lunedì 24 maggio 2021

Dante nei “Quaderni del carcere”: il canto decimo dell’Inferno di Antonio Gramsci. - Giorgio Gattei

Da: Da: http://www.maggiofilosofico.it - Giorgio Gattei è uno storico del pensiero economico ed economista marxista italiano. Professore di Storia del Pensiero Economico presso la Facoltà di Economia dell'Università di Bologna. 


1. In epoca di celebrazioni dantesche commuove trovare nell’indice del primo Quaderno del carcere dell’8 febbraio1929 che Antonio Gramsci, fra gli argomenti privilegiati da trattare in prigionia per mantenere il cervello in attività, avesse messo al quinto posto «Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella economia [corretto: struttura] e nell’arte della Divina Commedia» (vedine l’immagine sopra riportata). Al tempo degli studi universitari a Torino Gramsci era stato attratto dalle lezioni di Umberto Cosmo, incaricato di Letteratura italiana, con cui aveva instaurato un rapporto di amicizia, e forse per quel tramite gli era nata la passione per lo studio della Divina Commedia e sulla quale, entrando in carcere, riteneva di poter dire qualcosa di nuovo essendo convinto (come aveva scritto in una lettera alla cognata Tatiana il 26 agosto 1929) che sul canto decimo dell’Inferno «ho fatto una piccola scoperta che credo interessante e che verrebbe a correggere in parte una tesi troppo assoluta di Benedetto Croce. Non ti espongo l’argomento perché occuperebbe troppo spazio… ma nel decimo canto tutti sono tutti affascinati dalla figura di Farinata e si fermano solo a esaminare e a sublimare questa… Poi scriverò la mia “nota dantesca” e magari te la invierò in omaggio, scritta in bellissima calligrafia». 

La promessa venne ribadita il 7 settembre 1931 («in una delle prossime lettere ti riassumerò la materia di un saggio sul canto decimo dell’inferno dantesco perché trasmetta il prospetto al prof. Cosmo, il quale come specialista in danteria, mi saprà dire se ho fatto una falsa scoperta o se in realtà meriti la pena di compilare un contributo, una briccica da aggiungere ai milioni e milioni di tali note che sono state già scritte») ed infine verrà adempiuta nella lettera del 20 settembre 1931 (vedi allegato 1) dove veniva riassunto con esattezza l’argomento di quel “saggio dantesco” di Gramsci che i posteri hanno potuto leggere solo dopo la prima pubblicazione dei Quaderni del carcere (vedilo in A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi 1952, che adesso è in rete e da cui l’abbiamo tratto) (vedi allegato 2) e a cui farà seguito il commento autentico gramsciano nella lettera a Tatiana del 21 marzo 1932 (vedi allegato 3).

Ma di che si trattava? In breve, a Gramsci non pareva esatto considerare, come da tradizione interpretativa si faceva, il decimo canto dell’Inferno come il “canto di Farinata degli Uberti”, pur essendo costui certamente il personaggio centrale, perché «io sostengo che nel decimo canto sono rappresentati due drammi, quello di Farinata e quello di Cavalcante e non solo il dramma di Farinata. E’ strano che l’ermeneutica dantesca, pur così minuziosa e bizantina, non abbia mai notato che Cavalcanti è il vero punito tra gli epicurei delle arche infuocate, e dico il punito per punizione immediata e personale», sebbene per l’interposta persona del figlio Guido che Dante aveva considerato nella Vita Nova come il «primo de li miei amici» e a cui aveva dedicato il celeberrimo sonetto «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio…». La differenza tra la reazione di Farinata, peraltro suocero di Guido che gli aveva sposato la figlia, e Cavalcante stava in questo: che «Farinata sentendo parlare fiorentino ridiventa l’uomo di parte, l’eroe ghibellino; Cavalcante invece non pensa che a Guido e al sentir parlare fiorentino si solleva per sapere se Guido è vivo o morto a quel momento».

2. Ma per capire l’intenzione dell’interpretazione gramsciana ci vuole un ripasso della trama del canto decimo dell’Inferno, che è il canto degli “eresiarchi”, ossia di tutti quei seguaci di Epicuro «che l’anima col corpo morta fanno». Essi sono condannati a scontare il loro peccato dentro tombe scoperchiate (che saranno chiuse il giorno del giudizio finale) da cui escono lingue di fuoco e Dante si aggira tra le tombe fiammeggianti dialogando con Virgilio finché, nell’udire la parlata fiorentina, un dannato si leva dalla tomba «dalla cintola in su col petto e con la fronte com’avesse l’inferno in gran dispitto». E’ Farinata degli Uberti, il capo ghibellino vincitore della battaglia di Montaperti del 4 settembre 1260, dopo la quale i guelfi erano stati banditi da Firenze e la città aveva addirittura rischiato di essere rasa al suolo e l’aveva evitato per l’intervento diretto di Farinata (e «fu’ io solo colui che la difesi a viso aperto». Quando però Farinata riconosce Dante come di parte guelfa, gli rinfaccia come i guelfi fossero stati cacciati per ben due volte da Firenze (nel 1248 e nel 1260) e Dante in risposta polemica: sì, ma sempre essi furono capaci di rientrarvi, mentre i ghibellini, quando a loro volta furono espulsi dalla città nel 1266, mai più impararono l’«arte» del ritorno.

Intanto che i due battibeccano, dalla stessa tomba s’alza «un’ombra lunga questa infino al mento, credo che s’era in ginocchie levato». E’ costui Cavalcante Cavalcanti, consuocero di Farinata, che nel vedere Dante arrivare in quel girone, gli chiede perché mai, se egli è giunto fin lì per «altezza d’ingegno» (per colpa eretica forse?), non lo accompagni anche il figliolo di cui era nota lo studio della “filosofia naturale” volta «in cercare se trovar se potesse che Iddio non fosse» (come dirà Boccaccio in una novella del Decamerone). Dante però lo informa ch’egli è giunto laggiù non per volere proprio, bensì per volontà di quel Virgilio, messaggero della Fede ritrovata, «forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» e Cavalcanti, nel sentire l’uso di quel verbo al passato, «di subito drizzato, gridò: “Come dicesti? ‘Elli ebbe’? non viv’elli ancora? non fiere li occhi suoi il dolce lome?». E disperato «supin ricadde e più non parve fora».

