Il popolo cubano oggi è preso in un movimento a tenaglia. Da un lato, c’è un indurimento della politica imperialista statunitense sotto l’amministrazione Donald Trump, che Biden sembra voler invertire solo assai parzialmente. Dall’altra parte, il governo ha avviato un processo di liberalizzazione di molte attività produttive, in corso dagli anni ’90, che ha appena ricevuto un nuovo impulso dal varo di nuove riforme e dall’unificazione monetaria.
Tutto questo avviene sullo sfondo di una pandemia, le cui conseguenze sanitarie sono molto più controllate (anche grazie ai vaccini autoctoni) che in altri paesi della regione, compresi gli Stati Uniti, ma il cui impatto economico, soprattutto nel settore del turismo, si sta rivelando devastante.
Facendo reintegrare l’isola, poco prima di lasciare la Casa Bianca, nella lista dei paesi che sostengono il terrorismo, Trump ha voluto spingere fino alla fine l’aggressività che ha caratterizzato la politica americana verso il regime cubano per più di mezzo secolo. Alla fine del suo secondo mandato, Barack Obama aveva allentato il cappio normalizzando le relazioni diplomatiche tra i due paesi, eliminando alcune sanzioni senza rimettere in discussione l’embargo in vigore dal 1962.
La decisione di Obama nasceva dalla constatazione che fino a quel momento la politica del blocco commerciale ed economico non era riuscita a costringere il sistema uscito dalla Rivoluzione del 1959 a piegarsi, nello stesso tempo essa continuava (e oggi continua) a escludere le imprese statunitensi da possibili mercati profittevoli, come il turismo, a vantaggio di alcuni dei loro concorrenti. Inoltre, il ristabilimento dei voli commerciali e l’eliminazione delle restrizioni delle rimesse degli emigrati tra gli Stati Uniti e Cuba, sotto Obama, erano stati un messaggio rivolto all’elettorato latinoamericano e alla comunità cubano-americana, il cui profilo è cambiato negli ultimi decenni, a scapito dei settori più tradizionali dell’anticastrismo.
Trump ha fatto una scelta economica e politica diametralmente opposta, tornando indietro su tutte le misure di apertura messe in atto tra il 2015 e il 2016. Si trattava di mettere in scena a buon mercato una linea dura nei confronti dell’America Latina, che gli Stati Uniti considerano il proprio tradizionale “cortile di casa”, quanto di lusingare i settori più conservatori dell’elettorato in Florida, lo stato decisivo per le elezioni del 2020. La scommessa di Trump ha avuto parzialmente successo. È stato in grado di arginare la marea dello scontento dei potenziali investitori americani. Ha approfittato dell’occasione per inviare forti segnali ai suoi concorrenti capitalisti, europei e cinesi, in particolare attraverso il ripristino degli aspetti extraterritoriali delle leggi sugli investimenti di Cuba, che minacciano pesanti sanzioni contro le imprese straniere, soprattutto europee, che operano sull’isola. A livello elettorale, ha avuto un grande successo in Florida tra gli elettori della comunità cubano-americana, con il 56% dei voti contro il 41% di Biden, che gli ha permesso di vincere i 29 elettori di quello Stato.
È probabile che la presidenza di Biden cerchi di riprendere la politica di normalizzazione graduale iniziata sotto Obama. L’attuale vicepresidente Kamala Harris, un’“immigrata” privilegiata, ha detto a novembre che “i democratici sarebbero tornati indietro sulle politiche fallimentari di Trump” verso l’isola. D’altra parte, la nomina di Tony Blinken a capo degli affari esteri non è di buon auspicio, in quanto il nuovo segretario di Stato è un forte sostenitore della linea dura in politica estera. Per quanto riguarda l’embargo criminale, che è stato condannato ogni anno per 28 anni dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la nuova amministrazione statunitense ha escluso di revocarlo.
Persino, l’ambasciatore dell’Unione Europea all’Avana, Alberto Navarro, ha mandato una lettera a Biden, chiedendogli la rimozione dell’embargo, evento che ha suscitato reazioni negative da parte di alcuni eurodeputati, che hanno chiesto la sua destituzione. Joseph Borrell, capo della diplomazia europea, lo ha convocato per interrogarlo sulle motivazioni del suo comportamento.
