Questo
intervento non ha la pretesa di dire molto di nuovo sulla figura e sul pensiero
di Karl Polanyi. È davanti a tutti il recente ritorno editoriale della sua
opera, le continue riedizioni di The Great Transformation (negli Stati
Uniti nel 2008 e
nel 2010,
in Italia nel 2000 e
nel 2010;
e ormai in altre quindici lingue, fra le quali, più di recente, il cinese, 2007, il finlandese, 2009, il turco, lo sloveno, il greco etc.), i
tanti saggi di commento e approfondimento (ricordo solo quelli scritti al tempo
della crisi: Dale 2009,
2010b;
Joerges, Falke 2011;
Hann, Hart 2009,
2011;
Graeber 2011;
in italiano, Laville, La Rosa 2008;
Caillé, Laville 2011)
e, fatto nuovo e interessante, la presenza delle idee di Polanyi
nell’attualità del dibattito politico ed economico1.
Solo
tra la metà degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo, in quel
periodo che Hann e Hart chiamano “l’età dell’oro dell’antropologia economica”,
l’interesse per l’opera di Polanyi ha conosciuto una simile intensità (Wilk 1996; Carrier 2005; Hann, Hart 2011). C’era allora la controversia
antropologica (confusa e magari ingannevole) fra un approccio formalista e un
approccio sostantivista, c’era, poco più tardi, il dibattito marxista e
strutturalista sulla nozione di modo di produzione, ma principalmente c’era
sullo sfondo un incessante interrogarsi sul rapporto fra capitalismo trionfante
e quello che allora si chiamava Terzo Mondo.
In
quegli anni abbiamo letto Polanyi grazie ad Alfredo Salsano, che ne ha
introdotto l’opera in Italia, e a Edoardo Grendi, che ne offrì fra i primi un
commento, ma per lo più lo leggemmo male: o forzandolo nella lezione dei Grundrisse
marxiani, o mettendolo accanto ai libri di Marcuse, Fromm, Adorno. In ogni
caso una compagnia un po’ stretta. Chi scrive deve un interesse, forse solo in
parte diverso, alla passione e alle aperture
interdisciplinari
di Salvatore Puglisi, docente e maestro di Paletnologia alla “Sapienza”.
Durante i seminari “autogestiti” leggevamo i neo-evoluzionisti, Gordon Childe
(altro autore molto amato dai giovani “marxisti”) e Polanyi. Era il 1974, quasi quarant’anni fa.
Il
nostro errore non stava certo nel riconoscere un Polanyi “filosofo della
politica” e un Polanyi “antropologo”; l’errore che si faceva allora (e che
spesso si sarebbe fatto in seguito) era di separare i due Polanyi, o, ben
peggio, di utilizzare Polanyi per cercare nel passato le fondamenta della
nostra visione del presente. Era il peggior torto che, proprio dal punto di
vista polanyiano, si potesse fare alla sua riflessione.
Eravamo
in buona compagnia. Gli antropologi che allora condivisero o criticarono le
tesi di Polanyi (Paul Bohannan, George Dalton, Marshall Sahlins, Maurice
Godelier, Claude Meillassoux etc.) lavorarono principalmente sui suoi saggi di
antropologia delle società precapitalistiche e guardarono poco o niente
all’attualità del suo pensiero politico.
Come
capita solo per i grandi libri, le vicende editoriali di The Great
Transformation hanno seguito da vicino le curve della storia. E negli anni
del dopoguerra e del miracolo economico, non poteva ottenere riconoscimenti un
libro che aveva previsto e celebrato la fine del capitalismo. Per gli stessi
allievi che ne custodivano l’opera, Polanyi divenne principalmente uno storico
del capitalismo e delle sue convulsioni (in particolare, si veda Stanfield 1986; Mendell 1990; inoltre la figlia di Polanyi, l’economista Karl
Polanyi-Levitt). Non diversamente anche fra gli antropologi il prestigio di
Polanyi subì nel tempo un deciso (e peraltro comprensibile) ridimensionamento.
Negli anni Ottanta The Great Transformation non era citato neanche nei
maggiori dizionari di antropologia di lingua inglese (Seymour-Smith 1986; Levinson, Ember 1996). E anche in Italia gli esperti di antropologia
economica cominciavano a evidenziare i limiti tecnici delle sue ricostruzioni
etnologiche (Solinas 1993:
63; Pavanello 1993: 47).
Era
difficile, del resto, anche trovargli un qualche spazio nei manuali di storia
del pensiero. Per lo più lo si menzionava nel capitolo sul funzionalismo,
magari in un paragrafo a parte, anche se sarebbe bastato pensare al suo
comparativismo e al suo olismo metodologico, per leggerlo in tutt’altra
direzione. Il suo primo referente antropologico era stato Richard Thurnwald,
un funzionalista, ma un funzionalista secondo i criteri di un impianto
mitteleuropeo, un impianto che si muoveva nel medesimo grande scenario del
diffusionismo di Padre Schmidt, o magari dell’evoluzionismo ottocentesco, e
che non aveva moltissimo in comune con il funzionalismo britannico.
Oggi
il sistema capitalistico di mercato è tornato sotto accusa, e ancora una volta
Polanyi è uno dei suoi giudici. A Polanyi si riconosce il merito di aver
fondato l’antropologia economica proprio per avere avvicinato l’ap
proccio
antropologico a quello storico, benché ancora una volta si tenda a separare il
Polanyi etnologo e storico dal Polanyi politico.
Polanyi
etnologo, per la verità, è stato un po’ messo da parte. Con la crisi del marxismo
l’antropologia economica è diventata sempre più terreno per specialisti e
sempre meno terreno di battaglie ideologiche. Ed è comprensibile che Polanyi –
che specialista non era – ne resti ai margini. Economisti e politologi
ragionano, piuttosto, su Polanyi profeta del disastro dell’economia virtuale e
critico delle cure iperliberiste, su Polanyi sostenitore della centralità della
politica e del valore sociale dell’impresa e del lavoro. Dal canto loro i
sociologi e gli antropologi accostano Polanyi a Mauss, come antesignano degli
studi sulla vitalità nella nostra società di forme di scambio estranee alla
logica mercantile.
Cambia
lo scenario, ma rimane che, come allora, ognuno legge Polanyi a proprio modo.
Negli ultimi anni Polanyi è diventato riferimento per avversari della
globalizzazione e movimenti radicali, ecologisti e post-marxisti, per teorici
del comunitarismo cattolico ed esponenti della destra ideologica. Nel suo
lavoro del 2010,
Karl Polanyi. The Limits of the Market, Gareth Dale annota come in
Inghilterra, a pochi anni di distanza, si siano curiosamente richiamati al
pensiero di Polanyi sia l’ex consigliere di Margaret Thatcher, John Gray, che
l’ex consigliere di Tony Blair, Jonathon Porritt (Dale 2010a: 4).