3. Alla base dello straziante colloquio di Cavalcanti con Dante c’è un “non detto”. Alle volte la tensione drammatica di un testo si può guadagnare con l’accumulo di particolari espliciti forti (come per il conte Ugolino che, azzannando il capo dell’arcivescovo Ruggieri, «la bocca sollevò dal fiero pasto forbendola a’ capelli», altre volte può essere all’incontrario una poetica dell’“inespresso” che allude lasciando intendere al lettore ciò che lui sa per conoscenza od esperienza personale (come per Francesca da Rimini che, dopo il bacio adulterino, «quel giorno più non vi leggemmo avante»). Anche nel dialogo con Cavalcanti Dante adotta la strategia, sottolineata da Gramsci, di «figurare un dramma conoscendone le circostanze» che in questo caso sono le circostanze della data della morte di Guido (avvenuta il 29 agosto 1300) che scatena la contraddizione tra il Dante-personaggio, che è in viaggio per l’inferno, con il Dante-autore di quella cantica. Dante ha immaginato che il suo viaggio nell’al di là sia avvenuto nel marzo del 1300 e a quella data Guido è ben vivo sicché quel verbo, impiegato al passato, è stato un equivoco, tanto da dover indurre il Dante-personaggio a chiedere a Farinata, prima di lasciarlo, di far sapere «a quel caduto che il suo nato è co’ vivi ancor congiunto» (epperò si meraviglia che Cavalcante non lo sappia e Farinata a spiegargli che ai dannati è concesso di vedere nel futuro lontano, ma sono ciechi sul presente e «s’altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano»).

 Però quando Dante scrive l’Inferno, tra il 1306 e il 1309, egli sa benissimo quanto è accaduto dopo quel marzo 1300, e cioè che il 24 giugno Guido era stato bandito dalla città di Firenze per decisione dei priori del momento, tra cui Dante stesso, nel vano tentativo di far cessare le lotte fratricide tra i guelfi “bianchi” e “neri” (le due famiglie rivali dei Cerchi e dei Donati)  con l’espulsione dalla città dei caporioni di entrambe le fazioni (tra cui Cavalcanti), ma che poi quel bando a Guido era stato revocato per luna febbre malarica contratta in esilio ma che comunque, poco dopo il suo rientro in città, doveva condurlo alla morte il 29 agosto. Ora, pare del tutto evidente che Dante, in questo caso né personaggio né autore bensì individuo concreto, abbia dovuto sentirsi in qualche modo responsabile della fine del suo migliore amico: se non avesse mai firmato quel bando! E al complesso di colpa per quell’“omicidio” il Dante-autore si sarebbe condannato in quello stesso canto decimo per “legge del contrappasso” (pena eguale o contraria al peccato commesso, che nel suo caso sarebbe stata identica: esilio per esilio), facendosi profetizzare da Farinata, che sapeva «le cose che ne son lontane», che non sarebbero passati cinquanta mesi dal loro incontro (e cioè dal giugno 1304) che anche lui avrebbe conosciuto quanto l’esilio «pesa» e fino alla morte a Ravenna il 13 settembre 1321, vendetta postuma di Guido Cavalcanti. 


Allegato 1: dalle Lettere dal carcere (20 settembre 1931)

Carissima Tatiana,

ti scriverò brevemente sulle cose personali, perché oggi voglio cercare di compilare lo schema sul canto X da inviare, per averne dei consigli dal mio vecchio professore d’Università; se non lo faccio oggi non lo farò più… Cercherò di riassumerti adesso il famigerato schema. Cavalcante e Farinata. 

1. Il De Sanctis nel suo Saggio su Farinata nota l’asprezza che caratterizza il decimo canto dell’Inferno dantesco per il fatto che Farinata dopo essere stato rappresentato eroicamente nella prima parte dell’episodio, diventa nell’ultima parte un pedagogo, cioè, per dirla con termini crociani, Farinata da poesia diventa struttura. Il decimo canto tradizionalmente è il canto di Farinata, perciò l’asprezza notata dal De Sanctis è sempre parsa plausibile. Io sostengo che nel decimo canto sono rappresentati due drammi, quello di Farinata e quello di Cavalcante e non il solo dramma di Farinata. – 

2. È strano che l’ermeneutica dantesca, pur così minuziosa e bizantina non abbia mai notato che Cavalcante è il vero punito tra gli epicurei delle arche infuocate, dico il punito con punizione immediata e personale e che a tale punizione Farinata partecipa strettamente, ma anche in questo caso «avendo il cielo in gran dispitto». La legge del contrappasso in Cavalcante e in Farinata è questa: per avere voluto vedere nel futuro essi (teoricamente) sono privati della conoscenza delle cose terrene per un tempo determinato, cioè essi vivono in un cono d’ombra dal centro del quale vedono nel passato oltre un certo limite e vedono nel futuro oltre un altrettanto limite. Quando Dante si avvicina a loro, la posizione di Cavalcante e di Farinata è questa: essi vedono nel passato Guido vivo, ma lo vedono morto nel futuro. Ma nel momento dato Guido è morto o vivo? Si capisce la differenza tra Cavalcante e Farinata. Farinata sentendo parlar fiorentino ridiventa l’uomo di parte, l’eroe ghibellino; Cavalcante invece non pensa che a Guido e al sentir parlare fiorentino si solleva per sapere se Guido è vivo o morto in quel momento (essi possono essere informati dai nuovi giunti). Il dramma diretto di Cavalcante è rapidissimo, ma di una intensità indicibile. Egli subito domanda di Guido e spera che egli sia con Dante, ma quando da parte del poeta, non informato esattamente della pena, sente «ebbe», il verbo al passato, dopo un grido straziante «supin ricadde e più non parve fuora». – 

