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Oggi la Cina ha assunto un ruolo di primo piano nello scacchiere internazionale a vari livelli in un contesto in cui gli equilibri erano mutati già prima dell’emergenza pandemica. La Cina è il principale partner commerciale per 130 Paesi e Regioni, ha avviato una partnership strategica con la Russia e ne sta per avviare una con l’Iran, è uno dei Pezzi da Novanta del più esteso trattato di libero scambio di tutti i tempi - il RCEP - da cui sono esclusi gli Stati Uniti. È un punto di riferimento a più livelli per una serie di Stati che intendono emanciparsi da ciò che è stato chiamato “lo sviluppo del sotto-sviluppo”, entrando così in conflitto con la tradizionale sfera d’influenza sia nord-americana che europea dall'America Latina all'Africa. Allo stesso tempo il ruolo della Cina nel consorzio internazionale e specialmente in alcuni contesti - come quello africano - rimane comunque “problematico” considerato l’impatto che gli ingenti investimenti della Repubblica Popolare ed il massiccio utilizzo della propria mano d’opera in loco pone a svariati Paesi. L’articolazione dell’ambizioso progetto della “Nuova Via della Seta” - teso a proiettare la propria potenza nel mondo – al fine di trovare uno sbocco ai propri surplus di merci e soprattutto di capitale ha mandato però in fibrillazione gli altri attori geo-politici di rilievo per le conseguenze che la sua realizzazione potrebbe portare.
Queste scelte non erano che l’ultima fase di opzioni strategiche di lungo periodo - via via rettificate nel corso del tempo anche a causa dei conflitti sociali emersi e delle lotte di potere intestine - che hanno comunque permesso alla Cina - grazie al travaso delle capacità tecnologiche e allo sfruttamento intensivo della propria mano d’opera - di sviluppare un sistema industriale moderno ed integrato. La Cina è passata da essere un paese della “periferia integrata” in un ruolo subordinato ad uno dei maggiori attori mondiali, cosa che la porta oggi oggettivamente in contrasto – volente o nolente – con i due maggiori poli imperialisti, quello statunitense e quello dell’Unione Europea. Le contraddizioni prodotte da questa “svolta” hanno prodotto in tempi diversi e su campi differenti reazioni efficaci da parte del corpo sociale – si pensi alle lotte contro la privatizzazione dei terreni agricoli e a quelle degli operai delle fabbriche che lavoravano per le multinazionali occidentali – e sviluppato alcune storture significative coeve: la polarizzazione sociale, la corruzione all’interno del Partito e dell'Esercito, la crisi ecologica e non da ultimo una certa “depoliticizzazione” delle classi subalterne a causa della permeabilità ai valori individualistici e consumistici.
Per quanto riguarda la risposta della Repubblica Popolare, quello che sembra affermarsi oggi è la tutela della propria sovranità come un principio ispiratore che guida una diplomazia assertiva ed intransigente nei confronti delle ingerenze straniere su questioni che il paese considera vitali e che non fa sconti a nessuno. Sono lontani i tempi del bombardamento “senza risposta” dell’ambasciata cinese in Serbia durante la guerra di aggressione della NATO a fine anni Novanta! Questo atteggiamento più “duro” trova un consenso di massa ed insieme all’efficacia nel contrasto del virus e delle sue conseguenze sociali è una notevole fonte di legittimazione dell’attuale leadership, checché ne dicano gli “opinionisti” occidentali.
Questo scontro con l’Occidente, a prescindere dalle volontà soggettive degli attori coinvolti, è una necessaria conseguenza delle contraddizioni generate dall’adozione del modo di produzione capitalista da parte della Cina, che ora si trova profondamente integrata all’interno di un sistema da anni in una crisi sistemica, che si manifesta ciclicamente in forme differenti, ma a cui sottostà una tragica incapacità di valorizzare adeguatamente il capitale. Contraddizioni che non permettono scappatoie e che non possono essere risolte con rettifiche solamente parziali rispetto al percorso intrapreso dopo la morte di Mao.
Si è creato cosi un bivio di fronte al quale il PCC deve scegliere se la prospettiva sia quella di una politica di potenza tout court, cronicizzando le storture più evidenti prodotte al proprio interno e assumendosi il ruolo di uno dei poli della competizione inter-imperialistica, o quella di procedere – o meglio riprendere ad un livello più avanzato visto l’attuale sviluppo delle forze produttive in Cina - su una via socialista che cerchi di risolvere in positivo le contraddizioni fin qui prodotte, allontanandosi da un modello sociale irrimediabilmente in crisi. Se così fosse, diventerebbe un punto di riferimento imprescindibile per il resto del mondo, comprese le classi subalterne occidentali per ora orfane di una credibile alternativa di sistema in grado di combattere ad armi pari contro l’imperialismo statunitense ed europeo.
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