Nei
lavori di Polanyi è possibile trovare questo e quello, ma l’errore sta appunto
nel leggerlo in questa o quella prospettiva. La sua opera scomposta in
porzioni di scuola non offre molto di nuovo. Non offriva molto di nuovo
probabilmente già negli anni Settanta, quando la si leggeva nel quadro
dell’analisi marxista, e meno che mai quando la si leggeva nel quadro
francofortese. E non offre nulla di nuovo oggi. Altri economisti prima di lui
hanno analizzato le storture del “libero” mercato, e gli esiti del capitalismo
iperfinanziario; e altri l’hanno fatto dopo e meglio. Le critiche su questo
versante sono note e giustificate: una visione statica del capitalismo, un’idea
astratta, ideal-tipica, radicalmente simmeliana del mercato, come sfera
separata dai tanti aspetti della socialità umana (Zelizer 2009). E, diciamolo subito, anche molte delle
sue riflessioni etnologiche hanno limiti non da poco. Polanyi ha il merito di
criticare l’applicazione ingenua della nostra “razionalità” all’analisi delle
economie semplici, ma a volte, per non cadere nell’errore di estenderla a ogni
forma sociale, sembra rinunciare tout court a indagare su altre forme
di razionalità (Pavanello 1993),
e spesso (come nel caso dei saggi sull’economia del Dahomey) formula le sue
tesi confidando su un materiale etnografico che molti africanisti e studiosi
di antropologia economica avrebbero presto giudicato insufficiente. La
conseguenza è quell’empirismo e quel comparativismo senza fondamenta di cui
già parlavano gran parte dei suoi critici francesi.
Del resto, il rapporto di Polanyi con l’antropologia rimase sempre
più interno alla sua riflessione che non interessato a un reale confronto con
sviluppi teorici della disciplina. Negli anni viennesi, in polemica con la
tradizione liberale inglese e con l’approccio economicistico della scuola
austriaca di Carl Menger, Polanyi fa riferimento alle posizioni dello storicismo
tedesco, e in particolare ai lavori pionieristici di Karl Bücher (1891), ma senza mai entrare in profondità nel
dibattito suscitato da quei lavori (Leroy 1925; Dopsch 1930).
Alla fine degli anni Trenta, a Londra e poi negli Stati Uniti, legge un buon
numero di monografie sulle economie precapitalistiche, ma non si può negare
che a volte le legga molto speditamente e le citi a proprio uso e consumo, e
che, con poche eccezioni, si mostri sempre poco incline a verificare le proprie
tesi al di fuori delle proprie ipotesi.
Sul
versante storico è, poi, difficile non dare una qualche ragione a quanti hanno
rimarcato la poca attenzione di Polanyi per la presenza del mercato nel mondo
classico, la visione rose-tinted delle società precapitalistiche, la
fragilità del suo comparativismo, o la debolezza dell’utilizzo dell’opposizione
töenniesiana per definire la differenza fra sistemi precapitalistici e
capitalismo (Thompson 1972;
Braudel 1979;
ma, principalmente, Goody 1996;
Friedman 1979).
Quel
che mi interessa, però, non è né riscoprire l’attualità di Polanyi nella crisi
economica che dal 2008 ci
rovina i sogni, né ripensare singoli aspetti della sua riflessione storica o
etnologica. E il fine non è neanche quello di superare il gap fra
Polanyi etnologo e Polanyi profeta della crisi, di cui dicevo. O meglio, è
questo, ma è, anche, qualcosa di più. Mi interessa capire quale sia il posto
della ricerca etnologica nel suo lavoro, e quali siano le ragioni per le quali
negli ultimi due decenni della sua vita Polanyi, specialista di storia
economica dell’età contemporanea, studiò e scrisse quasi solo di etnologia e di
letteratura, e per le quali, se alla fine della vita, avesse dovuto definirsi,
avrebbe di certo amato definirsi un antropologo.
La
mia convinzione è, appunto, che Polanyi vada letto, in primo luogo,
nell’ambito di un’antropologia generale, o per dirla con Salsano come promotore
di «una scienza unificata delle società umane», e che, solo a partire da questo
presupposto, si possa ragionare su pregi e limiti delle sue esplorazioni
etnologiche. Non sbaglia chi, come lo stesso Dale (e come allora Salsano) ha
invitato a leggere Polanyi principalmente in questa direzione. Questo è il
primo passo; poi, però, bisogna riconoscere che in Polanyi non c’è solo il
tentativo di immaginare un nuovo umanesimo («la nostra concezione morale e
filosofica», Polanyi 1987,
trad. it.: 27), ma c’è il
tentativo di dare a questo nuovo umanesimo fondamenta che non siano solo
filosofico-ideologiche. Ed è, appunto, l’impianto etnolo
gico a rendere possibile questo ulteriore passaggio. Bisogna
percorrere l’intera produzione polanyiana, e non questo o quel tratto, per
capirne l’interna evoluzione, ma anche per riconoscerne i punti fermi, quel che
rimane costante attraverso interessi e argomenti tanto diversi. Niente di
particolarmente nuovo, ma un autore e alcune questioni sulle quali può valere
la pena tornare a ragionare, o per lo meno che oggi può valere la pena
ricordare2.
Prima
di iniziare, tuttavia, mi piace ricordare il sonetto di un grandissimo fra i
nostri poeti, Giovanni Raboni. In pochi versi ci dice quello che io impiegherò
trenta pagine per spiegare malamente. Era la crisi del Novantadue. Quella di
avvertimento.
Che in tutto fra tutte suprema sia
la legge del mercato,
che a lei deva
subordinarsi restando
utopia
per
sempre tutto quello che solleva
l’uomo da se stesso
sembra alla mia
mente quasi incredibile.
Ma alleva
menti per crederci
l’economia
trionfante,
fa che ciascuna s’imbeva
di quel credo miserabile
e creda
a esso fieramente come
al più santo
vangelo;
e non ha scampo chi rimpianto
dell’altro s’ostina
finché non ceda
di schianto il cuore a
provare e di noia
trema
dove per altri è ottusa gioia.
Giovanni Raboni
Aspettando
Godot
Christmas, 1925. In
una lettera, venuta alla luce solo nel 1975, Karl Polanyi scrive all’amico ungherese
Richard Wank:
Io sono diventato una persona diversa da
quella che hai conosciuto. Io non so se tu sapessi, non ricordo – impossibile
ricordare simili cose – se tu sapessi il mio segreto (McRobbie, Polanyi-Levitt 2006: 316).
Era nato a Budapest nel 1886, in uno dei tanti centri dell’impero («Nello
Stato più progredito del mondo, benché il mondo non lo sapesse ancora», avrebbe
detto Musil). Del suo malessere giovanile abbiamo poche testimonianze, e
Polanyi tornerà poco e di malavoglia a ricordare il periodo ungherese. Lo farà
negli ultimi anni, ricordando “l’eredità del Circolo Galilei”,
ma quasi con fastidio: «Se non conoscessi i miei obblighi, mi rifiuterei di
mettere per iscritto ciò che il titolo dell’articolo impone» (Polanyi 1960/1987: 199). Eppure l’esperienza del Circolo Galilei, l’unione radicale di
studenti che aveva fondato a Budapest nel 1908 e di cui era stato primo presidente, sarà ben
più importante di quanto non fosse disposto a riconoscere. Nel Circolo si
discute dei fatti di Russia, ma anche di positivismo e neopositivismo; si
oppone il positivismo scientifico di Ernest Mach al positivismo metafisico di
Comte e Spencer; si legge Marx, si ascoltano conferenze di Mannheim e di
Sombart, si discute di estetica con Leo Popper e György Lukács. E
principalmente si insegna a leggere e scrivere a migliaia di operai. Come
ricorda Zsigmond Kende, uno degli amici più stretti del periodo ungherese:
Ci consideravamo socialisti. Eravamo tutti
d’accordo che l’umanità procedeva in direzione del socialismo, ma non eravamo
dogmatici in quanto alla sua natura (Polanyi-Levitt, Mendell 1987: xxix).