3. Nella prima parte dell’episodio il «disdegno di Guido» divenne il centro delle ricerche di tutti i fabbricanti di ipotesi e di contributi, così nella seconda parte, la previsione di Farinata sull’esilio di Dante assorbì l’attenzione. A me pare che l’importanza della seconda parte consiste specialmente nel fatto che essa illumina il dramma di Cavalcante, dà tutti gli elementi essenziali perché il lettore lo riviva. Sarebbe perciò una poesia dell’ineffabile, dell’inespresso? Non credo. Dante non rinunzia a rappresentare il dramma direttamente, perché questo è appunto il suo modo di rappresentarlo. Si tratta di un «modo d’espressione» e penso che i «modi d’espressione» possono mutare nel tempo così come muta la lingua propriamente detta. (Solo il Bertoni crede di essere crociano rimettendo fuori la vecchia teoria delle parole belle e delle parole brutte come una novità linguistica dedotta dalla Estetica crociana). Ricordo che nel 1912 seguendo il corso del professor Toesca di Storia dell’Arte conobbi la riproduzione del quadro pompeiano in cui Medea assiste all’uccisione dei figli avuti da Giasone; assiste con gli occhi bendati e mi pare di ricordare che il Toesca dicesse che questo era un modo di esprimersi degli antichi e che il Lessing nel Laocoonte (cito a memoria da quelle lezioni) non riteneva ciò un artifizio da impotenti ma anzi il modo migliore di dare l’impressione dell’infinito dolore di un genitore, che rappresentato materialmente si sarebbe cristallizzato in una smorfia. La stessa espressione di Ugolino: «Poscia più che il dolor poté il digiuno» appartiene a questo linguaggio e il popolo lo ha capito come un velo gettato sul padre che divora il figlio. Niente di comune tra questi modi di espressione di Dante e qualcheduno del Manzoni. Quando Renzo pensa a Lucia dopo aver varcato il confine veneto, il Manzoni scrive: «Non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circostanze: se lo figuri». Ma il Manzoni aveva già dichiarato che per riprodurre la nostra riverita specie, di amore al mondo ce n’era più che a sufficienza perché se ne dovesse parlare anche nei libri. Il Manzoni realmente rinunziava a rappresentare l’amore per motivi pratici e ideologici. Del resto che il trattato di Farinata sia strettamente legato al dramma di Cavalcante lo dice lo stesso Dante quando conclude «Or direte dunque a quel caduto, che il suo nato è coi vivi ancor congiunto» (anche con la figlia di Farinata, che però, tutto preso dalle lotte di parte, non ha dato segno di turbamento per la notizia detratta dall’«ebbe», che Guido era morto; Cavalcante era il più punito e per lui l’«ebbe» significava la fine dell’angoscia del dubbio se Guido in quel momento fosse vivo o morto). – 

4. Mi pare che questa interpretazione leda in modo vitale la tesi del Croce su la poesia e la struttura della Divina Commedia. Senza la struttura non ci sarebbe la poesia e quindi anche la struttura ha un valor di poesia. La quistione è legata a quest’altra: che importanza artistica hanno le didascalie nelle opere per il teatro? Le ultime innovazioni portate all’arte dello spettacolo con processo di dare sempre maggiore importanza al direttore dello spettacolo, pongono la quistione in modo sempre più aspro. L’autore del dramma lotta con gli attori e col direttore dello spettacolo attraverso le didascalie, che gli permettono di caratterizzare meglio i personaggi: l’autore vuole che la sua divisione sia rispettata e che l’interpretazione del dramma da parte degli attori e del direttore (che sono traduttori da un’arte in un’altra e insieme critici) sia aderente alla sua visione. Nel Don Giovanni di G. B. Shaw, l’autore dà in appendice anche un manualetto scritto da John Tanner, il protagonista, per precisare meglio la figura del protagonista e ottenere dall’attore più fedeltà alla sua immagine. Opera di teatro senza didascalie è più lirica che rappresentazione di persone vive in un urto drammatico; la didascalia ha in parte incorporato i vecchi monologhi ecc. Se nel teatro l’opera d’arte risulta dalla collaborazione dello scrittore e degli attori unificati esteticamente dal direttore dello spettacolo, la didascalia ha nel processo creativo un’importanza essenziale, in quanto limita l’arbitrio dell’attore e del direttore. Tutta la struttura della Divina Commedia ha questa altissima funzione e se è giusto per la distinzione, occorre essere molto cauti volta per volta. (Ho scritto di getto, avendo presso di me solo il Dantino hoepliano). Posseggo i saggi del De Sanctis e il Dante del Croce. Ho letto nel «Leonardo» del ’28 una parte dello studio di Luigi Russo pubblicato nella rivista del Barbi e che accenna (nella parte letta) alla tesi di Croce. Possiedo il numero della «Critica» con la risposta del Croce. Ma questo materiale non lo vedo da molto tempo, cioè da prima che concepissi il nucleo principale di questo schema, perché in fondo a una cassa tenuta nel magazzino. Il professor Cosmo potrebbe dirmi se si tratta di una nuova scoperta dell’ombrello, o se nello schema c’è qualche spunto che potrebbe essere svolto in una noticina, per passare il tempo. 


