IL mio intento è
disegnare un significato di dialettica che, da un lato, sia
filologicamente sostenibile e, dall’altro, si mostri in sintonia
con esigenze e orientamenti profondi della nostra epoca. Mia
intenzione, insomma, è dimostrare che esiste un senso di dialettica,
storicamente fondato e, ad un tempo, capace di raccogliere ed
esprimere quanto c’è di vitale nella cultura contemporanea. Allo
scopo mi servo di due pagine di altrettanti autori che, sia pure
diversamente, hanno rappresentato momenti importanti della
riflessione teorica novecentesca sulla dialettica: l’economista
inglese Maurice Dobb e il filosofo francese J-P. Sartre.
Non casualmente ho
usato l’espressione «mi servo»: in effetti, utilizzo a volte
(quasi sempre?) quanto scrivono i due Autori, anche per ordinare
riflessioni, che mi derivano da altre fonti. L’operazione è
legittima, esattamente perché dichiarata: ciò che conta è sapere
che non necessariamente il mio commento a Dobb o Sartre è
rispettivamente ‘dobbiano’ o ‘sartriano’, dacché rinvia,
invece, ad altre sollecitazioni, che per altro risultano dalla
bibliografia citata..
Il disegno, che
dovrebbe risultare da tutto ciò, non pretende certo di essere
esaustivo, ma sì orientativo - nel senso di orientare il lettore
verso la comprensione della fertilità, ancora oggi, della
prospettiva dialettica.
1. In M. Dobb, 1974:
70s, troviamo un’esposizione dell’approccio dialettico, che ci
conviene riportare quasi integralmente, per via della sua precisione
ed essenzialità: riflettere sulle singole parti di tale esposizione
ci consentirà subito di afferrare alcuni termini essenziali del
problema «dialettica». Iniziamo.
“Secondo la
concezione marxista della storia (dunque, posta la marxista
«filosofia della storia»: che d’ora in avanti indicherò con
FDS), il progresso ha visto succedersi vari sistemi di classe,
ciascuno generante le condizioni tecniche e i connessi modi di
produzione del tempo, e a sua volta condizionato da essi. Gli
antagonismi di classe, fondati sui rapporti che le diverse sezioni
della società hanno con il sistema di produzione predominante, sono
stati la fondamentale forza motrice del processo, del passaggio da
una forma a quella successiva. Come risulta chiaramente da un esame
delle sue origini, anche il capitalismo è un sistema di classe;
diverso per aspetti di essenziale importanza dai sistemi precedenti,
ma pur sempre fondato su una dicotomia fra i padroni proprietari e i
soggetti espropriati. Era ben naturale che Marx guardasse alle
peculiarità di questo rapporto di classe per trovare una chiave che
gli consentisse d’interpretare il ritmo essenziale della società
capitalistica, di ritrovare gli squilibri, le tendenze al movimento
della società nei suoi fondamenti e non solo sui suoi fondamenti,
dietro il velo delle armonie economiche, che un’analisi limitata
semplicemente ai rapporti di scambio in un libero mercato sembrava
rivelare.“ (sott. mie, S.G.).
Notiamo subito che
M. Dobb, pur volendo illustrare la teoria marxiana circa il modo
capitalistico di produzione (kapitalistische Produktionsweise, d’ora
in avanti KPW) - dunque, un argomento singolare, determinato,
specifico avverte, tuttavia, la necessità (in piena coerenza con
l’impostazione di Marx) di fare di una teoria generale (la FDS) il
punto di partenza.
Com’è chiaro, si
tratta di un modo di procedere radicalmente anti-empiristico, in
quanto presuppone che il «generale» non sia come l’empirismo,
invece, vorrebbe - il risultato di un processo di generalizzazione
(appunto!) dal «particolare» o empirico [1]; ma sìa piuttosto la
condizione per poter osservare il «particolare». In altre parole,
possedere una teoria (corretta) è il presupposto, che mi mette in
condizione di avere una consapevole e determinata esperienza degli
eventi, che si manifestano (in questo senso, di osservarli, non
semplicemente di vederli). Si tratta, lo ripeto, di un classico
argomento anti-empiristico, che Marx poteva ricavare - se non altro -
da Hegel (1770-1831) e da Leibniz (1646-1716) [2] e che ricomparirà,
per es. in Lenin (1870-1924), quando questi affermerà la centralità
della teoria sia per la costruzione del partito, sia per la stessa
azione rivoluzionaria.
È utile notare, ancora, che fa parte della teoria generale ovvero della FDS marxiana o dialettica- concepire le condizioni tecniche e i modi di produzione come qualcosa che muta nella storia, che assume forme diverse; e che son proprio queste forme diverse ciò, che specifica e differenzia ogni singola tappa del processo storico: quest’ultimo, dunque, non potrà esser letto -linearmente- come lo svolgersi progressivo di uno stesso schema o essenza (la economia, la società o l’uomo) [3].
Ben al contrario, i
sistemi di classe, che volta a volta si presentano nella storia, da
un lato, impongono alle condizioni tecniche ed ai modi di produzione
certe forme determinate e, dunque, irripetibili; dall’altro, questi
stessi sistemi non sono né casuali né arbitrari, in quanto son
quelli resi possibili da condizioni tecniche e modi di produzione
empiricamente esistenti [4].