Nella memoria di Polanyi
i pro e i contro di quell’esperienza quasi coincidono: all’attivo c’era il
senso etico del dovere sociale racchiuso nel motto del Circolo “Imparare e
Insegnare”, la condivisione di una concezione della vita come testimonianza; ma
questa concezione ne era anche il limite, la ragione del disimpegno politico,
dell’avversione verso una vita attiva, il motivo di una mancata analisi
realista della società ungherese. Una morale tolstoiana, ma un intellettualismo
che finiva per fare da argine a nuove aperture culturali.
Che la psicanalisi viennese si sia
arrestata sul confine ungherese, che la Jungendbewegung tedesca non
abbia conquistato Budapest; che il relativismo occidentale si sia trovato di
fronte la realtà morale di origine russa (che compendiava Tolstoj e
Dostoevskij); che l’ebraismo povero non abbia assunto i caratteri del sionismo;
che l’estetica fin de siècle dell’erotismo paradossale di Oscar Wilde si
sia infranta contro un muro invisibile negli animi della gioventù ungherese:
tutto ciò è dipeso in maniera essenziale dal Circolo Galilei (Polanyi 1960, trad. it.: 206).
Nel 1925 sono ormai sei anni che prima per curarsi e
poi per sottrarsi al regime fascista, Polanyi ha dovuto lasciare Budapest. È il
primo esilio: vive a Vienna lavorando come giornalista. È un periodo felice:
«Ne sono uscito. Sono cambiato. L’ho capito. Ho ritrovato la salute». Ora si
sente tanto forte da poter parlare a un amico del suo segreto, dei lunghi anni
della depressione (a poisoned feel of life), di quell’idea di essere
«born to be a suicide» che l’ha tormentato per molto tempo. È la prima delle
svolte della sua vita e della sua ricerca.
Durante
questi anni le mie idee sulle questioni sociali hanno trovato una direzione
appassionata. Le scienze sociali, l’azione, ma principalmente la questione
della libertà di pensiero nella società: come possiamo essere liberi,
malgrado la società (in spite of society)? E non liberi nella
nostra immaginazione soltanto, non chiamandoci fuori dalla società,
negando il fatto di essere legati alla vita degli altri, ma liberi nella
realtà, cercando di rendere la vita in società trasparente (übersichtlich),
autentica come la vita in una famiglia, così da potere raggiungere una
condizione nella quale sento di avere fatto il mio dovere verso tutti gli
uomini e di essere, al tempo stesso, libero e in pace con me stesso (Lettera a
Richard Wank, 1925,
in McRobbie, Polanyi-Levitt 2006:
317).
È il primo esilio, ma è
anche la sensazione di essersi aperto al mondo. «Gli ultimi cinque anni della
mia vita hanno significato di più e sono stati più importanti dei precedenti
trentacinque» (ibid.). La Grande Vienna è diventata la Red Wien,
la Vienna dove si tenta la seconda scalata al cielo: «Qui, in un ambiente
prettamente capitalistico, una municipalità socialista istituì un regime che
fu aspramente attaccato dagli economisti liberali» (Polanyi 1944, trad. it.: 358).
Polanyi
segue le vicende dell’emigrazione ungherese, ma presto, si appassiona ai
dibattiti interni alla socialdemocrazia austriaca, al pensiero politico dei
suoi maggiori esponenti, di Otto Bauer e di Max Adler. Stringe amicizia
intellettuale e politica con Karl Popper. Quasi per reazione al non impegno del
periodo ungherese, lavora sui problemi concreti di un’economia socialista: fa
propria l’interpretazione del socialismo e il programma politico dello storico
inglese George Douglas Cole (Guild socialism), inteso come possibile
punto di convergenza fra le istanze del socialismo collettivista e del
sindacalismo rivoluzionario. Si pone in termini politici una questione che
resterà presente in tutto il suo lavoro: come sia possibile ripensare
l’equilibrio dell’offerta e della domanda al di fuori del modello liberista
(Polanyi 1922/1987: 10); come trovare il punto di equilibrio fra «la produttività
tecnica che tende alla massima moltiplicazione dei beni, minimizzando il
dispendio del lavoro», e «la produttività sociale che, al contrario, tende ad
assicurare la massima utilità pubblica dei prodotti ottenuti» (ivi: 22). La conclusione, in quello scritto del 1922, sarà più che simile a quella che
ritroveremo nei suoi lavori degli anni Cinquanta:
L’umanità sarà libera soltanto se
comprenderà cosa le costano i propri ideali […] Soltanto se si potrà vedere un
nesso più immediato, controllabile e misurabile, tra i sacrifici da fare
e il progresso che dobbiamo sperare (corsivo mio).
Nel 1933 gli eventi impongono un nuovo esilio e a
Londra Polanyi scopre un altro genere di capitalismo. In una lettera del 1950 all’amico Oscar Jászi, storico della
dissoluzione dell’impero asburgico, scriverà del suo arrivo in Inghilterra come
di una rinascita intellettuale che rendeva vuoto tutto
il
suo passato: «Dal 1909 al
1935 non
ho concluso nulla. Ho disperso le mie forze in direzioni insignificanti del
tutto idealiste, andando alla deriva» (McRobbie, Polanyi-Levitt 2006: 309). Lavora come educatore degli adulti in strutture periferiche
delle università di Londra e di Oxford, e collabora con la Worker’s Educational
Association (presieduta dallo storico Richard Tawney) e con il gruppo della
Christian Left; scopre la storia dell’economia (e presto l’antropologia);
scrive saggi che anticipano molte delle tesi della sua opera maggiore: The
Essence of Fascism (1935),
Europe To-day (1937).
Tra
il 1940 e
il 1943,
grazie a una borsa della fondazione Rockefeller, può trascorrere un periodo
continuativo di studio negli Stati Uniti. L’America che trova non è più quella
della Lost Generation, né l’America orgiastica del Grande Gatsby,
ma è l’America ripiegata su se stessa, da poco uscita dalla grande depressione,
l’America di Caldwell e di Steinbeck, che proprio nel 1939 ha pubblicato The Grapes of Wrath.
Negli
anni della guerra Polanyi porta a termine The Great Transformation. È
un’impresa faticosa. Le tesi del libro sono ormai chiare, ma bisogna lavorare
sulle parole, confrontarsi, discuterne con i colleghi americani del Bennington
College (Vermont), con i maestri inglesi, con Tawney, con Cole, e con il
fratello, il chimico e filosofo della scienza, Michael Polanyi.
Nel
1947 ottiene
l’incarico come visiting professor alla Columbia University, dove tiene
lezioni di Storia economica, annotate e poi pubblicate a cura di Harry Pearson
(seconda parte di Livelihood of Man, 1977). Ancora una volta gli sembra che la propria
vita intellettuale debba ricominciare.
La vera sorpresa mi è venuta in questi
ultimi quattro anni […]. Questi quattro anni furono trascorsi nella febbre di
un solo, ininterrotto giorno di lavoro. Il risultato, che io finisca o no il
mio libro, sarà un’interpretazione delle economie delle società primitive
(lettera a Oscar Jászi, 1953 in
Polanyi-Levitt, Mendell 1987:
xliv, corsivo mio).
