Con la vita urbana, l’aumento di densità abitativa fu dalle dieci alle venti volte superiore a quanto mai fosse stato sperimentato dall’homo sapiens. Le malattie storicamente nuove, conseguenza della nuova pratica sociale, furono: colera, vaiolo, orecchioni, morbillo, influenza, varicella e, forse, malaria. Sono tutte collegate all’urbanizzazione e all’agricoltura. Dei millequattrocento agenti patogeni umani conosciuti, ottocento-novecento circa hanno avuto origine in organismi non umani ed hanno visto nell’essere umano l’ospite finale. La lista di malattie che condividiamo con vari animali, da polli a maiali, da cani a pecore è impressionante. Alcune delle trasformazioni biologiche furono conseguenza di trasformazioni intenzionali, come la coltivazione, ma altre semplicemente frutto dell’istituzione della domus e della vita associata1.
Le descrizioni di grandi pestilenze storiche a noi pervenute lasciano poco spazio all’immaginazione nel valutare il loro impatto devastante. Le atrocità, le sofferenze, la diffusività e gli effetti danno talvolta addirittura la sensazione di un cambiamento epocale a causa sia delle conseguenze sanitarie che di quelle socio-politiche. L’antichità ci ha tramandato attraverso Tucidide, ripreso da Lucrezio, la cruda descrizione della peste di Atene del 430 a.C. L’epidemia è rappresentata come una calamità, un accadimento incontrollabile che, con la sua potenza soverchiante, si colloca al di là dell’umano che può solo subirla senza alcuna forma di contrasto: medici disarmati, nessun farmaco2. I suoi effetti sociali sono altrettanto devastanti, con la popolazione che regredisce a uno stato animalesco, perde il decoro, sprofonda nella bestialità, perde la prospettiva del futuro e schiaccia il senso dell’esistenza su di un adesso che va dissolvendosi3. Lucrezio ce ne dà un resoconto in versi nel De rerum natura4; di grande interesse sono le parti che precedono la descrizione: qui il filosofo chiarisce origine e causa di malattie ed epidemie5; è una spiegazione che segue quella relativa al funzionamento della calamita6, alla temperatura dell’acqua dei pozzi7, alle piene del Nilo8, ecc., vale a dire fenomeni che, come la peste, rientrano nella natura delle cose, che si può comprendere, ma non modificare. Dal punto di vista epocale, la peste di Atene è un momento materialmente e simbolicamente decisivo nel declino della potenza attica; alla fine delle Guerre del Peloponneso l’egemonia economica e politica della città sarà segnata per sempre.
Con minori conseguenze politiche, ma altrettanto mortifera fu la cosiddetta “peste antonina”. Secondo lo storico romano Cassio Dione9provocò circa 2.000 morti al giorno a Roma, uccidendo secondo le stime tra i 5 e i 30 milioni di persone nell’arco di trent’anni (circa un terzo della popolazione in alcune zone).
La fine del mondo antico, più che dalla deposizione di Romolo Augustolo nel 476 da parte di Odoacre, fu segnata dalla sanguinosa guerra greco-gotica che imperversò nella penisola italiana tra il 535 ed il 553. Essa, oltre alle feroci devastazioni belliche, vide l’esplosione della cosiddetta “peste di Giustiniano”, così detta in quanto l’epidemia originò a Costantinopoli durante il suo regno e si diffuse poi in occidente. Anche in questo caso le testimonianze storiche di Procopio10e Paolo Diacono11ci parlano di “fine del mondo”, con Roma addirittura completamente spopolata. È questo un altro momento in cui l’epidemia va a suggellare la fine di un’epoca storica, un momento di rottura sociopolitica che si rappresenta in una catastrofe che porta non solo al tracollo delle forme istituzionali, ma allo sterminio di una stessa popolazione. Procopio afferma che a causa della pestilenza la razza umana fu prossima alla scomparsa. Seguendo Ippocrate, i medici bizantini cercarono di capirci qualcosa, ma alla fine, non riuscendo nemmeno ad individuare regolarità, la spiegazione preminente divenne la più classica punizione divina12.