Dunque, fa certo
parte dell’approccio dialettico l’affermazione del primato della
teoria sull’empirico, ma anche la consapevolezza che una teoria è
capace effettivamente di ‘leggere’ il movimento reale (in questo
senso la storia), se è in grado di cogliere di quest’ultimo (e di
giustificare) non solo i tratti costanti e generali, sì anche le
differenze essenziali, che ne caratterizzano le varie tappe. Ma dal
rapporto fra sistemi di classe, da un lato, e condizioni e modi di
produzione, dall’altro, possiamo ricavare anche un’ulteriore
riflessione, per altro di grande importanza sul piano scientifico.
Abbiamo visto,
infatti, che per un verso i sistemi di classe determinano condizioni
e modi di produzione, ma per un altro sono, a loro volta, determinati
da questi ultimi: è esattamente come se dicessi che «c è causa di
e (cCe)», ma a sua volta che «e è causa di c (eCc)». Non è
difficile comprendere che accogliere come vere entrambi le formule
significa mettere radicalmente in discussione quello che comunemente
si intende per rapporto di causa ed effetto [5]. Facciamo un esempio
per chiarire.
Posto che M sia una
medicina, suo effetto sarà la guarigione -in questo senso è del
tutto legittimo affermare che M è causa della guarigione. Ma cos’è
che rende M una medicina? Il suo produrre guarigione -in questo senso
è del tutto legittimo affermare che la guarigione è causa della
medicina, è ciò che rende la medicina appunto medicina. [6]
In definitiva, la
critica dialettica del principio di causalità significa operare una
duplice sostituzione: (i) al posto di categorie rigidamente separate
e giustapposte (causa e/o effetto), introdurre, invece, categorie
fluide; (ii) al posto di un movimento univocamente determinato
(quello della causa in direzione dell’effetto), introdurre un
sistema di interazione e, dunque, un movimento in qualche modo
circolare (nel senso che se è vero che la causa determina l’effetto,
è altrettanto vero che solo la presenza dell’effetto fa sì che la
causa esista effettivamente) [7].
Riprendendo a
leggere il testo di M. Dobb, osserviamo che esso sottolinea come
oggetto della riflessione marxiana sia non già uno stato di fatto,
ma sì un processo (quello del passaggio da una forma sociale ad
un’altra) e, quindi, le forze motrici, che lo provocano.
Si tratta di una
precisazione di grande rilievo, perché, da un lato, ci fa capire
cosa significhi il motivo dialettico (hegeliano, in effetti), secondo
cui la coscienza è sempre in ritardo rispetto a ciò, di cui è
coscienza; dall’altro, ci dota di uno strumento per valutare la
serietà (o non serietà) di una filosofia, nonché ci permette di
comprendere in che senso e limite sia possibile - filosoficamente -
un sapere, che anticipi sul futuro. Vediamo con ordine.
Iniziando, nei
Grundrisse, l’analisi delle forme precapitalistiche di produzione,
Marx indica tre processi o relazioni, che caratterizzano la KPW: 1)
lo scambio lavoro libero contro denaro, 2) la ricerca del denaro per
ottenere nuovo denaro, 3) la netta separazione del lavoratore libero
dalle condizioni materiali del lavoro.
Sotto il profilo
metodologico, il fatto che il testo di Marx (dedicato, lo si ricordi,
alle forme pre-capitalistiche di produzione) inizi in questo modo, a
ben vedere, ci dice che l’intento di Marx non è propriamente
quello dello storico (almeno se ci atteniamo a ciò che comunemente
si intende per «ricostruzione storica»). Insomma ci dice subito che
dalle marxiane Formen non dovremo attenderci la ricostruzione attenta
e precisa di ciò, che costituiva l’essenza specifica di ognuna
delle forme precapitalistiche; sì piuttosto un’analisi di esse,
che ci aiuti a comprendere attraverso quale processo si sia giunti
alle relazioni, caratterizzanti la KPW.
Essendo questo
l’intento di Marx, è evidente che il suo studio storico
selezionerà, tra i fatti, quelli pertinenti, rilevanti,
significativi rispetto all’intento dichiarato; la sua sarà
tutt’altro che una storia ‘totale’, sì piuttosto una storia
orientata, funzionale rispetto allo scopo di comprendere meglio le
caratteristiche della KPW. E ciò comporterà, anche, una particolare
predilezione da parte di Marx (ma, lo si può dimostrare, anche da
parte di Hegel) verso quei momenti storici, che possiamo dire
critici, nel senso che consentono di vedere sufficientemente ben
dispiegati i caratteri di un’epoca, insieme, però, al primo
evidenziarsi di quegli altri caratteri, che accompagnano l’epoca
alla propria dissoluzione ed al passaggio ad un’altra.
Se chiamiamo
«filosofia» la coscienza, che l’epoca storica assume di sé [8],
vediamo che - nel senso dialettico di Marx (e di Hegel)- essa nasce
tardivamente rispetto all’epoca, in quanto ha bisogno non solo che
questa epoca esista effettivamente, ma sì anche che sia
sufficientemente sviluppata da mostrare quali siano i propri tratti
specifici, - ovvero, quelli mancando i quali, si scuotono le basi
d’esistenza dell’epoca in questione -; ed anche da cominciare a
lasciar vedere i tratti di una nuova epoca.