Ora è appunto la
sorpresa dell’antropologia a dargli la sensazione che deve rincominciare e
che si può capire meglio.
Dal
1950 vivrà
in Canada, a Toronto, perché alla moglie, Ilona Duczynska, per la sua militanza
comunista negli anni Trenta, non è concesso entrare negli usa.
Ritiratosi nel 1953 dall’insegnamento
può dedicarsi pienamente alla ricerca antropologica. Con Conrad Arensberg
organizza presso la Colombia un gruppo di ricerca (Margaret Mead, Marshall
Sahlins, Moses Finley, Walter Neale, Harry Pearson, Paul Bohannan, George
Dalton) i cui risultati confluiranno nel volume Trade and Market in the
Early Empires: Economies in History and Theory (1957/1978).
È
un periodo di lavoro intenso: scrive i saggi di antropologia che verranno
raccolti nei testi postumi, si apre ad altri interessi, progetta e inizia nuovi libri. Accanto all’antropologia l’altra grande passione è la
letteratura: una passione che aveva coltivato da giovane, che era maturata
attraverso l’amicizia negli anni ungheresi con il grande critico letterario
Leo Popper e con Lukács, una passione che traspare in The Great
Transformation, e che ora diventa, come vedremo, qualcosa di più.
Negli
ultimi anni della vita, insieme alla moglie, lavora a un’antologia della poesia
ungherese, The Plough and the Pen, e progetta un lavoro che metta
insieme il contributo degli scrittori contemporanei al rinnovamento della
cultura occidentale e che risponda all’esigenza – come amava ripetere – di
«break with the values of the world». Scriverà al fratello nell’ottobre del 1959:
Cerco di ascoltare il lamento di un popolo.
Di qui l’antologia, la ricerca della parola giusta nelle ore insonni,
la fatica di penetrare il significato di versi, di decifrare i modelli di vita
– the inner lives – dei loro autori, i cui balbettii e le cui speranze
rivelano anime rinate, il materiale grezzo di una storia che deve ancora essere
(McRobbie, Polanyi-Levitt 2006:
169,
corsivo mio).
Postume appaiono varie
raccolte di saggi, fra cui Dahomey and the Slave trade: an analysis of an
archaic economy (in collaborazione con Abraham Rotstein, 1966/1987), Primitive, archaic and modern economies
(a cura di George Dalton, 1968/1980), Livelihood of Man (a cura di Harry
Pearson, 1977/1983).
La
vita di Polanyi è stata raccontata molte volte. Ne abbiamo molte testimonianze.
Eppure continua a essere una vita difficile da capire. Sembra che per capire la
vita si debba capirne l’opera, ma che per capire l’opera si debba capire la
storia di quel primo mezzo secolo del Novecento. La vita e gli studi sembrano
rincorrere il mondo, con la sensazione di essere sempre in ritardo e di
anticipare il futuro: il crollo dell’impero austroungarico, le battaglie
sociali del dopoguerra, il fascismo, il capitalismo inglese, il nuovo ordine
postbellico, un futuro intravisto. Si ricorda spesso quanto disse di lui
Zsigmond Kende: era sempre fuori tempo, «aveva la stoffa del profeta e si
sentiva anacronistico».
Ogni
tappa è una svolta decisa, ogni volta la percezione di un mondo che si chiude e
l’aprirsi di nuovi orizzonti. Scrive in una lettera all’amica Bé de Waard nel 1958:
Il futuro viene continuamente rifatto da
coloro che vivono nel presente. Solo il presente è realtà […]. La mia vita fu
una vita mondiale. Ho vissuto la vita del mondo. Ma il mondo smise di vivere
per vari decenni, poi in pochi anni progredì di un secolo! Così soltanto ora
sto rientrando in possesso del mio, avendo in qualche modo perso trent’anni
lungo la strada – aspettando Godot – finché il mondo mi ha ripreso, mi ha
raggiunto. Retrospettivamente, è tutto molto strano, il martirio
dell’isolamento era solo apparente, in definitiva stavo solo aspettando me
stesso. Ora il piatto della bilancia pende contro di te, contro di me, perché
nel giro di dieci anni sarei vendicato, se fossi ancora in vita. La mia opera è
per l’Asia e per l’Africa (Polanyi-Levitt, Mendell 1987: xxiii-xxiv).
Break with the values of the world
Karl Polanyi appartiene
a quella generazione di intellettuali e di romanzieri (Joseph Schumpeter, Karl
Mannheim, Franz Kafka, Karl Popper, James Joyce, lo stesso Wittgenstein, e
anche Conrad e Malinowski) che, improvvisamente, più che senza patria, si
trovarono senza storia. Nei grandi romanzi incompiuti della cultura
mitteleuropea, nostalgia e senso del vuoto si mescolano a ironia e
frustrazione; si sorride sull’immagine mitica di un passato immobile, fuori del
tempo, fatto di tradizioni, di certezze, di piccole cose. Allo stesso modo
nella saggistica prevale il sospetto per ogni sistema chiuso, una particolare
cautela verso le insidie nascoste nei concetti e nelle parole, e, al tempo
stesso, la disposizione a ragionare per grandi prospettive, senza temere di
lasciare incompiuta la propria riflessione.
Polanyi
non fa eccezione. Il suo lavoro, compresa La Grande Transformazione, si
presenta come un laboratorio intellettuale, a volte disordinato, affollato di
esperimenti sospesi, ipotesi abbozzate, o non sempre adeguatamente sostenute.
Su molte questioni torna più volte, su altre si propone di tornare.
Eppure
se di continuo superamento intellettuale si può parlare, è un superamento
interno a una riflessione che prende già forma negli anni viennesi (se non
ungheresi) intorno ad alcuni temi fondamentali e, in primo luogo, intorno a
quell’interrogativo, a quella «direzione appassionata» di ricerca, di cui
scriveva già nella lettera del 1925:
come possiamo essere liberi, malgrado la società?
The
Great Transformation si apre e si chiude con il medesimo interrogativo
«Quale satanico meccanismo (satanic mill) ridusse gli uomini a masse?» (1944, trad. it.: 45), «Esiste qualcosa come la libertà in una società complessa?»
(ivi: 319).
Freedom in a Complex Society è anche il titolo del dattiloscritto
inedito del 1953 su
Rousseau, ed è il titolo di un altro dattiloscritto inedito del 1957; ed è principalmente il titolo che avrebbe
voluto dare a uno dei molti libri che si proponeva di scrivere.
L’opposizione
libertà vs società, appassionata scoperta degli anni di Vienna, è
destinata in seguito ad esplodere in molte direzioni: diverrà opposizione fra
comunità e società, fra politica ed economia, fra il presente, come sicurezza
del proprio luogo nel mondo, e il futuro, il cambiamento (tutto ciò che è
racchiuso in quel titolo del terzo capitolo della sua opera maggiore, Habitation
versus Improvement), e, negli scritti degli anni Cinquanta, diverrà opposizione fra uomo e società delle macchine,
fra possibilità di scelta e consumi di massa.
Prima
di ragionare sull’opera di Polanyi e per evitarne i frequenti fraintendimenti
(Graeber 2011),
è necessario, tuttavia, soffermarci molto brevemente su un aspetto meno
indagato del suo lavoro (con la parziale eccezione di Fleming 2001 e McRobbie, Polanyi-Levitt 2006): la strategia discorsiva, il carattere
sistemico e relazionale del suo procedere intellettuale e del suo linguaggio.