Allegato 2: dai Quaderni del carcere: Il Canto decimo dell’«Inferno» 

Quistione su «struttura e poesia» nella Divina Commedia secondo B. Croce e Luigi Russo. Lettura di Vincenzo Morello come corpus vile. Lettura di Fedele Romani su Farinata. De Sanctis. Quistione della «rappresentazione indiretta» e delle didascalie nel dramma: le «didascalie» hanno un valore artistico? Contribuiscono alla rappresentazione dei caratteri? In quanto limitano l’arbitrio dell’attore e caratterizzano più concretamente il personaggio dato, certamente. Il caso del Don Giovanni di Shaw con l’appendice del manualetto di John Tanner: quest’appendice è una didascalia, da cui un attore intelligente può e deve trarre elementi per la sua interpretazione. La pittura pompeiana di Medea che uccide i figli avuti da Giasone: Medea è rappresentata col viso bendato: il pittore non sa o non vuole rappresentare quel viso. (C’è però il caso di Niobe, ma in opera di scultura: coprire il viso avrebbe significato togliere il contenuto proprio all’opera). Farinata e Cavalcante: il padre e il suocero di Guido. Cavalcante è il punito del girone. Nessuno ha osservato che se non si tien conto del dramma di Cavalcante, in quel girone non si vede in atto il tormento del dannato: la struttura avrebbe dovuto condurre a una valutazione estetica del canto più esatta, poiché ogni punizione è rappresentata in atto. Il De Sanctis notò l’asprezza contenuta nel canto per il fatto che Farinata d’un tratto muta carattere: dopo essere stato poesia diventa struttura, egli spiega, fa da Cicerone a Dante. La rappresentazione poetica di Farinata è stata mirabilmente rivissuta dal Romani: Farinata è una serie di statue. Poi Farinata recita una didascalia. Il libro di Isidoro del Lungo sulla Cronica di Dino Compagni: in esso è stabilita la data della morte di Guido. È strano che gli eruditi non abbiano prima pensato a servirsi del Canto decimo per fissare approssimativamente questa data (qualcuno l’ha fatto?). Ma neanche l’accertamento fatto dal Del Lungo servì a interpretare la figura di Cavalcante e a dare una spiegazione dell’ufficio fatto fare da Dante a Farinata.

Il dramma di Cavalcante. Qual è la posizione di Cavalcante, qual è il suo tormento? Cavalcante vede nel passato e vede nell’avvenire, ma non vede nel presente, in una zona determinata del passato e dell’avvenire in cui è compreso il presente. Nel passato Guido è vivo, nell’avvenire Guido è morto, ma nel presente? È morto o vivo? Questo è il tormento di Cavalcante, il suo assillo, il suo unico pensiero dominante. Quando parla, domanda del figlio; quando sente «ebbe», il verbo al passato, egli insiste e tardando la risposta, egli non dubita più: suo figlio è morto; egli scompare nell’arca infuocata.

Come Dante rappresenta questo dramma? Egli lo suggerisce al lettore, non lo rappresenta; egli dà al lettore gli elementi perché il dramma sia ricostruito e questi elementi sono dati dalla struttura. Tuttavia una parte drammatica c’è e precede la didascalia. Tre battute: Cavalcante appare, non dritto e virile come Farinata, ma umile, abbattuto, forse inginocchiato e domanda dubbiosamente del figlio. Dante risponde, indifferente o quasi e adopera il verbo che si riferisce a Guido al passato. Cavalcante coglie subito questo fatto e urla disperatamente. C’è il dubbio in lui, non la certezza; domanda altre spiegazioni con tre domande in cui c’è una gradazione di stati d’animo. «Come dicesti: egli “ebbe”?» – «Non vive egli ancora?» – «Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?» Nella terza domanda c’è tutta la tenerezza paterna di Cavalcante; la generica «vita» umana è vista in una condizione concreta, nel godimento della luce, che i dannati e i morti hanno perduto. Dante indugia a rispondere e allora il dubbio cessa in Cavalcante. Farinata invece non si scuote. Guido è il marito di sua figlia, ma questo sentimento non ha in lui potere in quel momento. Dante sottolinea questa sua forza d’animo. Cavalcante si affloscia ma Farinata non muta aspetto, nonmuove collo, non piega costa. Cavalcante cade supino,Farinata non ha nessun gesto di abbattimento; Danteanalizza negativamente Farinata per suggerire i (tre)movimenti di Cavalcante, lo stravolgimento del sembiante,la testa che ricade, il dorso che si piega. Tuttaviac’è qualcosa di mutato anche in Farinata. La sua ripresanon è più così altera come la prima sua apparizione.

Dante non interroga Farinata solo per «istruirsi», egli lo interroga perché è rimasto colpito della scomparsa  impedì di rispondere a Cavalcante; egli si sente in colpa dinanzi a Cavalcante. Il brano strutturale non è solo struttura, dunque, è anche poesia, è un elemento necessario del dramma che si è svolto.

Critica dell’«inespresso»? Le osservazioni da me fatte potrebbero dar luogo all’obbiezione: che si tratti di una critica dell’inespresso, di una storia dell’inesistito, di un’astratta ricerca di plausibili intenzioni mai diventate concreta poesia, ma di cui rimangono tracce esteriori nel meccanismo della struttura. Qualcosa come la posizione che spesso assume il Manzoni nei Promessi Sposi, come quando Renzo, dopo aver errato alla ricerca dell’Adda e del confine, pensa alla treccia nera di Lucia: «… e contemplando l’immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circostanze: se lo figuri». Si potrebbe anche qui trattare di cercare di «figurarsi» un dramma, conoscendone le circostanze.

L’obiezione ha una parvenza di verità: se Dante non può immaginarsi, come il Manzoni, ponente dei limiti alla sua espressione per ragioni pratiche (il Manzoni si propose di non parlare dell’amore sessuale e di non rappresentarne le passioni nella loro pienezza, per ragioni di «morale cattolica»), il fatto sarebbe avvenuto per «tradizione di linguaggio poetico», che del resto Dante non avrebbe sempre osservato (Ugolino, Mirra, ecc.), «rincalzato» dai suoi speciali sentimenti per Guido. Ma si può ricostruire e criticare una poesia se non nel mondo  dell’espressione concreta, del linguaggio storicamente realizzato? Non un elemento «volontario» dunque, «di carattere pratico o intellettivo» tarpò le ali a Dante: egli «volò con le ali che aveva» per così dire, e non rinunziò volontariamente a nulla.

