, Bari, MarxVentuno Edizioni, 2019, p. 95: «il PIL pro capite delle regioni meno sviluppate dell’hinterland occidentale è solamente un decimo di quello delle zone costiere».

39 Liu Wenxia, Thoughts about Changes of Fundamental Distribution System after Reform and Opening-up, in AA.VV, The 7th World Socialism Forum. Developing and Innovating Marxism in the 21st Century. Proceedings (I), Beijing, CASS, 2016, pp. 612-615, qui p. 612. ù

40 Id., p. 613.

41 China’s Constitution of 1982 with Amendments through 2004, cit., art. 6, comma 2.

42 K. Marx, Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo, a cura di U. Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 32.

43 Xi Jinping, The Governance of China, vol. II, Beijing, Foreign Languages Press, 2017, pp. 236-237; a p. 137 si trovano i riferimenti alle posizioni al riguardo dei precedenti leader del PCC ed è poi enunciata, alle pp. 237-8, la «filosofia dello sviluppo condiviso» adottata nella V sessione plenaria del 18° comitato centrale del PCC.

44 China’s Constitution ..., cit., artt. 6 e 7.


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