Polanyi pone la questione della lingua e per dirla con Antonio Gramsci: «Ogni
volta che si affronta, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua,
significa che si sta imponendo una serie di altri problemi» (Gramsci 1975: 2346).
Più
volte nei suoi scritti Polanyi osserva come molte controversie siano risultato
di ambiguità verbali: «mere verbalizzazioni di questioni non definite».
Ancora una volta ci siamo imbattuti in una
famigerata discussione che a un’osservazione più attenta si è rivelata una
mera verbalizzazione di questioni non definite: l’uomo economico era reale?
Ma si dava per scontato il significato di economico, il che escludeva la
possibilità di qualche risposta rilevante (Polanyi 1977, trad. it.: 54, corsivo mio).
Per brevità chiamo
questo modo discorsivo un “procedere per opposizioni”; un metodo di ricerca
che costituisce quasi lo schema del ragionare polanyiano, e che, in una nota
biografica del 1962,
Polanyi espone come segue:
La [mia] personalità si espresse nel modo in
cui questa dualità dette forma alle cose: fatto e valore, empirismo e
normatività, società e comunità, scienza e religione […]. Eppure,
retrospettivamente risulta che questa polarità formò l’asse costante del mio
mondo intellettuale (Polanyi-Levitt, Mendell 1987: xx).
Teniamo a mente queste
dualità, perché in Polanyi non ci sono parole usate a caso: “fatto” e “valore”,
“empirismo” e “normatività”, “società” e “comunità”, “scienza” e “religione”.
È
poco importante stabilire se “questa dualità che dà forma alle cose provenga a
Polanyi dall’atteggiamento antidogmatico del periodo ungherese, dalla lezione
lukacsiana, dall’antideterminismo dell’austromarxismo, o semplicemente
dall’esperienza storica. Ci saranno l’una e l’altra eredità, ma principalmente
c’è la messa a punto di un modo di pensare. È una strategia di pensiero, che
si fa sempre più consapevole: non tanto e non semplicemente vedere l’altro
verso della medaglia, quanto ristabilire quell’ampiezza e complessità dei
fatti, quel loro carattere sempre relazionale, che la singola parola, la parola
al singolare, inevitabilmente nasconde.
Diciamolo con un vocabolo che non si dovrebbe mai usare (se non in
modo appropriato): si tratta, in primo luogo, di “decostruire” il linguaggio
delle scienze sociali, a partire dai termini più comuni. L’errore contro cui
Polanyi si impegna è presto detto: è la stessa fallacia della concretezza
malposta di cui avevano parlato Mach e i neopositivisti, e di cui in
quegli anni parlava Wittgenstein. Si potrebbe dire di più, si potrebbe definire
Polanyi un esponente nelle scienze sociali di quella filosofia analitica che
sembra seguirlo nelle tante tappe del suo esilio. Ad avere spazio (tempo e
voglia) sarebbe interessante confrontare il linguaggio di Polanyi con quello di
Malinowski. Tutti e due esuli del grande impero e allievi di Mach e per
qualche tempo neighbors di Wittgenstein. E dunque, come suggerito da
Antonino Colajanni, sarebbe interessante confrontare le riflessioni di Polanyi
sulla “libertà” con il libro postumo di Malinowski Freedom and Civilization
(1947).
Polanyi
avverte che nel linguaggio si riflette una civiltà, si nasconde una concezione
del mondo, e un impedimento a capirlo altrimenti. Avverte che bisogna fare i
conti con il linguaggio ordinario per smontare la «translucida obiettività»
della civiltà capitalistica, e per rimettere in moto la conoscenza.
Non
è un vizio della civiltà capitalistica, è stato probabilmente il vizio di ogni
civiltà e di ogni linguaggio. Non diceva Wittgenstein che i limiti del mio linguaggio
sono i limiti del mio mondo? Un doppio “errore”: ignorare la natura storica, la
natura processuale dei fatti («il loro essere in movimento»), e, poi, assumere
le parole come controprova dell’identità e sostanza dei fatti. È l’inganno, il
circolo vizioso, in cui cadono tutte le ideologie: modellano i fatti nelle
proprie parole e poi portano quelle parole come prova dei fatti. Ed è la
ragione per la quale
dobbiamo insistere nella richiesta di una
nuova sociologia, o almeno di nuove parole che ci libererebbero dal
grave inconveniente di essere del tutto incapaci di descrivere gli eventi più
banali del nostro tempo senza implicare esattamente l’opposto di quel che
intendiamo esprimere (Polanyi 1934,
trad. it.: 118,
corsivo mio).
Bisogna tornare dalle
parole ai fatti per mettere in luce la natura storica, relazionale e
sistemica, di questi ultimi: la vita che si nasconde dietro l’univocità delle
parole. Significative sono in questo senso le riflessioni di Polanyi sul
pensiero di Hegel e Nietzsche. Il primo all’inizio della storia del
capitalismo, quando la forma del sistema era ancora incerta, orientò la realtà
verso la ragione; il secondo, quando la storia di quel sistema vacillava,
orientò piuttosto la realtà verso l’istinto. Ma ambedue, a differenza dei loro
epigoni, riconobbero al di sotto dell’ingannevole superficie il carattere
composito e dialettico della totalità.
Sia Nietzsche, sia Hegel furono pensatori di
grande passione intellettuale, ma le loro presenti incarnazioni, benché di
statura inferiore, li superano di molto quanto
a orientamento unilaterale del pensiero. Klages è Nietzsche senza il superuomo.
Spann è Hegel amputato della dialettica […]. L’uno ridotto a un animalismo
esaltato, l’altro a un totalitarismo statico (Polanyi 1935, trad. it.: 102).
Basta leggere con un po’
di attenzione gli scritti di Polanyi per notare come molti saggi inizino con il
riconoscere la natura soporifera, confusa e fraudolenta delle parole e con la
richiesta di una loro ridefinizione. Gli esempi possibili sono molti (specie
negli scritti pubblicati in vita):
Si prenda il termine rivoluzione. Nella
sociologia marxista corrente è strettamente limitato a cambiamenti radicali del
sistema economico. Questo tabù rende del tutto impossibile fornire qualcosa
come una descrizione sociologica adeguata di un terremoto storico come, per
esempio, la rivolta nazionalsocialista in Germania (Polanyi 1934, trad. it.: 119).
Il termine democrazia ha
molti significati diversi e il futuro della pace dipende oramai dalla sua
corretta interpretazione (Polanyi 1945/1987: 151).
L’impiego del termine economico è affetto da
ambiguità. La teoria economica lo ha investito di un significato limitato nel
tempo che lo rende inservibile al di fuori degli stretti confini della nostre
società dominate dal mercato (Polanyi 1977, trad. it.: 42, corsivo mio).
Non posso qui discuterne
più di tanto, ma basta scorrere la corrispondenza polanyiana tra il 1940 e il 1943, durante la stesura di The Great Transformation,
per rendersi conto di quale lavorio di bisturi e quale ragionare ci fosse
dietro ogni parola. Specie con il fratello Michael e con George Cole lo scambio
di lettere è in quel periodo particolarmente intenso. Cole si dichiara d’accordo
sulle tesi di fondo del libro, ma consiglia di attenuarne alcune espressioni,
di smussare alcuni passaggi che giudica «mostruosamente enfatizzati». Un
analogo suggerimento gli viene dal fratello. In ambedue i casi Polanyi difende
la propria posizione e il proprio linguaggio, e, anzi, nell’ottobre del 1943 scrive al fratello di considerare proprio
quello stile monstrous e murderous il cardine della propria
scrittura.