La filosofia,
dunque, è sempre legata ad un ‘oggetto’, ad un mondo storico
effettivamente esistente; e compito suo è render conto di questo
mondo, non di abbandonarsi a quell’ebbrezza speculativa, che fa
disprezzare l’esistente, sostituendolo con l’ideale.
Ecco il criterio
discriminativo: una filosofia, che si sia liberata di ogni
romanticismo, che abbia raggiunto l’età matura e, dunque, sappia
farsi carico delle proprie responsabilità, non si ritiene estranea a
questo mondo; considera, al contrario, proprio questo mondo come la
sua autentica patria [9] e cerca di comprenderlo (non di fuggirlo, in
nome di un nobile ma esangue ideale), nonché di comprendersi come
parte di esso. [10]
Tirando le somme,
una filosofia, per esser seria [11], ha da avere un «oggetto» -e,
dunque, comparire dopo di quello-; deve coglierne la specifica
razionalità, ovvero, quel dinamismo proprio, che ne spiega sia la
sussistenza, sia il possibile ‘superamento in altro’; ma ciò
significa che l’«oggetto» della filosofia non è una cosa, uno
stato di fatto, sì invece un certo determinato groviglio di forze,
di tendenze, di dinamismi, di contraddizioni, che ci consentono
attraverso la comprensione dell’oggetto, la comprensione, anche,
del suo possibile futuro.
In questo senso, la
filosofia -pur nascendo dopo il proprio «oggetto»-, si apre alla
comprensione del futuro [12].
Il testo di M. Dobb,
che qui ci interessa, termina, proponendoci una considerazione di
estremo interesse.
“Il valore
-sottolineava Marx- non è un misterioso attributo intrinseco alle
cose: è semplicemente un’espressione del rapporto sociale tra
uomini... Spiegare per tanto il plusvalore in termini di qualche
proprietà di un oggetto (capitale), significava ricadere in quello
che Marx definiva il feticismo delle merci: una specie di animismo in
cui l’economia volgare post- ricardiana si invischiava sempre
più.”.
Posto che capitale,
plusvalore, salario, profitto, merce etc. non sono che membri della
classe categoria economica, appartiene alla teoria di Marx la tesi,
secondo cui ogni categoria economica è il risultato di un certo
insieme di relazioni sociali, costruitosi storicamente. In questo
senso, la categoria economica non è un’esistenza autonoma, non
solo perché ha senso unicamente in quanto si relaziona, in un certo
modo, ad altre categorie economiche, ma anche perché non esisterebbe
(o se esistesse, non avrebbe il senso che, di fatto, ha all’interno
di un sistema produttivo dato), se non si dessero storicamente certe
relazioni di classe.
Assumere
effettivamente coscienza, dunque, della categoria economica significa
scioglierla dalla sua apparenza di cosa esistente e ricondurla alla
sua realtà, al suo essere, ovvero, rappresentazione di un certo
intreccio di relazioni sociali (naturalmente non gratuito e
arbitrario, ma storicamente spiegabile, dati certi livelli di
sviluppo tecnologico e certe condizioni naturali e culturali).
Come si vede, torna
la critica all’empirismo: posta la KPW, essa si rappresenta
attraverso categorie economiche, che a tutta prima si presentano come
costituenti un autonomo dominio reale (il mondo economico), dotato di
proprie leggi e regole, che la coscienza umana dovrebbe limitarsi
sostanzialmente a riconoscere [13].
Ma -dice la critica
dialettica (anche qui non solo di Marx, ma pure di Hegel)-, in
realtà, quelle categorie non sono altro che il presentarsi -come
cose a sé stanti- delle relazioni sociali o di classe, che
specificano la KPW; dunque, ‘le cose’ non vanno prese sul serio,
non vanno assunte per come si presentano; ma piuttosto -a dir così-
bisogna aggirarle, andar dietro o sotto di esse, per mettere in
evidenza il non casuale intrigo di forze, tendenze, relazioni e
contraddizioni, che costituiscono l’autentica sorgente
storico-sociale di quelle categorie (o cose). [14]
È facile vedere
come la forma o logica di questo ragionamento riproduca la forma o
logica della critica all’empirismo, che Leibniz, ad es., muoveva.
La produttività
scientifica della critica all’empirismo è sottolineata, in un
esempio di rilievo, dallo stesso M. Dobb, quando scrive:
“indubbiamente,
per Marx la più importante applicazione della sua teoria fu
l’analisi del carattere delle crisi economiche. Ai suoi tempi,
l’esame serio di questi fenomeni era ancora agli inizi. Si erano
avute alcune feconde, ma non-sistematiche, osservazioni del Sismondi
(1773-1842) circa gli effetti disintegratori della concorrenza e
della produzione per un largo mercato; si era avuta la classica
discussione fra Malthus (1766-1834) e Ricardo sul fatto se prosperità
e depressione fossero dovute alla deficienza del consumo; in
Germania, Rodbertus (1805-1875) aveva sviluppato la sua teoria delle
crisi, basata sul sottoconsumo. Ma, per quanto riguardava la scuola
ricardiana e la sua tradizione, si può dire che nel suo sistema le
crisi non trovavano virtualmente posto; se si verificavano
depressioni, esse dovevano essere considerate come dovute a
interferenze esterne nel libero gioco delle forze economiche o nel
progresso dell’accumulazione del capitale, piuttosto che come
effetto di una cronica malattia interna della società capitalistica.
