"Può forse essere il caso di notare che è nello stato di prosperità, quando la società sta procedendo verso nuove acquisizioni, piuttosto che quando essa ha acquisito tutta la sua ricchezza, che la condizione del povero che lavora, cioè della grande massa del popolo, sembra essere più felice e confortevole. Essa è dura nello stato stazionario, e miserevole in quello di decadenza. Lo stato di progresso è in realtà lo stato felice e sano di tutti i diversi ordini della società."(Adam Smith, Ricchezza , p. 81)
"Supponiamo d'aver prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe, nella sua produzione, affermato doppiamente se stesso e l'altro. Io avrei 1) oggettivato, nella mia produzione, la mia individualità e la sua peculiarità, ed avrei quindi goduto, nel corso dell'attività, una manifestazione individuale della vita, così come, contemplando l'oggetto, avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalità come oggettuale, sensibilmente visibile e quindi come una potenza elevata al di sopra di ogni incertezza. 2) Nel tuo godimento o uso del mio prodotto io avrei immediatamente il godimento consistente nella consapevolezza di aver soddisfatto col mio lavoro un bisogno umano, e dunque d'aver oggettualizzato l'essenza umana ed aver quindi procurato un oggetto atto a soddisfare il bisogno di un altro essere umano. 3) D'essere stato per te l'intermediario fra te ed il genere, e dunque di venir inteso e sentito da te stesso come un'integrazione del tuo proprio essere e come una parte indispensabile di te stesso, di sapermi dunque confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore. 4) D'aver posto immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, e dunque d'aver confermato e realizzato immediatamente nella mia attività la mia vera essenza, la mia essenza comune ed umana."(Marx, Opere , vol. III, 1843-1844, Editori Riuniti, Roma, p. 247. Corsivi nel testo)
"Compito della conoscenza è: non capitolare dinanzi alla realtà, che come una parete di pietra circonda gli uomini. E poiché la conoscenza rimette in vita i processi storici umani ormai spenti nei fatti compiuti, essa dimostra che la realtà è un prodotto degli uomini e perciò trasformabile: così il concetto più importante della conoscenza, la prassi, si rovescia nel concetto di azione politica" (Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx , Laterza, Bari 1973, p. 189)
(pubblicato
in due parti come: (a) Economia politica e filosofia della storia. Variazioni
su un tema smithiano: la missione ‘civilizzatrice’ del capitale, in
“Teoria politica”, n. 2, 1991, pp. 69-96; (b) Cambiare la natura umana. Ancora
su economia politica e filosofia della storia, “Teoria politica”, n. 3, 1991,
pp. 63-98)
1.
Introduzione.
2.
Migliorare la propria posizione. Natura e storia in Smith.
2.1.
La filosofia morale.
2.2.
Il problema: ineguaglianza e benessere.
2.3.
La soluzione: divisione del lavoro e inclinazione allo scambio.
2.4.
Ancora sulla filosofia morale.
3.
Il comando sul lavoro. Individuale e sociale, dallo stadio rozzo e primitivo
alla grande società.
3.1.
Il lavoro dell'uomo isolato.
3.2.
Lavoro comandato e scambio.
3.3.
La ricchezza come potere: lavoro comandato e diseguaglianza.
3.4.
Lavoro comandato e produzione.
3.5.
Ancora sulla divisione del lavoro.
4.
Il mercato e i "poveri che lavorano". La giustificazione storica del
capitale.
4.1.
Mano invisibile ed equità sociale.
4.2.
I costi della divisione del lavoro.
4.3.
Innaturalità del capitale.
5.
Cambiare la natura umana. John Stuart Mill e John Maynard Keynes, oltre la
passione per il denaro.
5.1.
Smith smembrato. Ricardiani e neoclassici.
5.2.
Lo stato stazionario: John Stuart Mill.
5.3.
Il doppio inganno è rivelato: John Maynard Keynes.
6.
Come se avesse l'amore in corpo. Marx e l'enigma del lavoro.
6.1.
Il lavoro come essenza dell'essere umano.
6.2.
Il lato positivo del capitale. Natura e storia in Marx.
6.3.
Una filosofia della storia?
7.1.
La positività del finito.
7.2.
Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?
7.3.
Un nuovo principio di realtà? Marxismo e psicoanalisi.
8.
Dobbiamo disperare? Ancora su Marx, tra macchine e antagonismo.
Nota
bibliografica.§
---------
Economia
politica e filosofia della storia. Variazioni su un tema smithiano: la missione
"civilizzatrice" del capitale.
"Pour
que la réalité se dévoile, il faut qu'un homme lutte contre elle."
Jean
Paul Sartre, "Matérialisme et révolution", in Situations, I, Paris 1957, p.
213
1.
Introduzione
L'economia
politica ha costituito da sempre terreno fertile per la riflessione filosofica.
Gli ultimi anni, da questo punto di vista, non fanno eccezione: basta pensare
al proliferare di studi di epistemologia economica, o ancora alla questione
della relazione tra etica ed economia. Il problema che vorrei affrontare nelle
pagine che seguono è invece di quelli un po' desueti: la ricerca bibliografica
difficilmente registrerebbe titoli recenti; l'inglese non sarebbe forse la
lingua egemone; la letteratura definibile in senso lato come empirista e
liberale sarebbe una componente importante ma non esclusiva.
Si
tratta, per dirla in breve ed un po' enfaticamente, di ripercorrere le tappe
principali di quella linea di pensiero che si è interrogata sulla missione
"civilizzatrice" e sul ruolo storico del capitale. Di riandare,
dunque, a quegli autori che hanno visto nel primato dell'economico un problema,
sino in alcuni casi ad auspicare, o a temere, un suo possibile superamento. E
che, proprio perché questo era il loro tema, si sono trovati a fare
affermazioni impegnative sulla "natura umana", e sul
"significato della storia". Terreno che altri giudicherà scivoloso, e
che senz'altro lo è: ma che comincia ad apparirmi culturalmente, e politicamente,
ineludibile, per ragioni che spero saranno più chiare alla fine di questo
scritto. Certamente in questa luce l'economia politica si confonde con la
filosofia della storia e con la filosofia morale; l'indagine sulle leggi di
funzionamento del sistema sfocia nella questione del "senso" del
corso storico, si confonde con la discussione sulla "giustificazione"
del capitalismo - come vedremo, le due cose sono anzi per molti degli autori
che considererò due facce della stessa medaglia.
Il
metodo che adotterò sarà quasi sempre quello di far parlare direttamente i
testi. Metodo soggettivo ed arbitrario quant'altri mai, al di là dalle
apparenze: benché poco di ciò che dirò pretenda di essere originale, la
selezione e il percorso che proporrò presuppongono un filtro interpretativo
molto forte, che rimarrà però in buona misura implicito. Il gioco, o le buone
regole, della conversazione intellettuale richiedono che io mostri di credere
fino in fondo alle ipotesi che avanzo: ciò non toglie che - trattandosi di un
tema che costringe ad abbandonare i sicuri recinti degli specialismi - la
critica sia la benvenuta.
2.
Migliorare la propria posizione. Natura e storia in Smith.
"Nessuno,
se non un mendicante, sceglie di dipendere soprattutto dalla benevolenza dei
suoi concittadini."
Adam
Smith, La Ricchezza delle
nazioni. Abbozzo (ca 1763),
Boringhieri, Torino 1959, p. 42
2.1.
La filosofia morale.
E'
ormai riconosciuto che il punto di partenza della teoria economica di Smith va
individuato in quell' originale compromesso tra le posizioni contrapposte di
Hobbes e Hume cui l'autore scozzese approda nella sua filosofia etica: un
compromesso di cui la Teoria
dei sentimenti moraliè il frutto più maturo, e senza il quale la Ricchezza delle nazioni sarebbe incomprensibile.
Nello
stato di natura di Hobbes, i liberi individui isolati sono mossi esclusivamente
da moventi egoistici, sicché la relazione tra di essi è definibile come una
guerra di tutti contro tutti. Qualora lo stato di natura si realizzasse nella
sua purezza, qualsiasi convivenza sociale si rivelerebbe impossibile. La
società civile nasce in conseguenza dell'alienazione allo Stato dei propri poteri
naturali: della rinuncia all'agire secondo passione, e dell'istituzione di un
patto secondo ragione. Si tratta, dunque, di una costruzione artificiale.
Dell'esito volontario di una convenzione, o di un contratto, tra soggetti
calcolanti.
La
critica di Hume a Hobbes ha inizio con il rifiuto della finzione di uno stato
di natura e con il riconoscimento di una dualità psicologica fondamentale.
Accanto al linguaggio dell'egoismo, Hume individua infatti un
"sentimento" originario di natura opposta allo spirito di cupidigia;
un sentimento che spinge alla realizzazione del bene (o dell'utilità, o della
felicità) individuale e sociale, e che è la fonte del giudizio morale. Tale
sentimento è la "simpatia", o "benevolenza". L'etica di Hume
si qualifica così come rigorosamente altruistica: la generale diffusione di un
"senso di umanità", e la possibilità dell'individuo di giudicare la
propria azione come se fosse uno spettatore imparziale, fanno sì che il
comportamento virtuoso possa aver luogo non in circoli ristretti ma in società
allargate.L'egoismo, il self-love,
appare
invece
come eticamente neutro.
Lo
sviluppo ed il rovesciamento che Smith opera rispetto a Hume possono apparire
in piena evidenza una volta che si sottolinei come per Smith l'egoismo è il mezzo
essenziale per la costituzione concreta di quel legame generale tra gli uomini,
di quella "società" in senso proprio, che dovrebbe essere il luogo
dove si esercita il comportamento morale di Hume. Infatti, il meccanismo
impersonale del mercato - l'interazione tra i mercanti spinti esclusivamente
dal perseguimento dell'interesse individuale - produce una accelerazione della
crescita della ricchezza materiale. Il benessere di ciascuno diviene funzione
del lavoro di sconosciuti.
In
quest'ottica l'egoismo può caricarsi, sia pure mediatamente, di un suo valore
"morale", per un duplice ordine di ragioni. La reale
"possibilità" ed "universalità" dell'etica altruistica di
Hume, come etica non particolare ma comune al genere umano, dipende dal
generalizzarsi dello scambio: in altri termini, se si guarda a ciò che avviene
nella sfera economica, la "guerra di tutti contro tutti", lungi dal
disgregare la società, ne pone le fondamenta. Inoltre, l'inclusione nel mondo
del lavoro dei poveri, trasformati da mendicanti in salariati, e la crescita
del benessere materiale goduto da tutti gli ordini della società, sono entrambi
l'effetto - certo inintenzionale ma cionondimeno positivo - del libero
confliggere dell'avidità dei singoli.
La
presenza di questi due temi - la società "progredita" è una società
di mutua e generale dipendenza materiale; un paese è "civile" se la
prosperità è diffusa tra tutte le classi - è evidente sin dalle prime pagine
della Ricchezza delle nazioni (1776). Per quanto riguarda la sempre
maggiore integrazione sociale propria dell'epoca moderna, si vedano per esempio
questi due brani:
"In
una società incivilita"
l'uomo "ha bisogno in ogni momento della cooperazione e dell'assistenza
di moltissima gente, mentre tutta la vita gli basta appena per assicurarsi
l'amicizia di poche persone." In quasi tutte le altre razze animali
l'individuo giunto a maturità è del tutto indipendente, e nel suo stato
naturale non ha bisogno dell'assistenza di altre creature viventi. L'uomo ha invece quasi sempre
bisogno dell'aiuto dei suoi simili e lo aspetterebbe invano dalla sola
benevolenza; avrà molta più probabilità di ottenerlo volgendo a suo favore
l'egoismo altrui e dimostrando il vantaggio che gli altri otterrebbero facendo
ciò che egli chiede." (Indagine sulla natura e le cause della ricchezza
delle nazioni, Isedi, Milano 1973, p.19)
"senza
l'assistenza e la cooperazione
di molte migliaia di
persone, l'ultimo degli abitanti di
un paese civile non potrebbe mai godere, come ora di norma gode, di
un tenore di vita che noi a torto riteniamo semplice e facile ad aversi.
Sembrerà certo tale, a paragone del lusso più sfrenato di un gran signore;
pure, è probabile che da questo punto di vista, la distanza che separa un
principe europeo da un contadino industrioso e frugale è meno grande di quella
tra quest'ultimo e i vari re africani, padroni assoluti della vita e della
libertà di diecimila selvaggi nudi."(Ricchezza, p. 16)
Non
meno netto è il legame che Smith istituisce tra la società "progredita"
- quella società dove la divisione del lavoro ha preso piede al punto da
condurre ad una specializzazione tendenzialmente senza limiti - e la generale
diffusione del benessere materiale anche tra gli appartenenti alle classi più
povere:
"La grande moltiplicazione dei prodotti di tutte le varie arti, in conseguenza della divisione del
lavoro, è all'origine, in una società ben governata, di una generale prosperità che estende
i suoi benefici fino alle classi più basse del popolo. Ogni operaio può disporre
di una grande quantità del suo lavoro che supera le sue necessità, e dal
momento che tutti gli altri operai si trovano esattamente nella stessa
situazione, è in grado di scambiare una grande quantità dei suoi beni con una
grande quantità dei beni degli altri, oppure, che è lo stesso, con il prezzo di
questa quantità. Egli li fornisce copiosamente di ciò di cui hanno bisogno ed
essi fanno lo stesso con lui, sicchéuna generale abbondanza si diffonde fra
tutti i diversi ceti sociali." (Ricchezza, p. 15)
Queste
tre citazioni nascondono tra le proprie righe il problema che la società
moderna pone a Smith, e le linee generali della soluzione che egli avanza. Il
modo con cui l'uno e l'altra sono esposti ci consentono di cogliere quale sia
per Smith la giustificazione storica della "grande società", del modo
di produzione capitalistico. E' a queste tre questioni che dedicherò questa
sezione e le due seguenti.
2.2.
Il problema: ineguaglianza e benessere.
Il
problema di Smith è rivelato dal confronto tra la disparità di benessere che
separa ricchi e "poveri che lavorano" all'interno della società
progredita (il principe europeo e il contadino industrioso), e il maggiore
"agio" che separa il lavoratore a giornata dai capi di una società
arretrata. La diseguaglianza propria della "società commerciale" non
si accompagna solo al comprensibile lusso dei proprietari - il cui privilegio
si esprime nella condizione di non lavoro e nella possibilità di comandare, di
impiegare per il proprio utile, il lavoro di altri. Essa si accompagna anche,
più misteriosamente, ad un continuo miglioramento della condizione degli strati
più bassi e numerosi della popolazione, i lavoratori non proprietari. Vi è qui
un contrasto significativo con lo stadio "rozzo e primitivo", dove
ognuno è proprietario tanto delle condizioni della produzione quanto del
prodotto del proprio lavoro; dove non esistono classi che non lavorano; e dove
vige una generale eguaglianza. Eppure, nota Smith, in tale situazione, ad
essere condivisa non è, come ci si aspetterebbe a prima vista, l'abbondanza ma
la miseria.
Insomma:
le società arretrate hanno come destino la stagnazione e la fame; viceversa, la
società del mercato e del capitale garantisce la crescita della produzione,
l'aumento della popolazione lavoratrice, una generale diffusione del benessere
materiale. Questa considerazione - che è spesso l'alfa e l'omega di una visione
apologetica della società capitalistica - è invece, per Smith, l'enigma che
l'analisi deve sciogliere. Già nell' "Introduzione" della Ricchezza delle Nazioni
si legge che:
"Nelle nazioni selvagge di cacciatori e pescatori, ogni individuo in grado di operare è più o meno impiegato in un lavoro
utile con cui si sforza di
provvedere alle necessità e ai comodi della vita . . .Pure, tali nazioni
vivono in una povertà così orribile che
soltanto per bisogno si trovano spesso ridotte, o almeno credono di esserlo,
alla necessità di eliminare bambini, vecchi e ammalati inguaribili . . . Nelle nazioni civili e floride,
all'opposto, sebbene una gran
quantità di gente non lavori affatto, e molte di queste persone consumino
il prodotto di un lavoro dieci e spesso cento volte maggiore della maggior
parte di quelli che lavorano, pure
il prodotto complessivo del lavoro sociale è così grande che tutti gli
individui ne risultano spesso abbondantemente provvisti." (Ricchezza,p.3-4)
Nell' Abbozzo (1763) Smith era stato ancora più
esplicito nell'individuare la contraddizione della "grande società"
contemporanea tra "ineguaglianza nella proprietà" e "universale
benessere" (p.26), e nello svelare il suo punto di vista:
"Non
è certo molto difficile spiegare
come avvenga che in una società evoluta, il ricco e il potente si procaccino
gli agi e tutto ciò che è necessario per vivere, meglio di quanto non possa
fare qualsiasi persona che viva da sola allo stato selvaggio. E' molto facile immaginare che colui che può, in ogni
tempo, dirigere ai suoi propri fini il lavoro di migliaia di uomini debba
essere provvisto di tutto ciò di cui ha bisogno meglio di chi dipende dalla
propria ed esclusiva attività. Ma
non è così facilmente comprensibile come
avvenga che il contadino e il lavoratore siano egualmente meglio provvisti. In
un paese civile i poveri provvedono a se stessi e all'enorme lusso dei loro
signori . . . Tra i selvaggi, invece, ognuno gode dell'intero prodotto della
propria attività. Non ci sono tra loro né padroni, né usurai, né esattori di
tasse. Potremmo quindi
naturalmente attenderci - se l'esperienza non ci dimostrasse
il contrario - che ciascuno
di essi debba godere degli agi e di tutte quelle cose che sono necessarie per
vivere, in misura maggiore che non gli strati inferiori del popolo in un paese
civile." (Abbozzo, p.
18-19)
Nella
società commerciale chi lavora è soggetto ad una "enorme
defalcazione" sicché "a quelli che lavorano di più tocca di meno"
(nelle Lezioni di Glasgow
(1762-1763) è detto, sullo stesso tono: "colui che sopporta, per così
dire, il peso della società, è quello che ne trae i
minori vantaggi " (incluso in Claudio Napoleoni, Smith, Ricardo Marx,
Boringhieri, Torino, 19732, p. 178)). Eppure, anche chi è "schiacciato da
una così opprimente ineguaglianza" gode di una
"maggiore ricchezza e abbondanza di beni" rispetto ai membri di una
società "selvaggia" (p. 20-21).
2.3.
La soluzione: divisione del lavoro e inclinazione allo scambio.
La
soluzione di Smith fa perno sulla divisione del lavoro: un lavoro
"sociale", specializzato ed adibito ad una unica mansione, ad una
attività particolare, produce più di quanto produrrebbe il lavoro di un
produttore "isolato". L'aumento della produttività media consente il
mantenimento sia di "padroni", "mercanti" e proprietari
fondiari, sia di oziosi e improduttivi. Ma consente anche di soddisfare sempre
meglio i bisogni naturali, le necessità fondamentali (cibo, vestiario e
riparo), tra le classi più umili. La ragione è costituita dal fatto che ciò che
resta al lavoratore è un prodotto comunque maggiore di quello che egli si
sarebbe procurato con un lavoro non diviso, anche tenendo conto delle
"deduzioni" del profitto e della rendita. L'estrazione di un
sovrappiù nella "grande società" si accompagna per questa via ad un
miglioramento, quantitativo e qualitativo, della sussistenza rispetto alle
società primitive, nelle quali la divisione del lavoro è solo ai primi passi,
ed in particolare rispetto alla condizione del lavoro non diviso:
"Quando
il lavoro è così diviso, e una così grande quantità di lavoro viene eseguita in
proporzione da un solo uomo, il sovrappiù,
ossia ciò che supera quanto è
necessario al sostentamento delle persone impiegate, è considerevole, e ognuno può ottenere nello scambio
quattro volte quello che gli sarebbe stato possibile se avesse eseguito il
lavoro interamente da solo. Per questa via il bene prodotto è accessibile a
un prezzo molto più basso, e il lavoro
diviene invece molto più caro." (Lezioni, p. 179)
Come
si sa, la divisione del lavoro dipende per Smith dallo scambio, per così dire,
tanto a monte quanto a valle. A valle, perché la divisione del lavoro, e dunque
l'innalzamento della produttività, sono tanto più approfonditi quanto maggiore
è l'estensione del mercato: dunque, quanto maggiori sono le aspettative di
profitto degli imprenditori. A monte, perché la divisione del lavoro trova la
sua sorgente in una inclinazione, "naturale" e "comune a tutti
gli uomini", al baratto e allo scambio: la quale a sua volta, come
recitano le Lezioni di Glasgow,
può essere ricondotta al "desiderio di persuadere, così caratteristico
della natura umana" (p. 183).
Abbiamo
già visto, da una delle citazioni dalla Ricchezza
delle Nazioni, che, a differenza delle altre specie animali, l'uomo ha
bisogno dell'assistenza dei suoi simili. Tale affermazione è peraltro ambigua,
nel testo di Smith. Il bisogno di cooperazione e assistenza viene infatti
interpretato a chiare lettere da Smith come una condizione propria della
società "progredita", delle nazioni "civili"; al tempo
stesso, l'autore scozzese sembra suggerire una tesi alternativa, quella secondo
cui "quasi sempre" l'uomo dipende dai propri simili (d'altronde, già
nella Teoria dei sentimenti
morali Smith aveva sostenuto che "l'uomo può vivere solo in
società").
Credo
che questa duplicità possa essere sciolta se si coglie che per Smith la società
di mercato, come mutuo nesso materiale, realizza pienamente nel corso della
storia la dipendenza dell'uomo dall'uomo, corrispondente alla
"natura". Anche qui - sulla scorta della lettera del 1755 all'
"Edinburgh Review" in cui Smith commenta il Discorso sull'ineguaglianza
del filosofo ginevrino - la posizione di Smith può essere interpretata come un
compromesso tra la tesi di Mandeville e quella, appunto, di Rousseau:
"Il
Dr. Mandeville rappresenta lo stato primitivo del genere umano come il più
triste e il più miserabile che si possa immaginare. Rousseau, al contrario, lo
considera come il più felice e il più conforme alla nostra natura. Entrambi tuttavia ritengono che
nell'uomo non vi sia alcun istinto che l'induca necessariamente a ricercare la
società come tale. Secondo il primo, è la miseria del suo stato originario
che costringe l'uomo a far ricorso a questo sgradevole rimedio. Secondo l'altro
un seguito di eventi sfortunati" (trad. in Lucio Colletti, Ideologia e società, Laterza,
Bari 1970, p. 265)
Impiegando
le parole stesse di Smith, la nostra lettura è che per l'autore scozzese lo
stadio "rozzo e primitivo" è realmente "il più triste e
miserabile"; davvero la scarsità stringe l'uomo nella sua morsa.