My “murderous” description of
the potential effects of a market-economy is indeed critical to my position.
It implies a number of definitions which are necessary for the sake of clarity,
mainly of the terms “society” and “institution”, as well as “incompatibility”
(Fleming 2001: 20).
Il mercato capitalistico ha prodotto destruction, catastrophe,
calamity, cataclysm, liquidation devastating, unprecedent
havoc, peril, ravages, collapse, desolation.
Polanyi non solo non evita espressioni iperboliche, ma anzi ce ne mette quanto
più possibile. C’è in tutta l’opera, e specie nelle prime pagine di The
Great Transformation, la ricerca di una forma letteraria che lasci subito
una forte impressione nel lettore.
Nessuna
spiegazione che non tenga conto della rapidità del cataclisma può dirsi
soddisfacente […]. Una trasformazione sociale di portata planetaria viene sormontata
da guerre di un genere senza precedenti nelle quali diversi stati sono abbattuti
e i contorni di nuovi imperi stanno emergendo da un mare di sangue. Ma questo
fatto di demoniaca violenza si sovrappone soltanto a una veloce e silenziosa
corrente di mutamento che inghiotte il passato spesso senza neanche incresparsi
in superficie. Un’analisi ragionata della catastrofe deve tener conto a un
tempo dell’azione tempestosa e della quieta dissoluzione (Polanyi 1944, trad. it.: 7).
Sullo stesso titolo del
libro Polanyi discute a lungo. Le
ipotesi considerate sono molte: The Liberal Utopia, The Great
Transition, The Origins of the Cataclysm, Future of Industrial
Man. Si decide alla fine per The Great Tranformation. Non ne è
pienamente soddisfatto: vorrebbe un titolo più incisivo, più tagliente, che dia
il senso dell’attualità politica. E in effetti, nell’edizione inglese dell’anno
seguente il titolo diverrà Origins of Our Time: The Great Transformation.
Le
parole sono importanti, devono essere scelte con cura («la ricerca della parola
giusta nelle notti insonni»), perché sono la nostra prima gabbia, il riflesso
di quella che in un famoso saggio del 1947, chiamerà Our Obsolet Market Mentality. Alcuni dei termini
più frequenti delle scienze sociali non trovano nei suoi lavori molto spazio,
specie i termini apparentemente più chiari e più carichi di senso ideologico,
e, dunque, più pericolosi. Se il “cercaparole” del computer non tradisce, in The
Great Transformation Polanyi parla di “proletariato” (come classe) una sola
volta, e quando usa questa espressione ne sottolinea subito l’ambivalenza, il
suo implicare un dato di sviluppo storico e al tempo stesso un dato di miseria:
«Il significato originario della parola “proletariato”, che lega la fecondità
alla mendicità, è un apparente riflesso di questa ambivalenza» (1944, trad. it.: 207). Polanyi sviluppa una teoria articolata delle classi sociali,
ma non ne discute mai in termini di classe contro classe, non traccia mai
confini netti fra le classi sociali, utilizza sempre termini volutamente
generici come classi lavoratrici, classe media, o termini “plurali” come «the
industrialists, entrepreneurs, and capitalists». E, malgrado le letture lukácsiane,
utilizza molto poco anche un altro termine di grande ambuità: “dialettica”. È
un termine che, come vedremo presto, non si addice al suo pensiero. Preferisce
parlare di contrast, opposition, ambivalence, e principalmente
di double movement.
È
facile notare l’assenza di termini tecnici. La prosa di Polanyi (tranne, forse,
nel saggio del 1922 su
La contabilità socialista e nelle successive polemiche) è quella delle
lezioni preparate per i lavoratori del Circolo Galilei, o per i corsi della Worker’s
Educational Association. Ha l’eleganza di non inventare mai parole poco
usuali, o, se lo fa, lo fa soltanto a ragion veduta, quando si tratta di
ironizzare sulla retorica del teorico dell’iperliberismo
economico Ludwig von Mises, o sulla «pseudofilosofia» della invisible
hand, a cui, già nella lettera del natale 1925 a Richard Wank, oppone l’immagine di una
società e di uno scambio übersichtlich, trasparente, e l’idea che una
politica trasparente richieda termini trasparenti. Altre volte la polemica è
più sfumata. Non è lo spettro del comunismo ma quello del mercato
ad aggirarsi per la storia, e da tempi ben lontani: «Il suo spettro aleggia
sugli splendidi ritmi di Le opere e i giorni e vi infonde una misteriosa
nota profetica» (Polanyi 1977,
trad. it.: 195).
Non è la religione, ma l’utilitarismo a essere “l’oppio dei popoli”: «Perciò
l’utilitarismo, che è ancora l’oppio di masse d’uomini oggetto di mercato»
(ivi: 73).
Le
parole devono essere ben scelte ed essere estreme, devono collocarsi al limite
del concetto, devono sfidare le nostre sensazioni, sollecitare la nostra
esperienza, perché sia possibile cogliere l’ipocrisia della logica del “fino e
non oltre”, la gabbia del “tutto o niente”. Le parole devono essere
estremizzate così da rendere palese l’inganno che si riflette nel linguaggio e
nella nostra stessa “obsoleta mentalità di mercato”. Una sorta di cura
omeopatica del nostro verbalismo: accentuare la malattia per rendere palesi i
suoi sintomi e per mobilitare l’apparato immunologico della specie.
Il
linguaggio deve essere profondo, deve coinvolgere il senso morale della storia,
farne intendere la profondità. Il cristianesimo e il socialismo erano molto
diversi e per certi versi opposti: lo aveva ben visto Robert Owen quando
rifiutava l’idea dell’uguaglianza astratta e metafisica predicata dal primo.
«Robert Owen fu il primo nella società industriale a vedere che il
cristianesimo negava la realtà della società» (Polanyi, 1944, trad. it.: 319). Ma, per altro verso, socialismo e predicazione evangelica (a
cui spesso Polanyi si richiama) avevano in comune il riconoscimento per ogni
uomo dell’obbligo e della libertà della scelta morale, come dato fondante della
condizione umana, e come conquista massima della civiltà occidentale. Era per
Polanyi la lezione che gli veniva da Dostoevskij, la lezione che sentì
fortissima in tutta la vita e che si riflette nel suo linguaggio: la storia
come «the war between heaven and hell» (Polanyi 1944, trad. it.: 32); la libertà
della scelta contro la demoniaca alchimia (demoniac alchemy) della
favola di Mandeville, contro the Inferno of early capitalism, contro il satanic
mill che ridusse gli uomini a masse.
Faccio
queste poche osservazioni di Polanyi sul linguaggio, e molte altre se ne
potrebbero fare, nella convinzione che alcune critiche, come, del resto, alcuni
applausi, vengano dalla mancata comprensione di una strategia che procede per
contrasti, e, anzi, che li aggrava, ma non per scegliere un estremo piuttosto
che un altro (la società piuttosto che l’individuo, il proletario piuttosto
del capitalista, l’economia di mercato piuttosto dell’economia di piano), ma
per contestare nella sua totalità la forma storica che li esprime.