Perfino i successori di questa scuola furono tanto ossessionati da
questa presunzione che cercarono una spiegazione in cause naturali
(come il diverso andamento dei raccolti) o nel “velo monetario”.
Ma a Marx appariva evidente che le crisi sono connesse con i
caratteri essenziali della economia capitalistica presa in sé.“
(Dobb, 1974: 85).
________________________________________
[1] Va da sé che
tutto ciò che è empirico (dunque, possibile oggetto d’esperienza
sensibile) è particolare.
[2] Quest’ultimo,
in particolare, è interessante, dacché in polemica con l’empirista
inglese John Locke (1632-1704), sottolinea il dogmatismo, da cui è
necessariamente affètta l’impostazione empiristica, che assume il
dato empirico come l’indiscutibile e non si sforza di cogliere il
complesso di condizioni, di cui invece è espressione.
[3] È’
l’«errore», che commette il pensiero economico borghese, dacché
interpreta le epoche pre-capitalistiche come tappe per giungere alla
società capitalistica, ovvero, all’unica in cui, finalmente, le
eterne leggi dell’economia sono riconosciute e rispettate. È
questo il senso anche della critica che F. Engels muoveva a Dühring.
[4] A sostegno
dell’uso di «possibile» in questo contesto, cf. M. Dobb, 1974:
19, il quale scrive: “... le alternative esistono, nonostante il
determinismo di cui danno prova gli economisti appellandosi alle
‘leggi economiche’.”. Per questi temi, rimando al mio
Dialettica e socialità, Roma 2000.
[5] Almeno se è
vero che tale rapporto implica una chiara e netta distinzione fra ciò
che gioca il ruolo di causa e ciò che gioca il ruolo di effetto.
Accettare come vere sia cCe che eCc, implica invece ammettere che
causa ed effetto, pur essendo opposti, si rovescino l’una
nell’altro e vice versa.
[6] La
‘pericolosità’ di questo tipo di argomento è chiara: se
affermo, poniamo, che dio è creatore del mondo, in realtà affermo
anche che dio, per esser tale, dipende dal mondo, nel senso che è
l’esistenza del mondo a renderlo dio, a porlo come dio. In tal modo
ho rovesciato una fondamentale affermazione religiosa nel proprio
contrario -ovvero, nell’affermazione della dipendenza di dio dal
mondo. È questa, in definitiva, l’operazione, che compie Hegel,
1970; operazione che, con tutta evidenza, è il presupposto del
discorso, che Feuerbach (1804-187) farà sulla religione.
[7] Le formule
possono aiutare a capire: se il rapporto di causalità può essere
rappresentato con: c --> e (la causa, che si muove verso
l’effetto, che opera su di esso); la critica dialettica alla
causalità può invece autorizzare una formula come la seguente: c
<--> e (ovvero, il muoversi degli estremi ognuno verso l’altro,
dunque, il loro agire l’uno sull’altro). “Le spiegazioni
causali - osserva V. Giacchè, 1990: 59 hanno per Hegel validità
universale, ma loro proprium è la natura inorganica, in quanto solo
eccezionalmente (per lo più in condizioni patologiche) i rapporti
causali risultano «dominanti» nell’ambito della vita e dello
spirito... per un verso causa ed effetto restano esterni e
contingenti l’uno all’altro, cosicché la necessità che nel
rapporto causale si vorrebbe esibire è soltanto presunta...; per
l’altro, la cosiddetta «spiegazione» di un fenomeno è concepita
come il mostrare l’identità di un effetto e delle sue condizioni
causali, lo stesso «spiegare non è nient’altro che la produzione
di una tautologia».”
[8] Dobbiamo
necessariamente risolvere in questo modo pericolosamente rapido un
problema centrale della prospettiva dialettica (l’affermazione,
appunto, della filosofia come coscienza scientifica, che la storia
assume di sé). Se non lo facessimo renderemmo questo scritto ancora
più esteso e pesante.
[9] Il termine
tedesco per patria è Heimat e unheimlich è, per Freud, quella
condizione psichica, per cui proprio in ciò che riconosco come mia
patria mi sento - nello stesso momento - estraneo.
[10] Siamo
probabilmente in condizione, ora, di comprendere cosa intendesse
Hegel con la sua identificazione di reale e razionale (il razionale
sta qua, in questo mondo; non c’è altra razionalità, se non la
razionalità di questo mondo) e Marx, quando parlava di
«realizzazione della filosofia» (la filosofia deve assumere
coscienza che questo mondo è la sua patria, così come il mondo deve
riconoscere nella problematica filosofica l’espressione di sue
effettive, profonde esigenze).
