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l'intervista di Radio Quarantena a Alessandra Algostino: https://www.spreaker.com/user/11689128/210123-audio-algostino
Un ardito parallelo: Mario Draghi assomiglia a Gobseck, lo straordinario personaggio di Balzac?
La figura di Mario Draghi, la sua santificazione, la sua celebrazione spropositata (ormai tutti i protagonisti dei mass media sono dei geni) sembrano aver acceso una scintilla in quel che resta dei gruppi di opposizione classista, che sono insorti con un no chiaro al governo delle banche e del potere finanziario. E ciò, perché sulla base di precise e documentate analisi economiche (l’Europa non ci regalerà fantastiliardi) [2] sanno perfettamente che un governo del genere prefigura l’aumento del tasso di sfruttamento, l’impoverimento dei salariati, l’ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, una forma di dittatura dell’Unione europea, dominata da Germania e Francia [3], che detteranno nel dettaglio la politica italiana.
Persino un moderato come Nicola Fratoianni, portavoce di Sinistra Italiana, facente parte insieme a Liberi e Uguali della Sinistra che dovrebbe rimettere insieme i cocci di alcuni gruppuscoli tra loro conflittuali, scrive: “Non è il governo dei migliori. È il governo della parte più ricca e potente del paese. È il governo che riporta nei ministeri anche i campioni della disuguaglianza e della discriminazione. Per questo non possiamo dargli la nostra fiducia”. Immediatamente due parlamentari del gruppo (De Petris e Palazzotto) hanno dissentito e assicurato il loro voto al nuovo governo a prova della vacuità politica, dell’assenza di principi che segnano la vita parlamentare italiana ormai in uno stato di profonda degenerazione alimentata anche dall’incalzante rafforzamento dell’esecutivo (per es. i famosi Dpcm di Conte). Dunque, Fratoianni è l’unico del suo gruppo di tre sparuti parlamentari che si è trovato a votare contro il governo Draghi, il quale dovrebbe salvare il paese, trovando risposte efficaci a una crisi dalle molte sfaccettature che ormai appare senza fine.
Anche se il governo Conte non ci è sembrato essere – come sostiene Fratoianni – “un percorso di sperimentazione politica… un confronto non facile tra forze produttive e mondo del lavoro”, condividiamo l’opinione che il passaggio al governo “tecnico-politico” diretto da Draghi costituisca un salto di qualità, ossia nelle nostre parole un ulteriore avanzamento verso una catastrofe abissale per le classi popolari.
Vediamo di analizzare alcuni aspetti ideologici dell’operazione, lasciando agli economisti la valutazione di cosa comporteranno le possibili scelte di questo nuovo governo di fede europeista e atlantica (è sempre opportuno ripeterlo!) per le condizioni di vita e di lavoro di tutti noi, in particolare di quelli che già si trovano nelle fasce più povere della popolazione.
In primis, esaminiamo la definizione di “governo tecnico-politico” che costituisce solo uno straccio dietro cui occultare la desolante verità, tentando di nobilitare quell’insieme di tecnici “competenti” (certo) per quello che si preparano a fare e di “politici” abituati alla mediazione e al patteggiamento, anche nei retroscena e negli oscuri retrobottega della politica, pur di restare a galla. Questi ultimi non possono nemmeno essere più definiti trasformisti e opportunisti, perché ciò significherebbe che, prima della metamorfosi, fossero dotati di una consistenza ideologica, di una solidità morale per non dire di una statura etica. Invece, sono strutturalmente individui inconsistenti, fluidi, arrampicatori di specchi, privi di qualsiasi visione seriamente politica, oltre a manifestare in molte occasioni la loro volgare ignoranza del tutto in linea con la trivialità della cosiddetta cultura di massa somministrata quotidianamente dai mass media alle classi popolari. In questo ambito sarebbe difficile stabilire un primato, ma lasciando da parte gli impresentabili Fratelli d’Italia, Forza Italia e la Lega, certo i 5 Stelle e il Pd, con la sua vergognosa appendice renziana, brillano per quello che si chiamava una volta “cretinismo parlamentare”; quest’ultimo – nelle parole di Antonio Gramsci – costituisce quell’atteggiamento che ha trasformato il Parlamento in una “bottega di chiacchiere e di scandali”, dietro cui stanno quelli che contano veramente e che impongono il da farsi.
Come è stato giustamente notato, “l’espressione «governo tecnico» si contrappone a quella di «governo politico», solo nel caso in cui si identifica la politica con quegli opportunisti e cangianti raggruppamenti clientelari presenti oggi in Parlamento. Tuttavia, se si attribuisce alla politica il suo significato originario, un governo tecnico non è mai «apolitico». Spesso rappresenta l’espressione più bassa della classe dominante”. In effetti, l’obiettivo dei cosiddetti governi tecnici è squisitamente politico e antipopolare e può essere così riassunto: “ridurre sempre di più il ruolo dello Stato nell’economia, praticando l’austerità e portando avanti le riforme del mercato del lavoro”. Esattamente quello che è avvenuto in Italia negli ultimi decenni.