Ciononostante, la debolezza - per così dire - dell'individuo isolato rispetto
alla natura non è il primo motore del legame sociale. E', al contrario, la
presenza, già nella condizione originaria, di un "istinto che l'induce
necessariamente a ricercare la società come tale" - è l'inclinazione allo
scambio che gli è propria in quanto essere dotato di ragione e linguaggio - che
dà conto della spinta a vivere in società. In altri termini: nello stato
primitivo, la socialità è sì essenziale, ma esiste solo in potenza. Da questo
punto di vista, la natura umana appare un prodotto storico, non un dato di
partenza: ed il meccanismo che consente che essa giunga a maturità è appunto la
divisione del lavoro.
La
situazione originaria, in cui l'uomo vive in comunità, è una situazione per un
verso di eguaglianza e scarsità, per l'altro di indipendenza reciproca.
In essa gli individui sono egoisti, ma spinti alla comunicazione: autonomi
materialmente, dipendono però dal giudizio dell'altro. In questo senso, si può
ben qualificarli come animali sociali. Lo "scambio" intellettuale si
tramuta ben presto nel commercio vero e proprio, e nel volgere a proprio vantaggio
l'egoismo degli altri:
"Se
un qualche animale intende effettuare uno scambio, per così dire, od ottenere
qualcosa dall'uomo, può riuscirvi solo in grazia del suo affetto e della sua
gentilezza. L'uomo fa,
nella stessa maniera, leva
sull'egoismo dei suoi simili, offrendo loro un motivo sufficiente di
tentazione per ottenere da essi ciò che vuole. Un siffatto comportamento può
così esprimersi: "Dammi ciò che voglio, e avrai ciò che vuoi". Al contrario del cane,
l'uomo non spera qualcosa dalla benevolenza, bensì dall'egoismo."
(Lezioni, p. 183)
Su
questa base si erige quella divisione del lavoro per cui alla fine "ogni
uomo vive di scambi, o diventa in certa misura un mercante" (Ricchezza,
p. 26) e che fa sì che l'egoismo divenga il cemento della società. La divisione
del lavoro è la conseguenza - certamente "lenta e graduale" (dunque,
non preordinata; inintenzionale) ma cionondimeno "necessaria" -
"delle facoltà della ragione e della parola" (Ricchezza, p.
16). La storia si configura qui come il progressivo svolgimento di un principio
originario e benefico, in forza del quale l'egoismo proprio dell'uomo, il fare
dell'altro un mezzo per i propri scopi, diviene a sua volta - attraverso
l'impulso che dà al processo di specializzazione - il tramite essenziale per il
completo dispiegarsi di una altrettanto originaria tendenza alla integrazione o
socialità.
Se,
come spesso viene fatto, si attribuisce troppo facilmente a Smith
l'identificazione tra la "società commerciale" di cui parla nei primi
due libri della Ricchezza
delle nazioni ed il
capitalismo emergente che ha concretamente di fronte, il passo è breve per
farne senza troppi complimenti il sostenitore della razionalità e naturalità
del mondo che esce dalla rivoluzione industriale. Il capitalismo si
configurerebbe, in questa lettura, come la fine della storia e la realizzazione
della natura.
Le
cose, come vedremo, non sono così semplici. Prima però di dar conto di questo
nostro giudizio, conviene analizzare con più attenzione le tensioni
contrastanti che attraversano la visione della natura umana di Smith, e la sua
interpretazione della divisione del lavoro: tensioni che trovano il loro
momento di cristallizzazione nella teoria del valore-lavoro comandato.
2.4.
Ancora sulla filosofia morale
Prima
di procedere oltre, vale la pena di notare che la naturale
"socialità" dell'essere umano si riverbera sullo stesso egoismo, che
è per Smith inseparabile da una dimensione relazionale. E' mettendo al nostro
servizio l'egoismo degli altri che possiamo perseguire il nostro interesse
individuale. Ma, più fondamentalmente, la molla universale che ci spinge è
"migliorare la nostra posizione":
"Da
dove dunque nasce quell'emulazione che corre attraverso tutti i diversi ceti
degli uomini, e quali sono i vantaggi che ci proponiamo con quel grande
obiettivo della vita umana che chiamiamo migliorare la propria posizione? Essere osservati, che ci si occupi
di noi, che ci si informi di noi con simpatia, con compiacimento e
approvazione, questi sono i soli vantaggi che possiamo proporci di ottenere con
esso. E' la vanità, non
l'agio o il piacere che ci interessa." (Teoria dei sentimenti
morali, p. 50, cit. in Maria Luisa Pesante, Economia e politica , Angeli, Milano 1986, p. 20).
Lo
stesso egoismo rimanda dunque al principio originario della socialità umana, la
dipendenza dallo sguardo dell'altro.
"Il
desiderio di migliorare la propria condizione", "di norma calmo e
scevro di passionalità, è presente in noi fin dalla nascita e non ci abbandona
mai fino alla tomba". "Il mezzo più comune e ovvio" con cui tale
desiderio si realizza è "un aumento del patrimonio" (Ricchezza,
p. 336). Ogni individuo "mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto
da una mano invisibile, in questo come in altri casi, a perseguire un fine che
non rientra nelle sue intenzioni": curando il proprio interesse, dà luogo
alla prosperità pubblica. Perseguendo l'egoismo, porta al massimo grado la
socialità.
Siamo
ben lontani dall'individuo isolato di Hobbes, o - se è per questo - anche dall'
"amor proprio" di Rousseau. La rivalità nel commercio dell' uno con
l'altro conduce ad un addolcimento del carattere e frena le passioni: l' uscita
da quello stato permanente di guerra e di dipendenza servile che caratterizza
l'ordine feudale è in qualche misura essa stessa un portato della ricerca del
proprio utile individuale. Smith nega come corrispondente alla natura una
originaria autonomia dell'uomo isolato, e afferma anzi una sua essenziale
socialità. La struttura relazionale del self-lovee
l'affermazione dello scambio, prima intellettuale e poi materiale, come nesso
sociale "naturale", fanno dell'autore scozzese qualcosa di molto
diverso da un individualista radicale.
3.
Il comando sul lavoro. Individuale e sociale, dallo stadio "rozzo e
primitivo" alla "grande società".
"Sono
sempre disposto a correre il rischio di essere noioso pur di essere sicuro di
essere chiaro. E dopo aver fatto tutti gli sforzi possibili per essere chiaro,
potrà ancora risultare qualche oscurità su un argomento per sua natura
estremamente astratto."
Adam
Smith, La Ricchezza delle
Nazioni , p. 31
3.1.
Il lavoro dell'uomo isolato
La
rottura di Smith con la posizione che afferma una primitiva asocialità
dell'uomo è peraltro contraddetta da un motivo altrettanto potente della sua
teoria economica, il motivo del lavoro.
Quando
Smith deve spiegare la generale diffusione del benessere nella società
mercantile ricorre agli effetti della divisione del lavoro: nella sua
argomentazione, un ruolo chiave è giocato dal paragone tra la produttività del
lavoro diviso e quella del "lavoro dell'uomo isolato". Il lavoro
dell'uomo isolato segnala l'inatteso riemergere di tracce della problematica
dello stato di natura in Smith. Per un verso, attraverso quel paragone Smith
effettua un confronto tra, da un lato, la situazione di isolamento degli
individui autosufficienti nella produzione e nel consumo che è propria dello
stato originario e, dall'altro lato, una situazione pienamente storica quale
quella della "grande società", in cui gli individui sono integrati
nel consumo e il lavoro è diviso. Per l'altro verso, la possibilità stessa del
paragone presuppone la presenza di un carattere della attività pratica di
appropriazione della natura che permane immutato nella storia. Vediamo meglio.
Il
"lavoro dell'uomo isolato" rappresenta un caso estremo, quello in cui
non esiste specializzazione produttiva, ed in cui dunque il lavoro di ognuno
deve provvedere interamente ai propri bisogni; un caso estremo che è
approssimato dalle società arretrate nelle quali la divisione del lavoro è
limitata e gli scambi sporadici. Ma si tratta anche di un caso che rende evidente
la dipendenza dell'uomo: questa volta però dalla natura, prima e più
fondamentalmente che dall'altro uomo. E' qui, nel lavoro come originario
confronto tra l'uomo solo e la natura, che affonda le sue radici il primato che
la attività di trasformazione dell'ambiente materiale ha nella teoria economica
di Smith. La ragione può essere detta in breve. Per quanto il passaggio dal
lavoro isolato e indipendente al lavoro sociale e diviso aumenti a dismisura la
capacità produttiva, cioè incida sul risultato del lavoro, tale passaggio non
muta però la natura del lavoro stesso. Nella fabbrica moderna il lavoro, pur
ripartito su più persone, rimane sostanzialmente eguale, tanto nel
"sacrificio" che comporta quanto nelle modalità di esecuzione, rispetto
a quello della società primitiva.
Questo
"naturalismo" di Smith - se così lo possiamo chiamare - è il
contenuto rimosso che riemerge ripetutamente tanto nella sua visione della
divisione del lavoro quanto nella sua teoria del valore-lavoro comandato,
nonostante e contro l'indubbia centralità dello scambio tanto per l'una quanto
per l'altra.
3.2.
Lavoro comandato e scambio
Vediamo,
per cominciare, come ciò sia vero nel caso della teoria del valore.
Il
valore è dato per Smith dalla quantità di lavoro che la merce può comprare o
comandare, cioè dal potere d'acquisto di ciò che si è prodotto e venduto,
misurato in lavoro:
"Il valore di una merce, per la persona che la
possiede e che non intende usarla o consumarla lei stessa ma scambiarla con altre
merci, è quindi uguale alla
quantità di lavoro che essa la mette in grado di comprare o di comandare.
Il lavoro è dunque la misura
reale delvalore di scambio di tutte merci. Il prezzo reale di ogni cosa, ciò che costa realmente a chi ha bisogno di procurarsela, è la pena e il disturbo di procurarsela. Il valore reale di ogni cosa
per chi se l'è procurata e ha bisogno di collocarla o di scambiarla con qualche
altra è la pena e il disturbo
che essa può risparmiargli imponendoli ad altri." (Ricchezza,
p. 32)
Nello
stadio "rozzo" e "primitivo" che precede l'accumulazione
del capitale e l'appropriazione della terra , ed in cui quindi non esistono
profitto e rendita, il lavoro comandato è identico al lavoro contenuto, cioè al
lavoro che è stato necessario mettere in movimento per ottenere quella data
merce. L'eguaglianza tra tempo di lavoro comandato e tempo di lavoro contenuto,
come anche l'eguagliamento di lavori di diversa faticosità o qualificazione,
sono garantiti dallo scambio e dalla mobilità del lavoro. Nel caso di
divergenze dei valori di scambio dai lavori contenuti, converrebbe infatti
spostarsi dalle produzioni in cui tale divergenza è negativa a quelle in cui
essa è positiva. Il processo concorrenziale fa dunque sì che il "valore di
scambio" della produzione, ovvero il lavoro comandato, e il "valore
del lavoro", ovvero la spesa necessaria a pagare il lavoro contenuto,
siano identici. Smith descrive tale situazione dicendo anche che l'intero
prodotto è esaurito dal salario.
La
divisione del lavoro, facendo emergere un sovrappiù che è sottratto al
lavoratore ed appropriato da capitalisti e proprietari fondiari, dà luogo ad
una eccedenza del lavoro comandato sul lavoro contenuto. Il valore di scambio
di una merce ora comprende anche il profitto e la rendita, ed è dunque tale da
poter acquistare merci in quantità superiore all'equivalente della spesa in
salari sostenuta per la sua produzione. La cosa può essere espressa in due
modi. Lo scambista riceve ora sul mercato più lavoro di quanto ne offra, perché
la merce che vende ha richiesto meno lavoro di quelle che ottiene in cambio. O,
alternativamente - dato il valore del lavoro (il salario) - con il ricavato
della vendita della propria merce egli può ora "mettere in movimento"
più lavoratori di quanti ne erano stati necessari per produrre quanto ha
venduto. Nel primo caso, si sottolinea che dietro lo scambio di merci vi è
indirettamente uno scambio di lavoro (oggettivato). Nel secondo caso, si
sottolinea invece che in conseguenza dello scambio di merci è possibile
acquistare direttamente sul mercato del lavoro più lavoro (vivo).
E'
stato spesso rilevato come l'argomentazione di Smith nasconda un circolo
vizioso, in quanto fa dipendere il valore di scambio dal livello del salario, e
dunque da un valore esso stesso. Ciò è senz'altro vero. Ma - riguardato
non dal punto di vista di una teoria della determinazione dei prezzi relativi,
ma dal punto di vista di una teoria che si interroghi sulla natura dello
scambio e del capitale - il ragionamento di Smith è tutt'altro che incoerente.
La definizione del valore come lavoro comandato è valida, per Smith, in
qualsiasi stadio della società. Essa rimanda senza equivoci al primato della
dimensione sociale nella sua visione della natura umana: infatti, quella
definizione non fa che ribadire l'universalità della originaria
"disposizione a trafficare"; e mette in evidenza le conseguenze della
tesi smithiana che quella inclinazione trova la sua piena realizzazione solo in
epoca moderna.
Lo
sforzo ricorrente del quinto e del sesto capitolo del primo libro della Ricchezza delle Nazioni è quello di generalizzare il punto di
vista dello scambio. Si pensi alla circostanza singolare per cui Smith, quando
deve spiegare il valore nello stadio rozzo e primitivo, non procede nel modo
che potrebbe apparire più lineare. Non lo definisce cioè come il tempo di
lavoro contenuto nella merce stesso. Egli mantiene piuttosto la spiegazione
generale: lo determina, dunque, come il tempo di lavoro che la merce comanda
nello scambio tra produttori indipendenti, e introduce solo a mo' di
specificazione la considerazione che, nelle condizioni istituzionali delle
società primitive, tempo di lavoro comandato e tempo di lavoro contenuto sono
identici. Smith è insomma costretto a interpolare nella descrizione dello
stadio "rozzo e primitivo" caratteristiche "moderne", come
la presenza di uno scambio di merci non occasionale ma ripetuto e la compiuta
affermazione del meccanismo concorrenziale: condizioni entrambe necessarie per
poter giustificare l'affermazione che tipi diversi di lavoro vengano
effettivamente equiparati nella vita di tutti i giorni, e che dunque il tempo
di lavoro possa costituire la base del valore.
All'interno
della stessa logica, ed in modo del tutto analogo, il valore del prodotto del
"lavoro dell'uomo isolato" è determinabile vedendo in quest'ultimo
non il produttore autonomo ma lo scambista: immaginando, cioè,
"l'uomo solo" come un soggetto che scambi con se stesso. Ed anche in
questo caso, Smith anticipa al produttore indipendente categorie distributive
moderne, facendone un percettore di di salario.
3.3.
La ricchezza come potere: lavoro comandato e disuguaglianza
In
generale, per l'individuo il "valore reale di ogni cosa" è "la
pena e il disturbo che essa può risparmiargli imponendola ad altri". La
ricchezza è dunque non solo un insieme di valori d'uso destinati al consumo ma
anche e soprattutto potere sull'altro, comando sul suo lavoro:
"La
ricchezza, come dice Hobbes, è potere. Ma la persona che si procura una
grande fortuna o la eredita non deve necessariamente procurarsi o ricevere in
eredità un qualche potere politico, civile o militare. La sua fortuna può forse
fornirgli i mezzi di procurarsi l'uno e l'altro, ma il semplice possesso di
quella fortuna non se li porta dietro necessariamente. Il potere che quel
possesso si porta dietro immediatamente e direttamente è il potere di comprare, cioè un
certocomando su tutto il lavoro, ovvero su tutto il prodotto del lavoro che
si trova sul mercato. La sua fortuna è maggiore o minore in proporzione
esatta all'estensione di quel potere: ovvero alla quantità sia del lavoro di altri uomini sia, che è lo stesso, del prodotto del lavoro di altri
uomini che esso lo mette in
grado di comprare o di comandare. Ilvalore di scambio di ogni cosa deve essere sempreesattamenteuguale
all'estensione di questo potere che esso conferisce a chi lo possiede."
(Ricchezza, p. 33)
In
origine, quando il prodotto appartiene interamente al lavoratore, questo potere
è reciproco e non in contrasto con l'eguaglianza. Fuori dallo stadio
"rozzo e primitivo", la presenza di deduzioni dal prodotto del lavoro
rivela invece l'esistenza di classi che non lavorano: di classi che possono
attribuire ad altri la "pena e il disturbo" della produzione della
ricchezza. Per queste classi, la ricchezza come consumo è funzione della
ricchezza come potere diseguale. Nella società "progredita", il
sovrappiù può essere destinato ad un impiego produttivo: può, cioè, essere
reinvestito nell'acquisto di lavoratori che producono altra merce. Di
conseguenza, dopo la vendita il capitalista non solo tornerà in possesso del
valore anticipato come monte salari, ma otterrà anche una eccedenza, nella
forma di un profitto lordo (che eventualmente spartirà con il proprietario
fondiario, pagandogli una rendita). In tal modo, "quell'oggetto o, il che
è lo stesso, il prezzo di quell'oggetto, può successivamente, se necessario,
mettere in moto una quantità di lavoro uguale a quella che lo ha
originariamente prodotto"(Ricchezza, p. 323).
Da
questo angolo visuale, la teoria del valore-lavoro comandato esprime, in modo
del tutto adeguato, la prospettiva dello scambista in un mercato capitalistico:
una prospettiva che, per quanto abbiamo detto sin qui, è da Smith resa
universale. Detto altrimenti: Smith, facendo valere "all'indietro" la
categoria del lavoro comandato, è in grado di individuare e sottolineare lo
slittamento che la prospettiva dello scambista subisce quando si passa da una
società di produttori indipendenti ad una società capitalistica.
Al
centro del quadro è ora la classe capitalistica. Nella società moderna, chi
acquista dopo aver venduto non è più soltanto il lavoratore diretto, ma è anche
e soprattutto un "mercante", un "padrone", o
"imprenditore". Per il primo le cose, dal punto di vista del tempo di
lavoro comandato, non sono cambiate: il lavoratore compra ancora merci il cui
costo salariale è identico a quello delle merci che egli stesso produce in
quanto operaio; per lui il lavoro comandato continua ad essere uguale al lavoro
contenuto. Per il "padrone", invece, è tutto diverso. Il fatto
che egli percepisca un profitto rivela che egli è in grado di far lavorare
altri per sé, che può procurarsi "le cose necessarie e comode della
vita" non mediante il lavoro ma mediante il comando sul lavoro, sia
oggettivato che vivo. Eppure, paradossalmente, il desiderio di arricchire
della classe imprenditoriale invece di condurre i suoi membri ad un consumo
opulento, si traduce in investimento, e quindi in un aumento del consumo di una
massa crescente di "poveri che lavorano".
La
ricchezza come potere di pochi finisce per questa via, che è la via
dell'accumulazione - della parsimonia, cioè dell'astensione dal consumo; della
divisione del lavoro; del reinvestimento del profitto, e dell'allargamento
della popolazione lavoratrice - per conciliarsi con la ricchezza come benessere
materiale di tutti.
3.4.
Lavoro comandato e produzione
La
lettura della teoria del valore-lavoro comandato come teoria dello scambio ha
posto l'accento sul mutamento di senso, da egualitario a disegualitario, del
termine "comando" nell'espressione "comando sul lavoro". Si
tratta - potremmo dire - di una teoria del cambiamento, che proietta
all'indietro, sullo stadio "rozzo e primitivo", le caratteristiche
proprie della società moderna: lo scambio come comando sul prodotto del lavoro
dell'altro; e, appunto, il comando sul lavoro in senso stretto, nel mercato del
lavoro e nelle fabbriche.
Ma
il fatto che Smith insistentemente intenda come sinonimi il comando sul
prodotto del lavoro ed il comando sul lavoro ci dice anche qualcosa d'altro. Ci
induce a concentrare l'attenzione su quel "lavoro" che è l'oggetto
del comando. Quel lavoro che, per Smith, si configura sempre e comunque come
una lotta con la materia, in buona misura immutabile e immutata dallo stato
originario alla società moderna. La lettura della teoria del valore-lavoro
comandato è ora l'opposto della precedente: vista come teoria della produzione,
essa è una teoria della permanenza. Proietta sulla società moderna l'ombra del
"lavoro dell'uomo isolato":
"In
ogni tempo e luogo, uguali quantità di lavoro si può dire abbiano uguale
valore per il lavoratore.
Nel suo stato ordinario di salute, di forza e d'animo, al livello ordinario
della sua arte e della sua destrezza, egli deve sacrificare sempre la stessa
quota del suo riposo, della sua libertà e della sua felicità . . . In ogni tempo e luogo , è caro ciò che è difficile da
raggiungere, ovvero che costa molto lavoro per procurarselo; ed è a buon
mercato ciò che si può avere facilmente o con pochissimo lavoro."(Ricchezza,
p. 35)
La
prospettiva, adesso, è cambiata: non è più quella dello scambista capitalista:
di colui che acquista lavoro oggettivato sul mercato delle merci, o gli operai
sul mercato del lavoro. Il punto di vista - lo dichiara lo stesso Smith - è ora
quello del lavoratore: del lavoratore all'interno del processo di produzione.
Direbbe Marx: del lavoratore come erogatore di lavoro vivo. E' per lui che
uguali quantità di lavoro sono sempre di uguale valore, quale che sia il
salario. La fatica e la pena del lavoro, per lui, non si sono modificate
rispetto alla condizione di isolamento e autosufficienza del lavoratore nello
stato originario.
Per
Smith, il lavoro è, sempre, la fonte di ogni ricchezza: il "primo
prezzo" con cui sono state comprate in origine tutte le ricchezze del
mondo. E' per questo motivo - perché il lavoro è l'unica fonte della ricchezza
materiale , di cui muta solo l'organizzazione - che
"il
lavoro è la sola misura universale del valore, oltre che la sola precisa,
ovvero che è la sola unità di misura per mezzo della quale possiamo paragonare
i valori di diverse merci in
tutti i tempi e in tutti i luoghi" (Ricchezza, p. 38)
Il
ragionamento, insomma, ruota tutto attorno alla tesi che, quale che sia la
"ricompensa reale del lavoro", cioè "la quantità reale di cose
necessarie e comode della vita che esso può procurare al lavoratore" (p.