Si consideri
quest’altra pagina di M. Dobb: “I problemi reali sono determinati
tanto dall’azione che l’uomo guidato dal pensiero esplica su una
situazione determinata, quanto dalla stessa situazione oggettiva (ma
in movimento); in tal senso si può dire che i problemi reali
rappresentano sempre, pur se in vario grado, una contraddizione tra i
due elementi indicati. Questi problemi diventano comunque il punto di
partenza di un nuovo pensiero, il punto d’avvio della formazione di
nuovi concetti e teorie, che in tal senso sono sempre in rapporto con
un particolare contesto storico. I concetti e idee che cambiano di
continuo sono in parte un commento o un’interpretazione - un
«riflesso», se si vuole usare un termine così passivo- della
situazione oggettiva osservata secondo una prospettiva particolare”.
(Dobb, 1974: 21). Nello spirito della dialettica di Hegel e di Marx
sembra essere questa pagina: “Noi abbiamo a che fare col fondamento
di ogni scienza e di ogni metodo, con quel fondamento tanto difficile
da cogliere nella sua semplicità -il fatto che c’è ragione. C’è
ragione - è il principio di ogni scienza teorica, di ogni scienza
che vuol parlare in modo ragionevole di ciò che è... C’è ragione
(ovvero) l’essere del mondo è aperto all’uomo, ... il mondo è
ragionevole come lo è il discorso dell’uomo, ... la ragione del
mondo e la ragione nell’uomo sono una e medesima ragione. C’è
osservazione, c’è analisi, sintesi, perché il discorso è il
mondo divenuto parola e questo mondo è il discorso realizzato.”
(Weil, 1985: 202)10.
[11] Per Hegel e per
Marx questo significa non utopistica, non idealistica, non
irrazionalistica.
[12] In quanto
basata sulla conoscenza dell’oggetto proprio, tale apertura non ha
nulla a che vedere con l’utopismo.
[13] Si osservi come
questo atteggiamento della coscienza sia simile a quello, che essa
assume nei confronti della verità religiosa.
[14] È ovvio notare
l’evidente relazione tra questa concezione delle categorie
economiche da un lato, e l’hegeliana identificazione di reale e
razionale, nonché la marxiana realizzazione della filosofia.
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In questa
contrapposizione fra scuola ricardiana e prospettiva dialettica
marxiana, ciò che, di fatto, emerge è il nesso, che lega dialettica
e sistematicità del conoscere.
Per comprendere,
poniamoci dapprima questa domanda: che cosa significa, dal punto di
vista epistemologico, la crisi economica? Una risposta -suggestiva,
ma forse anche corretta- è che essa è quel no!, che interrompe il
regolare, automatico svolgersi delle leggi di funzionamento del
sistema economico dato; in tal senso, la crisi è un’interruzione
di continuità, un punto di rottura del sistema, di discontinuità.
La scuola ricardiana
-sottolineava Dobb- ha coscienza di quel no!, ma -in quanto momento
di discontinuità- lo colloca fuori del sistema ed, infatti, ne
ricerca le cause in “interferenze esterne”, rispetto al “libero
gioco delle forze economiche”. Questo significa (anche) che nella
scuola ricardiana funziona un certo modello di sapere, che è
sistematico, ma in senso deduttivo-analitico; in altre parole, se è
vero che la tradizione ricardiana non si accontenta di un sapere
semplicemente empiristico (ed in questo senso Marx può citare, ad
es., Ricardo contro Proudhon), è altresì vero che la sistematicità
scientifica è pensata da essa, in modo da escludere la
contraddizione, l’opposizione, il no!: si tratta, quindi, di una
sistematicità costruita da enunciati, che pretendono d’essere
linearmente deducibili l’uno dall’altro.
In Marx -nella
dialettica-, le cose stanno altrimenti. Il no!, la contraddizione, la
crisi son concepiti come appartenenti al ritmo stesso dell’«oggetto»;
non nascono, dunque, da una sospensione delle leggi regolanti il
sistema, ma piuttosto sono un prodotto di quelle stesse leggi. [1]
Il sistema, a cui
l’epistemologia dialettica rimanda, ha la discontinuità al proprio
interno, ha il no! come parte di sé. Se è vero che la forma
sistematica ci dice la razionalità dell’«oggetto», ciò va
inteso nel senso di una razionalità, che rende conto del regolare e
dell’irregolare, del continuo e del discontinuo, del razionale e
dell’irrazionale. Non abbiamo più a che fare, dunque, con una
sistematicità deduttivo-analitica, ma sì con una sistematicità
contraddittoria, dialettica appunto.
2. Non esiste la
filosofia, afferma Sartre, ma le filosofie: se ne trova sempre solo
una alla volta, "che sia vivente". Questa filosofia vivente
"si costituisce
come espressione del movimento generale della società e, finché
vive, è lei a servire da ambito culturale ai contemporanei.
Quest’oggetto sconcertante si presenta ad un tempo sotto aspetti
profondamente distinti di cui opera di continuo l’unificazione."
(Sartre, 1963.: Il); la filosofia è "la totalizzazione del
Sapere contemporaneo: il filosofo opera l’unificazione di tutte le
conoscenze regolandosi su determinati schemi direttivi che traducono
gli atteggiamenti e le tecniche della classe in ascesa di fronte alla
sua epoca e al mondo" (Sartre, 1963: 17). La filosofia "è
innanzitutto una certa maniera per la classe «in ascesa» di
prendere coscienza di sé; coscienza che può essere chiara o
confusa, diretta o indiretta: ai tempi della nobiltà di toga e del
capitalismo mercantile, una borghesia di giuristi, di commercianti e
di banchieri ha colto qualcosa di se stessa attraverso il
cartesianesimo; un secolo e mezzo più tardi, nella fase primitiva
dell’industrializzazione, una borghesia di fabbricanti, d’ingegneri
e di scienziati si è oscuramente scoperta nell’immagine dell’uomo
universale che il kantismo le proponeva." (Sartre, 1963: 17).