Si consideri dunque la celebre epidemia che, intorno al 1348, afflisse l’Italia e buona parte del mondo allora conosciuto. Anche in questo caso la mortalità fu altissima e l’ascesa di molte fiorenti città-stato fu frenata drasticamente, in certi casi irrimediabilmente. Solo a titolo di esempio, Siena ha raggiunto nuovamente la stessa popolazione che aveva in quel periodo solo nel primo decennio del 1900. In questo caso, valga per tutte la celebre descrizione di Boccaccio all’inizio del Decamerone13, in cui, di nuovo, si ha la percezione non solo della crisi sanitaria, ma della crisi di civiltà, del decadere non solo dei costumi ma delle regole della urbana convivenza, del regresso allo stato bestiale al quale l’allegra brigata cerca di trovare risposte su di un piano dialogico e multiprospettico.
In conclusione, passiamo ai tempi moderni, in particolare alla descrizione della peste a Milano del 1630. Manzoni ne parla diffusamente, come è noto, sia ne I promessi sposi14che nella Storia della colonna infame15. Molte delle caratteristiche del propagarsi dell’epidemia ed il comportamento della popolazione sono simili a quelli descritti in precedenza; a cambiare decisamente è invece il tono e l’atteggiamento del narratore: non siamo più meramente di fronte a un evento naturale o a una punizione divina, a un meccanismo infernale ed irrimediabile descritto nella sua drammatica crudezza; secondo Manzoni, pur nei limiti dati, si poteva fare qualcosa. Il dito è puntato contro l’amministrazione lenta, volutamente cieca, tardiva, poi inefficiente del ducato che, a causa di una moltitudine di errori, fu concausa del flagello. Qui ci sono due aspetti da considerare: il primo è, di nuovo, il significato storico della crisi generale del modello coloniale spagnolo che produce miseria e corruzione, decadenza ed ignoranza e la peste come sua emblematica conseguenza. Il secondo, e più interessante per noi, è la presa di coscienza da parte dell’illuminato Manzoni che, con un’accorta gestione da parte delle istituzioni, non la malattia di per sé, ma le sue più drammatiche conseguenze avrebbero potuto essere evitate. Qui, evidentemente, il discorso si fa più ampio, in quanto egli non parla solo della Milano del Seicento ma di quella di metà Ottocento e di quella futura: l’amministrazione può gestire processi e, nei limiti del possibile, dirigerli, evitare le conseguenze più drammatiche, orientarli. Manzoni non era certo comunista e non aveva in mente piani quinquennali di sorta, aveva invece una guida spirituale gesuita ed era molto devoto. Era un nobile moderatamente progressista che capiva la differenza tra il possibile e l’utopico e operava per il possibile. Lo spirito illuministico, pur in una versione rivisitata per essere accettabile da nobili moderati e mossi da spirito religioso, è alle spalle di queste considerazioni; la modernità embrionalmente capitalistica ha già cambiato le menti più illuminate: la storia la fanno anche gli esseri umani, basandosi su di un buon senso razionalistico capace di conoscere il mondo; le pandemie sono quindi naturali, ma la natura può essere conosciuta e, adesso, oggetto di una interazione ragionevole, controllata. È un’idea nuova, frutto di tempi nuovi e di nuovi contesti storico-sociali. Spiegare questi processi di conoscenza, di mutamento, di trasformazione del rapporto essere umano/natura – che, a questo punto sarà chiaro, include l’insorgere e la gestione di pandemie – è il tema latente dietro a queste considerazioni ed è arrivato il momento di affrontarlo più direttamente.