77) - una ricompensa che è indubbiamente aumentata a causa della divisione del
lavoro - non cambia la "pena del proprio corpo" (p. 32) nel tempo di
lavoro:
"Il prezzo che egli paga deve
essere sempre lo stesso , qualunque
sia la quantità di beni che ne riceve in cambio" (Ricchezza, p. 35)
E'
l'intrinseca invariabilità del lavoro come "sacrificio" nel corso
della storia che spiega come per Smith le condizioni della distribuzione siano
parimenti irrilevanti quando si tratta di individuare la misura appropriata del
valore:
"il
lavoro misura il valore non solo della parte del prezzo che si risolve in
lavoro, ma anche di quella che si risolve in rendita e quella che si risolve in
profitto" (Ricchezza, p. 51)
Al
centro dell'attenzione sono l'uomo come agente attivo della trasformazione
della materia ed il lavoro vivo in quanto lavoro naturale. E' soltanto il
lavoro l' "oggetto" che l'ineguaglianza può, direttamente o
indirettamente, redistribuire tra le classi. Non vi è dunque contraddizione
tra, da un lato, l'affermazione di Smith che vede nel salario, nel profitto e
nella rendita le tre "fonti originarie" del valore di scambio e,
dall'altro lato, la riconduzione della ricchezza al solo lavoro. Ciò che Smith
vuole dire è che il valore di scambio, che sappiamo da lui definito
essenzialmente come un potere d'acquisto, dipende dai redditi: ma quello che i
redditi acquistano dipende a sua volta dal lavoro. Ritroviamo qui la duplicità
- ma non, si badi, l'aporia - di Smith: diviso, ancora una volta, tra il
principio "sociale" dello scambio e il principio
"naturalistico" del lavoro. Non c'è dubbio insomma che, per lui,
dietro il "valore di scambio" c'è sempre e comunque il "prezzo
reale", il lavoro.
3.5.
Ancora sulla divisione del lavoro
L'argomentazione
di Smith ha così compiuto una perfetta rivoluzione su se stessa. La definizione
del valore-lavoro comandato, inconcepibile al di fuori di una prospettiva
centrata sullo scambio, nasconde una più fondamentale teoria del lavoro come
necessario ed unico costo reale della produzione.
Ce
lo conferma un ulteriore sguardo all'analisi smithiana sull'origine della
divisione del lavoro. Partita come una rivendicazione del primato causale dello
scambio sul lavoro diviso, approda infine alla tesi di un primato del lavoro
dell'uomo isolato sullo scambio: lo scambio non può modificare rispetto alla
situazione originaria la natura del lavoro, ma soltanto accrescerne la
produttività. Il lavoro diviso, "sociale", è - insomma - una
specificazione del lavoro individuale. Un risultato tanto più rilevante se si
pensa che in Smith l'indagine sulla divisione del lavoro ha una larga autonomia
dalla problematica del valore, di cui in qualche modo costituisce il
presupposto: sia nel senso che essa è già pienamente formulata in quegli
scritti preparatori della Ricchezza
delle Nazioni in cui la
teoria del valore-lavoro non fa ancora la sua comparsa; sia nel senso che anche
nell'opera maggiore i capitoli dedicati alla divisione del lavoro precedono
quelli sul valore.
Nelle
società primitive dedite alla caccia e alla pesca, i lavoratori benché vivano
in società riproducono la situazione ipotetica del lavoratore isolato:
effettuano tutti lo stesso lavoro e sono adibiti agli stessi compiti.
Smith
spiega in due modi - addirittura nella stessa pagine - l'emergere della
divisione del lavoro nello stadio "rozzo e primitivo". Comincia con l'osservare
che una pur limitata diversità dei "talenti naturali" è sufficiente a
mettere in moto il processo della specializzazione:
"In
una tribù di cacciatori e di pescatori, un individuo fa per esempio archi e
frecce con più rapidità e
destrezza degli altri e li dà
spesso ai suoi compagni in cambio di selvaggina o bestiame. Alla fine si
accorgerà che in questo modo può
avere più bestiame e selvaggina di quanto ne avrebbe se fosse andato a caccia
di persona, sicché in base al semplice interesse egoistico la fabbricazione
di armi e frecce si trasformerà nella sua occupazione principale ed egli
diventerà una specie di armaiolo."(Ricchezza, p. 19)
La
diversità delle abilità individuali, e perciò la presenza di un ventaglio di
produttività, conduce i lavoratori - in quanto soggetti "egoisti" - a
percepire la convenienza della separazione dei compiti e della cooperazione
nella produzione: dividendosi i compiti allo scopo di sfruttare le differenze
nelle rispettive abilità, essi possono produrre più di prima. Ogni lavoratore
vedrà probabilmente migliorata la propria situazione: potrà infatti aumentare
il consumo rispetto alla situazione di partenza, tanto del bene alla cui
produzione si è specializzato, quanto degli altri beni che potrà procurarsi
dagli altri lavoratori scambiando con loro l'eccedenza sul proprio autoconsumo.
In
questo ragionamento la divisione del lavoro ha la precedenza sullo scambio, di
cui costituisce la condizione. Ma Smith rovescia subito la sequenza:
"La
differenza tra i talenti naturali degli uomini è in effetti molto minore di
quel che si pensa; e in molti casi, le diversissime inclinazioni che sembrano
distinguere in età matura uomini di diverse professioni sono piuttosto effetto che causa della divisione del lavoro. La
differenza tra due personaggi tanto diversi come un filosofo e un volgare
facchino di strada, per esempio, sembra
derivi non tanto dalla natura quanto dall'abitudine, dal costume e
dall'istruzione"(Ricchezza, p. 19)
Qui
la divisione del lavoro è piuttosto vista come un risultato dell'inclinazione
allo scambio. E' perché gli uomini comunicano, è perché "scambiano"
col linguaggio, che sono poi indotti a scambiarsi i prodotti del proprio
lavoro, e dunque ad affinare diverse abilità, che rompono l'eguaglianza
originaria e creano i presupposti della disuguaglianza storica.
Smith
sembra dare la preferenza alla seconda spiegazione, integrandovi la prima.
Coerentemente con la propria filosofia morale, ribadisce la precedenza della
dimensione sociale su quella tecnica nell'attivazione del processo di crescita
materiale della ricchezza. Va rilevato, peraltro, che il progresso della
divisione del lavoro - pur così essenziale nel discorso smithiano - non
modifica in nulla la descrizione che egli dà dei caratteri della divisione del
lavoro né sembra avere conseguenze sulla sua visione del lavoro. Vi è un
preciso parallelismo tra ciò che Smith scrive dell'una e dell'altro nello
"stadio rozzo e primitivo" e nella società "progredita". In
un passo già citato, per esempio, Smith ripete per la fabbrica la descrizione
della divisione del lavoro in un società di caccia e pesca. In un paese
"civile e fiorente, come conseguenza della divisione del lavoro nelle
manifatture:
"Ogni
operaio può disporre di una grande quantità del suo lavoro che supera le sue
necessità, e dal momento che tutti gli altri operai si trovano esattamente
nella stessa situazione, è in
grado di scambiare una grande quantità dei suoi beni con una grande quantità
dei beni degli altri, oppure, che è lo stesso, con il prezzo di questa
quantità." (Ricchezza, p. 15)
Ad
essere cambiata è dunque solo la scala del processo, che ora è molto più
estesa. Una volta che il capitale si è accumulato, la divisione del lavoro può
essere spinta ai suoi estremi: sia perché è possibile anticipare un salario ai
molti operai parziali, adibendoli a mestieri sempre più frammentati; sia perché
è possibile aumentare le dimensioni delle unità produttive in conseguenza della
frantumazione sempre più spinta del ciclo lavorativo. Ma il ciclo lavorativo
stesso continua ad essere il medesimo del lavoratore isolato, solo ripartito tra
più braccia:
"ciò
che è opera di un sol uomo in uno stadio primitivo della società diviene infatti opera di parecchiin una società
progredita."(Ricchezza, p. 11)
Insomma:
il lavoro 'sociale' della manifattura è lo stesso lavoro dell'individuo isolato:
semplicemente, ognuna delle operazioni dello stadio primitivo è divenuta
l'attività unica dell'operaio moderno, sicché essa è svolta con più destrezza,
in minor tempo, e facilitata dalle macchine.
L'identità
di natura posta da Smith tra la divisione del lavoro nelle società primitive e
la divisione del lavoro manifatturiera è rilevante anche per un'altra ragione.
Essa consente di equiparare la relazione tra operai nella fabbrica moderna alla
relazione di scambio tra produttori indipendenti. Vi è qui un collasso tra
divisione tecnica e divisione sociale del lavoro, che - già nel primo capitolo
del primo libro della Ricchezza
delle Nazioni - apre la
strada al sorprendente isomorfismo tra la famosa descrizione della fabbrica di
spilli (p. 9-10), con la sua necessaria sequenza di fasi lavorative
concatenate, e quella integrazione tra industrie che deve essere assicurata dal
mercato affinché venga prodotto anche il più umile dei beni di consumo (p.
15-16).
Una
confusione che sembra rendere cieco Smith di fronte alla contraddizione tra, da
un lato, l' organizzazione pianificata del lavoro dentro le unità produttive e,
dall'altro lato, la separazione e il conflitto concorrenziale tra queste ultime
sul mercato. Per lui, separazione e cooperazione governano ugualmente imprese e
scambio. La società moderna finisce con l'essere così ridotta, squarciato il
velo del mercato, ad una unica grande fabbrica. Un quadro che, come vedremo,
non poteva non inquietare lo stesso Smith
4. Il mercato e i "poveri che lavorano". La giustificazione
storica del capitale.
"Può
forse essere il caso di notare che è nello stato di prosperità, quando la
società sta procedendo verso nuove acquisizioni, piuttosto che quando essa ha
acquisito tutta la sua ricchezza, che la condizione del povero che lavora, cioè
della grande massa del popolo, sembra essere più felice e confortevole. Essa è
dura nello stato stazionario, e miserevole in quello di decadenza. Lo stato di
progresso è in realtà lo stato felice e sano di tutti i diversi ordini della
società."
Adam
Smith, Ricchezza , p. 81
4.1.
Mano invisibile ed equità sociale
Tiriamo
le fila del discorso. Gli imprenditori sono mossi dal movente egoistico del
profitto: vogliono divenire ricchi, non accrescere le capacità produttive del
lavoro, né soddisfare meglio i bisogni degli operai. Ciononostante, è proprio
l'impulso a migliorare la propria condizione, accoppiato all'operare
impersonale del mercato, che garantisce che sia questo il risultato delle
loro azioni, al di là delle loro intenzioni. Il "chiaro ed evidente
interesse di ogni individuo" è infatti "un principio
potentissimo" che fa sì che nessuna parte della quota di reddito
risparmiata possa "mai essere impiegata se non per mantenere lavoratori
produttivi", pena "una evidente perdita per colui che la distogliesse
in tal modo dalla sua giusta destinazione"(Ricchezza, p. 333). La
"parsimonia", dunque, tende ad aumentare il numero dei lavoratori. Ed
anche il loro consumo, perché "ciò che ogni anno si risparmia viene
regolarmente consumato", non direttamente ma indirettamente, "dai
lavoratori, dai manifatturieri e dagli artigiani, i quali riproducono con un
profitto il valore del loro consumo annuo"(ivi).
Il
ragionamento è chiaro. Il profitto fa della produzione un mezzo per l'ulteriore
accumulazione del capitale; lo stesso consumo dei lavoratori è un consumo
"produttivo" finalizzato coscientemente all'accrescimento senza
limiti del valore, al perseguimento di uno smodato desiderio di arricchimento.
Ma, a sua volta, l'accumulazione è il mezzo per ottenere il benessere della
grande massa della popolazione. La massimizzazione dell'accumulazione è la via
più sicura per rendere massimo il consumo dei "poveri che lavorano".
Il capitalismo realizza così, senza saperlo, una vera e propria missione
civilizzatrice: grazie alla divisione del lavoro, porta al pieno sviluppo le
caratteristiche razionali e comunicative della cultura umana, e rende massima
la crescita della ricchezza; attraverso l' "inganno" di un
risparmio finalizzato all'acquisizione futura di una ricchezza che non verrà
però mai consumata da chi lo effettua, trasforma dei poveri "oziosi"
in lavoratori "operosi"; garantendo la disuguaglianza con la
"giustizia", cioè tutelando giuridicamente la proprietà dei pochi, li
spinge ad una accumulazione accelerata che ha l'effetto di redistribuire nel
modo più favorevole ai molti quanto si è prodotto. E' da questo punto di vista
che si comprende bene il giudizio negativo che Smith dà della condizione di
stato stazionario, che consegue alla caduta del saggio del profitto.
L'argomentazione
smithiana su quella che abbiamo definito la giustificazione storica del
capitale la si ritrova, con poche variazioni, tanto nella Teoria dei sentimenti morali
come nella Ricchezza delle
nazioni. Bastino due passi:
"I
ricchi pescano nel mucchio solo ciò che è più prezioso e più piacevole. Consumano poco più dei poveri,
e nonostante il loro egoismo e la loro rapacità naturali, benché pensino solo al loro
interesse e il solo scopo che si prefiggono dalle fatiche delle
migliaia di persone cui danno lavoro sia la gratificazione dei propri desideri
vani ed insaziabili, essi dividono con i poveri il prodotto di tutti i loro
progressi. Sono portati da una
mano invisibile a operare quasi la stessa distribuzione delle necessità della
vita che avrebbe avuto luogo se la terra fosse stata divisa in parti uguali fra tutti i suoi abitanti; e così,
senza volerlo e senza saperlo, fanno l'interesse della società e forniscono i
mezzi per moltiplicare la specie." (Teoria dei sentimenti morali,
cit. in Michael Ignatieff,I bisogni degli altri, Il Mulino, Bologna
1986, p. 198)
"La ricompensa reale del lavoro, la
quantità reale di cose necessarie e comode della vita che esso può procurare al
lavoratore, è forse aumentata
durante questo secolo in misura maggiore del suo prezzo in moneta . . . Questo progresso nelle
condizioni dei ceti più bassi del popolo deve essere considerato un vantaggio o
un inconveniente per la società? La risposta sembra a prima vista estremamente
agevole. Servi, lavoratori e operai di diverso genere rappresentano la parte di
gran lunga maggiore di ogni grande società politica. Ma tutto ciò che fa
progredire le condizioni della maggioranza non può mai essere considerato un
inconveniente per l'insieme. Nessuna
società può essere florida e felice se la grande maggioranza dei suoi membri è
povera e miserabile. Oltretutto, è semplice questione di equità il fatto
che coloro che nutrono, vestono e alloggiano la gran massa del popolo debbano
avere una quota del prodotto del loro stesso lavoro tale da essere loro stessi
passabilmente ben nutriti, vestiti e alloggiati (Ricchezza, pp. 77-78)
Sinteticamente
- e provocatoriamente, rispetto alla vulgata di uno Smith apologeta di un
capitalismo liberista disposto ad immolare gli uomini di oggi sull'altare di un
benessere futuro; quando invece, se la lettura che qui è suggerita è corretta,
sarebbe vero esattamente l'opposto - potremmo dire: il profitto come mezzo del
salario. Smith, insomma, come il teorico dell'accumulazione: ma soltanto perché
una accumulazione sempre più veloce si traduce, appunto, in una economia di
alti salari e di massima occupazione. O ancora, Smith come teorico della libera
concorrenza: ma soltanto perché la rivalità e la competizione tra
"mercanti", impedendo il monopolio, rendono minimi i profitti (date
le rendite e gli interessi), e danno luogo a prezzi delle merci i più bassi
possibili (alzando dunque, coeteris paribus, la retribuzione reale del lavoro).
Vediamo
il ragionamento sul salario. I comportamenti coscienti della classe
capitalistica e del governo mirano, ineluttabilmente, a colpire la condizione
operaia: "I padroni sono sempre e ovunque in una specie di tacita ma non
per questo meno costante e uniforme coalizione volta a impedire il rialzo dei
salari al di sopra del loro livello attuale"(Ricchezza, p. 67);
d'altro canto, "Tutte le volte che il legislatore cerca di regolare le
controversie fra i padroni e i loro operai, i suoi consiglieri sono sempre i
padroni"(Ricchezza, p. 141). In questa situazione, è l'
"anarchia" del mercato l'unica carta che può - paradossalmente -
giocare a favore dei lavoratori. Tanto più è rapido e variabile il ritmo
dell'accumulazione del capitale, tanto più è elevato il saggio di crescita
della domanda di lavoro; e tanto meno efficaci le coalizioni degli
imprenditori, costretti a farsi concorrenza l'uno con l'altro (Ricchezza,
p. 85-6). Di conseguenza, nel breve periodo il salario fissato dal mercato del
lavoro tende a eccedere il livello naturale, "il più basso compatibile con
la natura umana". Ma, se l'accumulazione procede e lo scarto tra salario
di mercato e salario naturale permane abbastanza a lungo, è convinzione di
Smith che la sussistenza stessa finirà con l'essere trascinata verso l'alto. Il
meccanismo che regola la "produzione di uomini" al variare del
salario reale rispetto alla sua norma, pur continuando ad operare, non è talmente
forte da annullare gli effetti positivi dell'accumulazione.
Peraltro,
gli alti salari non sono soltanto l'effetto ma anche, almeno in parte, la causa
del "progresso" economico. Vi è, per Smith, un vero e proprio circolo
virtuoso tra crescita del salario e aumento della produttività: il
maggior costo del lavoro è messo in moto dallo stesso meccanismo che spinge gli
imprenditori ad un approfondimento della divisione del lavoro; e l'impulso alla
divisione del lavoro ha - come sappiamo - dei benefici effetti di ritorno sulla
prosperità di tutta la società:
"Tuttavia la stessa causa che eleva i salari,
cioè l'aumento dei fondi, tende a fare aumentare le capacità produttive del
lavoro e a far sì che una
minor quantità di lavoro produca una maggiore quantità di prodotti. Il
proprietario dei fondi che impiegano un gran numero di lavoratori deve
sforzarsi, nel suo stesso
interesse , di organizzare
una divisione e una distribuzione del lavoro tale da metterlo in grado di
produrre quanto più è possibile. Per la stessa ragione egli si sforza di
fornire ai lavoratori le macchine migliori che sia lui stesso sia loro possono
escogitare. Ciò che avviene tra i lavoratori di una particolare casa di lavoro,
avviene per la stessa ragione nell'insieme della società." (Ricchezza,
p. 86)
Con
terminologia moderna, potremmo dire che l'aumento della produttività rende
"compatibile" un corrispondente aumento del salario. Nella stessa
logica, non c'è che un passo per intravedere, in un aumento del salario, il
mezzo attraverso cui l'accumulazione riproduce se stessa, governando il tasso
di innovazioni nelle imprese. "L'aumento dei fondi, mentre innalza i
salari, abbassa i profitti" (Ricchezza, p. 87), scrive Smith.
Quando la concorrenza è massima, i profitti ordinari saranno ridotti al minimo
possibile (Ricchezza, p. 94). Mentre, infatti, "il prezzo di
monopolio è in ogni occasione il più alto che si possa ottenere, al contrario, il prezzo naturale è il più basso che possa essere accettato, se non
proprio in ogni occasione, almeno per un periodo considerevole." (Ricchezza , p. 62).
4.2.
I costi della divisione del lavoro
Smith
vede dunque nell'accumulazione capitalistica un mezzo per rendere più felici i
lavoratori in quanto consumatori. Non gli sfugge, però, che le cose stanno ben
diversamente se si guarda a ciò che ne è dei lavoratori in quanto produttori.
Riemerge qui, in altra forma, la duplicità di Smith, teorico dello scambio e
teorico del lavoro.
I brani
che Smith dedica agli effetti negativi della divisione del lavoro sono
giustamente famosi, ma meritano una rilettura:
"Con
lo sviluppo della divisione del lavoro, l'occupazione della stragrande
maggioranza di coloro che vivono di lavoro, cioè della gran massa del popolo,
risulta limitata a poche semplicissime operazioni, spesso una o due. Ma ciò che forma l'intelligenza della
maggioranza degli uomini è necessariamente la loro occupazione ordinaria.Un
uomo che spenda tutta la sua vita compiendo poche semplici operazioni, i
cui effetti oltretutto sono forse sempre gli stessi, o quasi, non ha nessuna occasione di
applicare la sua intelligenza o
di esercitare la sua inventiva a scoprire nuovi espedienti per superare
difficoltà che non incontra mai . . . La
sua destrezza nel suo mestiere specifico sembra in questo modo acquisita a
spese delle sue qualità intellettuali, sociali e militari. Ma in ogni società progredita e
incivilita, questa è la condizione in cui i poveri che lavorano, cioè la gran
massa della popolazione, devono necessariamente cadere a meno che il governo non si prenda
cura di impedirlo"(Ricchezza, pp. 769-770)
Il
"povero che lavora", la cui condizione era qualificata come la più
felice e confortevole quando si analizzavano gli effetti dell'accumulazione
sull'occupazione e sul consumo, è ora un soggetto senza virtù civiche o
marziali, istupidito ed impoverito nelle sue capacità da quella stessa
divisione del lavoro che rende florida la società. Riemergono qui accenti
rousseauiani: nelle
"società
barbare . . . le svariate occupazioni di ogni uomo lo costringono a esercitare
le sue capacità e a inventare espedienti per superare le difficoltà che
incontra continuamente. L'inventiva è mantenuta viva e la mente non è lasciata
cadere in quella sonnolenta
stupidità che in una società civile, sembra ottenebrare l'intelligenza di quasi
tutti i ceti inferiori del popolo. In queste cosiddette società barbare . .