È in questo quadro assai delicato che è appena entrato in vigore il più volte annunciato e sistematicamente rimandato decreto di unificazione monetaria che comporta la scomparsa del peso convertibile (Cuc), esistente dal 1994 e ufficialmente ancorato al dollaro, accompagnato da tutta una serie di nuove riforme a livello economico. La nuova Costituzione cubana, ratificata nel 2019, ha voluto scolpire sul marmo il carattere “irrevocabile” del socialismo come sistema sociale a Cuba, e l’impatto dei cambiamenti economici è molto forte, anche se il presidente Miguel Díaz Canel ha specificato, quando ha annunciato l’attuazione del processo di “nuovo ordine monetario” lo scorso dicembre, che l’isola non avrebbe subito una “terapia d’urto”.
Questo è tanto più vero in quanto arrivano in un momento in cui una delle forze trainanti dell’economia cubana, il turismo, si è fermata; l’isola non può più contare sulle forniture di petrolio e gas dal Venezuela, che ora è in uno stato di collasso, e le misure di ritorsione e di embargo degli Stati Uniti sono aumentate negli ultimi anni, indebolendo notevolmente l’economia. Il rischio di inflazione, generato dal processo di unificazione monetaria, dovrebbe essere frenato da un aumento delle pensioni e dei salari nel settore pubblico, nonché del blocco dei prezzi di alcuni servizi e prodotti essenziali forniti dalla “libreta”, il libro delle razioni. Tuttavia, diversi analisti vicini al governo hanno messo in guardia sulle conseguenze sociali, in termini di condizioni di vita e di lavoro, che potrebbero avere, in un momento in cui i prezzi dei servizi e dei beni di consumo sono esplosi.
L’unificazione monetaria, che dovrebbe rassicurare i potenziali investitori stranieri e revisionare il sistema di supervisione dell’economia nel settore statale, è accompagnata da nuove “aperture” a livello economico, come mai prima dal 2011, quando il VI Congresso del Partito Comunista Cubano, sotto la guida di Raúl Castro, ha adottato un orientamento fondato sulla coniugazione tra socialismo e mercato che successivamente è stato difficile imporre. Le misure attuali fanno parte di una trasformazione più profonda di ciò che resta di un’economia pianificata e nazionalizzata a favore dell’investimento privato cubano, che oggi fatica ad andare oltre la semplice impresa individuale o piccola impresa, lasciando così un ampio margine di intervento del capitale straniero, che è chiamato dal governo a investire. La grande novità in questo settore è stato l’annuncio della fine dell’obbligo di compartecipazione maggioritaria dello Stato cubano nelle imprese del commercio all’ingrosso (supermercati ecc.), del turismo e della biotecnologia, anche se la leadership delle Far, l’esercito cubano, intrinsecamente legata al partito Pcc, continua a mantenere il controllo su alcune leve considerate strategiche.
In certi settori del popolo lavoratore, specialmente quelli urbani, queste misure possono generare un accesso più diretto ai beni di consumo e ai prodotti, così come alla manna del turismo, quando esso riprenderà. Per la maggioranza dei cubani, tuttavia, è vero il contrario. Il governo ne è ben consapevole e sta cercando di rispondere, a monte, al rischio di inflazione incontrollata. Ma questa non è l’unica contraddizione che affronta nel contesto dell’approfondimento delle riforme “alla cinese”. Prendendo il processo di apertura al mercato avvenuto in Cina come punto di paragone, la burocrazia al potere all’Avana è molto più fragile di fronte all’opposizione apertamente filocapitalista e filo-statunitense che continua ad esistere in Florida di quanto lo fosse la burocrazia cinese a Pechino di fronte alle pressioni imperialistiche, quando decise di iniziare il processo di riforme di mercato. Mentre la burocrazia, con un blocco di partiti democratici, che governa la Repubblica Popolare Cinese è riuscita a guidare il processo di “modernizzazione” non senza difficoltà, la burocrazia al potere all’Avana è ben consapevole che un processo di apertura troppo affrettato potrebbe indebolirla considerevolmente e potenzialmente condurla al suo rovesciamento di fronte alla determinazione ancora intatta degli anticastristi della Florida e dei loro alleati al potere in “Gringolandia”. Questi ultimi si precipiterebbero senza indecisioni nella breccia, spazzando via non solo lo Stato socialista riformato a Cuba, ma anche la burocrazia che controlla l’apparato amministrativo, politico e militare. Sono tutti questi elementi che spiegano la tardiva e ancora esitante attuazione di questo nuovo pacchetto di riforme sull’isola.
Consapevoli di tutte queste difficoltà, rinnoviamo la nostra solidarietà alle masse popolari cubane, convinti che le pressioni imperialistiche ostacolino l’autonoma evoluzione politica e sociale dell’isola caraibica.
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