Per Polanyi, l’errore essenziale di ogni ideologia (del liberismo
– riformismo keynesiano compreso – come del marxismo) sta nel vedere una parte
del problema e nel perdere di vista il tutto, nel confondere la parte con il
tutto e nell’illudersi che il prevalere di un termine sull’altro comporti la
soluzione, piuttosto che l’aggravamento dell’opposizione. Un errore logico,
prima che ideologico, molto vicino a quello individuato e, a proprio modo,
risolto da Bertrand Russell con la Theory of Types, un errore che porta
a credere che la libertà significhi superamento della società, o, al contrario,
che la socialità debba tradursi in oppressione dell’individuo, o che la
sconfitta di una classe significhi la vittoria dell’altra, o, ancora, che i
mali del mercato possano trovare cura nell’intensificare la logica del mercato
stesso.
Sempre
più gli sarà chiaro che in gioco è il sistema e non una parte di esso e che la
“vittoria” sta nel superamento delle false alternative che il sistema pone, nella
disponibilità di tutti a fare in modo che «le forze che premono sul presente
possano liberarsi in nuove direzioni verso nuovi traguardi» (McIver 1944). Non si tratta di parlare per l’una o per
l’altra parte, ma di cambiare discorso. La parola estremizzata deve evocare
il suo opposto e farci sentire la falsità dell’alternativa. «L’errore
logico era di tipo comune e innocuo: si riteneva che in qualche modo un
fenomeno vasto e generico fosse identico a una specie che si dà il caso ci sia
familiare». (Polanyi 1977,
trad. it.).
Il
fatto è che in quegli anni questa obsoleta mentalità di mercato era assai
diffusa e molti, come si legge in Furore di John Steinbeck (1940, trad. it.: 40), davvero pensavano e parlavano come se
La Banca (o la Società) intende […] vuole […]
ha bisogno […] esige […] quasi che la Banca o la Società fosse un essere
mostruoso, dotato di intelletto e sentimento, che li tenesse prigionieri fra i
suoi tentacoli […]. Alcuni rappresentanti erano orgogliosi d’essere schiavi di
così possenti e inesorabili padroni. Sedevano sui cuscini della vettura e
spiegavano […]. Oh, ma la Banca o la Società non può, diamine! Non è una
creatura che respira aria, che mangia polenta. Respira dividendi, mangia
interessi. Senza dividendi, senza interessi, muore, come morireste voi
senz’aria o senza polenta. È triste, ma è proprio così.
La
sorpresa dell’antropologia
Tornerò sul linguaggio
di Polanyi, ma ora proviamo a rileggere la sua opera principale tenendo
presente questo suo “procedere per opposizioni”.
A
metà degli anni Trenta la vita di Polanyi ha subito una nuova svolta. «Dal 1909 al 1935 non ho concluso nulla. Ho disperso le mie
forze in direzioni insignificanti del tutto idealiste, andando alla deriva…»
(McRobbie, Polanyi-Levitt 2006:
309).
A Vienna si ragionava di socialismo umanitario, di Marx e di
Lenin, ma lo scenario era ancora quello mitteleuropeo, un mondo antico e
sconfitto, che faceva fatica a tramontare. A Londra, invece, capitalismo e
socialismo si contendevano davvero la storia. Per Polanyi è un passaggio
decisivo. «Ero impegnato soprattutto nello studio delle scienze sociali,
compreso l’approccio marxista» (Polanyi-Levitt, Mendell 1987: xl).
Nel
1936 con
il gruppo della Christian Left Polanyi commenta i Manoscritti
economico-filosofici del 1844,
una lettura che, insieme con altre esperienze intellettuali, contribuisce a
rendere gli interrogativi sulla questione della libertà in una società
complessa (domande e risposte) molto più radicali e aggrovigliati di quanto non
fossero sembrati. Il capitalismo gli si presenta sempre più come stravolgimento
della stessa natura sociale dell’uomo, riduzione della società a massa informe,
perdita della libertà individuale. L’ulteriore passo è quasi obbligato e
consiste nel dare corpo alla critica filosofica del presente attraverso la
ricerca delle sue differenze specifiche, mettendo in evidenza le sue
singolarità storiche ed etnologiche. Sono le tappe della sua vita, quelle
rivoluzioni che ogni volta lo avevano costretto a ricominciare: la scoperta
della politica a Vienna, l’estendersi dell’indagine alla storia economica e
alla filosofia del capitalismo, a Londra; e infine, negli Stati Uniti, la
scoperta della necessità del giro lungo. Ce ne sarà una quarta, incompleta, impossibile,
ma conseguenza di tutto il tragitto: il tentativo di pensare un’antropologia
generale delle forme della sussistenza umana (Livelihood of Man).
Prima
di The Great Transformation nei lavori di Polanyi non si incontrano
riferimenti etnologici e anche nell’opera del 1944 la prospettiva etnoantropologica è appena
accennata, più evocata che realmente esplorata. I riferimenti alle società
precapitalistiche sono generici, utilizzati, direbbero gli esperti di
fotografia, come maschera di contrasto, per mettere meglio a fuoco la
specificità del presente. Attraverso la testimonianza etnologica si tratta di
denunciare la pseudofilosofia del capitalismo, le sue pretese di universalità:
l’idea che il desiderio di guadagno e profitto personale sia disposizione
naturale della specie, che ogni uomo sia per sua natura homo oeconomicus;
l’idea che la storia e la società siano governate dalle leggi materiali
dell’economia e che i moventi ideali, i sistemi sociali e culturali, siano una
mera appendice delle stesse; l’idea, infine, che il mercato self-regulating sia
forma naturale di scambio, e come tale fondamento della socialità umana e,
dunque, che la società capitalistica sia l’espressione finale e più alta della
storia.
La
sponda etnologica serve solo per dire quel che il presente non è, pur
pretendendo di essere. E, in effetti, in The Great Transformation i
rimandi alle ricerche etnologiche sono pochi. Si accenna ai lavori di Malinowski;
si citano di sfuggita Firth, Lucy Mair, Goldenweiser, Rivers. Con ogni probabilità, e, anzi, con ogni evidenza, benché non lo citi,
Polanyi legge il saggio Culture Contact and Schismogenesis di Gregory
Bateson pubblicato per la prima volta in Man nel 1935 e più tardi (significativamente)
ripubblicato da Paul Bohannan nel 1967 in Beyond the Frontier. È il saggio
nel quale Bateson teorizza la schismogenesi simmetrica, teorizza, per dirlo
molto semplicemente, come accada che un meccanismo simmetrico di concorrenza
rischi nel tempo di rovinare ambedue i contendenti e quindi come in tutte le
società si siano creati sistemi di mediazione della competizione (Sobrero 1999). Polanyi ne usa gli stessi termini, ne
ricalca la strategia di pensiero.
L’unico
antropologo realmente e dichiaratamente utilizzato rimane, tuttavia, Richard
Thurnwald, esponente di quell’antropologia di area tedesca caratterizzata da
un forte legame con la filosofia della storia, e, dunque, in questa fase, ben
più vicina agli interessi di Polanyi di quanto non fossero le ricerche dei
funzionalisti inglesi.