. ogni uomo è un guerriero ed è in una certa misura anche un uomo di stato, e
può formarsi un discreto giudizio sull'interesse della società e sulla condotta
di coloro che lo governano."(Ricchezza, p. 770)
Certamente,
queste note pessimistiche non sono sufficienti a rovesciare il giudizio che
Smith aveva formulato sulla divisione del lavoro. Nelle società moderne, è
vero, la ricchezza è ottenuta a spese della virtù. Ma, se è vero che nelle
società primitive vi è
"molta
varietà nelle occupazioni di ogni individuo, non c'è molta varietà in quelle
della società nel suo complesso . . . Al contrario, in uno stadio avanzato
della civiltà, sebbene ci sia
poca varietà nelle occupazioni della maggior parte degli individui, c'è
una varietà quasi infinita in quelle del complesso della società." (Ricchezza,
p. 771)
Il
ragionamento è chiaro. La divisione del lavoro comporta un costo elevato per
gli individui appartenenti alle classi più povere, cioè per la gran massa della
popolazione. Più precisamente, si tratta di una vera e propria caduta
nell'eteronomia, nei processi di lavoro e nella società politica. Un destino
senza ritorno, si potrebbe dire, perché la fabbrica manifatturiera costruisce
un nuovo tipo d'uomo, integrato agli altri nel consumo ma ignorante ed incapace
di giudizio. Ma ciò che perde l'individuo lo guadagna, con l'interesse, la
società. Aumentando le attività, aumentano le abilità, e dunque le capacità del
corpo sociale collettivo. Può goderne quella frazione ristretta della
popolazione che ha mantenuto un qualche tenue legame con la condizione
originaria, in cui "ognuno fa, o è capace di fare, quasi tutto ciò che
chiunque altro fa, o è capace di fare". Si tratta dei
"filosofi", la cui collocazione particolare nella divisione del
lavoro era stata sottolineata già nel primo capitolo del libro: la loro specificità
consiste non "nel fare qualche cosa, ma nell'osservare
ogni cosa" (p.14). E' a loro che deve riferirsi l'osservazione di
Smith secondo cui la moltiplicazione delle mansioni e la frantumazione del
lavoro "presentano una varietà quasi infinita di oggetti alla contemplazione
di quei pochi che, non essendo essi stessi impegnati in nessuna occupazione
particolare, hanno tempo libero e predisposizione per esaminare le occupazioni
degli altri." (Ricchezza ,
p. 771) Aumenta dunque l'intelligenza della società: e con essa il numero di
invenzioni e innovazioni, dal momento che è dall'osservare ogni cosa che può
svilupparsi la facoltà "di combinare e unificare le possibilità insite
negli oggetti più dissimili e lontani fra loro" (Ricchezza , p. 15).
La
stupidità - se non addirittura l'infelicità - dell'individuo è il prezzo da
pagare per allentare il vincolo della scarsità, e per consentire ai pochi un'
"intelligenza progredita e raffinata" (p. 771). Il discorso di Smith
assume qui un accento spietatamente realistico: amaro, certamente, ma che di
nuovo non mi sentirei di definire apologetico. Non tanto per la cura, in
verità un po' superficiale, che l'autore scozzese propone: un intervento
statale che imponga una istruzione di base alle classi più povere sarebbe poco
più di un lenitivo, per un processo dalle tinte così fosche. E nemmeno per
il pessimismo che conduce Smith a concludere che, in ogni caso, "tutti i
tratti più nobili del carattere umano possono essere in gran parte cancellati
ed estinti nella gran massa del popolo" (Ricchezza, p. 771): un
pessimismo troppo frammisto alla rivendicazione con cui viene, a ragione o a
torto, lamentata l'esclusione della propria corporazione, dei
"filosofi", dalle leve del comando ("a meno che a questi pochi
non capiti di essere collocati in situazioni molto particolari, le loro grandi
capacità, per quanto onorevoli per loro, possono contribuire ben poco al buon
governo o alla felicità della società." (Ricchezza , p. 771).
Quello
che più conta è che nella Ricchezza
delle Nazioni l'abbrutimento della classe lavoratrice appare non come
un destino di natura ma come un risultato storico: di una storia, per di
più, che sarebbe potuta svolgersi in tutt'altro modo. Il capitalismo
della "rivoluzione industriale" non è insomma per Smith il
capitalismo "naturale", quel capitalismo che si sarebbe potuto
realizzare con altre leggi ed altre istituzioni. E' certamente, sotto gli
ordinamenti storici dell'Europa a lui contemporanea, il migliore dei mondi
possibili: non però il mondo in cui vorrebbe vivere, né quello che, con altri
presupposti e con una piena libertà commerciale, avrebbe potuto aver luogo.
E'
con alcune citazioni da uno Smith così inconsueto e poco frequentato, almeno
dagli economisti - uno Smith il cui peccato non è l'apologia ma semmai
l'utopismo - che chiuderò la parte di questo saggio dedicata all'autore
scozzese.
4.3.
Innaturalità del capitale
E'
nella natura delle cose che la sussistenza preceda la "comodità e il
lusso", e dunque "l'attività che procura la prima deve necessariamente
aver preceduto quella che fornisce i secondi"(Ricchezza, p. 374).
La sequenza naturale dello sviluppo economico e del progresso della divisione
del lavoro dovrebbe dunque andare, per Smith, dal "miglioramento e dalla
coltivazione della terra" - che determina la creazione di un sovrappiù in
agricoltura il quale a sua volta garantisce alla città cibo e materie prime -
al conseguente aumento della domanda di manufatti, che stimola la produzione
nelle città, alla ricerca di sbocchi all' estero:
"Quindi, secondo il corso naturale delle
cose, la maggior parte del capitale di ogni società che comincia a formarsi
è diretta prima all'agricoltura, poi alle manifatture, e infine al commercio
estero . . . Ma per quanto
quest'ordine naturale delle cose debba aver avuto luogo in qualche misura in
ogni società, in tutti i moderni stati europei esso è stato sotto molti aspetti
completamente rovesciato. Il commercio estero di alcune delle loro città vi
ha introdotto manifatture più raffinate, cioè quelle adatte per la vendita in
luoghi remoti e le manifatture e il commercio estero insieme hanno dato
occasione ai principali miglioramenti dell'agricoltura" (Ricchezza,
p. 377)
"Quest'ordine
di cose innaturale e retrogrado": così Smith
definisce la sequenza storicamente data, quella per cui le manifatture invece
di essere figlie dell'agricoltura sono figlie del commercio estero.
Non
è questo il luogo per affrontare alcune questioni, peraltro di notevole
interesse, suggerite dal modo con cui Smith sviluppa la sua argomentazione.
Quale, per esempio, il senso da darsi alla sua "storia congetturale",
che fa delle città il luogo primo di quella emancipazione dal dominio dei
grandi proprietari fondiari che poi si estende alla campagna, in forza del
graduale ed impersonale diffondersi dello scambio. O quale, ancora, il
riconoscimento dell'esistenza di vie alternative all'industrializzazione:
quella che è stata definita "semi-naturale", che pur attivata dal
commercio internazionale vede uno sviluppo dell'agricoltura precedente lo
sviluppo delle manifatture secondo la sequenza commercio
estero-agricoltura-manifatture, ed è dunque incentrata su un equilibrio tra
settori che salvaguarda il lavoro indipendente tanto nelle campagne quanto
nelle città; e quella "storica", sbilanciata a favore delle fabbriche
e delle concentrazioni operaie secondo la sequenza commercio
estero-manifattura-agricoltura, che finirà con il prevalere. Un contrasto che
si riflette in quello tra crescita "proporzionale", quando le città
si sviluppano secondo le capacità di estrazione di sovrappiù della campagna che
le circonda, e crescita "non proporzionale", quando le manifatture si
liberano dal vincolo costituito dalla domanda interna per inseguire quella
estera.
Vorrei
piuttosto limitarmi a ricordare gli eroi di questo capitalismo naturale di
Smith: l'agricoltore proprietario e l'artigiano indipendente. E' indubbio da
che parte stiano le simpatie di Smith; come è indubbio che l'inedito
capitalismo, agrario e di libera concorrenza, che ha in mente manterrebbe,
a suo parere, i tratti positivi dell'efficienza produttiva e dell'allocazione
ottima delle risorse, senza i tratti negativi della divisione del lavoro e di
una eccessiva mobilità del capitale.
Dai
grandi proprietari terrieri non ci si può aspettare grandi miglioramenti,
dediti come sono al consumo di lusso; ma meno ancora da chi lavora alle loro
dipendenze ("una persona che non può acquisire proprietà, non può avere
altro interesse oltre quello di mangiare il più possibile e lavorare il meno
possibile": Ricchezza,
p. 382):
"Un piccolo proprietario, però, che
conosce ogni palmo del suo piccolo terreno, che lo guarda tutto con l'affetto
che la proprietà, e specialmente quella piccola, naturalmente ispira, e che per
tale motivo trae piacere non solo a coltivarlo, ma anche ad adornarlo, è in
generale il più industrioso,
il più intelligente e il più fortunato fra tutti coloro che attendono ad
apportare miglioramenti alla terra"(Ricchezza, p. 410)
La
premessa del giudizio di Smith è che si dia una maggiore produttività del
lavoro agricolo, in quanto quest'ultimo è favorito dalla collaborazione della
natura. Di norma, dunque, la redditività dell'agricoltura è superiore a quella
delle manifatture, e lo sviluppo delle campagne dà il via a quello delle città.
Se non vi fossero retaggi storici o vincoli istituzionali a deviare il corso
delle cose, lo stesso meccanismo concorrenziale dovrebbe imporre uno sviluppo
trainato dal capitale agrario. La peculiare collocazione geografica
dell'Inghilterra, che ne favorisce i rapporti con l'estero, giustifica che la
crescita sia stata qui attivata dalle esportazioni, ma non che l'inversione
della sequenza naturale sia così completa: il commercio internazionale avrebbe
potuto comunque privilegiare la campagna prima della città, mentre invece è
avvenuto proprio l'opposto.
Un
elemento che certamente concorre nella valutazione positiva che Smith dà di una
crescita caratterizzata da un primato dell'agricoltura sulla manifattura, di
questa possibilità non percorsa dallo sviluppo economico, è che il capitale del
proprietario terriero "è fissato nei miglioramenti della sua
terra"(Ricchezza, p. 375) e, di conseguenza, è "il più
sicuro, per quanto lo consente la natura delle vicende umane". Al
contrario, il "mercante non
è necessariamente cittadino di un particolare paese", e "il
capitale che viene acquisito da un paese con il commercio e le manifatture
costituisce un possesso molto
precario e incerto." (Ricchezza, p. 413) Ed ancora: mentre i
mercanti e i manifatturieri sono mossi da "bassa rapacità" e da uno
"spirito di monopolio", e dunque "il loro interesse è sempre
direttamente opposto a quello della gran massa della popolazione" (Ricchezza,
p. 483), "i gentiluomini di campagna e gli agricoltori sono, a loro grande
onore, tra tutta la popolazione i meno soggetti al meschino spirito del
monopolio".
Né
va trascurato che per Smith il lavoro dell'agricoltura è per sua natura meno
soggetto alla suddivisione del lavoro (Ricchezza, p.11): se questa
circostanza di per sé rallenta l'aumento della produttività nelle campagne, è
certo però che il lavoratore agricolo è appunto per ciò più tutelato dalle
conseguenze nefaste della specializzazione:
"Al
comune aratore, generalmente considerato un campione di stupidità e di
ignoranza, è raro manchino questo giudizio e quest' avvedutezza. Certamente
egli è meno pratico di relazioni sociali di quanto lo sia il meccanico che vive
in città, la sua voce e il suo linguaggio sono più incolti e più difficili da
capire per coloro che non vi sono abituati, ma il suo intelletto, essendo abituato
a considerare una grande varietà di cose, è in genere molto superiore a quello
di coloro la cui attenzione è interamente occupata, da mattina a sera, nel fare
una o due operazioni semplicissime"(Ricchezza, p. 127)
Lo
sviluppo della città a rimorchio della campagna ha un ultimo vantaggio. Si
tratta di un processo caratterizzato non dalla presenza di grandi opifici e
dall'impiego di lavoro salariato ma dalla predominanza nei centri urbani del
lavoro artigiano indipendente. Una situazione in cui virtù e ricchezza
sembrano, finalmente, poter andare di concerto:
"Nulla
può essere più assurdo, comunque, dell'immaginare che gli uomini in generale
lavorino meno quando lavorino per se stessi che quando lavorino per altri. Un
bravo operaio indipendente sarà in genere più
attivo anche di un giornaliero che lavori a cottimo. L'uno gode dell'intero prodotto
della sua attività, mentre l'altro lo spartisce col suo padrone. L'uno, nella sua situazione di isolamento
e di indipendenza, è meno soggetto alle tentazioni delle cattive compagnie
che nelle grandi manifatture rovinano tanto spesso i costumi dell'altro. La
superiorità dell'operaio indipendente sui servi pagati a mese o ad anno, i
salari e il mantenimento dei quali restano identici sia che facciano poco o
molto, è probabilmente ancora maggiore." (Ricchezza, p. 83-4)
Ritroviamo
uno Smith diviso. La storia realizzata, il capitalismo realmente esistente,
hanno al loro attivo non solo la crescita materiale, ma anche la creazione di
un ordine politico fondato sull'ordine e il buon governo. E' grazie allo
sviluppo "distorto" delle città e delle manifatture che si è passati
dalla dipendenza servile e dalla soggezione personale alla dipendenza dal
mercato ed alla libertà individuale. Il giudizio che Smith dà è
inequivocabilmente positivo, anche se vede i costi del processo; ed anche se
non si stanca di sottolineare la possibilità di accelerare l'accumulazione
rimuovendo "i cento inconsulti ostacoli con cui la follia delle leggi
umane" (Ricchezza, p. 532) intralcia la spontaneità delle leggi di
mercato. Gli ordinamenti politici possono ormai solo rallentare ma non
arrestare il cammino verso la ricchezza e il progresso: quel cammino che
è retto dai "principi potentissimi" dell'egoismo e dell'inclinazione
allo scambio; e che è certo nella sua direzione anche se non nella sua
velocità, una volta garantite libertà personale e sicurezza della
proprietà.
Ma
Smith non nasconde l'esistenza di un'altra storia, di una storia possibile. Una
storia che, come rivela l'ultima citazione, percorrendo, parzialmente o
integralmente, la sequenza naturale dello sviluppo avrebbe consentito di far
permanere nella "società commerciale" non solo, per così dire, il
lato negativo ma anche quello positivo del "lavoro dell'uomo
isolato". Non solo la pena e il sacrificio del lavoro, ma anche
l'autonomia e l'indipendenza personale: massima nel caso dell'agricoltore
piccolo proprietario, comunque superiore a quella dei "poveri che
lavorano" nel caso dell'artigiano indipendente.
Una
storia non percorsa dall'Europa, ma che potrebbe essere il presente ed il
futuro di quello che è il vero modello di Smith: le nuove colonie, l'America:
"Nelle
nostre colonie americane, dove la terra incolta si può ancora avere a buone
condizioni, non si è stabilita in nessuna città nessuna manifattura per la
vendita in luoghi lontani. Quando nell'America del Nord un artigiano ha
acquisito un po' più dei fondi sufficienti a condurre la sua attività
rifornendo la campagna vicina, egli con quei fondi non tenta di fondare una
manifattura per la vendita in luoghi più remoti ma li impiega invece
nell'acquisto e nel miglioramento della terra incolta. Da artigiano diventa
piantatore, e né gli alti salari, né la facile sussistenza che quel paese
concede agli artigiani possono indurlo a lavorare per altri invece che per se
stesso. Egli sente che un artigiano
è il servo del suo cliente ,
dal quale trae la propria sussistenza, e che un
piantatore che coltiva la propria terra e trae la sua necessaria sussistenza dal
lavoro della propria famiglia è in effetti un padrone ed è indipendente da
tutto il mondo ." (Ricchezza,
p. 376)
5.
Cambiare la natura umana. John Stuart Mill e John Maynard Keynes oltre la
passione per il denaro.
"nel
contemplare ogni movimento di progresso, non illimitato nella sua natura, la
mente non è soddisfatta soltanto dal fatto di tracciare le leggi del suo
movimento; non può infatti fare a meno di porsi l'altra domanda: a quale fine?
Verso quale punto tende in definitiva la società con il suo progresso
produttivo? Quando il progresso giunge al termine, in quali condizioni ci si
deve attendere che lasci il genere umano?"
John
Stuart Mill, Principi di
economia politica , Utet,
Torino 1983, p. 997
5.1.
Smith smembrato: ricardiani e neoclassici.
La
conciliazione che Smith opera tra le due visioni dell'accumulazione che
attraversano la sua opera - quella di un processo autoreferenziale per cui la
produzione è fine a se stessa, e quella di una produzione che ha per risultato
il consumo sempre più ricco di un numero crescente di lavoratori - è una
conciliazione possibile solo sulla base della sua filosofia etica e della sua
filosofia della storia. Il suo schema teorico si regge infatti tutto
sull'ipotesi che l'egoismo che spinge i capitalisti alla massimizzazione del
profitto sia un benefico "inganno" che la Natura ha ordito per
realizzare il suo ordine: quell'inganno che, mettendo in moto il meccanismo
della divisione del lavoro, e dispiegando al massimo grado il principio sociale
dello scambio, fa della produzione per la produzione il mezzo della
massimizzazione del benessere. E' la medesima ipotesi che fa sì che non appaia
immediatamente contraddittorio il fatto che il fine storico, il consumo dei
"poveri che lavorano", sia nel processo accumulativo nient'altro che
un mezzo del suo mezzo. Un consumo "produttivo", necessario al fine
dell'accrescimento del valore.
Il
pensiero economico successivo, abbandonando i presupposti filosofici di Smith,
si scinderà in due tronconi. Da un lato, abbiamo il filone classico-ricardiano
che, radicalizzando la riduzione del lavoratore a mezzo di produzione, vedrà
nel processo capitalistico un processo circolare, di "produzione di merci
a mezzo di merci". Dall'altro lato, il filone neoclassico, che ricomporrà
le due massimizzazioni smithiane - quella "individualistica" del
profitto, e quella "sistemica" del consumo dei "poveri" -
sotto il cappello di una universale massimizzazione dell'utilità di un generico
agente economico; ma quest'ultima a sua volta, in quanto massimizzazione del
consumo mediante l'impiego efficiente di risorse scarse disponibili per usi
alternativi, verrà intesa come nient'altro che l'espressione particolare di un
più generale ed astorico aspetto della condotta umana, in quanto condotta razionale,
cioè della massimizzazione di una funzione obiettivo sotto vincolo.
In
entrambi i casi, perde di senso l'argomentazione smithiana sulla
giustificazione storica del capitale. Nel caso di Ricardo, per l'insensatezza
stessa di una interrogazione sulla qualità di un processo che ha la sua essenza
nella riduzione di tutto a quantità. Nel caso dei neoclassici, per la
naturalizzazione e universalizzazione della razionalità calcolante tipica del
capitalismo. L'economia politica - ridotta ad economica, e dunque a teoria
della scelta - può ormai descrivere qualsiasi contesto istituzionale e
qualsiasi forma di agire, sicché finisce con il dissolversi l'oggetto stesso
del giudizio storico di Smith, la "società commerciale".
Sarebbe
però interessante invertire la prospettiva, e chiedersi quale giudizio dare di
questi sviluppi teorici prendendo come punto di partenza il discorso smithiano
sulla missione civilizzatrice del capitale. Ci si potrebbe chiedere, per
esempio, quale conclusione trarre quando con Ricardo si dimostra che
l'accumulazione può procedere indisturbata pur in presenza di una riduzione
tanto dei consumi che dell'occupazione dei lavoratori: se, insomma, una
autonomizzazione dell'accumulazione dai "poveri che lavorano" non
segnali un esaurirsi della funzione storica svolta dal modo di produzione
capitalistico. Ci si potrebbe chiedere, ancora, che contributo alla conoscenza
dia una teoria come quella neoclassica incapace di distinguere, come invece
Smith era in grado di fare, tra realtà moderna e realtà premoderne, attribuendo
solo alla prima l'attributo di "società" in senso proprio.
Ci
si potrebbe chiedere, insomma, se l'impostazione ricardiana e quella
neoclassica non escano dalla filosofia della storia smithiana solo perché - in
modi certamente opposti - fanno del capitale un pezzo di natura. Solo perché,
dunque, si reggono implicitamente su filosofie della storia altrettanto
arbitrarie di quella: che semplicemente negano che possano esistere storie
diverse; e, per questo, che mirano entrambe a fare dell' economia una scienza
"esatta" come la geometria o la fisica.
5.2.
Lo stato stazionario: John Stuart Mill.
L'argomentazione
smithiana sulla giustificazione storica del capitale non scompare però
totalmente dal discorso economico. Essa riappare ovviamente, nella forma che
vedremo, nell'opera di Marx. Ma fa anche la sua comparsa in altri due momenti
di svolta cruciali della storia d'Europa: l'esplosione rivoluzionaria del 1848,
e la crisi successiva alla "grande guerra".
Nel
libro quarto dei Principi di
economia politica di John Stuart Mill, dedicato all' "Influenza
del progresso su produzione e distribuzione", si incontrano due capitoli
successivi, strettamente intrecciati e da leggere insieme: il capitolo VI,
molto citato, dedicato allo stato stazionario; ed il capitolo VII, meno
frequentato, che discute "del probabile avvenire delle classi
lavoratrici". La ripresa di temi smithiani è puntuale, ma la prospettiva è
ora cambiata. Mill riconosce al capitale il ruolo di momento necessario del
progresso: ritiene però che alla fase attuale, caratterizzata dall'egoismo e
dal primato della produzione, possa seguirne un'altra che sostituisca a questo
"falso ideale" del genere umano fini più desiderabili:
"Confesso
che non mi piace l'ideale di vita di coloro che pensano che la condizione
normale degli uomini sia quella di una lotta per andare avanti; che l'urtarsi e lo spingersi gli uni
con gli altri, che rappresenta il modello
esistente della vita sociale,
sia la sorte maggiormente desiderabile per il genere umano, e non piuttosto uno dei più tristi sintomi di una
fase del processo produttivo.
Esso può indubbiamente rappresentare una fase necessaria
del progresso della civiltà, e quelle nazioni europee che finora hanno avuto la
fortuna di esserne quasi esenti può darsi che la debbano attraversare. E' un
incidente di sviluppo e non un segno di decadenza . . . Ma non è comunque un
genere di perfezione sociale che i filantropi futuri possano desiderare di
vedere realizzato. Molto più auspicabile è invece, finché la ricchezza
continuerà a rappresentare il potere, e il diventare più ricchi possibile
continuerà ad essere oggetto dell'ambizione universale, che la via per giungere
alla ricchezza sia aperta a tutti, senza favori o parzialità. Ma la condizione migliore per la natura umana è quella per cui,
mentre nessuno è povero, nessuno desidera diventare più ricco, né deve temere
di essere respinto indietro dagli sforzi compiuti dagli altri per
avanzare." (Principi, pp. 999-1000)
"Come primo passo da uno stadio semplicemente animale a
uno stato umano, dallo sconsiderato abbandono agli istinti bruti alla prudente
preveggenza e al dominio di se stessi, questa condizione morale può essere
guardata senza dispiacere. Ma se si desidera lo sviluppo dello spirito pubblico, di sentimenti generosi, o della vera giustizia e della vera eguaglianza, è l'associazione e non l'isolamento degli interessi, la
scuola alla quale queste virtù si possono sviluppare. Lo scopo del processo dovrebbe essere non
soltanto di porre gli esseri umani in condizioni nelle quali essi siano in
grado di fare a meno gli uni degli altri, ma di consentire loro di lavorare con gli altri e per gli altri in rapporti
che non implichino una dipendenza." (Principi, p. 1015).