2. Che cosa dà ragione del cambiamento di prospettiva, delle nuove “possibilità” che Manzoni vede per quanto concerne un’azione concreta rispetto alla dolorosa e rassegnata passività del passato? L’insorgere di un nuovo mondo, della “modernità”. Questa modernità però rischia di diventare un vuoto ideologema, seguito dall’altro vuoto e pericoloso della post-modernità, se non si riesce a collocare queste categorie in un sistema filosofico di riferimento (non farlo non significa essere liberi dalla metafisica, ma solo accettarne una implicita e non riconosciuta). Nel contesto della teoria marxiana delle formazioni economico-sociali – il materialismo storico per parlare genericamente – questa novità è l’affermarsi progressivo del modo di produzione capitalistico come nuova forma di esistenza del rapporto organico essere umano-natura. Esso, producendo il suo mondo tanto materiale che ideologico in un modo storicamente determinato, instaura una nuova definizione di essere umano, natura, società e, quindi, una nuova gamma di possibilità che prima non esistevano e che divengono adesso reali solo grazie al suo sviluppo: le nuove condizioni materiali, lo sviluppo culturale e scientifico, la presa di coscienza di queste possibilità sono qui realtà in atto; senza tutto ciò, Manzoni non potrebbe pensare quello che scrive e si limiterebbe a fare, di nuovo, la lista dei morti e una descrizione dei disperati e dei loro tormenti.
È l’idea, volenti o nolenti, di “progresso”, inteso come crescente capacità da parte degli esseri umani in qualche forma associati di gestire il processo storico-naturale. Qui progresso si intende appunto come estensione della gamma delle possibilità nella gestione del ricambio organico con la natura; possibile non significa in atto, ma la stessa possibilità è una realtà. La crisi dell’idea di progresso, commenta Gramsci, è più la crisi di coloro che questo progresso avevano promosso. Infatti, i modi di produzione pongono dei vincoli che in certi casi rendono di nuovo impraticabile ciò che è diventato possibile16. La dialettica di possibilità reale, posta dal sistema, e i vincoli posti dallo stesso sistema alla sua attuazione è uno dei nodi, non solo sanitari, ma storicopolitici, da sciogliere. Afferma Gramsci:
«La possibilità non è la realtà, ma è anch’essa una realtà: che l’uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valutare ciò che realmente si fa. Possibilità vuol dire «libertà». La misura delle libertà entra nel concetto d’uomo. Che ci siano le possibilità obbiettive di non morire di fame, e che si muoia di fame ha la sua importanza, a quanto pare»17.
Su questo nodo si tornerà tra breve.
3. Si diceva all’inizio che le crisi pandemiche sono un fenomeno tipico delle società umane e del loro modo di organizzarsi. Questo è un primo punto da acquisire: non sono solo capitalistiche. Si tratta allora di comprendere che la “organizzazione” umana non è sempre la stessa, che si articola in epoche e che queste epoche comportano cambiamenti sostanziali che implicano anche una nuova e costante ridefinizione di umano. Sono premesse molto diverse da quelle implicite in parte del dibattito cui si è assistito sul covid: pur non negando i cambiamenti storici, l’ideologia borghese si basa sul principio che l’essere umano sarebbe sempre lo stesso, un individuo sostanziale i cui tratti antropologici ed identitari sono dati ab origine e che solo diversamente si “vestirebbero” nella sua interazione sociale nel corso della storia. Questo Umano si trova quindi ad essere “alienato” se la situazione storica data non coincide con la sua essenza; la storia e la società non sono quindi un processo di cui esso stesso è momento che si co-definisce sistemicamente. Questa idea dell’umano in generale è, per Marx, il prodotto ideologico più sofisticato dell’ideologia borghese, la controfaccia del feticismo della merce e suo necessario riverbero nel soggetto latore della circolazione di merci, che si presenta come Persona (alcuni dicono addirittura “persona umana”). Se si accetta questa prospettiva, le risoluzioni dello Stato, del “potere”, del capitalismo, della tecnica, ecc., – in quanto sono tutti processi obiettivi rispetto ai quali il singolo preso di per sé ha inevitabilmente poteri decisionali limitati e ai quali finisce per essere in qualche modo subordinato – non possono non essere alienanti, sono sempre altro; e sempre lo saranno, perché i processi obiettivi trascendono l’individuo per definizione e quindi questo individuo oscillerà tra individualismo, anarchismo, esistenzialismo, diritto-umanismo e via dicendo; tutte posizioni per cui si passa da una prospettiva individualistica all’altra, ma senza abbandonare l’idea di fondo che l’individuo è la data sostanza del processo, autosufficiente nella