Possiamo considerare un governo tecnico, l’ultimo della cosiddetta Prima repubblica, quello capeggiato dall’ex governatore della Banca d’Italia e operante in varie istituzioni finanziarie internazionali, Carlo Azeglio Ciampi, primo non parlamentare eletto divenuto presidente del Consiglio dal 1993 al 1994, il quale iniziò la politica delle dismissioni di attività bancarie e industriali per poi diventare addirittura presidente della Repubblica. Ormai trasfigurato come padre della patria.
Successivamente furono costituiti “due governi «tecnici» a tutti gli effetti: il governo Dini (17 gennaio 1995 – 18 maggio 1996) e il governo Monti (16 novembre 2011 – 28 aprile 2013). Entrambi… portatori di una ben precisa identità politica, quella che si riconosce nelle ragioni dell’austerità, della riduzione della spesa pubblica, dell’affievolimento dei diritti dei lavoratori e dei pensionati”. Infatti, dobbiamo a Dini la riforma che ridusse le pensioni già magre dei lavoratori italiani. Ovviamente tale scelta politica non fu casuale, in quanto imposta dall’adeguamento ai rigorosi vincoli stabiliti da noto trattato di Maastricht del 1992.
Tra Dini e Monti vi fu tra l’altro il governo Prodi I, che con l’appoggio non compatto di Rifondazione comunista (non facciamo sconti a nessuno), votò il cosiddetto pacchetto Treu, che conteneva norme di riforma del mercato del lavoro come il lavoro in affitto e l’estensione dell’apprendistato, l’introduzione di contratti atipici, da cui è scaturita a valanga ogni forma di precarizzazione e lo sbriciolamento del diritto a un lavoro degno.
Quanto a Mario Monti, altro elogiato salvatore della patria e nominato da Giorgio Napolitano senatore a vita, questi ha generato un governo che ha smantellato pezzo per pezzo lo Stato sociale, in particolare ha varato la vituperata riforma Fornero basata sull’aumento dell’età pensionabile, sull’estensione di quest’ultima in base alla dilatazione dell’aspettativa di vita (che di fatto ha riguardato solo alcuni settori privilegiati), l’applicazione generalizzata del sistema di calcolo contributivo penalizzante rispetto a quello retributivo prima in vigore, già introdotta da Dini per alcune fasce di lavoratori.
Certamente quando Silvio Berlusconi ha invocato la costituzione di un governo dei migliori – tra i quali forse si autoincludeva – non immaginava di riproporre un tema addirittura classico, secondo il quale l’oligarchia, in quanto governo di pochi che mirano unicamente alla salvaguardia di interessi particolari, è contrapposto all’eccelsa aristocrazia. Quest’ultima, conformata da uomini “nobili e saggi” che per status si elevano al di sopra della gente comune, governa in maniera disinteressata e si pone il problema della realizzazione del bene comune, che è poi sempre di difficile individuazione.
Mi pare che una buona definizione del “governo dei migliori” sia quella proposta da David Broder, secondo la quale esso sarebbe il primo governo “compiutamente post-democratico” occidentale, che per sua natura dà la priorità alle “decisioni economiche tecnocratiche”, del tutto sciolte da qualsiasi vincolo con le scelte democratiche del cosiddetto popolo sovrano. Ovviamente ammesso e non concesso che il Parlamento italiano sia il risultato di tali scelte dopo i vari rimaneggiamenti delle leggi elettorali, i finanziamenti alle campagne elettorali da chi avrebbe ricavato vantaggi dalla vittoria di un certo candidato, il disinvolto uso delle procedure e dei regolamenti che dovrebbero scandire la vita politica della Repubblica.
Questo giudizio è ribadito del resto da Alessandra Algostino, per la quale uno dei principi su cui si fonda il discorso programmatico tenuto da Draghi lo scorso 17 febbraio al Senato è così condensabile: economy first. Ma di quale economia si tratta? Quella tesa all’impiego del Recovery Fund a vantaggio della finanza globale, dei colossi del Big Tech, ma anche dell’italianissima Confindustria, per la quale – ricordiamocelo –, se la riapertura delle attività produttive avesse incrementato le vittime della la pandemia, pazienza!
Sempre per la Algostino, queste complesse operazioni e trattative certamente occultate nei meandri dei vari potentati economici necessitano di “maggior ortodossia e professionalità: in gioco ci sono occasioni di profitto, le scelte dei settori sui quali puntare (evitando le ormai famose imprese zombi), il rispetto delle condizionalità Ue, la stabilità complessiva del mercato”. Insomma, si tratta del finanzcapitalismo, con “la sua rete di «nuovi sovrani», impersonificati nelle imprese, quelle competitive, e negli impalpabili, ma tirannici, investimenti, l’oggetto – e il soggetto – del programma, con buona pace della centralità della persona” prevista dalla nostra Costituzione.