Il disdegno di Guido. Nella recensione scritta da G. S. Gargàno (La lingua nei tempi di Dante e l’interpretazione della poesia, «Marzocco», 14 aprile 1929) del libro postumo di Enrico Sicardi, La lingua italiana in Dante (Casa Ed. «Optima», Roma), si riporta l’interpretazione del Sicardi sul «disdegno» di Guido. Così, scrive il Sicardi, dovrebbe interpretarsi il passo: «Io non faccio il viaggio di mia libera scelta; non sono libero di venire o non venire; invece sono qui condotto da colui che m’aspetta lì fermo e col quale il vostro Guido ebbe a disdegno di venire qui, ossia di accompagnarsi qui con lui». L’interpretazione del Sicardi è formale, non sostanziale: egli non si ferma a spiegare in che consista il «disdegno» (o della lingua latina, o dell’imperialismo virgiliano o delle altre spiegazioni date dagli interpreti). Dante ebbe largita la «grazia» dal Cielo: come potevasi

concedere la medesima grazia ad un ateo? (ciò non è esatto: perché la «grazia» per la sua stessa natura, non può essere limitata da nessuna ragione). Per il Sicardi nel verso: «Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» il cui si riferisce certamente a Virgilio, ma non è un complemento oggetto, ma uno dei soliti pronomi a cui manca il segnacaso con. E l’oggetto di ebbe a disdegno? Si ricava dal precedente «da me stesso non vegno» ed è, mettiamo il caso, o il sostantivo venuta o, se si vuole, una proposizione oggettiva: di venire.

Nella sua recensione il Gargàno scrive a un certo punto: «L’amico di Guido dice al povero padre deluso di non veder vivo per l’Inferno anche il suo figliolo ecc.». Deluso? È troppo poco: si tratta di una parola del Gargàno o è ricavata dal Sicardi? Non si pone il problema: ma perché Cavalcante deve proprio aspettarsi che Guido venga con Dante nell’Inferno? «Per l’altezza d’ingegno»? Cavalcante non è mosso dalla «razionalità» ma dalla «passione»: non c’è nessuna ragione perché Guido dovesse accompagnare Dante; c’è solo che Cavalcante vuol sapere se Guido in quel momento è vivo o morto ed uscire così dalla sua pena. La parola più importante del verso: «Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» non è «cui» o «disdegno» ma è solo ebbe. Su «ebbe» cade l’accento «estetico» e «drammatico» del verso ed esso è l’origine del dramma di Cavalcante,interpretato nelle didascalie di Farinata: e c’è la «catarsi»; Dante si corregge, toglie dalla pena Cavalcante, cioè interrompe la sua punizione in atto.

La data della morte di Guido Cavalcanti fu fissata criticamente per la prima volta da Isidoro Del Lungo nella sua opera Dino Compagni e la sua Cronica di cui nel 1887 fu pubblicato il «volume terzo, contenente gli indici storico e filologico a tutta l’opera e il testo della Cronica secondo il codice Laurenziano Ashburnhamiano»; i volumi I e II furono finiti nel 1880 e stampati poco dopo. Bisogna vedere se il Del Lungo, nel fissare la data della morte di Guido, pone in rapporto questa data con il Canto X: mi pare di ricordare di no. Sullo stesso argomento bisognerebbe vedere del Del Lungo: Dante nei tempi di Dante, Bologna 1888; Dal secolo e dal poema di Dante, Bologna 1898, e specialmente Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII. Pagine di storia fiorentina per la vita di Dante, che è una riproduzione, riveduta e corretta, e talvolta accresciuta, di una parte dell’opera su Dino Compagni e la sua Cronica.

Vincenzo Morello. Dante, Farinata, Cavalcante [Mondadori, 1927]. Nella scheda bibliografica dell’editore è detto: «Le interpretazioni del Morello daranno occasione a discussioni fra gli studiosi, perché si distaccano completamente da quelle tradizionali, e vengono a conclusioni diverse e nuove». Ma il Morello aveva una qualsiasi preparazione per questo lavoro e per questa indagine? Egli inizia il primo scritto così: «La critica dell’ultimo trentennio ha così profondamente esplorato le sorgenti (!) dell’opera dantesca, che ormai i sensi più oscuri, i riferimenti più difficili, le allusioni più astruse e perfino i particolari più intimi dei personaggi delle Tre Cantiche, si può dire siano penetrati e chiarificati». Chi si contenta gode! Ed è molto comodo muovere da una simile premessa: esime dal fare un proprio lavoro e molto faticoso di scelta e di approfondimento dei risultati raggiunti dalla critica storica ed estetica. E continua: «Sì che, dopo la debita preparazione, noi possiamo oggi leggere ed intendere la Divina Commedia, senza più smarrirci nei labirinti delle vecchie congetture, che la incompleta informazione storica e la deficiente disciplina intellettuale gareggiavano nel costruire e rendere inestricabili». Il Morello dunque avrebbe fatto la debita preparazione e sarebbe in possesso di una perfetta disciplina intellettuale: non sarà difficile mostrare che egli ha letto superficialmente lo stesso canto decimo e non ne ha compreso la lettera più evidente.

Il canto decimo è, secondo il Morello, «per eccellenza politico» e «la politica, per Dante, è cosa tanto sacra, quanto la religione», quindi occorre una «disciplina più che mai rigida» nella interpretazione del canto decimo per non sostituire le proprie tendenze e le proprie passioni a quelle altrui e per non abbandonarsi alle più strane aberrazioni. Il Morello afferma che il canto decimo è per eccellenza politico, ma non lo dimostra e non lo può dimostrare perché non è vero: il canto decimo è politico come politica è tutta la Divina Commedia, ma non è politico per eccellenza. Ma al Morello questa affermazione fa comodo per non affaticare le sue meningi; poiché egli si reputa grande uomo politico e grande teorico e della politica, gli sarà facile dare una interpretazione politica del canto decimo dopo aver leggiucchiato il canto nella prima edizione venuta alla mano, servendosi delle idee generali che circolano sulla politica di Dante e di cui ogni buon giornalista di cartello, come il Morello, deve avere una qualche infarinatura nonché un certo numero di schede d’erudizione.