definizione della propria essenza. Non si riesce dunque a pensare l’autodeterminazione e la libertà che per via negativa: spezzare le catene; ma è una cattiva infinità che sempre ha bisogno di un altro da superare e mai riposa. Per fare banali esempi più concreti, qui sta il rifiuto delle mascherine, la teledidattica come costrizione e via dicendo. L’egemonia di queste posizioni ideologiche ha larga presa a sinistra, perché la rivolta contro lo Stato, il capitale, la società nella misura in cui essa è espressione del modo di produzione capitalistico sembra fornire una prospettiva rivoluzionaria. In realtà è un atteggiamento genericamente anti-sistema basato su fondamenti filosofici prodotti dal capitalismo stesso ed è difficile dire che prospettive trasformative possa fornire. Soprattutto si pone in una posizione in cui qualunque dinamica sociale è di fatto potenzialmente alienante.18
4. La crisi pandemica da coronavirus, la relativa necessità di arrestare in parte o addirittura del tutto le attività produttive ha reso nuovamente evidente che non si può smettere di produrre, come diversi fanno notare addirittura menzionando Marx. Le forme in cui gli esseri umani creano i propri mezzi di sostentamento e di produzione sono storicamente determinate, ma il fatto che essi sempre dovranno produrre è la base su cui è costituita la loro esistenza, sia praticamente che teoreticamente19. Nel modo di produzione capitalistico c’è un vincolo sociale speciale a questa condizione materiale, vale a dire che si produce solo ciò che valorizza il capitale. Quindi non basta dire che si deve produrre, bisogna aggiungere che si deve valorizzare il capitale investito. Questo è il nodo storicamente determinato al quale si rischia di restare impiccati in tempi di crisi; in tempi di pandemia ancor di più. Marx teorizza dei processi complessi, la cui base è il processo lavorativo che è, di per sé, già un combinato di essere umano (a sua volta natura) e natura, nella natura; l’identità umana non esiste fuori da questo rapporto. Sarebbe a questo punto facile, ma errato, affermare che l’essere umano, con il suo lavoro, è l’essenza. Infatti, quello lavorativo è un processo di cui l’attività finalizzata a scopo è solo un elemento; questa astratta umanità ed attività non esiste, se non come astrazione da processi reali. Per pensare individui che lavorano, è necessario aggiungere i mezzi di produzione ed articolare ulteriormente forme sociali determinate nelle quali questi elementi si combinano, esistono e si esplicano. Si tratta quindi di comprendere e gestire dei processi in cui i singoli individui si definiscono funzionalmente. La loro definizione funzionale li connota come membri di classe, vale a dire come operatori di una certa funzione nella dinamica della riproduzione sociale complessiva. La crisi pandemica da covid è, dunque, una questione di classe in una fase di sviluppo determinata del modo di produzione capitalistico.
Il capitalismo non è una cosa bella; ciò ricordato, bisogna tuttavia comprendere che è normale, nel senso che non può essere altrimenti, che le dinamiche specifiche di riproduzione del modo di produzione capitalistico inneschino determinati rapporti con la natura per i quali sia più o meno probabile l’insorgere di malattie, virus, ecc. Solo a titolo di esempio, si è già detto che concentrazioni massicce di animali, sfruttamento sfrenato del suolo, modalità di produzione di medicinali concepite nella prospettiva della massimizzazione del profitto non possono che produrre effetti collaterali di rilievo. Come la stessa concentrazione nello stesso luogo di milioni di esseri umani e la capacità che molti di essi hanno di spostarsi in ogni parte del mondo favoriscono la diffusione. Questo è però il modo di produzione capitalistico; esso non pone meramente dei vincoli, ma sviluppa delle specifiche modalità operative della produzione e della vita in genere. La riproduzione capitalistica, dunque, non stravolge la natura e/o la storia, semplicemente le crea co-determinandole, non essendo altro che una forma storica specifica del processo storico-naturale. Ciò include anche la mera sopravvivenza fisica e sanitaria della specie stessa. Che questa gestione possa avere tendenze autodistruttive e portare, nelle ipotesi più catastrofistiche, alla fine della vita sulla terra non significa che esistesse prima un ordo naturae a prescindere dall’azione umana e che si tratterebbe di ristabilirlo per ritrovare l’armonia cosmica. L’uscita non è nel ritorno a qualcosa che non è mai esistito, ma la gestione razionale dei processi, vale a dire il passaggio da una forma sociale contraddittoria a un’altra in cui produzione e riproduzione non siano vincolate alla valorizzazione del capitale, ma poste in base ai bisogni sociali20.