Per
Mill, dunque, il capitalismo è la fase necessaria di transizione da uno stato
primitivo e "animale" ad uno stato veramente umano". Nello
stato primitivo la cooperazione, se c'è, è legata alla soggezione personale.
Anche nelle condizioni moderne il lavoro sotto padrone costringe gli operai ad
abusi che la crescente educazione culturale e politica - frutto della
stessa associazione coatta nelle fabbriche - renderà sempre meno praticabili.
Mill vede con favore che i lavoratori prendano nelle proprie mani il loro
destino, e vogliano passare dal lavoro salariato al lavoro cooperativo; ma
l'associazione tra eguali tenderà a prevalere non soltanto nella fabbrica, ma
anche nella politica come nella famiglia.
L'evoluzione
spontanea ed inintenzionale dell'economia è, insomma, un processo che ha come
fine la realizzazione di una situazione opposta. Compie una autentica
"rivoluzione morale" (Principi, p. 1043), ed una incruenta e
graduale rivoluzione politica: sostituisce all'individuo egoista l'individuo
altruista; al soggetto dipendente il soggetto indipendente. Fa di tutti degli
"esseri razionali" (Principi, p. 1009): in grado di scegliere
la cooperazione, e non condannati invece ad una competizione tra agenti
isolati, che verrà piuttosto mutata in "amichevole emulazione"(Principi,
p.1043). La mano invisibile, si potrebbe dire, crea le condizioni di una
società fondata sul consenso cosciente. L'evoluzione cede il passo al
contratto.
Smith
è mantenuto e rovesciato. Il dualismo etico di egoismo e simpatia diviene
successione storica. "La sproporzionata importanza attribuita al semplice
aumento della produzione", che è in Smith il mezzo per una
generalizzazione passabilmente equa del benessere, diviene solo lo strumento per
raggiungere quel livello della ricchezza materiale che è la precondizione per
una migliore distribuzione e per una trasformazione della natura umana:
"Finché
le menti sono rozze esse richiedono stimoli rozzi, ed è bene che li abbiano.
Intanto però quelli che non accettano l'attuale stadio iniziale del progresso
umano come il suo modello definitivo, possono essere scusati se rimangono
relativamente indifferenti al tipo di progresso economico che suscita di solito
le congratulazioni dei politici; il semplice incremento della produzione e
della accumulazione."(Principi, p. 1000)
Sullo
sfondo di questa visione, non stupisce che il giudizio di Mill sullo
"stato stazionario" sia, diversamente che in Smith e negli altri
classici, improntato all'ottimismo. Mentre per "gli economisti delle
ultime generazioni", scrive Mill, lo stato stazionario è
"una
prospettiva spiacevole e scoraggiante, dal momento che il tono e la tendenza
delle loro speculazioni sono quelli di identificare tutto ciò che è
economicamente desiderabile con lo stato progressivo . . . [io] sono propenso
piuttosto a credere che, nel complesso, esso rappresenterebbe un considerevole
miglioramento rispetto alle nostre condizioni attuali." (Principi,
p. 999)
La
riduzione del tasso di crescita della produzione, se accompagnata alla
riduzione della crescita della popolazione, non significherebbe per nulla
l'esaurirsi del progresso umano. L'aumento assoluto della produzione materiale
cederebbe semmai il passo allo sviluppo culturale ed al perfezionamento dell'
"arte della vita"(p. 1002). L'industria continuerebbe certamente ad
essere retta da leggi astoriche ed immutabili; ma, a differenza che nella
situazione attuale, le innovazioni
"produrrebbero
il loro effetto legittimo, quello di abbreviare
il lavoro. Finora è dubbio se tutte le invenzioni meccaniche compiute sino
a questo punto abbiano alleggerito la fatica quotidiana dell'uomo. Esse hanno
piuttosto consentito a una maggiore popolazione di vivere la stessa vita di
schiavitù e di prigionia, e a un maggior numero di industriali e altri di
accumulare fortune. Esse hanno indubbiamente accresciuto gli agi delle classi
medie, ma non hanno ancora cominciato a operare quei grandi mutamenti nel
destino umano che per loro natura sono destinati a compiere. Soltanto quando
accanto a giuste istituzioni, l'accrescimento del genere umano sarà posto
deliberatamente sotto la guida di una saggia previdenza, le conquiste sui
poteri della natura compiute dall'intelletto e dall'energia degli scienziati potranno diventare il retaggio
comune della specie umana, e il mezzo per migliorare ed elevare la sorte
dell'umanità ."( Principi, p. 1003).
Mill
spera che l'umanità scelga lo stato stazionario prima di esservi costretta dal
destino che le assegna la ineluttabile caduta del saggio del profitto. In
realtà, nonostante questa sua affermazione, la sua posizione non può non
risultare intimamente contraddittoria a meno di legarsi ad una evoluzionismo
meccanicistico.
Paladino
di una visione che separa le leggi ferree della produzione dalle leggi storiche
della distribuzione, Mill non dispone di argomentazioni teoriche a favore della
auspicata trasformazione della natura umana: deve ancorare quest'ultima, di
necessità, alla dinamica deterministica della produzione. Alla luce della sua
separazione dicotomica di produzione e distribuzione rimane infatti misterioso
cosa potrebbe originare una metamorfosi così radicale, pur nella sua
gradualità, del carattere umano quale egli delinea nel suo "ideale del
futuro" - se non intervenisse ad imporla, appunto, il corso stesso delle
cose; in questo modo ribadendo però, contro le intenzioni, un permanente
primato dell'evoluzione materiale sul progresso culturale.
E'
per la stessa ragione che Mill deve limitare gli effetti del processo all'ampliamento
del tempo di non lavoro: cioè, a ben vedere, ancora ad una misura meramente
redistributiva. La sua prospettiva di una riduzione del primato dell'economico
si configura dunque, coerentemente, soltanto nei termini di una più equa
ripartizione e, al limite, di un'uscita dal lavoro.
Il
solo altro sostegno della sua visione di società dell'avvenire - l'unico che
nel suo sistema giustificherebbe la speranza che "i nostri discendenti si
accontenteranno di essere in uno stato stazionario molto prima di trovarsi
costretti ad esso dalla necessità" (Principi, p. 1002) - avrebbe
potuto essere il compimento del progetto, da lui lungamente accarezzato, di
costruire una scienza del carattere umano, l'etologia. Individuate le leggi
generali della formazione e del mutamento del carattere umano, si sarebbe anche
mostrato come la trasformazione potesse essere il prodotto congiunto delle
condizioni esterne e della volontà degli individui. Ma, come è noto, quel libro
Mill non riuscì a scriverlo mai.
5.3.
Il doppio inganno è rivelato: John Maynard Keynes.
Ben
maggiore consapevolezza di queste difficoltà ha Keynes quando, tra le due
guerre mondiali, riproporrà l'utopia di Mill.
Come
Smith e Mill, Keynes ritiene che il capitalismo presupponga condizioni
culturali (oltre che istituzionali) particolari, decadute le quali esso è
destinato ad entrare in crisi. A differenza dell'uno e dell'altro, sottolinea
però che l'avverarsi di quelle condizioni non solo è stato in grande misura
casuale, ma ha dato luogo ad un sistema sociale ed economico instabile (contro
Smith), ed il cui esaurirsi non significa di per sé un indolore ed automatico
passaggio ad uno stadio più alto dell'evoluzione umana (contro Mill).
Appena
terminata la "grande guerra", nel paragrafo delle Conseguenze economiche della paceintitolato
"La psicologia della società", Keynes riprende l'immagine di Smith
che vede nella "parsimonia" un inganno ordito a danno dei singoli ma
favorevole alla società. E, come Smith, individua nella traduzione del
risparmio in investimento e nella conseguente, sempre maggiore, soddisfazione
dei bisogni fondamentali la giustificazione storica dell'ineguaglianza e del
capitale.
La
corrispondenza con i temi smithiani è talmente pronunciata che vale la pena di
citare ampi brani:
"L'Europa
[dopo il 1870 e prima della guerra] era socialmente ed economicamente
organizzata in modo da permettere la massima accumulazione di capitale. Mentre
vi era un certo continuo miglioramento nelle condizioni quotidiane di vita
della massa della popolazione, la società era organizzata in guisa che una gran
parte del reddito di nuova formazione veniva a cadere sotto il controllo della
classe che era meno incline a consumarlo . . . era precisamente la 'ineguaglianza'
di distribuzione della ricchezza che rendeva possibili quelle vaste
accumulazioni di ricchezza fissa e di sviluppo di capitali che
distinguono quel periodo da ogni altro. E qui sta, in fatto, la principale giustificazione del
sistema capitalistico. Se i ricchi avessero speso la loro ricchezza di
nuova formazione nei godimenti personali, il mondo già da un pezzo avrebbe
trovato questo sistema intollerabile. Ma, come api, essi risparmiavano ed
accumulavano a vantaggio anche della comunità, perché essi stesso avevano di
mira fini più ristretti. . . . Lo sviluppo di questo rimarchevole sistema
dipendeva perciò da un doppio
inganno. Da un lato le classi lavoratrici accettavano, per ignoranza o per
impotenza, o erano costrette, persuase o indotte dal costume, dalla convenzione
o dall'autorità e dal ben regolato ordine sociale, ad accettare una situazione
per la quale esse potevano chiamare propria una ben piccola parte della torta
che esse stesse e la natura e i capitalisti avevano cooperato a produrre.
dall'altro lato era consentito ai capitalisti di considerare propria la miglior
parte della torta ed essi erano teoricamente liberi di consumarla, nella
tacita, sottintesa condizione che in pratica ne avrebbero consumato una ben
piccola porzione. Il dovere di 'risparmiare' divenne celebrata virtù e l'ingrossamento
della torta oggetto di vera religione . . . Ciò dicendo io non riprovo
necessariamente il metodo di quella generazione.Negli inconsci recessi del
suo essere la società sapeva quello che si faceva." (Le conseguenze
economiche della pace, Rosenberg & Sellier, Torino 1983, pp. 34-35)
Il
soggetto è dunque la società, ed i comportamenti degli individui sono - di
nuovo come in Smith - dettati dalla propria collocazione di classe determinati
dalle leggi di riproduzione di quel sistema. Il mezzo è il capitale; fini sono
il superamento della scarsità, ed il passaggio ad una economia dell'abbondanza
e dell'ozio:
"forse
sarebbe venuto un giorno in cui ce
ne sarebbe stato finalmente abbastanza per tutti e la posterità avrebbe potuto
cominciare a godere il frutto delle 'nostre'
fatiche"(Conseguenze, p. 36)
Il
futuro è però incerto. Il processo può incepparsi prima di aver raggiunto il
suo termine: la "torta" può essere insufficiente per una eccessiva
crescita della popolazione, come in Mill; oppure, come è avvenuto, a causa di
una guerra. Ma l'effetto principale della guerra non è stato tanto materiale,
quanto culturale: ha dissolto quelle
"condizioni
psicologiche instabili,
che non si possono riprodurre . . La guerra ha rivelato a tutti la possibilità
del consumo immediato ed a molti la vanità dell'astinenza. Così l'inganno è rivelato; le classi
lavoratrici possono non essere più disposte a così larghe rinunzie e le classi capitalistiche,
non più fiduciose nel futuro, possono avere voglia di godere in modo più
completo la loro libertà di consumo fin quando essa duri, precipitando così
l'ora della sua confisca." (Conseguenze, p. 36)
La
questione sarà affrontata di nuovo nel 1930, nelle "Prospettive economiche
dei nostri nipoti". Questa volta, ad essere impressionanti non sono solo
le corrispondenze con Smith, ma anche quelle con Mill.
In
analogia con quanto scriveva nel 1919, Keynes ritiene che la velocità dello
sviluppo sia tale che "scartando l'eventualità di guerra e di incrementi
demografici eccezionali, il problema
economicopuò essere risolto, o per lo meno giungere in vista di una
soluzione, nel giro di un secolo" ("Prospettive economiche per i
nostri nipoti", in Esortazioni
e profezie, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 272; corsivo nel testo).
Il
sintomo della nuova situazione è il diffondersi di una nuova malattia, la
disoccupazione tecnologica. La causa, l'essere ormai vicino il soddisfacimento
completo dei bisogni "assoluti", "quelli che sentiamo quali che
siano le condizioni degli esseri umani nostri simili" - bisogni che, a
differenza di quelli "relativi", caratterizzati dal bisogno
insaziabile di superiorità sugli altri, possono raggiungere la saturazione
("Prospettive", p. 272). La via di uscita: la riduzione dell'orario
di lavoro: "Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore
possono tenere a bada il problema per un buon periodo di
tempo."("Prospettive", p. 274-275)
Come
in Smith, la storia della società sino al capitalismo è una storia sotto il
segno della lotta per la sussistenza. Come in Mill, l'evoluzione naturale del
sistema ha uno scopo di cui l'azione dei singoli è inconsapevole - la soluzione
del problema economico - ma che una volta raggiunto deve lasciare spazio ad
attività il cui fine sia cosciente: "per la prima volta dalla sua
creazione l'uomo si troverà di fronte al suo vero , costante problema: come
impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero"
("Prospettive", p. 221). Ancora come in Mill, il meccanismo
dell'accumulazione conduce oltre il lavoro, al tempo stesso modificando - sino
a rovesciarlo rispetto a Smith - il codice morale:
"Dovremo
saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno
superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato
come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il
coraggio di assegnare alla motivazione 'denaro' il suo vero valore. L' amore per il denaro come
possesso, e distinto dall'amore per il denaro come mezzo per godere i
piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po'
ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali a metà patologiche che
di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali"
("Prospettive", p. 275)
Muta
rispetto a Mill, come avevamo preannunciato, la coscienza della drammaticità
della transizione. Una drammaticità che nel testo del '30 sembra soprattutto
localizzata al livello della cultura della società, cui viene imposta una
trasformazione troppo accelerata:
"Sarà
un bene? Se crediamo almeno un poco nei valori della vita, si apre per lo meno
una possibilità che diventi un bene. Eppure io penso con terrore al
ridimensionamento di abitudini e istinti nell'uomo comune, abitudini e istinti
concresciuti in lui per innumerevoli generazioni e che gli sarà chiesto di
scartare nel giro di pochi decenni. . . . Per
troppo tempo, infatti, siamo stati allenati a faticare anziché godere."
("Prospettive", pp. 273-274)
Già
nel '36, nelle "Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la Teoria generale potrebbe
condurre", la preoccupazione di Keynes si sarà radicalizzata. L'
"amore per il denaro" costituisce uno sfogo per tendenze aggressive
ben radicate nell'essere umano, come amaramente dimostrano i fascismi.
Pretendere di cancellarlo in poco tempo può essere più un male che un
bene:
"E'
meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto in banca che sui
suoi concittadini; e mentre talvolta si denuncia il primo quale un mezzo per
raggiungere il secondo, talaltra almeno ne è un'alternativa." (Teoria
generale dell'occupazione , dell'interesse e della moneta , Utet, Torino 1978, p. 545)
La
difficoltà di Mill si presenta ora sotto nuove spoglie: come conciliare il
compito di trasformare la natura umana con il compito di governarla, quando i
mezzi necessari al secondo scopo ostacolano il primo, perché si fondano proprio
su quelle passioni che occorrerebbe estirpare affinché prevalgano i valori
della vita?
Può
essere utile fare un passo indietro, per indicare un altro aspetto della
questione. La distinzione operata da Keynes tra i bisogni assoluti e quelli
relativi - una distinzione che è anche separazione ed indipendenza dei primi
dai secondi - non può non richiamare alla mente la distinzione di Smith tra
bisogni "naturali" (cibo, vestiario e riparo) e desiderio di
"quelle comodità che sono richieste dalla raffinatezza e delicatezza del
nostro gusto" (si vedano, per esempio, le Lezioni di Glasgow ). I primi, potremmo dire, sono comuni
agli esseri umani in quanto eguali, siano essi soli o in società; i secondi,
che pongono l'accento sulle differenze reciproche, sono necessariamente
relazionali e posizionali.
A
differenza del Keynes di questi brani, però, Smith mette in relazione i due
tipi di bisogni, ed anzi crea un effetto di ritorno dei secondi sui primi. Non
soltanto perché lo scopo del processo capitalistico, il sempre migliore
soddisfacimento dei bisogni naturali, è per lui il risultato inintenzionale di
attività che sono invece rivolte all'obiettivo impossibile di esaudire il
desiderio di distinzione, attraverso l'impulso che esse danno alla divisione
del lavoro e alla crescita economica. C'è di più. Quei beni, dapprima prodotti
come "comodità" per i ricchi, finiranno con il tempo - quando le
classi superiori se ne saranno stancate - con il passare alle classi più
povere, soddisfacendo i loro bisogni naturali. Che, dunque, sono in realtà
sempre meno autonomi, e vanno a rimorchio del desiderio dei ricchi.
Qui
l'antico si rivela più attuale del moderno. I fenomeni di induzione e
imitazione del consumo sembrano confermare più l'intuizione di Smith che la
tesi di Keynes. L'economia ha più a che fare con i bisogni relativi che con
quelli assoluti: sia perché le necessità fondamentali sono sempre più
determinate dal contesto storico e sociale; sia perché è la produzione stessa a
plasmare la domanda. Ma allora, se le cose stanno così, non si vede perché
l'espansione "artificiale" dei bisogni non possa costringere ancora
l'essere umano nel mondo del lavoro e dell'economia, contrariamente a quanto
scrive Keynes. E, d'altronde, una ulteriore riprova di ciò la si ritrova nella
stessa forma che ha poi assunto proprio l'intervento keynesiano, quando si è
proposto di rimuovere i limiti che il capitalismo "puro" poneva alla
piena utilizzazione delle risorse, limiti che intralciavano la strada che
conduce al superamento del problema economico. Quell'intervento si è infatti
configurato come un'immissione di domanda aggiuntiva da parte dello Stato che
ha sostenuto, direttamente ed indirettamente, la domanda privata, ed in
particolare la quota dei consumi sul reddito. Vista da questo punto di vista,
la politica economica eretta sulle basi dellaTeoria generale - qui
non importa con quanta fedeltà - è la smentita più radicale del futuro
preconizzato da Keynes, dal momento che si traduce in un ulteriore salto nell'
"artificialità" del consumo. Una "artificialità" che un
commentatore, malevolo ma certamente acuto, come Schumpeter mette in risalto
con perfidia in una tempestiva recensione al libro di Keynes:
"Chi
accetta il messaggio lì esposto potrebbe riscrivere la storia dell' ancien régime francese
grosso modo nei termini seguenti. Luigi XV fu un monarca molto illuminato.
Percependo la necessità di stimolare la spesa, egli si procurò i servizi di
spenditori esperti quali M.me de Pompadour e M.me du Barry. Esse si misero
all'opera con un'efficacia insuperabile. La conseguenza avrebbe dovuto essere
la piena occupazione, indi il massimo di produzione e in ultimo un generale
benessere. In verità si trova invece miseria, infamia e, alla fine di tutto, un
fiume di sangue. Ma ciò fu una coincidenza del caso." ("Review of
Keynes's General Theory ", trad. it. inSchumpeter,
a cura di Marcello Messori, il Mulino, Bologna 1984, p. 357)
Certo,
Schumpeter è incapace di prevedere l'efficacia dell' interventismo keynesiano,
e perciò la possibilità che su di esso si fondi la tregua sociale tra capitale
e lavoro che vedrà la luce nel secondo dopoguerra. Ai nostri scopi, però, è
proprio l'innaturalità dei bisogni soddisfatti dal capitalismo - cui approdano,
da sponde diverse, tanto lo Schumpeter della Teoria
dello sviluppoquanto il Keynes della Teoria
generale, ad essere di un qualche significato. Un meccanismo capitalistico
di questo tipo, in cui è la produzione a tirar dietro di sé la domanda,
riproduce, invece che superare, il problema economico.
"La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l'azione; sarebbe completamente libero l'uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine."
Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale , Adelphi, Milano 1983, pp. 77
Il discorso smithiano sulla giustificazione storica trova la sua ripresa ed il suo rovesciamento in Marx. I brani probabilmente più rappresentativi sono i due seguenti:
"Dal punto di vista storico, questa inversione [di soggetto e oggetto] appare come il punto di passaggio obbligatorio per ottenere, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, l'inesorabile sviluppo di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono fornire la base materiale di una libera società umana. Passare attraverso questa forma contraddittoria è necessario come, in un primo tempo, l'uomo deve dare alle proprie forze intellettive la forma religiosa di potenze indipendenti da sé." (Capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 21)
"I rapporti di dipendenza personale (all'inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati. L'indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio"(Grundrisse, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1968-70, pp. 98-99)
In questa sezione cercherò di mostrare come la riconduzione dell'incivilimento dell'umanità allo sviluppo della produttività del lavoro portato dal capitalismo e l' individuazione di tre fasi della storia umana - della dipendenza personale; della indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale; della affermazione della libera individualità - non configurano né una concezione economicistica ed escatologica della storia, né una ontologia; benché, certamente, siano fondate su una particolare visione dell' "essenza" dell' essere umano, ed affermino la possibilità di dare un senso alla storia.