Una "filosofia,
quando è in piena virulenza, non si presenta mai come una cosa
inerte, come l’unità passiva e già compiuta del Sapere; nata dal
movimento sociale, è anch’essa movimento e incide sull’avvenire:
questa totalizzazione concreta è insieme il progetto astratto di
proseguire l’unificazione sino agli estremi limiti; sotto questo
aspetto, la filosofia si caratterizza come metodo di investigazione e
di spiegazione; la fiducia che ripone in se stessa e nel proprio
sviluppo futuro non fa che rispecchiare le certezze della classe che
la sostiene. Ogni filosofia è pratica, anche quella che sembra a
tutta prima la più contemplativa; il metodo è un’arma sociale e
politica: il razionalismo analitico e critico dei grandi cartesiani è
loro sopravvissuto: nato dalla lotta, s’è rivolto su di essa per
illuminarla; nel momento in cui la borghesia cominciava ad abbattere
le istituzioni dell’ Ancien Regime, essa aggrediva i significati
scaduti che tentavano di giustificarle. Più tardi ha servito il
liberalismo e ha dato una dottrina alle operazioni che tentavano di
realizzare «I’atomizzazione» del proletariato." (Sartre,
1963: 18a). "Così la filosofia resta efficace finché rimane
vivente la praxis che l’ha generata, che la sostiene e che essa
illumina." (Sartre, 1963: 18b). La filosofia "dev’essere
insieme totalizzazione del sapere, metodo, Idea regolativa, arma
offensiva e comunità di linguaggio ...questa «visione del mondo» è
anche uno strumento che agisce sulle società tarlate..."
(Sartre, 1963: 19). "Con la sua presenza reale, una filosofia
trasforma le strutture del Sapere, suscita delle idee e, anche quando
definisce le prospettive pratiche d’una classe sfruttata, polarizza
la cultura delle classi dirigenti e la cambia." (Sartre, 1963:
25).
Di fatto, la figura
della filosofia vivente ci è parzialmente nota: già in Dobb,
infatti, incontravamo la filosofia come autocoscienza di un’epoca
-e questo è, senza dubbio, uno dei significati dell’espressione
filosofia vivente (d’ora in avanti, FV); tuttavia, l’illustrazione,
che Sartre offre di tale filosofia, ci consente di coglierne aspetti,
finora non chiari e di svolgere considerazioni, che la pagina di Dobb
non sollecitava. Ma procediamo nel commento.
Dunque, la FV (a)
esprime il “movimento generale della società”, (b) dà la
propria impronta ai diversi ambiti culturali, unificandoli così
all’interno di un certo ‘tono’ (se si può usare una tale
espressione), che caratterizza un’epoca, ma anche -e
contemporaneamente- (g) quella filosofia si presenta “sotto aspetti
profondamente distinti”.
Potremmo dire che FV
dà espressione ad un modo determinato di organizzare la relazione
dell’uomo con se stesso e con il mondo, dà forma ad una certa
attitude [2] dell’uomo verso la propria condizione, contribuendo
così a strutturare (e a dotare di senso) l’esperienza, che
l’umanità storicamente fa.
Naturalmente,
organizzazione, attitude, dotazione di senso non hanno nulla di
arbitrario e gratuito; al contrario, costituiscono forme di vita,
rese possibili (non necessarie!) da oggettive condizioni d’esistenza
ed, a loro volta, esse contribuiscono a definire il quadro, entro il
quale si elaboreranno faticosamente la nuova attitude, la nuova
organizzazione, insomma, il nuovo senso dell’esperienza, legato
all’apparire ed imporsi di nuove condizioni di vita.
Se vale quanto
detto, allora è vero che FV non è una creazione primaria, in quanto
presuppone l’esistenza di un’ attitude, di un’organizzazione,
di un senso storici (insomma, di una forma di vita), che siano già
operanti, che costituiscano già -nella pratica- l’esperienza, che
l’uomo fa in un momento dato.
Ancora una volta, la
filosofia è in ritardo rispetto al proprio oggetto, in quanto di
esso è la coscienza, tanto che possiamo dire con E. Weil, che le
categorie, nelle quali si articola il pensiero, sostanziano la
consapevolezza di sé, che storicamente un’attitude va
costruendosi.
Ma, appunto, la
filosofia è quel pensiero, che struttura dal punto di vista della
coscienza- una certa attitude e, dunque, una determinata forma di
vita. Questo significa che la filosofia non è un sapere determinato,
ma invece, sempre, un sapere totalizzante, perché nasce dalle radici
profonde di un’epoca storica, perché esprime. il “movimento
generale della società” e, dunque, informa di sé le varie e
diverse manifestazioni, in cui si articola una forma di vita.
Insomma, la filosofia è, in questo senso, una «visione del mondo»,
una Weltanschauung.