Non c’è quindi un rapporto dell’essere umano – già fatto e costituito – con la natura – anch’essa fatta e costituita. Si dà piuttosto un processo di produzione e trasformazione storico-naturale in cui gli esseri umani in forme associate via via diverse – storicamente determinate – trasformano il mondo, se stessi ed i propri rapporti reciproci definendo via via che cosa significa “essere umano”, “natura”, “società” e qual è la sfera della “azione possibile”. Si è visto come la gestione di pandemie non rientrasse nella sfera del possibile prima dei tempi moderni, o meglio prima delle trasformazioni epocali instauratesi grazie all’avvento e allo sviluppo del modo di produzione capitalistico. Adesso invece vi rientra.
5. Che cosa è entrato nella dimensione del possibile grazie al modo di produzione capitalistico? Non solo cose disastrose. Per esempio, ospedali diffusi, ricchezza sociale sufficiente a pagare medici ed infermieri, a produrre medicine, mascherine, ventilatori, a finanziare università e centri di ricerca che permettano di conoscere scientificamente le leggi della natura sulla cui base, fra le altre cose, curarci, ecc. Questo prima non esisteva. Certo, adesso molti dicono che anche questo è male – crisi del concetto di progresso, si diceva – ma le statistiche ed il dato di fatto che la popolazione mondiale adesso si conta in miliardi di individui sono l’evidenza che, grazie a queste modalità, l’adattamento della specie all’ambiente sta funzionando meglio. Le epidemie, le carestie, la morte infantile, la durata della vita e via dicendo avevano statistiche molto, molto peggiori prima. Ignorare questo significa solo negare l’evidenza. Tutto questo è possibile grazie al modo di produzione capitalistico. Ma c’è di più: la generalizzazione della capacità di controllo, la conoscenza analitica dei processi, le scienze sociali e via dicendo hanno reso reale la possibilità astratta di gestire processi, in una scala impensabile in passato. Anche le vecchie istituzioni sono cambiate, lo Stato da opprimente tassatore e organizzatore di guerre è diventato anche, contraddittoriamente, gestore del benessere sociale, provvedendo a salute, istruzione, pensione, lavoro, redistribuzione del reddito ecc.; coordinatore o addirittura attore della vita economica. La possibilità della gestione dei processi è reale, esiste. L’autogoverno dell’umanità integrata è uno dei temi sul tavolo, prodotto storico del modo di produzione capitalistico e la gestione di pandemie fa parte di questa sfera del possibile; la cronaca lo dimostra: quei paesi che, grazie a un’organizzazione centralizzata e pubblica, sono stati in grado di affrontare l’emergenza hanno avuto una risposta assai migliore di altri che non avevano la possibilità di fare altrettanto. Si veda il caso disperato degli Stati Uniti o del Brasile, dove il fenomeno è andato assolutamente fuori controllo; ma anche in Italia si vedano le regioni che più si sono uniformate al modello di promozione del privato, tragicamente le più colpite.