6.1. Il lavoro come essenza dell'essere umano
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx svolge la sua critica del modo di produzione capitalistico a partire dalla tesi che in esso viene ad essere alienata l'essenza stessa dell'essere umano, costituita dal lavoro. Per il Marx dei Manoscritti, la specificità dell'essere umano è di essere un ente, al contempo, naturale e generico. Naturale: l'essere umano è, infatti, egli stesso una parte della natura, ed ha una natura fuori di sé, di cui vive; dalla natura trae i propri mezzi di sussistenza, e la materia con cui appronta gli strumenti e l'oggetto del lavoro. Generico: in quanto essere pensante, e dunque dotato di ragione, è l'indifferenza di tutte le differenze; non è perciò legato ad alcuna determinazione particolare, ma può in potenza, attraverso il lavoro, progettare e rendere oggettiva ogni determinazione. Agendo secondo le leggi della natura ed in rapporto con gli altri, in società, l'essere umano produce la stessa realtà che lo circonda secondo una misura universale:
"La libera attività consapevole è il carattere specifico dell'uomo . . . L'animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa . L'uomo fa della sua attività vitale stessa l'oggetto del suo volere e della sua coscienza. Egli ha una cosciente attività vitale: non c'è una sfera determinata con cui immediatamente si confonde. L'attività vitale consapevole distingue l'uomo direttamente dall'attività vitale animale. Proprio solo per questo egli è un ente generico . . . La pratica produzione di un mondo oggettivo , la lavorazione della natura inorganica è la conferma dell'uomo come consapevole ente generico, cioè ente che si rapporta al genere come al suo proprio essere ossia si rapporta a sé come ente generico. Invero anche l'animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche etc. . Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l'uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L'animale produce solo se stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo confronta libero il suo prodotto. L'animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene; mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all'oggetto la misura inerente, quindi l'uomo forma anche secondo le leggi della bellezza. Proprio soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l'uomo si realizza quindi come un ente generico . Questa produzione è la sua attiva vita generica. Per essa la natura si palesa come opera sua , dell'uomo, e sua realtà. L'oggetto del lavoro è quindi l' oggettivazione della vita generica dell'uomo: poiché egli si sdoppia non solo intellettualmente come nella coscienza, bensì attivamente, realmente, e vede se stesso in un mondo fatto da lui. (Manoscritti economico-filosofici del 1844, inOpere filosofiche giovanili , Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 199-200. Corsivi di Marx. Sottolineature mie)
In un lavoro autenticamente umano si mediano la genericità dell'attività, che non è fissata in uno scopo determinato, e la sua naturalità, la dipendenza da un mondo naturale ed oggettivo. La realtà viene appresa trasformandola: è un "in sé" che può essere colto come tale, nella sua indipendenza, solo nella misura in cui è al contempo reso un "per noi". Ma il passaggio al lavoro salariato inverte qui, nel cuore stesso della sua essenza sociale, la natura del lavoro. Separa il lavoratore dal mezzo di lavoro, facendo anzi del primo uno strumento del secondo. Separa, ancora, il lavoratore dal prodotto del suo lavoro, che non soltanto non è di sua proprietà ma gli è indifferente. Separa, di conseguenza e per ultimo, il lavoratore dal suo stesso lavoro, che diviene così una maledizione.
Alla originaria dipendenza della natura segue una altrettanto cieca dipendenza da meccanismi sociali incontrollati. Invece di trovare nel lavoro il luogo di uno sviluppo universale delle proprie capacità, l'individuo vive nel lavoro il massimo di estraneazione. Come si sa, gli interpreti si dividono tra chi ritiene che il Marx maturo, "scientifico", abbia abbandonato queste tesi del Marx giovane, "filosofo" troppo influenzato dalla critica che Feuerbach muove ad Hegel. Ed anche chi sostiene la tesi della continuità si trova quasi sempre a leggere il discorso di Marx sul lavoro come essenza dell'essere umano come una generalizzazione mentale, oppure come la descrizione di una realtà metastorica. In quanto tale, esso andrebbe visto come la base di un giudizio - o pregiudizio, se si preferisce - filosofico, che stigmatizza la realtà del capitale in quanto deviazione da una essenza, appunto, "naturale". Credo che le cose stiano molto diversamente. Che il Marx maturo trasformi ma non abbandoni la visione giovanile. Che però in questa trasformazione avvenga un mutamento di grande portata: l'universalità e la socialità del lavoro sono ora ritenuti fenomeni integralmente storici: essi fanno la loro apparizione, sia pure in forma rovesciata ed astratta, soltanto con il modo di produzione capitalistico. E' con quest'ultimo, infatti, che trovano pratica conferma il carattere sociale della produzione e la possibilità di non essere costretti permanentemente in una ed una sola attività - elementi cruciali della definizione di quella genericità che costituisce il tratto distintivo di quel particolare ente naturale che è l'essere umano. In questa luce, il discorso sul lavoro come essenza dell'essere umano non è più, come nel 1844, il fondamento di una critica filosofica ed esterna della realtà esistente, ma diviene parte di una scienza che vuole totalmente immanente il punto di vista della critica. Vediamo meglio.
Il luogo più opportuno per accertare la posizione del Marx maturo è, a me pare, la parte deiGrundrisse dedicata alle "forme economiche precapitalistiche". E' qui, nella discontinuità tra il mondo del capitale e ciò che lo precede, che Marx sottolinea come nella storia venga a compimento quel cambiamento radicale della configurazione del rapporto tra essere umano e natura che si riflette nella realtà del lavoro, e dunque anche nella riflessione su di esso.
Nelle forme economiche precapitalistiche, l'essere umano intrattiene un rapporto particolare e determinato con la natura, che irrigidisce gli stessi rapporti personali dentro i vincoli della tradizione. Prima del capitalismo, la natura non soltanto appare, ma ancora in larga misura effettivamente è, una condizione esterna, non mediata, dell'attività umana. Ne impone i ritmi, e ne segna il limite. L'agricoltura è in queste condizioni il centro dell'organizzazione economica. La terra come natura è presupposta al lavoro, "la principale condizione obiettiva del lavoro non si presenta essa stessa come prodotto, ma esiste come natura " (Forme economiche precapitalistiche, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 83). Il rapporto con la terra è mediato dall'esistenza dell'individuo come membro di una comunità, ed egli deve riprodursi in questo ruolo determinato:
"In tutte queste forme la riproduzione di rapporti dati in precedenza - più o meno naturali, o anche sorti storicamente, ma divenuti tradizionali - del singolo con la propria comunità, e una esistenza che sia oggettiva, determinata, predeterminata nei suoi confronti sia in rapporto alle condizioni di lavoro che ai suoi collaboratori, membri della sua tribù, ecc. - è il fondamento dello sviluppo, che fin dal principio è pertanto limitato , ma con l'eliminazione delle limitazioni diventa rovina e decadenza . . . All'interno di una determinata cerchia, possono qui verificarsi grandi sviluppi. Le individualità possono apparire grandi. Ma non c'è qui da pensare a uno sviluppo libero e completo né dell'individuo, né della società, in quanto un tale sviluppo è in contraddizione con il rapporto originario." (Forme, p. 86. Corsivi nel testo. Sottolineatura mia.)
La divisione del lavoro è in queste forme economiche, come anche nella produzione artigianale precapitalistica, una divisione del lavoro "naturale-spontanea". Il lavoro del singolo, in quanto lavoro utile, è un lavoro immediatamente sociale. Ma, si badi, soltanto in quanto esso è al contempo lavoro parziale in una comunità ristretta, che mira a riprodursi in quanto tale. La separazione del lavoratore dalla proprietà dei mezzi di produzione, dalla terra come "laboratorio naturale", e quindi anche dai mezzi di sussistenza, è per Marx una condizione storica necessaria per emancipare l'essere umano dalla destinazione ad una forma di attività limitata, che ne fa un ente particolare, non universale. L'universalità del lavoro capitalistico va intesa in modo duplice. Si tratta, innanzitutto, del fatto che nelle nuove condizioni il lavoro diviene sociale solo attraverso la mediazione del mercato: attraverso, cioè, un processo di equiparazione nello scambio, che realmente separa ed oppone il lavoro vivo del salariato - in quanto produttore di denaro, e dunque in quanto lavoro sociale-astratto in potenza - rispetto ai lavori utili-concreti dei medesimi operai - che sono invece immediatamente privati, e disomogenei gli uni rispetto agli altri.
Ma vi è anche un secondo aspetto. Una volta che la ricchezza non è più costituita dai valori d'uso, ma da una ricchezza astratta, la produzione non ha più un limite esterno dato dalla finalizzazione al consumo della classe dominante, o dalla riproduzione di rapporti già dati e fissi. Diviene autovalorizzazione del capitale, massimizzazione dell'estrazione del pluslavoro, produzione per la produzione. La stessa struttura tecnica della produzione viene incessantemente rivoluzionata, allo scopo di ottenere il profitto il più elevato possibile. In tal modo, peraltro, il capitale finisce con l'infrangere all'interno della produzione stessa il legame tra lavoratore singolo e mansione lavorativa. Autonomizza la produzione capitalistica dalle abilità particolari dell'individuo - un punto che segna un vero e proprio rovesciamento della posizione di Smith sulla divisione del lavoro. Nell'universalità del lavoro capitalistico vi è dunque una doppia separazione dalla naturalità. Nello scambio generalizzato è stata soppressa ogni traccia del lavoro utile, produttore di beni concreti, ed il lavoro si è realmente ridotto ad una pura astrazione, a creazione di ricchezza generica. Nel processo lavorativo non vi è quasi più rapporto tra le abilità particolari dell'operaio, ormai tendenzialmente annullate o ridotte all'insignificanza, e gli specifici valori d'uso prodotti.
Il modo di produzione capitalistico è così l'espressione di una contraddizione. Costituisce, per la prima volta nella storia, la società come effettiva universalità di relazioni nello scambio; fa ciò però isolando i produttori e contrapponendoli nella concorrenza. Rende il lavoro del singolo funzione della cooperazione sociale; gli impone però quest'ultima come risultato di una scienza e di una organizzazione capitalistica, di cui diviene un accessorio vivente:
"quello che compera il capitalista e che il lavoratore vende è il valore d'uso della capacità di lavoro, vale a dire il lavoro stesso, la forza che crea e accresce il valore. Perciò la forza che crea e che accresce il valore appartiene non al lavoratore ma al capitale. Incorporandosela esso diventa vivo e comincia to work "come se avesse amore in corpo" [J.W.Goethe, Faust, vv. 2130-2149]" (Manoscritti del 1861-1863, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 114)
6.2. Il lato positivo del capitale. Natura e storia in Marx.
Poche altre citazioni basteranno a confermare la nostra interpretazione. Marx riprende da Smith la tesi che l'unica vera società è quella capitalistica, e ne ammette la superiorità rispetto alle forme precedenti. Ma ne sottolinea la contraddittorietà, e la possibilità che essa apre: che l'evoluzione spontanea lasci il posto alla libera individualità, la quale fa della società il suo progetto.
"Si è detto e si può dire che il lato magnifico sta proprio in questo ricambio materiale e spirituale, in questa connessione naturale, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, e che presuppone proprio la loro indipendenza e indifferenza reciproche. Altrettanto certo è che gli individui non possono subordinare a sé i loro stessi nessi sociali prima di averli creati. Ma è anche insulso pensare quel nesso soltanto materiale come un nesso naturale, inscindibile dalla natura dell'individualità (in antitesi al sapere e al volere riflessi) e ad essa immanente. Esso invece ne è un prodotto. E' un prodotto storico. Appartiene ad una determinata fase del suo sviluppo. L'estraneità e l'autonomia in cui esso ancora si trova rispetto a loro, dimostra soltanto che essi sono ancora presi nella creazione delle condizioni della loro vita sociale invece di averla iniziata a partire da queste condizioni. Quella naturale è la connessione di individui nell'ambito di determinati e limitati rapporti di produzione di produzione. Gli individui universalmente sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono già assoggettati al loro proprio comune controllo, non sono un prodotto della natura, bensì della storia. Il grado e l'universalità dello sviluppo della capacità in cui questa individualità diventa possibile, presuppone appunto la produzione sulla base dei valori di scambio, la quale essa soltanto produce, insieme con l'universalità, l'alienazione dell'individuo da sé e dagli altri, ma anche l'universalità e l'organicità delle sue relazioni e delle sue capacità." (Grundrisse, vol I, p. 104)
Per Marx, il modo di produzione capitalistico va visto dunque come il momento di passaggio tra due fasi della storia dell'essere umano: la prima "naturale", dove nel rapporto tra l'essere umano e la natura è il secondo elemento che prevale; la seconda "storica", dove è predominante l'attività dell'essere umano su una natura che, pur rimanendo esterna, è però sempre più sotto il suo dominio e la società è propriamente tale, cioè generale.
A queste due fasi corrispondono necessariamente due diverse configurazioni del lavoro. Nella prima, lo scopo del lavoro è dettato dalla necessità naturale, mentre nella seconda è posto dall'essere umano stesso (e lo stesso vale, in certa misura, per gli ostacoli che il lavoro inevitabilmente incontra).
La libera individualità è peraltro sociale non solo, per così dire, a valle, ma anche a monte. Le relazioni sociali non sono soltanto il prodotto di un nuovo tipo di individualità, ma esse entrano nella sua stessa costituzione. Si tratta nuovamente di un risultato reso possibile dall'epoca borghese. Infatti, il capitalismo che nello scambio riunifica unità produttive separate ed antagonistiche, dissolve però nella produzione l'isolamento dell'individuo e ne fa un essere generale, collettivo. Marx nega, di conseguenza, tanto che lo stadio primitivo possa essere caratterizzato, come in Smith, dal "lavoro dell'uomo isolato", quanto che la divisione del lavoro si limiti a frantumarne l'unità mantenendone però immutata la natura. La storia può piuttosto essere letta come il passaggio dal gregarismo primitivo all'autentica socialità del futuro, attraverso la fase contraddittoria dell'atomismo concorrenziale, da un lato, e della cooperazione nella produzione, come anche della solidarietà tra i lavoratori, dall'altro lato:
"L'essere umano si isola attraverso il processo storico. Originariamente egli si presenta comeessere sociale, tribale, animale gregario - anche se assolutamente non come uno zwon politixon nel senso politico. Lo scambio stesso è uno dei mezzi principali di questo isolamento. esso rende superfluo il gregarismo e lo dissolve. Non appena le cose si svolgono in modo tale che egli in quanto individuo isolato si ponga ormai in rapporto solo con se stesso, i mezzi per affermarsi come isolato consistono però nel suo farsi essere generale e collettivo." (Forme, p. 99. Corsivi nel testo. Sottolineature mie)
Che il capitalismo, giunto allo stadio del macchinismo, produca per un verso il massimo arricchimento potenziale delle capacità dei lavoratori, "liberandoli" dalle rigidità del mestiere e facendone in potenza gli ideatori e i controllori di una produzione universale, e per l'altro verso il loro massimo impoverimento, legandoli alla determinazione particolare impostagli dalla macchina di cui divengono mero strumento ed appendice, è affermato a chiare lettere nel Capitale, di nuovo in implicita contrapposizione a Smith:
"S'è visto che la grande industria elimina tecnicamente la divisione del lavoro di tipo manifatturiero con la sua annessione d' un uomo intero ad una operazione parziale vita natural durante, mentre allo stesso tempo, la forma capitalistica della grande industria riproduce in maniera anche più mostruosa quella divisione del lavoro, nella fabbrica vera e propria, mediante la trasformazione dell'operaio in accessorio consapevole e cosciente d'una macchina parziale . . . Finché l'artigianato e la manifattura costituiscono il fondamento generale della produzione sociale, la subordinazione del produttore a un ramo esclusivo della produzione, cioè la distruzione della molteplicità originaria della sua occupazione, è un momento necessario dello sviluppo. Su quella base ogni branca particolare della produzione trova empiricamente la configurazione tecnica che le si confà, la perfeziona lentamente e la cristallizza rapidamente appena è raggiunto un dato grado di maturazione. Quel che provoca qua e là dei cambiamenti è, oltre qualche nuovo materiale di lavoro, fornito dal commercio, la graduale modificazione dello strumento di lavoro. Una volta raggiunta la forma confacente secondo l'esperienza, anche lo strumento di lavoro si irrigidisce, come dimostra il suo passare, spesso per millenni, dalle mani di una generazione in quelle della seguente. . . La industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva la forma esistente di un processo di produzione. Quindi la sua base tecnica è rivoluzionaria, mentre la base di tutti gli altri modi di produzione era sostanzialmente conservatrice . . . Quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell'operaio in tutti i sensi. Dall'altra parte essa riproduce la antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica . . . Per essa diventa questione di vita o di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell'uomo per il variare delle esigenze del lavoro: sostituire all'individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l'individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l'uno con l'altro." (Il Capitale, Libro primo, 2, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 196-201)
Ben s'intende, sulla base di questa analisi, come Marx avesse elevato nei Grundrisse un inno al capitale tale da far impallidire qualsiasi cosa scritta da Smith.
"Perciò la vecchia concezione secondo cui l'uomo anche se inteso in un senso molto limitato dal punto di vista nazionale, religioso, politico, è sempre lo scopo della produzione, appare molto elevata nei confronti del mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo dell'uomo e la ricchezza come scopo della produzione. Ma, in fact, una volta gettata via la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l'universalità dei bisogni, dei consumi, delle forze produttive, ecc. degli individui, creata nello scambio universale? Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senz'altro presupposto che il precedente sviluppo storico, la quale rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane, non misurate su di un metro già dato. Nella quale l'uomo non si riproduce entro un modo determinato, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualche cosa di divenuto, ma è nell'assoluto movimento del divenire?" (Forme, p. 87-88. Corsivi nel testo. Sottolineature mie.)
6.3. Una filosofia della storia?
Non ci aiuta ad intendere il senso della riflessione marxiana interpretarla come una ontologia, dove la critica concreta della realtà sociale viene fatta dipendere da una previa comprensione speculativa del lavoro in quanto "modello" generale dell'agire umano. Non credo neanche che sia corretto leggerla come una filosofia della storia: almeno se con questo termine si intende, come è d'uso per i critici di Marx, una concezione "forte", aprioristica e teleologica, che dispone le fasi dello sviluppo del genere umano secondo un ordine orientato secondo la realizzazione di un Fine, imposto dalla Ragione o dalla Materia poco importa; una concezione in cui quindi la spiegazione si colora dei tratti della giustificazione. A questo schema Marx corrisponde altrettanto poco di Smith, Stuart Mill o Keynes, per i quali il capitalismo era un "caso", sia pure fortunato. In modo analogo, il riconoscimento da parte di Marx di un "senso" della storia, ricostruibile grazie a certe categorie generali, è più sotto il segno della possibilità che della necessità
Confesso che mi è sempre apparsa convincente la posizione di Alfred Schmidt, che legge in tutt'altri termini il discorso marxiano. Marx individua, a partire dalla sua analisi - scientifica e critica - di questa società, la differenza specifica tra il capitalismo e le forme precapitalistiche di produzione, differenza consistente nel fatto che:
"nel mondo preborghese il rapporto tra l'elemento naturale e lo storico rientra nel grande contesto della natura; nel mondo borghese, anche per quanto concerne la natura non ancora appropriata, quel rapporto rientra nella storia"(Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari 1973, p. 171)
L'attribuzione marxiana della "naturalità" alle formazioni sociali precapitalistiche è data, insomma, solo nel confronto con la società borghese, e sulla base della comprensione teorica dei moderni rapporti di produzione. Così, anche la fase della libera individualità sociale non costituisce tanto il fine cui tende linearmente l'evoluzione sociale, ma può essere il risultato di una prassi emancipativa:
"Solo alla considerazione teoretica la modificazione di una forma si dimostra come suo sviluppo superiore pur senza esserne il necessario prodotto. Il corso della storia per Marx è quindi molto meno lineare di come viene concepito generalmente; esso non obbedisce ad alcuna idea che ne costituisca l'unità e il senso, bensì si ricompone continuamente a partire da singoli processi originali. In questo modo alla formazione della società borghese spetta nel materialismo dialettico un ruolo metodologicamente decisivo, in quanto a partire da essa si dischiudono tanto il passato quanto anche le possibilità del futuro. Marx è tutt'altro che un semplice evoluzionista. Ogni momento storicamente superiore si fonda su quello inferiore, ma l'alterità qualitativa dell'inferiore rispetto al superiore che da esso scaturisce può essere compresa soltanto quando questo momento superiore si è pienamente dispiegato, ed è diventato oggetto di una critica immanente"(Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, p. 171)
"Il materialismo marxiano è critica alla filosofia perché attribuisce al mondo un significato soltanto nella misura in cui gli uomini sono riusciti a realizzarlo attraverso le loro istituzioni sociali. Il materialismo rifiuta di trasfigurare il continuo negativo della storia movendo dal concetto di una natura umana comune a tutti e immutabile o di un fondamento ontologico che il singolo dovrebbe scoprire in se stesso"(Alfred Schmidt, "Ontologia esistenziale e materialismo storico in Herbert Marcuse", in Risposte a Marcuse , a cura di Jürgen Habermas, Laterza, Bari, p. 46)
7. Orfeo e Narciso contro Prometeo. La fuga dal lavoro.
"Un singolo essere umano, puro e semplice, non mescolato con altri esseri umani, non esiste. Ogni personalità è un mondo in sé, una società di molti . . . Noi facciamo parte gli uni degli altri."
Joan Rivière, "La fantasia inconscia di un mondo interno riflessa in esempi tratti dalla letteratura", in Nuove vie della psicoanalisi, a cura di Melanie Klein, Paula Heimann, Roger Money-Kyrle, il Saggiatore, Milano 1966, pp. 460-461.
La
contraddittorietà del modo di produzione capitalistico si esprime, secondo
Marx, nel fatto che, benché esso misuri la ricchezza sul tempo di lavoro, ha la
tendenza a ridurre al minimo il tempo di lavoro che la società dedica alla
produzione della ricchezza.
Di
solito, Marx viene rinchiuso dagli interpreti in posizioni estreme, entrambe
caricaturali. Secondo taluni, Marx sarebbe il teorico della esaltazione del
lavoro, all'interno di una visione della storia che riconduce le leggi di
movimento di qualsiasi formazione sociale in un vero e proprio determinismo
tecnologico, e fa del comunismo la condizione in cui si generalizza la figura
del salariato. E' una tesi che ha, di fatto, attraversato tanto la Seconda
quanto la Terza Internazionale. Altri ne hanno fatto, all'opposto, il teorico
del rifiuto del lavoro, all'interno di una visione della rivoluzione come salto
nell'assoluto. Come uscita, cioè, dai limiti di un finito alienato, in cui il
lavoro sarebbe costitutivamente intrappolato, allo scopo di realizzare un
agire, quello sì autenticamente umano, dai caratteri a priori indeterminati.
Salto, dunque, dal finito all'infinito, da un lavoro condizionato ad
un'attività incondizionata. E' questa, per esempio, l'interpretazione di autori
così diversi come Franco Rodano, che ne fa la base di una critica di Marx, o
come Toni Negri, che ne fa il fondamento di una apologia del sabotaggio della produzione
e dell' esproprio "proletario".
Si
tratta di un duplice, grottesco, travisamento della posizione di Marx.
L'interpretazione "lavorista" inverte, rispetto a Marx, il nesso di
causalità tra determinazioni tecniche e relazioni sociali, facendo comandare le
prime sulle seconde; e non vede che in Marx la centralità della produzione e il
discorso sul lavoro come essenza dell'essere umano sono antitetici, nel senso
che la realizzazione del secondo può avvenire solo in un mondo in cui la prima
sia stata superata.