Che il Morello non abbia letto che superficialmente il canto decimo si vede dalle pagine in cui tratta dei rapporti tra Farinata e Guido Cavalcanti (p. 35). Il Morello vuol spiegare l’impassibilità di Farinata durante lo svolgimento dell’episodio di Cavalcante. Ricorda l’opinione del Foscolo, per il quale questa indifferenza dimostra la forte tempra dell’uomo, che «non permette agli affetti domestici di distoglierlo dal pensare alle nuove calamità della patria» e del De Sanctis, per il quale Farinata rimane indifferente, perché «le parole di Cavalcante giungono al suo orecchio, non all’anima che è tutta fisa in un pensiero unico: l’arte mal appresa». Per il Morello vi può essere «forse una spiegazione più convincente». Cioè: «Se Farinata non muta aspetto, né muove collo, né piega costa, così come il poeta vuole, è forse, non perché insensibile o non curante del dolore altrui, ma perché ignora la persona di Guido, come ignorava quella di Dante e perché ignora che Guido ha stretto matrimonio con sua figlia. Egli è morto nel 1264, tre anni prima del ritorno dei Cavalcanti a Firenze, quando Guido aveva sette anni; e si fidanzò con Bice all’età di nove anni (1269), cinque anni dopo la morte di Farinata. Se è vero che i morti non possono conoscere da sé i fatti dei vivi, ma soltanto per mezzo delle anime che li avvicinano, o degli angeli o dei demoni, Farinata può non conoscere la sua parentela con Guido e rimanere indifferente alle sorti di lui, se nessuna anima o nessun angelo o demone gliene abbian portata notizia. Cosa che non pare avvenuta». Il brano è strabiliante da parecchi punti di vista e mostra quanto sia deficiente la disciplina intellettuale del Morello. 1) Farinata stesso dice apertamente e chiaramente che gli eresiarchi del suo gruppo ignorano i fatti «quando s’approssiman e son», non sempre, e in ciò consiste la loro punizione specifica oltre l’arca infuocata «per avere voluto vedere nel futuro» e solamente in questo caso «s’altri non ci adduce» essi ignorano. Dunque il Morello non ha neanche letto bene il testo. 2) È proprio da dilettante, nei personaggi di un’opera d’arte, andare a cercare le intenzioni oltre la portata della espressione letterale dello scritto. Il Foscolo e il De Sanctis (specialmente il De Sanctis) non si allontanano dalla serietà critica; il Morello invece pensa realmente alla vita concreta di Farinata nell’Inferno oltre il canto di Dante e pensa persino poco probabile che i demoni o gli angeli abbiano potuto, a tempo perso, informare Farinata di ciò che gli era ignoto. È la mentalità dell’uomo del popolo che quando ha letto un romanzo vorrebbe sapere cosa hanno fatto ulteriormente tutti i personaggi (donde la fortuna delle avventure a catena): è la mentalità del Rosini che scrive la Monaca di Monza o di tutti gli scribacchiatori che scrivono le continuazioni di opere illustri o ne svolgono e amplificano episodi parziali.

Che tra Cavalcante e Farinata vi sia rapporto intimo nella poesia di Dante risulta dalla lettera del Canto e dalla sua struttura: Cavalcante e Farinata sono vicini (qualche illustratore immagina addirittura che siano nella stessa arca), i loro due drammi si intrecciano strettamente e Farinata viene ridotto alla funzione strutturale di explicator per far penetrare il lettore nel dramma di Cavalcante. Esplicitamente, dopo l’«ebbe», Dante contrappone  Farinata a Cavalcante nell’aspetto fisico-statuario che esprime la loro posizione morale: Cavalcante cade, si affloscia, né più appare fuori, Farinata «analiticamente» non muta aspetto né muove collo né piega costa.

Ma l’incomprensione della lettera del canto da parte del Morello si rivela anche dove egli parla di Cavalcante, pp. 31 e segg.: «È rappresentato, in questo canto, anche il dramma della famiglia attraverso lo strazio delle guerre civili; ma non da Dante e da Farinata; sí bene da Cavalcante». Perché «attraverso lo strazio delle guerre civili»? Questa è un’aggiunta cervellotica del Morello. Il doppio elemento, famiglia-politica, è in Farinata e infatti la politica lo sorregge sotto l’impressione del disastro famigliare della figlia. Ma in Cavalcante solo motivo drammatico è l’amore figliale e infatti egli crolla appena è certo che il figlio è morto. Secondo il Morello, Cavalcante «domanda a Dante piangendo – Perché mio figlio non è teco? – Piangendo. Questo di Cavalcante si può veramente dire il pianto della guerra civile». Stupidaggine, conseguente all’affermazione che il canto decimo è «per eccellenza politico». E più oltre: «Guido era vivo all’epoca del mistico viaggio; ma era morto quando Dante scriveva. E dunque di un morto Dante realmente scriveva, nonostante, per la cronologia del viaggio, dovesse infine apprendere al padre il contrario», ecc.: passo che dimostra come il Morello abbia appena sfiorato il contenuto drammatico e poetico del canto e l’abbia, letteralmente, sorvolato nella lettera testuale.

Superficialità piena di contraddizioni perché poi il Morello si ferma sulla predizione di Farinata, senza pensare che se questi eresiarchi possono sapere il futuro, devono sapere il passato, dato che il futuro diventa sempre passato: ciò non lo porta a rileggersi il testo e ad accertarne il significato.