Ma, come abbiamo
visto, FV ha struttura dialettica; il che significa che il suo
andamento totalizzante non esclude, ma comprende in sé l’opposto,
ovvero, la differenziazione. Ed, infatti, la pagina sartriana ci dice
che “quest’oggetto sconcertante (dunque, la dialettica FV) si
presenta ad un tempo sotto aspetti profondamente distinti di cui
opera di continuo l’unificazione”.
Ogni filosofia -nel
senso della dialettica FV- è qualcosa di attivo, di trasformatore:
è, dunque, pratica. Ancora una volta, assistiamo al paradossale
capovolgersi dell’opposto nel proprio opposto. Esattamente la
filosofia -questa coscienza di un’epoca, che ne assicura la
traduzione più raffinata sul piano formale (le sue categorie,
infatti, sono l’attitude proiettata sul piano della coscienza) è,
contemporaneamente, pratica, trasformatrice.
Come si vede, Sartre
ripropone quel motivo, che abbiamo già trovato in Marx (ma che si
rintraccia anche in Hegel) della realizzazione della filosofia; così
facendo Sartre ripropone, inevitabilmente, quel senso tutto
immanentistico- della razionalità del reale, di cui abbiamo già
detto.
3. Per dare una conclusione al nostro schema o disegno sulla dialettica, son necessarie alcune puntualizzazioni. La prima delle quali è la seguente: se affermassimo la possibilità di cristallizzare la dialettica entro alcune forme ben precise e continuamente riproponentesi (le cosiddette sue leggi o forme universali), cadremmo nel paradosso -logico, non dialettico e, per questo, inaccettabile [3]- di patrocinare quella forma di pensiero, che ha accolto entro di sé la storia (dunque, il dinamismo, il cambiamento, la differenza); ma, contemporaneamente, di volerla irrigidire, fissandola in schemi, che pretendono mantenersi identici, quali che siano le diversità di primo acchito. Se cadessimo in questo errore, in realtà, riproporremmo un formalismo, che tenderebbe a ridurre le esperienze alla propria misura, piuttosto che esibire la duttilità necessaria ad esprimerne le diversità formali. Insomma, cadremmo nella contraddizione di pensare non dialetticamente la dialettica.
Affermare che
esistono leggi (o forme) universali della dialettica, ancora una
volta, suggerisce l’immagine di una realtà, che sta lì di fronte
a noi, bell’ e fatta, con le sue leggi proprie e rispetto alla
quale non abbiamo altro compito, se non di rispecchiare/tradurre
nella nostra mente tale ordine e struttura obiettivi.
A questo punto
l’uomo, il soggetto, sarebbe ridotto a mèra passività.
Esattamente nella stessa misura, in cui il mondo sarebbe segno,
invece, di una oggettualità [4], comparabile all’incontrollata e
irrevocabile verità religiosa oppure alla ‘positività’ del
cosiddetto materialismo volgare [5]. In una parola, la dialettica
sarebbe ridotta a scientismo.
Che lo scientismo
sia collegato al positivismo o neo-empirismo, lo si ricava molto bene
dal già citato M. Dobb, quando descrive il pensiero economico oggi
dominante, individuandone quali forme caratteristiche: (a)
l’applicazione rigorosa del linguaggio matematico; (b)
l’accettazione solo di enunciati o grammaticali o empirici [6] e,
infine, (g) il rigetto di tutti gli enunciati, che non rientrino
nelle due classi precedenti, in quanto metafisici. Collocata in tale
prospettiva, l’economia [7] acquisterà - o pretenderà di
acquistare - l’aspetto e l’andamento di una qualunque scienza
della natura [8] e di negare, quindi, “il suo carattere
essenzialmente sociale e storico” [9]; la conseguenza inevitabile è
che dall’orizzonte dell’economia scompaia il mondo
dell’esperienza, ovvero, il fitto e complesso intreccio, dato dal
rapporto - storicamente mutevole - dell’uomo con il proprio mondo
sociale e naturale. Ma scomparsa l’esperienza, in questo senso, non
è dubbio che scompaia anche la dialettica.
Non per caso - come
ha sottolineato recentemente H. H. Holz, l’imporsi dello scientismo
comporta, anche, l’imporsi della cosiddetta Lebensphilosophie
(filosofia della vita) [10]. Se riconsideriamo, infatti, le tre forme
caratteristiche dell’attuale pensiero economico, poste in luce da
Dobb, vediamo che questo pensiero non nega affatto la presenza nel
ragionalento economico di enunciati, che non rientrino né in (a) né
in (b); più semplicemente, si limita a non considerarli scientifici,
ma sì speculativi, metafisici.
Nella prospettiva
dello scientismo, esiste, dunque, uno spazio per la metafisica, per
lo speculativo; si riconosce che nel corpo effettivo di una scienza
non compaiono solo enunciati del tipo (a) o (b); ma l’unica
conseguenza che se ne trae è di non riconoscere al terzo tipo di
enunciati carattere scientifico e, così, sottrarli ad ogni controllo
e vincolo da parte della scienza.