L'interpretazione
"antilavorista" compie un errore idealistico, speculare a quello
oggettivistico implicito nella precedente. Confonde, infatti, oggettivazione e
alienazione: il Marx di questa lettura riterrebbe che qualsiasi attività che si
svolge entro una materialità condizionante vada per ciò stesso ritenuta
alienante. Ma, come scrisse Claudio Napoleoni all'inizio degli anni settanta,
per Marx
"il
finito non è negativo, ma è reso tale da una situazione sociale
determinata. La rivoluzione, nel senso di Marx, ne risulta allora
caratterizzata come la riconquista della positività del finito, come quella
riappropriazione dell'essere umano per cui il limite proprio dell'ente naturale
generico, e perciò del lavoro, è solo limite e non anche alienazione e
sfruttamento." ("Quale funzione ha avuto la Rivista
Trimestrale", in Rinascita,
6 ottobre 1972)
Rimane,
comunque, il problema di individuare quale possa essere, in una prospettiva
marxiana, la conciliazione tra riduzione del tempo di lavoro e "libero
sviluppo dell'individualità", una volta che l'aumento della produttività
sociale abbia esaurito il ruolo storico della centralità della produzione.
Quale, insomma, la relazione tra economia e società, una volta superata la
forma contraddittoria del capitalismo.
La
riflessione più recente dello stesso Claudio Napoleoni può esserci anche qui di
aiuto. In alcuni scritti di questo autore, infatti, viene proposta una
rilettura della prospettiva marxiana di superamento del capitalismo che
riprende esplicitamente le argomentazioni di Mill e Keynes. Dopo aver ribadito
che:
"la
centralità dell'economico, da un certo punto di vista, non può che essere
constatata . . . Però, all'interno di quello che possiamo continuare a chiamare
un compito, questa centralità va negata."("La libertà del finito.
Conversazione con Claudio Napoleoni", in Palomar.
Quaderni di Porto Venere, n. 3, 1987, p. 15)
osserva:
"Questo
però è un discorso aperto, e allora qui vengono concetti molto delicati, come
quello di 'scarsità', e il suo corrispettivo in negativo, che è l'abbondanza.
Insomma, l'economia come scienza della scarsità - anche questo è un paradosso -
è stata pensata così da chi pensava di dare una definizione generale, non
connessa a un sistema sociale dato. Invece, secondo me, si potrebbe mostrare
che questa definizione è strettamente legata al sistema sociale dato; e che, se
invece si volesse tentare una definizione non così condizionata, bisognerebbe
probabilmente pensare ad un'economia in cui il
momento dell'abbondanza -
perciò della quiete, in
qualche modo della tranquilla
fruizione di ciò che si è
conseguito - non si configura solo come necessaria base per andare avanti, ma
come pacificazione, almeno
relativa, rispetto ad una certa condizione storica. Questo concetto avrebbe
altrettanta legittimità di essere elemento costitutivo di una definizione
dell'economia, di quanta ne abbia la scarsità."("La libertà",
pp. 15-16)
Proprio
perché incapaci di intravedere una definizione diversa di economia, prosegue
Napoleoni, Stuart Mill e Keynes avrebbero inteso l'uscita dal capitale come una
uscita dall'economia tout court. Piuttosto, si tratterebbe di vedere che in tal
modo viene a terminare solo una particolare modalità dell'economia. Un
ragionamento, ed un suggerimento, suggestivi: ma che rimandano,
inevitabilmente, ad un chiarimento ulteriore, che riempia di contenuto
l'economia dell'abbondanza, della "tranquilla fruizione di ciò che si è
conseguito".
Vale
la pena di seguire tre possibili piste, tutte in qualche modo consentite dal
percorso dell'ultimo Napoleoni - anche se, come dirò, le prime due non possono
in alcun modo essere da sole viste come rappresentative della sua posizione.
7.2.
Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?
La
prima possibile interpretazione è quella di leggere nel recupero operato da
Napoleoni della nozione greca di "scholé", di contemplazione, come
dimensione dell'essere umano altrettanto essenziale del lavoro, nient'altro che
il rovesciamento rivoluzionario della posizione conservatrice di Augusto Del
Noce.
La
situazione contemporanea viene definita in termini di completa
secolarizzazione, e quindi di crisi dei valori tradizionali: tale crisi
andrebbe intesa però non come definitivo tramonto ma come temporanea eclissi.
Il "compito" di cui parla Napoleoni potrebbe allora essere ridetto in
questo modo: si tratta di superare insieme la riflessione preborghese, che
ritiene che la vera umanità possa esplicarsi soltanto fuori dal lavoro, e
l'assolutizzazione del lavoro realizzata dalla società borghese. Il ruolo
storico del capitale, all'interno di questa lettura, sarebbe stato quello di
costruire le condizioni materiali per estendere a tutti la "scholé".
Il gigantesco progresso tecnico portato dall'industrialismo libera gli
individui dal lavoro come sacrificio, e lo dispone ad "altro", ad
attività in senso lato spirituali. Una prospettiva non troppo dissimile
dal Keynes che, chiedendosi in cosa consista la fine dell'economia, si trova a
citare il vangelo di Matteo (2, 26-30):
"Vedo
quindi gli uomini tornare ad alcuni dei principi più solidi ed autentici della
religione e della virtù tradizionali: che l'avarizia è un vizio, l'esazione
dell'usura una colpa, l'amore per il denaro spregevole, e che chi meno
s'affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della
profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene
all'utile." ("Prospettive", p. 276)
7.3.
Marxismo e psicoanalisi. Un nuovo principio di realtà?
Una
seconda interpretazione, non necessariamente alternativa alla precedente, è
quella di vedere l'uscita dal capitalismo come la condizione del superamento
della contrapposizione tra principio della realtà e principio del piacere.
Questa lettura può prendere lo spunto da alcune considerazioni di Napoleoni
stesso:
"Io
credo che una linea di ricerca
molto proficua è quella del collegamento, che finora è stato tentato soltanto
in modo superficiale, tra il marxismo e una parte della psicoanalisi, della
psicoanalisi come interpretazione della storia. C'è un punto in cui avviene
un possibile congiungimento, che è proprio il punto del lavoro. Il primo Freud, quello che
contrappone principio della realtà e principio del piacere, si è posto il
problema del lavoro in maniera molto precisa, cioè il problema del processo
attraverso il quale, per ragioni attinenti essenzialmente alla sussistenza
fisica, l'uomo abbia dovuto sviluppare una facoltà - appunto il principio della
realtà, cioè il lavoro - che è stata la negazione di una altra sua facoltà, con
una frattura al suo interno che ha determinato, nello stesso momento, sul terreno
sociale la necessità della repressione, e sul terreno della vita individuale la
costituzione graduale dell'inconscio. Poi Freud ha abbastanza cambiato le
sue idee su questo terreno. Però una problematica di questo tipo è molto
vicina, secondo me, a quella che Marx affrontò già nei Manoscritti : perché anche in Marx c'è il problema
del lavoro come opposto ad altre facoltà, lo sviluppo delle quali viene da lui
visto, non a caso, come possibile in una fase in cui il lavoro è diventato meno
necessario di quanto fosse all'origine." ("Marx e la critica
dell'economia politica", in "An.archos", 2, 1979, pp. 104-105)
Tra
i "tentativi superficiali" cui fa riferimento Napoleoni vi è forse da
annoverare quello di un autore, cui peraltro egli ha sempre prestato molta
attenzione: mi riferisco al Marcuse di Eros
e civiltà. Accanto al testo di Marcuse, non privo di interesse è un altro
libro degli anni cinquanta, dalle tesi non molto dissimili: si tratta de La vita contro la morte di Norman Brown, che dedica uno dei suoi
capitoli centrali - intitolato "lo sporco denaro" - all'irrazionale
razionalità dell' homo
oeconomicus , e che fonda
gran parte della sua argomentazione sui brani di Keynes, dalle Conseguenze economiche della pace,
che abbiamo citato. Vale la pena di soffermarsi un attimo su questa particolare
versione di marxismo psicoanalitico.
Basteranno
poche citazioni per cogliere il senso della filosofia della storia proposta da
Marcuse e Brown:
"Per
Keynes, l'arte di vivere, che in un'età di abbondanza e di tempo libero dovrà
prendere il posto dell'arte di accumulare i mezzi di sussistenza, è un'arte
difficile che richiede una raffinata sensibilità, come quella dei membri del
Bloomsbury Group immortalato nell'opera di Virginia Woolf. Per questo Keynes
guarda con terrore all'emancipazione dal lavoro dell'uomo comune. Ma dal punto
di vista di Freud ogni uomo ha gustato il paradiso del gioco durante
l'infanzia; sotto le abitudini al lavoro, in ogni uomo c'è l'immortale istinto
del gioco. Nell'inconscio
rimosso esistono già le fondamenta su cui costruire l'uomo del futuro; non
bisogna crearle dal nulla, basta recuperarle." (Brown, La vita contro la morte. Il
significato psicoanalitico della storia ,
Garzanti, Milano 1986, p.53)
"nel
nostro tentativo di mettere in luce la portata e i limiti della repressività
che domina nella civiltà contemporanea, dovremo descriverla nei termini dello specifico principio della realtà
che ha governato le origini e la crescita di questa civiltà. Gli abbiamo
dato il nome di principio di
prestazione per dare rilievo
al fatto che sotto il suo dominio la società si stratifica secondo le
prestazioni economiche (in regime di concorrenza) dei suoi membri. (Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino
1968, p. 87)
"Il pretesto della penuria , che ha giustificato la
repressione istituzionalizzata fin dai suoi inizi, diventa meno plausibile man
mano che le conoscenze dell'uomo e il suo controllo della natura aumentano i
mezzi per soddisfare i bisogni umani con una fatica minima"(Marcuse, Eros e civiltà, p. 127)
"Il regno della libertà è prospettato come al di là del regno della necessità : la libertà non sta nella 'lotta per
l'esistenza', ma al di fuori di questa. Il possesso e la conquista
dei mezzi necessari all'esistenza, sono il prerequisito, più che il contenuto,
di una società libera. Il regno della necessità, del lavoro faticoso, manca di
libertà poiché in questo regno l'esistenza umana è determinata da obiettivi e
funzioni che non le sono propri, e che non consentono il libero gioco delle
facoltà e dei desideri dell'uomo." (Marcuse, Eros e civiltà, p. 213)
"Quanto
più completa è l'alienazione del lavoro, tanto maggiore è il potenziale di
libertà: l'optimum sarebbe un'automatizzazione totale. E' la sfera al di fuori del lavoro
che determina la libertà e la
realizzazione, ed è la possibilità di determinare l'esistenza umana in base ai
valori di questa sfera che costituisce la negazione del principio di
prestazione." (Marcuse, Eros
e civiltà, p. 181)
"Se
Prometeo è l'eroe civilizzatore della fatica, della produttività e del
progresso per mezzo della repressione, i simboli di un altro principio di
realtà vanno cercati al polo opposto . . . Orfeo e Narciso sono simboli di
realtà, esattamente come Prometeo . . . Ora siamo in grado di trovare qualche
conferma della nostra interpretazione nel concetto freudiano di narcisismo primario . . . con esso, si rivelò l'archetipo
di un'altra relazione esistenziale con la realtà . Il narcisismo primario è più che
autoerotismo; esso assorbe l' 'ambiente' integrando l'Io narcisistico col mondo
oggettivo. . . [in quanto sentimento di estensione senza limiti, e identità con
l'universo (senso oceanico)] il narcisismo può contenere il germe di un
differente principio di realtà."(Marcuse, Eros e civiltà, p. 185-191.
Corsivi nel testo; sottolineature mie)
Il
ragionamento è chiaro. Il principio di realtà viene identificato con il
principio di prestazione, cioè con il lavoro. La civiltà si è potuta
sviluppare, a partire dalla sua originaria situazione di penuria, solo in forza
della repressione del principio di piacere: la desessualizzazione del corpo è
stata necessaria per costringere al lavoro. Ma il superamento della scarsità,
determinato dallo stesso capitalismo, rende possibile lo stabilirsi del nuovo
principio di realtà, il ritorno del rimosso. La condizione di una società
liberata è che vengano recuperati gli istinti infantili repressi, che spingono
verso l'autosoddisfazione e la fusione con l'altro.
In
un saggio di qualche anno fa, raccolto recentemente in volume ("Beyond
Drive Theory: Object Relations and the Limits of Radical Individualism",
in Theory and Society, n.
13, 1985, ora inFeminism and Psychoanalytic Theory , Polity Press, Oxford 1989), Nancy
Chodorow ha sviluppato una critica distruttiva di queste tesi, che rivela
insospettate convergenze con il filo di discorso che sto perseguendo.
Secondo
la Chodorow, Marcuse e Brown assolutizzano il punto di vista del bambino. In
tal modo, non si rendono conto che il principio di realtà non è integralmente
riducibile ad una civilizzazione repressiva basata sul principio di
prestazione. Esso è anche, ed in primo luogo, la soggettività di altri - per il
bambino, la soggettività della madre. I bisogni degli altri divengono un
problema solo per l'adulto, e nel corso del processo di crescita.
Negando
l'altro, si nega in primo luogo la donna. Svalutando la relazione sessuale di
tipo 'genitale', Marcuse e Brown concepiscono il piacere soltanto in quanto non
separazione dall'oggetto d'amore: ma è proprio a partire dalla separazione che
è possibile l'incontro con i desideri dell'altro, che acquistano quasi la
stessa importanza dei propri. Ancora, il rifiuto dell'elemento procreativo
nella sessualità (che entrambi gli autori riprendono da Nietzsche) esprime una
negazione dell'esperienza della maternità (e, più in generale, della
genitorialità), la quale richiede un agire che combina razionalità teleologica,
senso della realtà, accoglimento dei bisogni dell'altro. La donna è qui negata,
dunque, tanto come soggetto di desiderio, quanto come madre-persona che insieme
gratifica e limita l'onnipotenza infantile. Al più compare - sulla scorta di Totem e tabù di Freud - come oggetto sessuale
(proprietà comune della donna); o viene, addirittura, annullata in quanto
singola ed identificata con il mondo (senso oceanico), in una fusione che
configura una relazione asimmetrica di asservimento dell'altro a sé.
Non
a caso, rileva la Chodorow, gli eroi di Marcuse e Brown sono Orfeo e
Narciso: uomini che incorporano in sé il femminile, ma non hanno relazioni con
donne. La liberazione, in questa prospettiva di individualismo radicale, è in
primo luogo liberazione dall'altro, dalla donna (un individualismo da cui, sia
detto tra parentesi, non sfugge, come vorrebbe, la critica che alla
"cultura del narcisismo" viene da autori come Cristopher Lasch, i
quali, contrariamente a Marcuse e Brown, imputano alla società contemporanea
l'allentarsi delle forme di controllo culturale tradizionale; ma in fondo non
stupisce che ad un "es" asociale si contrapponga un
"super-io" altrettanto asociale). Su queste basi, di rifiuto del
processo di crescita e del principio di realtà, il recupero del narcisismo
primario difficilmente può far da base ad una teoria della società non
individualistica, ed a suo modo repressiva.
All'opposto,
psicoanalisi e femminismo possono essere visti come l'affermazione di una
diversa fondazione psicoanalitica per una teoria sociale alternativa: si tratta
di rifarsi ad un "individualismo relazionale", che sottolinei come
gli individui siano costituiti dalle relazioni con gli altri, a partire da
quella primaria con la madre. La nostra struttura psichica è sin dal principio
costruita socialmente. I soggetti possono sfuggire all'alternativa tra
solipsismo e fusione, se accettano la separazione e una "matura
dipendenza" dall'altro come condizione della propria individuazione e del
perseguimento del proprio desiderio.
Da
questo punto di vista, si potrebbe dire che tanto la visione della società del
futuro come ripresa dei valori tradizionali à
la Del Noce quanto il ritorno della natura istintuale à la Marcuse-Brown
condividono, sia pure in forma a loro peculiare, la prospettiva smithiana dell'
"uomo solo". Con la specificazione, ora, che alla solitudine
dell'individualismo corrisponde un genere sessuale non casualmente maschile. E
si potrebbe forse aggiungere che a partire da questa diversa prospettiva,
fondata su una necessaria intersoggettività e sul ruolo cruciale della
relazionalità (a partire da quella primaria e fondamentale, quella con la
madre), sarebbero possibili diverse filosofie della storia. Per esempio,
sarebbero possibili una visione della storia che vede nell'intersoggettività e
nella relazionalità (appunto, se si vuole, perché ha origine in un legame
apparentemente "naturale" come quello madre-figli) un tratto
permanente, che porta dunque a criticare tutte le filosofie che trascurano tale
elemento; oppure una visione della storia che interpreta l'intersoggettività e
la relazionalità (e, addirittura, la stessa relazionalità "materna")
come un prodotto storico - una posizione che evidentemente finirebbe con
l'intersecare le tesi di Marx.
In
effetti, se il discorso su Marx che ho svolto nelle sezioni che precedono ha
una qualche plausibilità, la natura umana resa possibile dal capitalismo ha
caratteri sorprendentemente simili a quelli indicati dalla Chodorow: in
particolare, una essenziale socialità dell'individuo (nel lavoro), una
intrinseca relazionalità, che rende ormai improponibile il paradigma dell'
"uomo solo". Non può non colpire la corrispondenza tra la descrizione
che Marx dà - nei suoi "Estratti dagli Élémens
d'économie politique di James
Mill", del 1844 - di un lavoro autenticamente umano, e quella che la
Chodorow offre di una relazione sessuale e di una maternità (e paternità)
mature. Sia l'una che l'altra sottolineano come l'altra persona entri in
qualche misura realmente dentro di noi; come l'individuo sia, davvero, anche
comunità:
"Supponiamo
d'aver prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe, nella sua
produzione,affermato doppiamente se
stesso e l'altro. Io avrei 1) oggettivato, nella mia produzione, la miaindividualità e la sua peculiarità, ed avrei quindi
goduto, nel corso dell'attività, una manifestazioneindividuale della vita, così come,
contemplando l'oggetto, avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia
personalità come oggettuale,
sensibilmente visibile e quindi come una potenzaelevata al di
sopra di ogni incertezza. 2) Nel tuo godimento o uso del mio prodotto io
avreiimmediatamente il
godimento consistente nella consapevolezza di aver soddisfatto col mio lavoro
un bisogno umano, e dunque
d'aver oggettualizzato l'essenza umana ed aver quindi procurato un oggetto
atto a soddisfare il bisogno di un altro essere umano. 3) D'essere stato per te
l'intermediario fra te ed
il genere, e dunque di venir inteso e sentito da te stesso come un'integrazione
del tuo proprio essere e come una parte indispensabile di te stesso, di sapermi
dunque confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore. 4) D'aver posto
immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua
manifestazione di vita, e dunque d'averconfermato e realizzato immediatamente nella mia attività la
mia vera essenza, la mia essenzacomune ed umana."(Marx, Opere , vol. III, 1843-1844, Editori
Riuniti, Roma, p. 247. Corsivi nel testo)
Una
descrizione che, d'altronde, è ripetuta da Marx nei Manoscritti, con termini quasi
identici, in riferimento al rapporto dell'uomo alla donna: quel rapporto
"da cui si può, dunque, giudicare ogni grado di civiltà dell'uomo";
quel rapporto in cui si mostra "fino a che punto l' altro uomo come uomo è divenuto un bisogno
per l'uomo, e fino a che punto l'uomo, nella sua esistenza la più individuale è
a un tempo comunità."(Manoscritti, p. 225. Corsivi nel testo)
La
visione di Marx è, insomma, caratterizzata da un pessimismo non lontano da
quello di Freud. L'essere umano, per vivere, deve trasformare, ma perciò anche
in una certa misura dominare, una natura esterna a sé; il lavoro a sua volta,
cioè la realizzazione della propria natura storica, comporta una rinuncia al
pieno dispiegarsi della propria natura istintuale. E' in questa rinuncia,
peraltro, che l'essere umano può raggiungere la sua autentica umanità - una
umanità definita, come abbiamo visto, non metastoricamente, ma nell'attuale e
contraddittorio svolgersi della dinamica capitalistica. E' in questa rinuncia,
ancora, che l'essere umano diviene davvero un essere sociale, un individuo
segnato ab origine dalle relazioni con gli altri.
La
prospettiva di Marx non può allora essere la negazione del lavoro, o la sua
riduzione a gioco, come vorrebbe Marcuse: semmai, la sua integrazione con le
altre facoltà umane, quali la contemplazione e il piacere. La libertà reale non
si nega ma si afferma in quel "superare gli ostacoli" che è tipico
del lavoro. Lo stesso lavoro caratterizzante il regno della necessità - le
necessità della riproduzione materiale al livello dato delle forze produttive e
delle relazioni sociali - può divenire lavoro libero, autorealizzazione
dell'individuo:
"Il
lavoro di produzione materiale può acquistare questo carattere solamente 1) se
è posto il suo carattere sociale,
2) se è di carattere scientifico,
e al tempo stesso è lavoro universale,
se è sforzo dell'uomo non come forza naturale appositamente addestrata, bensì
come soggetto che nel processo di produzione non si presenta in forma meramente
naturale, primitiva, ma come attività regolatrice di tutte le forze
naturali." (Grundrisse, II, p. 278-279)
L'atto
d'accusa di Marx al capitalismo è, appunto, quello di avere creato le
condizioni di possibilità di questo sviluppo universale e relazionale
dell'essere umano, mentre al tempo stesso ne impedisce la realizzazione. La
società contro cui Marx si scaglia non schiaccia i diritti dei lavoratori: più
radicalmente, ne violenta la natura. E', in questo senso - ormai del tutto
alieno alla filosofia politica anglosassone - una società non giusta.
Un
punto colto lucidamente da un'autrice estranea al canone classico del marxismo,
come Simone Weil. Il linguaggio dei diritti, scrive, può forse essere adeguato
al rapporto tra acquirente e venditore sul mercato delle merci. Non alla
condizione del lavoratore dentro la fabbrica nel regime attuale, in tutto
analoga a quella di una giovane donna condotta al bordello: "chiunque
parlasse in tal caso dei suoi diritti utilizzerebbe una parola che suona
ridicolmente inadeguata." ("La Personne et le sacré", in Ecrits de Londres et dérnieres
lettres, Gallimard, Paris 1957)
8.