Ma anche la così detta interpretazione politica che il Morello fa del decimo canto è superficialissima: essa non è altro che la ripresa della vecchia quistione: Dante fu guelfo o ghibellino? Per il Morello, sostanzialmente, Dante fu ghibellino e Farinata è «il suo eroe», solo che Dante fu ghibellino come Farinata, cioè «uomo politico» più che «uomo di parte». Si può, in questo argomento dire tutto ciò che si vuole. In realtà Dante, come egli stesso dice, «fece parte per se stesso»: egli è essenzialmente un «intellettuale» e il suo settarismo e la sua partigianeria sono d’ordine intellettuale più che politico in senso immediato. D’altronde la posizione politica di Dante potrebbe esser fissata solo con un’analisi minutissima non solo di tutti gli scritti di Dante stesso, ma delle divisioni politiche del suo tempo che erano molto diverse da quelle di cinquant’anni prima.

Il Morello è troppo irretito nella retorica letteraria per essere in grado di concepire realisticamente le posizioni politiche degli uomini del Medio Evo verso l’Impero, il Papato e la loro repubblica comunale.

Quello che fa sorridere nel Morello è il suo «disdegno» per i commentatori che affiora qua e là come a p. 52, nello scritto Cavalcanti e il suo disdegno dove dice che «la prosa dei commentatori spesso altera il senso dei versi»; ma guarda chi lo dice! Questo scritto Cavalcanti e il suo disdegno appartiene precisamente a quella letteratura d’appendice intorno alla Divina Commedia, inutile e ingombrante con le sue congetture, le sue sottigliezze, le sue alzate d’ingegno da parte di gente che per avere la penna in mano, si crede in diritto di scrivere di qualunque cosa, sgomitolando le fantasticherie del suo talentaccio.

Le «rinunzie descrittive» nella Divina Commedia. Da un articolo di Luigi Russo, Per la poesia del «Paradiso» dantesco (nel «Leonardo» dell’agosto 1927), tolgo alcuni accenni alle «rinunzie descrittive» di Dante che, in ogni caso, hanno diversa origine e spiegazione che per l’episodio di Cavalcante. Se ne è occupato A. Guzzo nella «Rivista d’Italia» del 15 novembre 1924, pp. 456-79 (Il «Paradiso» e la critica del De Sanctis). Scrive il Russo: «Il Guzzo parla delle “rinunzie descrittive” che sono frequenti nel Paradiso: – Qui vince la memoria mia lo ingegno, – Se mò sonasser tutte quelle lingue – ecc., ed egli ritiene che questa è una prova che, dove Dante non può trasfigurare celestialmente la terra, egli “piuttosto rinunzia a descrivere il fenomeno celeste anziché, con astratta e artificiosa fantasia, capovolgere, invertire, violentare l’esperienza” (p. 478). Ora anche qui il Guzzo, come gli altri dantisti, riman vittima di una valutazione psicologica di parecchi versi di quel genere, che ricorrono nel Paradiso. Tipico il caso del Vossler che una volta si servì di queste “rinunzie descrittive” del poeta, come fossero confessioni d’impotenza fantastica, per concludere, sulla testimonianza dell’artista stesso, sull’inferiorità dell’ultima cantica; e, recentemente, nel suo ravvedimento critico, si richiamò invece proprio a quelle rinunzie descrittive, per attribuir loro un valore religioso, quasi il poeta volesse avvertire di tratto in tratto che quello è il regno dell’assoluto trascendente. Ora a me pare che mai il poeta riesce tanto espressivo, come in queste sue confessioni di impotenza espressiva, le quali, invero, vanno considerate non nel loro contenuto (che è negativo), ma nel loro tono lirico (che è positivo, e qualche volta iperbolicamente positivo). Quella è la poesia dell’ineffabile; e non bisogna scambiare la poesia dell’ineffabile per ineffabilità poetica» ecc. Per il Russo non si può parlare di rinunzie descrittive in Dante. Si tratta, in forma negativa, di espressioni piene, sufficienti, di tutto quello che si agita veramente nel petto del poeta. Il Russo accenna in nota a un suo studio, Il Dante del Vossler e l’unità poetica della Commedia, nel vol. XII degli «Studi Danteschi» diretti da M. Barbi, ma il richiamo al Vossler si deve riferire ai tentativi di gerarchizzare artisticamente le tre cantiche.

Il cieco Tiresia. Nel 1918, in un «Sotto la Mole» intitolato Il cieco Tiresia è pubblicato un cenno dell’interpretazione data in queste note della figura di Cavalcante. Nella nota pubblicata nel 1918 si prendeva lo spunto dalla notizia pubblicata dai giornali che una ragazzina, in un paesello d’Italia, dopo aver preveduto la fine della guerra per il 1918 diventò cieca. Il nesso è evidente. Nella tradizione letteraria e nel folclore, il dono della previsione è sempre connesso con l’infermità attuale del veggente, che mentre vede il futuro non vede l’immediato presente perché cieco. (Forse ciò è legato alla preoccupazione di non turbare l’ordine naturale delle cose: perciò i veggenti non sono creduti, come Cassandra; se fossero creduti, le loro previsioni non si verificherebbero, in quanto gli uomini, posti sull’avviso, opererebbero diversamente e i fatti allora si svolgerebbero diversamente dalla previsione ecc.).