Insomma, il discorso
economico -per restare al nostro esempio, ma il senso
dell’osservazione va, naturalmente, al di là -, in quanto
scientifico, si ridurrà agli elementi ed aspetti quantificabili,
matematizzabili e, dunque, particolari, parziali ed interni al
dominio dell’empirico; in quanto, però, orientato a prospettive
generali e non parziali, dovrà nutrirsi di enunciati metafisici,
speculativi, insomma, del tipo (g), per riandare alla
caratterizzazione fornitaci da Dobb e, quindi, che si sottraggono ai
vincoli imposti dalla scienza.
La dialettica -in
quanto critica dell’empirismo e, dunque, della convinzione che
esistente significhi lo stesso che empiricamente constatabile-, si
apre alla possibilità (e necessità) di formulare anche enunciati
del tipo (g), ma vincolandoli contemporaneamnete alle esigenze e
regole dello scientifico [11].
In questo senso si
potrebbe dire che solo un pensiero economico, non irretito nelle
maglie dell’empirismo, può seriamente formulare una teoria del
valore e, dunque, emanciparsi dall’immediata empiricità del
prezzo.
Bibliografia
AAVV, Lógica: en
forma simple sobre lo complejo. Diccionario, Moscù 1991.
AAVV, Europäische
Enzyklopädie zu Philosophie und Wissenschaften. 4 Bände,
herausgegeben von H. J. Sandkühler, Meiner Verlag 1994.
M. Dobb, Economia
politica e capitalismo, Torino 1974.
F. Engels,
Anti-Dühring, Roma 1971.
S. Garroni,
Dialettica e socialità, Roma 2001.
V. Giacché,
Finalità e soggettività, Genova 1990.
G.W.F. Hegel,
Lezioni sulle prove dell’esistenza di dio, Bari 1970.
J. Ch. Horn, in G.W.
Leibniz, Lehrsätze der Philosophie. Monadologie, Würzburg 1997.
L. Kolakowski, Main
Currents of Marxism. 1, Oxford 1987
G. Lukàcs, Il
giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Torino 1960.
E. Roll, Storia del
pensiero economico, Boringhieri 1967.
J-P. Sartre, Critica
della ragione dialettica, Milano 1963.
L. Sichirollo, La
dialettica degli antichi e dei moderni. Studi su Eric Weil, Bologna
1997.
F. Valentini,
Soluzioni hegeliane, Milano 2001.
E. Weil, Logica
della filosofia, Bologna 1985.
________________________________________
[1] Come si ricava
anche da L. Kolakowski, 1978: 57, l’intento della dialettica di
Hegel è ritematizzare il contingente, in modo che non costituisca
più un impedimento al sistema e, contemporaneamente, riconoscerlo,
in modo da ottenere un sistema, che esprima la varietà e diversità
del reale. Utile anche J. Ch. Horn che -nella sua “Introduzione”
a G.W. Leibniz, 1997: VI- scrive: “un principio universale
(Weltprinzip) è tale, che si conserva ed opera non nonostante, ma
mediante le sofferenze dell’umanità e, dunque, mediante i fatti.
Certamente Vico ha fondato la filosofia della storia sul principio
verum et factum converturtur; ma questo significa solo che i fatti
storici -anche i più spaventosi- servono la verità ...”.
[2] Uso questo
termine (attitude=atteggiamento) esattamente allo scopo di richiamare
l’interpretazione, che della dialettica fornisce E. Weil, del quale
ricordo Logique de la philosophie - uscito a Parigi nel 1950 e, in
edizione italiana, nel 1985 presso l’editrice Il Mulino-; e sul
quale cito il recente e importante Soluzioni hegeliane di F.
Valentini, pubblicato a Milano nel 2001, nonché La dialettica degli
antichi e dei moderni. Studi su Eric Weil di L. Sichirollo,
pubblicato a Bologna nel 1997.
[3] Su questi temi è
utile Lógica: en forma simple sobre lo complejo. Diccionario,
scritto dai sovietici A. Guétmanova, M. Panov, V. Petrov e tradotto
in spagnolo nel 1991. Si tratta di un documento particolarmente
interessante dell’alto livello scientifico, che la cultura
divulgativa sovietica seppe raggiungere.
[4] Uso questo
termine, distinguendolo da «oggettività», per suggerire una
dimensione reificata, dunque, inesplicabile, gratuita e
indiscutibile; dimensione nettamente distinta dall’«oggettività»,
i cui contorni (non irrevocabili) sono invece definiti storicamente
della scienze.
[5] Si ricordi il
grande rilievo, che Lukàcs dava alla polemica hegeliana contro la
«positività», nello stesso momento in cui il marxista ungherese
sottolineava l’acuto e largo interesse di Hegel per il pensiero
economico (G. Lukàcs, Il giovane Hegel e i problemi della società
capitalistica, Torino 1960).
[6] Ovviamente, con
«enunciato grammaticale» intendo quell’enunciato, che parla delle
regole caratterizzanti un certo ambito; con «enunciato empirico»,
invece, intendo un asserto, di cui possa esser fornito l’equivalente
empirico, appunto.
[7] E in generale
ciò, che la lingua inglese indica con il termine Morals.
[8] Questo è un
lato fondamentale dello scientismo.
[9] E. Roll, 1967:
8.
[10] Cf. Europäische
Enzyklopädie zu Philosophie und Wissenschaften, 1994, vol.3:
393.[11] Nel senso in cui Hegel e Marx parlavano di Wissenschaft, in
contrapposizione ad Einzelwissenschaft.
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