Dobbiamo disperare? Ancora su Marx, tra macchine e antagonismo.
"Compito
della conoscenza è: non capitolare dinanzi alla realtà, che come una parete di
pietra circonda gli uomini. E poiché la conoscenza rimette in vita i processi
storici umani ormai spenti nei fatti compiuti, essa dimostra che la realtà è un
prodotto degli uomini e perciò trasformabile: così il concetto più importante
della conoscenza, la prassi, si rovescia nel concetto di azione
politica"
Alfred
Schmidt, Il concetto di natura
in Marx , Laterza, Bari 1973,
p. 189
Vorrei
proporre una terza interpretazione del suggerimento di Napoleoni che individua
come "compito" una ridefinizione della nozione stessa di economia;
una interpretazione in sintonia con quel Marx che mantiene al lavoro, anche
materiale, un ruolo essenziale oltre il capitalismo.
Si
può partire da questo giudizio, contenuto nello stesso testo in cui quel
suggerimento è avanzato:
"La
produzione come dominio è la 'fissazione' in senso psicotico; l'ossessione del
superamento di ogni e possibile scarsità: sempre, senza che questo abbia fine.
Ecco: qui c'è proprio la possibilità di un momento di riflessione razionale; e
quindi di ricostruzione di un'economia - e
perciò di una regola - che si
dovrebbe dare all'intenzionalità morale - che comunque non può mancare ogni
volta che si parla di 'compito' - un
punto di riferimento che non sia solo uno scatenamento soggettivistico."
(La libertà del finito, p. 23)
Come
intendere questa "regola" - questo principio di realtà, dunque, che
non si contrappone, ma nemmeno si identifica, con il principio di piacere,
configurando uno 'scatenamento soggettivistico'? Credo si tratti di intendere
questa "regola" in continuità con queste altre osservazioni che
Napoleoni formula, proprio criticando la visione di Stuart Mill e di Keynes di
una fine del primato dell'economico da intendersi come uscita dal lavoro:
"Che
il lavoro sia un fatto puramente negativo, un mero costo, rispetto al quale non
si potrebbe porre altro problema che quello di liberarsene, è un'immagine che
sorge appunto sulla base dellastoria data. Se questa storia viene criticata, se quindi non si
pensa che essa sia stata l'espressione compiuta delle facoltà umane, allora si
può pervenire all'idea che il lavoro non soltanto potrebbe essere cosa diversa
da ciò che è stato finora, ma potrebbe anzi essere l'attività mediante la quale
l'uomo si realizza nella sua 'libertà e felicità'. Entro questa impostazione,
lo stesso processo di 'liberazione' dal lavoro a cui il capitalismo darebbe
luogo . . . comporta un giudizio diverso da quelli che si è portati a dare
sulla base di un'impostazione, per intendersi, smithiana: si dovrebbe infatti
dire che ciò a cui quel processo perverrebbe sarebbe una situazione di 'tempo
libero' che gli uomini, appunto perché negati nella loro personalità quando
lavorano, non saprebbero come riempire, fino a giungere (e l'esperienza dei
paesi più sviluppati ne dà una conferma) alla disperazione. Questo significa
che il traguardo di un lavoro come attività libera e realizzatrice (che, come
tale, potrebbe addirittura diventare, nell'immagine datane da Marx, il 'primo
bisogno') non dovrebbe essere spostato in un futuro indeterminato, ma dovrebbe
essere preparato fin da ora." (Elementi di Economia politica, 3°
edizione, La Nuova Italia, Firenze 1980, p. 219-220)
Una
diversa economia presuppone, al tempo stesso, un lavoro diverso e un diverso
"consumo" - una diversa produzione, insomma, è la condizione di un
autentico recupero delle dimensioni della contemplazione e del piacere. Credo
che quest'ultima lettura sia la più fedele alle intenzioni di Napoleoni. Pure,
penso che non sia senza significato che anche le precedenti interpretazioni
abbiano comunque una qualche plausibilità. Le oscillazioni del Napoleoni più
recente trovano infatti la loro origine in difficoltà della posizione di Marx,
e nel particolare contesto storico-sociale in cui ci troviamo.
Per
quanto riguarda Marx, si tratta di ciò. Un lavoro diverso nel "regno della
necessità" richiede per lui che i soggetti siano in grado di
riappropriarsi della propria produttività sociale alienata al capitale, del
sapere sociale generale, che si erge loro contro nella forma di macchine usate
capitalisticamente allo scopo di estrarre il massimo possibile di plusvalore.
Marx, ovviamente, sa benissimo che l'introduzione delle macchine è determinata
dall'antagonismo fondamentale tra capitale e lavoro. La ricchezza capitalistica
è il pluslavoro, il tempo di lavoro vivo erogato dai lavoratori produttivi in
eccesso rispetto al lavoro oggettivato nel salario reale che essi percepiscono:
ma perché questa ricchezza sia ottenuta, il capitalista deve garantirsi sia che
il lavoro sia effettivamente prestato, sia che sussista una differenza
"soddisfacente" tra valore d'uso e valore di scambio della
forza-lavoro. Le macchine sono appunto disegnate in modo da sottrarre il più
possibile agli operai il controllo della prestazione lavorativa trasferendolo
all'impresa, e da consentire lo sfruttamento massimo.
Se
le cose stanno così, però, ci si può chiedere in che misura sia possibile
distinguere tra un uso capitalistico ed un uso non capitalistico delle
macchine. Come Marx stesso sembra sospettare, il processo storico che ha dato
nascita ad un determinato tipo di base tecnica della produzione segna
quest'ultima in modo indelebile. "Quelle" macchine non potranno
essere impiegate altrimenti che per il dominio delle cose sull'essere
umano.
D'altro
canto, si potrebbe sostenere con molte ragioni che la missione storica del
capitale è la costituzione delle condizioni del lavoro sociale non dal lato
oggettivo - dal lato della scienza e della tecnica - ma dal lato soggettivo. L'
"individuo relazionale" costruito nella produzione non sarebbe allora
altri che il lavoratore, non in quanto singolo ma in quanto collettività
solidale che lotta per l'eguaglianza e l'autonomia contro il meccanismo sociale
che lo sfrutta. Se si vuole: l'unico comunismo realmente conosciuto è il tempo
libero, l'ozio produttivo, la dignità, riconquistati qui ed ora, dentro e fuori
dai luoghi di lavoro, da chi ha lottato contro un sistema che annulla le
soggettività. Un comunismo la cui legge di movimento è stata sinora quella di
procedere attraverso sconfitte. Ma qui la difficoltà si presenta in altra
forma: il processo capitalistico, che nasce dall'antagonismo, tende però
sistematicamente ad abolirlo. Da questo punto di vista, Marx non può che dar
ragione a Ricardo: immanente al sistema capitalistico è il periodico tentativo
di ridurre il lavoratore ad elemento della produzione in tutto analogo al
bestiame; a merce che produce altre merci.
La
realtà italiana degli anni ottanta può essere interpretata come un'illustrazione
storica esemplare di tutto ciò. Ha rivelato nei fatti la capacità del sistema
capitalistico di abbattere una opposizione operaia interna ed antagonistica al
processo produzione della ricchezza sociale. Lo strumento di questa distruzione
di soggettività è stato un salto tecnologico. E' il "progresso" nel
sistema di macchine ad avere non soltanto espulso donne e uomini dalla
fabbrica, ma ad avere ridotto ad atomo chi vi rimaneva. Su questo sfondo, non
stupisce che la prospettiva marxiana di integrazione tra lavoro e bisogni vada
persa; che il soggetto possa essere recuperato solo fuori dal lavoro. Ma non è
detto, come oggi troppo facilmente si pensa, che sia una strada senza ritorno.
La
liberazione di tempo per la società cui stiamo assistendo si fonda, come
altre volte nella storia del capitale, su quella negazione di umanità dentro il
processo di produzione materiale che è, a detta di Simone Weil, un autentico
sacrilegio compiuto sulla carne e lo spirito dei lavoratori. La domanda che
essa si pose all'inizio degli anni trenta è ancora la nostra: "Dobbiamo disperare,
allora?". Così, credo, deve esserlo la sua risposta: "Certamente, non
ce ne mancherebbero le ragioni . . . ma, d'altro canto, la nostra debolezza può
impedirci di vincere, ma non di comprendere la forza da cui siamo abbattuti.
Nulla al mondo può impedirci di pensare chiaramente." (Simone Weil,
"Perspectives. Allons nous vers la révolution prolétarienne?" in Révolution prolétarienne, n.
158, 25 agosto 1933).
Riccardo
Bellofiore
Dipartimento
di Scienze Economiche, Università di Bergamo
Nota
bibliografica
Può
essere di qualche utilità indicare i testi che più strettamente mi sono stati
di ausilio nel delineare il percorso logico della mia argomentazione. Un
contributo di grande rilievo sui temi qui trattati è il capitolo "Economia
e filosofia" di Claudio Napoleoni, in Filosofia.
Storia del pensiero occidentale, diretta da Emanuele Severino, Armando
Curcio editore, Milano 1987. Di Napoleoni, come è ovvio, ho anche tenuto
presente il capitolo su Smith in Smith,
Ricardo, Marx, Boringhieri, Torino 1970.
La
mia lettura di Smith - che non ha esclusivamente pretese di maggiore
correttezza filologica, ma anche e soprattutto l'obiettivo di illuminare
aspetti del suo pensiero centrali e pure trascurati dalla vulgata liberista -
ha come riferimento principale più la letteratura secondaria sull'economista
scozzese prodotta da filosofi politici, antropologi, e storici, che non le
interpretazioni avanzate tra gli economisti. Si vedano, per esempio, per quanto
riguarda i filosofi politici Wealth
and Virtue. The Shaping of Political Economy in the Scottish Enlightenment,
edited by Istvan Hont e Michael Ignatieff, Cambridge University Press,
Cambridge 1983 (di Ignatieff va citato anche lo splendido I bisogni degli altri. Saggio
sull'arte di essere uomini tra individualismo e solidarietà, Il Mulino
Bologna 1986), che vede nella "mano invisibile" ciò che concilia
disuguaglianza sociale e assistenza ai più poveri; e per quanto riguarda gli
antropologi Louis Dumont, Homo
aequalis. 1. Genesi e trionfo dell'ideologia economica, Adelphi, Milano
1984 (ed. orig. 1977), il quale individua in Smith una tensione tra un momento
ontologico e naturalistico che rimanda al primato della produzione e del lavoro
dell'uomo isolato, e un momento sociale in cui il valore di scambio è
determinato sul mercato.
Tra
i numerosi lavori di storici, segnalo in particolare Maxine Berg, The age of manufactures. Industry,
innovation and work in Britain 1700-1820, Fontana Press, London 1985, per
quanto riguarda la questione delle diverse vie all'industrializzazione, e
E.A.Wrigley, People, Cities
and Wealth. The Transformation of Traditional Society, Blackwell, Oxford
1987, per quanto riguarda i limiti naturali allo sviluppo. Parte da questi due
testi l'ottima rassegna critica di Maria Luisa Pesante, "La rivoluzione
industriale, gli storici, e la ingannevole concretezza dei classici", inMetamorfosi,
seconda serie, n. 8, 1988 (di Pesante ho anche tenuto presente - non soltanto
per quanto riguarda le sezioni su Smith, ma anche quella dedicata a John Stuart
Mill e a John Maynard Keynes - il non facile ma stimolante Economia e politica, Franco
Angeli, Milano 1986). Va visto anche, pur con qualche forzatura, David McNally, Political Economy and the Rise of
Capitalism. A Reinterpretation, University of California Press, Berkeley
1988, che a partire dalle posizioni controverse di Robert Brenner sulla
transizione dal feudalesimo al capitalismo vede in Smith piuttosto il campione
di un capitalismo agrario che non l'interprete della rivoluzione industriale.
Tra
le analisi di Smith avanzate da economisti me ne sono state utili due che non a
caso fanno storia a sé: quella ormai classica di Giulio Pietranera, La teoria del valore e dello
sviluppo capitalistico in Adam Smith, Feltrinelli, Milano 1963, e quella
più recente di Carlo Benetti, Smith.
La teoria economica della società mercantile, Etas, Milano 1979.
Un'attenzione alle molteplici sfaccettature della filosofia morale di Smith è
suggerita da Amartya Sen, Etica
ed economia, Laterza, Roma-Bari 1988 (ed. orig. 1987). Il lettore
economista intuirà una qualche consonanza tra quanto sostengo e quanto scrive
Albert O. Hirschman, "Interpretazioni rivali della società di mercato:
civilizzatrice, distruttiva o debole?", in Idem, L'economia politica come scienza
morale e sociale, con un
saggio di Luca Meldolesi, Liguori, Napoli 1987, per quanto riguarda in
particolare la tesi del doux
commerce e la tesi
dell'autodistruzione (su questo libro, e su Hirschman più in generale, si veda
la mia recensione su questa rivista, "Hirschman: domande e
inquietudini", Teoria
politica, n. 1, 1988). Ovviamente, di Hirschman rimane fondamentale il suo Le passioni e gli interessi.
Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo,
Feltrinelli, Milano 1979 (ed. orig. 1977), recentemente ristampato. Un cenno va
fatto anche all'articolo di Nathan Rosenberg, "La divisione del lavoro in
Adam Smith: due concezioni o una?", originariamente apparso su Economica nel 1965 e ora incluso in L'economia classica. Origini e
sviluppo (1750-1848), a cura di Riccardo Faucci ed Enzo Pesciarelli,
Feltrinelli, Milano 1976.
Due
monografie di impianto marxiano muovono anch'esse alcuni passi in direzione
della linea che ho esposto. Si tratta di Norman Fischer, Economy and Self. Philosophy and
Economics from the Mercantilists to Marx, Greenwood Press, Westport,
Connecticut 1979, e soprattutto, di David Levine, "Political Economy and
the Argument for Inequality", numero monografico di una rivista
americana molto valida ma poco conosciuta (Social Concept, September
1985). Si vedano anche, sulla stessa rivista, i commenti al saggio di Levine di
Anna Yeatman e Greeg O. Kvistad (June 1986), ed il dibattito tra David Gleicher
e David F. Weiman sulle origini della teoria classica del valore (March 1985).
Su
Stuart Mill, a parte i testi già richiamati, va vista soprattutto
l'introduzione di Giacomo Becattini aiPrincipi di economia politica,
Utet, Torino 1983. Per quanto riguarda Keynes, pur nella differenza di alcune
valutazioni mi è stato di notevole stimolo lo scritto di una anglista:
Alessandra Marzola,Retorica e immaginario nel discorso economico e politico
di J.M.Keynes, raccolto in AA.VV.,L'altro Keynes: linguaggio ed economia,
Pierluigi Lubrina editore, Bergamo 1990. Tra Stuart Mill e Keynes salta agli
occhi l'assenza (del tutto ingiustificata) di Alfred Marshall, che pure alle
questioni qui trattate dedicò non poco spazio nella sua riflessione. Anche in
questo caso rimando a Giacomo Becattini, "Mercato e comunismo in Alfred
Marshall", in Teoria dei
sistemi economici, a cura di Bruno Jossa, Utet, Torino 1989. Qualche
ragione ha invece la non considerazione di Karl Polanyi, la cui critica
all'identificazione della nozione di economia (valida per società non di
mercato) con il concetto di "economico" (modellato sulle categorie
della scienza economica) segnala una rottura più drastica con la
problematica smithiana di quanto non sia il caso degli altri autori analizzati.
La trattazione anche di Marshall e Polanyi avrebbe allungato eccessivamente un
articolo già non breve.
La
sezione su Marx riprende e sviluppa alcune tesi che avevo già sostenuto in
"Il concetto di lavoro in Marx", in Ricerche
economiche, n. 3-4, 1979, e in "L'enigma del lavoro", Collegamenti, n. 23-24, 1989,
dove si trovano più dettagliati riferimenti bibliografici. L'interpretazione
che avanzo, oltre che ai lavori di Alfred Schmidt, si appoggia sulla
ricostruzione della teoria marxiana suggerita nei primi anni settanta da Lucio
Colletti e da Claudio Napoleoni in scritti largamente noti (ho provato a dare una
sintesi delle posizioni del Napoleoni di quel periodo in Un programma di ricerca incompiuto.
La ripresa dell'economia politica critica in Claudio Napoleoni: 1970-1976,
relazione al Convegno "La lezione di Claudio Napoleoni. Politiche, teorie
economiche, e critica dell'economia", Rovigo, 27-28 maggio, di prossima
pubblicazione, a cui rimando per ulteriori indicazioni bibliografiche). Debbo
però almeno ricordare la lucida introduzione di Cristina Pennavaja a Karl Marx, L'analisi della forma di valore,
Laterza, Roma-Bari 1976, che sottolinea l'importanza della distinzione marxiana
tra "divisione del lavoro naturale-spontanea" e "divisione del
lavoro naturale-spontanea sociale". Più in generale, questa introduzione è
un ottimo frutto di una fase di rinascita di studi marxisti in Italia sull'onda
delle traduzioni di lavori fondamentali quali quelli di Rubin, Rosdolsky,
Reichelt, Sohn-Rethel, Krahl, Backhaus; fase ormai lontana, e che contrasta con
la superficialità della discussione attuale. Sulla concezione della storia di
Marx sono di grande chiarezza le poche pagine del capitolo "Social
change" contenute nel volume di Wal Suchting, Karl Marx: An Introduction,
Wheatsheaf Books, Brighton 1983.
La
tensione tra un Marx affascinato dal dinamismo esasperato e distruttore del
capitalismo e un Marx critico dell'atomizzazione borghese, cui egli contrappone
un agire collettivo e i vincoli comunitari prodotti contraddittoriamente dallo
stesso capitalismo, deve molto al bel libro di Marshall Berman, L'esperienza della modernità,
Il Mulino, Bologna 1985 (ed. orig. 1982). La "soluzione" che
suggerisco alla contraddizione individuata da Berman - "se la visione
globale della modernità [di Marx] è esatta, perché le forme di comunità
prodotte dall'industria capitalistica dovrebbero rivelarsi più solide di
qualsiasi altro prodotto capitalistico? Tali collettività non potrebbero
dimostrarsi, come qualsiasi altro elemento di questo contesto, meramente
temporanee, provvisorie, forgiate per invecchiare?" - consiste proprio nella
possibilità e desiderabilità che la comunità operaia antagonista si percepisca
quale è, cioè autodissolventesi essa stessa, e sia dunque capace di far spazio
all'altro da sé, in significativo contrasto con la totalità capitalistica. E'
una soluzione che non fa altro che sviluppare un suggerimento dello stesso Marx
in "La sacra famiglia" ("Se vince, il proletariato non diventa
perciò il lato assoluto della società; infatti esso vince solo togliendo se stesso
e il suo opposto"), e che ripropone l'autentico nodo problematico
della teoria politica comunista: la necessità cioè di tenere insieme la
centralità del lavoro salariato nella teoria della crisi sociale del
capitalismo, riconoscendo la "gerarchia" reale presente nell'attuale
costituzione della società, e la pari dignità dei soggetti quale base materiale
di una autentica democrazia - qualcosa che fa confusamente capolino nel
dibattito attuale su eguaglianza e differenze.
Un
inquadramento delle diverse posizioni di Claudio Napoleoni che richiamo nel
testo all'interno del suo itinerario di riflessione lo si può trovare nei miei
"Un economista critico. Il percorso intellettuale di Claudio
Napoleoni", in Rivista di
storia economica, n. 1, 1989, e "Un' economia politica per la
liberazione", in Il Ponte,
n. 3-4, 1989. La posizione conservatrice di Augusto Del Noce ha una nitida
presentazione in Tramonto o
eclissi dei valori tradizionali?, Rusconi, Milano. L'interpretazione di
Franco Rodano è soprattutto consegnata agli articoli pubblicati sulla Rivista trimestrale. Tra i
molti scritti di Toni Negri in cui viene condotta una lettura antilavorista di
Marx segnalo per tutti Marx
oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano.
La
parte finale del mio scritto è molto influenzata, come è reso del tutto
esplicito, da alcune tesi di Simone Weil, di cui, oltre ai testi citati nel
testo, vale la pena di vedere nella stessa linea:Riflessioni sulle cause
della libertà e dell'oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983 (ed. orig.
1955), e la recensione a Materialismo
e empiriocriticismo di Lenin,
originariamente pubblicato in La
Critique sociale, n. 10, 1933, e ora ristampato in Simone Weil, Oeuvres complètes, II, Écrits
historiques et politiques, tome I: L'engagement syndical (1927-juillet 1934),
Gallimard, Paris 1988. Sul piano interpretativo mi sono stati utili il saggio
di Anna Scattigno, "La volontà di conoscere", originariamente
comparso in Memoria, n. 5,
1982, e ora ripubblicato in Paola Melchiori-Anna Scattigno, Simone Weil. Il pensiero e
l'esperienza del femminile, la salamandra, Milano 1986 (si tratta della più
equilibrata e attenta introduzione al pensiero della Weil di cui sono a
conoscenza), e Peter Winch, Simone
Weil. "The just balance", Cambridge University Press, Cambridge,
1989. Quest'ultimo testo mette bene in luce la differenza, e addirittura la
possibile opposizione, tra una visione della filosofia politica incentrata sul
linguaggio dei "diritti", quale è quella del filone oggi egemone e di
cui l'esponente più noto è John Rawls, ruotante attorno ad una nozione astratta
ed astorica del "contratto sociale" stipulato da soggetti
autointeressati e calcolanti dietro un 'velo di ignoranza', e il linguaggio
della "giustizia" di cui invece parla la Weil, che rimanda piuttosto
in senso forte ad una nozione di "natura umana" e alla contingenza
storica.
Una
visione della filosofia morale che recupera anch'essa la nozione di natura
umana, con un minore piglio polemico nei confronti della tradizione liberale di
quanto sia nella Weil, l'ho ritrovata in due libri di Richard Norman, che mi
sono stati di molto aiuto: The
Moral Philosophers. An
Introduction to Ethics,
Clarendon Press, Oxford 1983, e Free
and Equal. A Philosophical Examination of Political Values,
Clarendon Press, Oxford 1987. Le ultime sezioni di questo lavoro sono anche
state influenzate dal giudizio di Hannah Arendt, che condivido, secondo cui non
potrebbe certamente esserci niente di peggio di una società di lavoratori senza
lavoro (Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1988, ed.
orig. 1958, p. 5), giudizio che però lei impiega erroneamente. Ad Hannah Arendt
si deve anche il termine "ozio produttivo", che utilizzo per
designare i momenti di liberazione che configurano oggi il solo comunismo
possibile.
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