Naturalmente un programma del genere per essere portato a termine con successo ha bisogno di due fattori: in primis l’unità nazionale che “è un dovere”, in subordine l’occultamento delle sue vere finalità sotterrate dai demagogici richiami alla salvezza nazionale, alla guerra che tutti insieme stiamo combattendo contro il fatidico virus e le sue imprevedibili mutazioni. Sembrerebbe che i due obiettivi finora siano stati raggiunti: la grande maggioranza delle forze politiche, con l’esclusione di Fratelli d’Italia che ha rivendicato il suo patriottismo, del solitario Fratoianni e degli ondivaghi ex 5 Stelle alla ricerca di qualche altra cosa cui appigliarsi, hanno votato la fiducia al nuovo governo diretto dalla competenza finanziaria fatta persona. Inoltre, la maggioranza degli italiani, compresi dunque i lavoratori, ha accolto con speranza chi ha promesso che ci tirerà fuori dalla gravissima crisi.
Questo governo, definito a trazione tedesca, comprende più settentrionali che meridionali, essendo l’Italia del nord più strettamente legata alla Germania, annovera geni quali il "gigante" della politica Renato Brunetta, il superesperto Vittorio Colao, ministro della Innovazione tecnologica e transizione digitale, il quale troverà certamente nuovi settori dove far fruttare i capitali senza preoccuparsi del fatto che tali cambiamenti per essere efficaci dovrebbero essere innestati in un’autentica trasformazione del modello produttivo e sociale. Ad essi aggiungiamo il titubante ministro della salute, Roberto Speranza dell’insignificante e demagogico gruppuscolo Articolo 1, tra i cui fondatori c’è il cinico guerrafondaio Massimo D’Alema, Giancarlo Giorgetti allo Sviluppo economico, vice di Matteo Salvini, atlantista e fedele amico della Germania. Che dire poi dell’“esile” in tutti i sensi Maria Stella Gelmini che a suo tempo ha drammaticamente accentuato la crisi dell’università italiana, una delle istituzioni centrali della nostra ex democrazia?
A mo’ di conclusione una breve analisi psico-sociologica del supereroe Draghi, ispirata a uno dei personaggi centrali della straordinaria Commedia umana di Honoré de Balzac, il banchiere-usuraio Gobseck. Questi è descritto come un conoscitore insieme ai suoi soci (si pensi al G30 per esempio o ad altre simili organizzazioni) di tutti i segreti di Parigi, della consistenza finanziaria dei suoi cittadini, delle future operazioni di investimento da cui trarre straordinari profitti. Gobseck, il cui nome deriva da gober = “divorare” e seck = “secco, asciutto” [4), ha tratti che richiamano metaforicamente il nuovo Presidente del Consiglio e la funzione che svolgerà: un volto impassibile, le labbra sottili, un uomo meccanico, le cui azioni sobrie e misurate sono soggette al ritmo regolare di un orologio, il volto scavato da chissà quali pensieri, i tratti privi di morbidezza propri di un’arcaica scultura lignea, un personaggio consapevole che è il denaro che imprime ogni movimento alla vita, sazio di tutto perché tutto conosce e tutto ha sperimentato. E infine, come ricorda la sua eloquente biografia, con la sua maschera immobile e ineccepibile sembra essere giunto “a non amare altro che il potere e il denaro in se stessi” (Balzac, Gobseck, 1842). Ci ingoierà davvero tutti in un battibaleno?
Note:
[1] Personaggio avventuroso della Commedia umana di Honoré di Balzac, che svolge il ruolo dello spietato usuraio-banchiere e che è protagonista di tenebrosi affari. Qualcosa di simile alla svendita del patrimonio pubblico italiano avvenuto nel giugno del 1992 sul panfilo Britannia, di cui solo successivamente siamo stati informati e certo non dai suoi protagonisti, tra i quali l’eminente prof. Draghi.
[2] Si vedano i conti fatti da Emiliano Brancaccio e da Riccardo Realfonso pubblicati recentemente sul “Financial Times”, dai quali risulta che di fronte a circa 160 miliardi ingoiati finora dalla crisi riceveremo circa 10 miliardi per 6 anni.
[3] Del resto, nella nostra tradizione culturale la vera Europa è stata sempre quella fondata dai Franchi popolo germanico che si stanziò in Gallia continuando a tenere sotto controllo parte della Germania.
[4] Nel senso che il nostro ingoia facilmente senza nemmeno mandare giù un sorso d’acqua.
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