Non si sta ovviamente sostenendo che il capitalismo sia il paradiso terrestre, infatti la possibilità dell’autogoverno e gli altri progressi indicati sono, contraddittoriamente, solo una parte della storia. Queste possibilità reali, esistenti e già progressive rispetto alla disperata situazione premoderna esistono all’interno del modo di produzione capitalistico con tutte le sue contraddizioni. Si pensi al caso del confinamento (o lockdown per far finta di parlare inglese): data la forma storicamente determinata della valorizzazione, esso è stato necessario per motivi sanitari, ma un suicidio da un punto di vista economico. Interrompere la produzione per far stare giustamente a casa i lavoratori provoca automaticamente una perdita di competitività delle aziende in cui lavorano che, a fronte di decisioni diverse prese in altri paesi, ne determinano grandi difficoltà se non addirittura il fallimento. Significativa è stata la scelta iniziale del governo britannico che ha chiaramente spiegato ai proprio cittadini che sarebbero dovuti morire, affinché non morisse il sistema. Questo è un esempio lampante delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico: da una parte è possibile cercare di curare, dall’altra ciò entra in conflitto con le dinamiche di valorizzazione. La lotta intercapitalistica internazionale vede l’Italia in una morsa fra Unione Europea e concorrenza capitalistica mondiale che, per come è strutturata, di fatto limita fortemente le capacità di gestione. Se dunque le misure sanitarie “imposte” sono solo di buon senso, la questione politica è se esistano le strutture di gestione e le capacità di manovra una volta che si prenda una siffatta decisione che blocca la già difficile valorizzazione del capitale. Si capisce qui quanto si diceva in precedenza affermando che la questione sanitaria è una questione di classe: le esigenze di valorizzazione stanno in conflitto con le esigenze sanitarie; lavoratori contro capitale su scala mondiale. Ciò detto, si ha un quadro, ma non si hanno né soggetti concreti – si hanno le forme, non le figure – né un’analisi più dettagliata del contesto in cui tali figure si possano muovere e progettare plausibili strategie di lungo e medio termine21.
6. Se il modo di produzione capitalistico non è cosa altra rispetto alla vita umana ma una sua modalità storicamente determinata di realizzazione, le forme di moto, di esistenza, sempre si presentano in contenuti determinati le cui possibilità si danno in forma capitalistica. Lo sviluppo dei contenuti è quindi, in certi casi, sia positivo che negativo, nel senso che le istituzioni che prendono determinate decisioni sono le stesse che in certi casi lo fanno in favore di una classe o di altre: le stesse istituzioni, formalisticamente gli stessi processi decisionali, ma diversi i contenuti. Perciò la stessa polizia che reprime le manifestazioni per i diritti dei lavoratori è la stessa istituzione che controlla che sia rispettato il confinamento. L’orizzonte di senso di queste risoluzioni è gestito da apparati ideologici che prendono decisioni in base al livello di egemonia predominante in un momento dato del conflitto di classe. Questo non fa solo riferimento a malvagie decisioni prese coscientemente da alcuni, che pure ci sono, ma al livello di “normalità”, di senso comune che fa sì che certe cose siano accettabili ed altre no. Il livello di normalità consente che sia percepita come prioritaria la salvaguardia della vite umane o delle esigenze imprenditoriali. Certe scelte si possono ovviamente anche imporre, ma il consenso non può mai essere cancellato oltre certi limiti, almeno non per periodi prolungati. Un senso comune che includeva la cittadinanza universale, principio fondamentale della borghesia progressista, è stato il massimo livello di avanzamento ideologico da essa raggiunto, ma adesso, contraddittoriamente, è entrato in conflitto con le nuove esigenze strutturali del capitalismo crepuscolare; la crisi della sua vigenza va insieme a quella del diritto universale alla salute22.