Una lettera di Umberto Cosmo. Da una lettera del prof. U. Cosmo (dei primi mesi del 1932) riporto alcuni brani sull’argomento di Cavalcante e Farinata: «Mi pare che l’amico nostro abbia colpito giusto, e qualche cosa che s’avvicinava alla sua interpretazione ho sempre insegnato io. Accanto al dramma di Farinata c’è anche il dramma di Cavalcante, e male hanno fatto i critici, e fanno, a lasciarlo nell’ombra. L’amico farebbe dunque opera ottima a lumeggiarlo. Ma per lumeggiarlo bisognerebbe discendere un po’ più nell’anima medioevale. Ognuno dei due, Farinata e Cavalcante, soffre il suo dramma. Ma il proprio dramma non tocca l’altro. Sono legati dalla parentela dei figli, ma sono di parte avversa. Perciò non si incontrano. È la loro forza come dramatis personae, è il loro torto come uomini. Più difficile mi pare provare che l’interpretazione lede in modo vitale la tesi del Croce sulla poesia e la struttura della Commedia. Senza dubbio anche la struttura dell’opera ha valore di poesia. Con la sua tesi il Croce riduce la poesia della Commedia a pochi tratti e perde quasi tutta la suggestione che si sprigiona da essa. Cioè perde quasi tutta la sua poesia. La virtù della grande poesia è di suggerire più che non dica e suggerire sempre cose nuove. Di qui la sua eternità. Bisognerebbe dunque mettere bene in chiaro che tale virtù di suggestione che promana dal dramma di Cavalcante promana dalla struttura dell’opera (la previsione dei dannati del futuro e l’ignoranza del presente, il loro essere in quel determinato cono d’ombra, come dice assai felicemente l’amico, l’essere nella stessa tomba (!?) i due sofferenti, l’essere legati da quelle determinate leggi costruttive). Tutte parti della struttura che diventano fonte di poesia. Togliete queste e la poesia svanisce. – Per raggiungere più sicuro l’effetto, mi pare, sarebbe bene riprovare la tesi con qualche altro esempio. Io, scrivendo del Paradiso, sono arrivato alla conclusione che dove la costruzione è debole, è debole anche la poesia… Ma più efficace sarebbe forse di cercare la riprova in qualche episodio plastico dell’Inferno o del Purgatorio. Penso dunque che l’amico farebbe assai bene a svolgere con il rigore del suo raziocinio e la chiarezza della sua espressione la sua tesi. Il ravvicinamento con le Didascalie dei drammi propriamente detti è arguto e può illuminare. Ti soggiungo qualche indicazione bibliografica più facile. Lo studio del Russo si può vedere completo in L. Russo, Problemi di metodo critico, Bari, Laterza, 1929. Nella «Critica» sarebbe bene vedere ciò che scrisse l’Arangio Ruiz («Critica», XX, 340- 57). L’articolo è dichiarato dal Barbi «bellissimo». Pretenzioso nella sua filosofica sicumera, lo studio di Mario Botti (Per lo studio della genesi della poesia dantesca. La seconda cantica: poesia e struttura nel poema) in «Annali dell’Istruzione media», 1930, pp. 432-73. Il Barbi se ne occupa, ma non dice nulla di nuovo, nell’ultimo fascicolo degli «Studi Danteschi» (XVI, pp. 47 sgg.), Poesia e struttura nella Divina Commedia. Per la genesi dell’ispirazione centrale della Divina Commedia. Anche il Barbi, in uno studio Con Dante e coi suoi interpreti (vol. XV, «Studi Danteschi»), passa in rivista le ultime interpretazioni del canto di Farinata. E pure il Barbi pubblicò un suo commento nel vol. VIII degli «Studi Danteschi». Ci sarebbe da osservare molte cose su queste note del prof. Cosmo.

Rastignac [Vincenzo Morello]. Poiché occorre infischiarsi del gravissimo compito di far progredire la critica dantesca o di portare la propria pietruzza all’edifizio commentatorio e chiarificatorio del divino poema ecc., il modo migliore di presentare queste osservazioni sul Canto decimo pare debba proprio essere quello polemico, per stroncare un filisteo classico come Rastignac, per dimostrare, in modo drastico e fulminante, e sia pure demagogico, che i rappresentanti di un gruppo sociale subalterno possono far le fiche, scientificamente e come gusto artistico, a ruffiani intellettuali come Rastignac. Ma Rastignac conta meno di un fuscello nel mondo culturale ufficiale! Non ci vuole molta bravura per mostrarne l’inettitudine e la zerità. Ma intanto la sua conferenza è stata tenuta alla Casa di Dante romana: da chi è diretta questa Casa di Dante della città eterna? Anche la Casa di Dante e i suoi dirigenti contano nulla? E se contano nulla perché la grande cultura non li elimina? E come è stata giudicata la conferenza dai dantisti? Ne ha parlato il Barbi, nelle sue rassegne degli «Studi Danteschi» per mostrarne la deficienza ecc.? Eppoi, piace poter prendere per il bavero un uomo come il Rastignac e servirsene da palla per un gioco solitario del calcio. 


Allegato 3: dalle Lettere dal carcere (21 marzo 1932) 

Carissima Tania,

ho davanti a me quattro tuoi scritti: la lettera del 9 marzo, la cartolina del 13, le lettere del 14 e del 18. Un vero record, con mia grande gioia, sebbene mi dispiaccia che la mia gioia sia, in questo caso, legata a una tua fatica. Cercherò di rispondere con ordine, per non dimenticare nulla di essenziale. – Ho letto le osservazioni del prof. Cosmo a proposito del Canto dell’Inferno dantesco. Lo ringrazio dei suggerimenti e delle indicazioni bibliografiche. Non credo però che valga la pena di acquistare i fascicoli di rivista che egli indica: a quale scopo? Se volessi scrivere un saggio per la pubblicazione, questi scritti non sarebbero sufficienti (o almeno non mi sembrerebbero sufficienti, determinando uno stato d’animo di raffrenamento e di insoddisfazione); e per scrivere qualcosa per conto mio, per passare il tempo, non val la pena di disturbare così solenni monumenti come gli «Studi danteschi» di Michele Barbi, che, magari poi, a leggere, non danno nessuno spunto necessario o indirettamente utile. La letteratura dantesca è così pletorica e prolissa, che l’unica giustificazione a scrivere qualcosa in proposito mi pare sia quella di dire qualcosa di veramente nuovo, con la maggiore precisione e col minimo di parole possibili. Lo stesso prof. Cosmo mi pare soffra un po’ della malattia professionale dei dantisti: se i suoi suggerimenti fossero seguiti alla lettera, bisognerebbe scrivere un volume intero. Sono soddisfatto di sapere che la interpretazione del Canto che ho abbozzato sia relativamente nuova e degna di trattazione; per la mia umanità da carcerato questo è sufficiente per farmi distillare qualche pagina di appunti che a priori non mi sembrino una superfetazione. 

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