Se il problema storico e politico delle pandemie è dunque adesso affrontabile, esso rientra nel novero del possibile della gestione collettiva. Essa si attua in un sistema che si chiama modo di produzione capitalistico che, da una parte, ha prodotto le capacità materiali ed intellettuali per il governo del processo, dall’altra lo attanaglia in vincoli socio-naturali che rendono quel governo possibile solo entro certi limiti, se non impossibile. Mazzone parlava di questo stato di cose ponendo l’alternativa tra autogoverno e tirannide. Questo l’oggetto del contendere della lotta di classe nella fase avanzata del capitalismo crepuscolare. Secondo Mazzone le forme della tirannide si caratterizzano nel modo seguente:
«Primo. Il bisogno è tendenzialmente superato su scala mondiale, la produzione è sovrabbondante (non, naturalmente, la domanda solvente di merci!). Secondo. La attuale “borghesia transnazionale” non può sensatamente esser anche solo paragonata alle borghesie storiche come enti sociali corposi, forme di vita, espansività sociale, universalizzazione relativa. Essa è dominante, ma non può chiamarsi “dirigente”, secondo questi criteri, che (come Gramsci mostrò) sono appunto criteri storici, non meramente sociologico-politici, cioè criteri di egemonia. Terzo. Il superamento relativo degli Stati nazionali si accompagna a uno smantellamento della citoyenneté, cioè dell’universalità politica in senso proprio (con e senza limiti formali!). Ciò tanto per il lato istituzionale, quanto per quello della coscienza (manipolazione). Quarto. La produzione immediata di uomini (allevamento; acculturamento sia familiare che scolastico diventa (soprattutto nelle metropoli) elemento della valorizzazione del capitale (merci di massa, ma anche “produzione immateriale”). Ma contemporaneamente tendono a diventare “superflue” intere masse di potenze sociali (cultura; lingua nazionale; coscienza civica nelle sue forme storicamente progressive). La valorizzazione richiede “teste d’opera”, non “cittadini medi”. Oltre alla cittadinanza politica, si smantella così quella socioculturale. La “plebe” hegeliana viene riprodotta in massa e secondo finalità precise, in tutto o in parte obiettivamente inerenti a questa figura di riproduzione sociale complessiva. Quinto. La segmentazione della classe operaia non ha luogo soltanto nella dimensione geografica e territoriale, ma anche nelle forme del localismo neocorporativo, con corrispondenti forme di regressione della coscienza (etnicismo, etc.). Sesto. Lo squilibrio tra cittadinanza politica “svuotata” (manipolazione, “dialettica della notizia”; abolizione de facto della trasparenza dei processi, quindi della citoyenneté repubblicana; ossia, “abolizione del popolo”, e invece “gente”, cioè in realtà “neoplebe”) da una parte, e percezione possibile dei fenomeni translocali (e comunque di fenomeni del processo complessivo, e non di frammenti sconnessi ossia parvenza “scandalosa”, “sensazionale”, “emozionante” etc.) – questo squilibrio è sistematicamente promosso e imposto, non solo nella mediatica di servizio, ma nelle istituzioni della società (sindacati, partiti, associazioni), nella cultura (cinema, etc.), nell’insegnamento (riforme funzionali alla “religione del mercato” nella scuola e Università, etc.)»23.
In quanto si è ormai esaurito qualsiasi slancio sociale propulsivo, le figure di potere, che vanno riscostruite a un livello di complessità maggiore rispetto alla contrapposizione base capitalista-lavoratore salariato24, volgono sempre più alla violenza rispetto al consenso (dominio senza direzione) e, vincolate alla valorizzazione, tendono a distruggere le acquisizioni della stessa fase progressiva25. Se la pandemia dovesse devastare il mondo non sarebbe più lecito appellarsi alle inesorabili leggi di natura, immodificabili e trascendenti la gestione, perché un’alternativa è possibile26. Le forme di promozione del cambiamento non sono tuttavia né scontate né automatiche. Come già commentava Gramsci:
«[...] l’esistenza delle condizioni obbiettive, o possibilità o libertà non è ancora sufficiente: occorre «conoscerle» e sapersene servire. Volersene servire. L’uomo, in questo senso, è volontà concreta, cioè applicazione effettuale dell’astratto volere o impulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizzano»27.
La crisi pandemica, fosse essa paragonabile a quelle devastanti menzionate in apertura, non sarebbe la causa naturale della fine di un’epoca. Per noi, che siamo a questo bivio e che pensiamo nella prospettiva del superamento del modo di produzione capitalistico, sembra un compito impellente la necessità di comprendere le tendenze di fondo più articolate del capitalismo/capitalismi28 rispetto al modello ad alto livello di astrazione di Marx, per porre, al di là del necessario ma astratto obiettivo della rivoluzione, forme possibili, praticabili di azione politica.
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