Il
quadro cambia decisamente nel periodo americano. Ora Polanyi può parlare di sorpresa
dell’antropologia. Le letture antropologiche si moltiplicano (già se ne
trova ampia attestazione nelle Notes on Sources aggiunte in appendice a The
Great Transformation): Thurnwald e (ora) Malinowski, per diverse ragioni
familiari alla sua esperienza mitteleuropea, rimangono gli autori più citati,
ma a loro, e agli antropologi inglesi, si aggiungono Lowie, Linton, Benedict,
Mead, e in primo luogo gli allievi americani, George Dalton e Paul Bohannan.
Come ha osservato in un recente dibattito Matteo Aria, la “sorpresa” americana
non gli offre, invece, la possibilità di confrontarsi con l’antropologia
francese, con Durkheim, Mauss, Bataille, autori con i quali avrebbe avuto molto
da spartire e comunque con i quali avrebbe avuto molto da discutere.
La
critica è rimasta spesso vittima delle brusche svolte del percorso di Polanyi.
Come accennavo, alcune ricostruzioni insistono sull’aspetto più politico del
suo pensiero, dagli anni della formazione e dell’impegno viennese, attraverso
l’opera maggiore, fino ai saggi di filosofia e di attualità politica degli
ultimi anni, sottovalutando, se non omettendo del tutto, gli studi e gli
scritti antropologici; altre – per lo più le letture degli antropologi –
insistono sui saggi di carattere etnologico degli anni Cinquanta, perdendo
spesso di vista il prima e il dopo, l’impianto generale entro il quale questi
lavori si collocano e acquistano ragione d’essere. Nel primo caso si rimprovera
spesso a Polanyi un astratto idealismo, una visione utopica magari non troppo
diversa da quella di Robert Owen, l’utopista del primo ottocento, al quale
Polanyi (proprio per la ragione opposta, per la concretezza che ne distingueva
il pensiero) amava spesso richiamarsi. Nel secondo caso, nelle letture degli
antropologi, si rimprovera a Polanyi un certo presappochismo, analisi
etnografiche di seconda mano e alquanto confuse, un generico empirismo. Penso che sia gli uni che gli
altri abbiano qualche ragione, ma penso anche che il limite di ambedue le
letture sia privilegiare questo o quel tratto del percorso, questa o quella
prospettiva parziale, perdendo di vista l’insieme.
A
cercare di valutare l’opera di Polanyi nel suo complesso, come qui sto facendo,
il giudizio cambia: o meglio, forse Polanyi rimane un idealista che cercò,
magari un po’ confusamente, la strada per non essere tale («Per quanto io
protesti, me ne rendo conto, non potrei evitare di essere considerato un
idealista»), ma almeno, a osservare dall’interno le molte direzioni del suo
territorio intellettuale, si riesce a scorgere l’inizio di quella strada, una
prospettiva che non è né solo critica dell’ideologia presente, né solo indagine
etnologica, ma che cerca di aprirsi a una visione generale della storia umana.
Gli
studi etnologici gli spalancano davanti uno spazio di cui era difficile vedere
i confini e lo stesso Polanyi era consapevole di come alla luce di quegli studi
The Great Transformation fosse diventato solo la premessa per una
riflessione ben più estesa.
La concezione filosofica de La Grande
Trasformazione deve essere qui ampliata al di là dei brevi cenni con i
quali si chiudeva quel libro. La civiltà tecnologica nella sua fase suprema sta
spostando l’asse delle nostre preoccupazioni: dall’economia a questioni morali
e politiche, alcune delle quali completamente nuove (Polanyi 1957/1987: 181).
Letta in questa chiave
l’opera complessiva di Polanyi ha una tensione sistematica, e, al tempo
stesso, una circolarità espansiva che ne rende difficile un’esposizione
lineare. E di questo cammino The Great Transformation è passaggio chiave
e, magari, un po’ disordinato: un libro non facile, perché da una parte vi
giunge a termine l’ispirazione ideale e l’analisi storica ed economica condotta
nei saggi degli anni Trenta, dall’altra vi si anticipa il quadro teorico che
Polanyi svilupperà negli anni seguenti, al cui centro sta appunto, “la
sorpresa” della prospettiva antropologica.
A
class struggle without class
Il titolo della prima
edizione del libro non era forse tanto esplicito quanto Polanyi avrebbe
desiderato, ma l’incipit non lascia dubbi: «Nineteenth Century
civilization has collapsed». «Like a pistol shot», ha scritto McRobbie (2006: 92). La grande trasformazione può dirsi consumata. Nel secolo
precedente il sistema economico del capitalismo sembrava avere realizzato le
proprie promesse, la propria missione civilizzatrice: lunghi periodi di pace,
una base aurea a garanzia della stabilità interna e della sicurezza dei grandi
commerci, la progressiva evoluzione dei governi verso
un modello liberal-democratico. Ma fra le due guerre mondiali tutto era
crollato. Era giunta a termine la kantiana pace universale e con essa le
speranze di benessere e di progresso civile.
L’analisi
potrebbe iniziare con le parole, altrettanto scolpite, con le quali inizia il Capitale:
«La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione
capitalistico si presenta come un’immane raccolta di merci». E potrebbe
continuare con la prima sezione di quel testo. Il mercantilismo del xvii
e xviii secolo ha preparato il terreno e nell’Ottocento
le forze del mercato hanno completato la loro avanzata, riducendo a merce, liberando
e mettendo sul mercato autoregolato anche i fattori della produzione che più di
altri erano in precedenza incorporati (embedded) in altre sfere della
vita sociale: il lavoro e la terra.
Era
inevitabile che anche il lavoro e la terra diventassero pienamente merci,
benché il lavoro sia soltanto un altro nome per la vita stessa, e la terra sia
soltanto un altro nome per la natura.
E
necessaria alla piena affermazione di un sistema di mercato era anche la
progressiva riduzione della moneta a misura astratta di un valore determinato
unicamente dal suo potere di acquisto. La moneta da bene-strumento per far di
conto, da bene assunto come equivalente generale per semplificare lo scambio,
da “moneta-segno” diventa sempre più essa stessa merce. E con la moneta si
vendono e si comprano il lavoro, la terra e la moneta stessa: merci entirely
fictitious, immaginarie, beni non nati per essere merci. La vita, la natura
e il denaro, come equivalente di socialità, non possono avere il carattere
della merce. Isolare e alienare il lavoro, la terra e la società, e farne
mercato, separare l’uomo dalla propria vita, dalla natura e dagli altri uomini
«è stata forse la meno naturale di tutte le imprese dei nostri antenati»
(Polanyi 1944,
trad. it.: 228).
Secondo
la nota formula marxiana, dalla sequenza merce-denaro-merce, m-d-m,
si è passati alla sequenza d-m-d;
dalla merce-moneta si è passati alla moneta-merce, ma sempre più è una strana
merce, una merce “fittizia”, una “moneta-segno”, che permette di realizzare l’antico
mito della sequenza d-d,
il sogno di una moneta che produce moneta, la magia incontrastata dei beni
illimitati, del potere che produce potere. In discussione non è l’origine e la
storia della forma-denaro: il denaro si è presentato probabilmente da sempre
sia come valore reale che come valore virtuale, come “bene” e come “segno”; la
ricostruzione storica di Polanyi ha certamente limiti e ingenuità, ma
l’importante è mettere in evidenza come la seconda forma sia non solo destinata
a prevalere sempre più sulla prima, ma come questo prevalere sia intrinseco
alla natura del capitalismo.
Per
i teorici del liberismo il capitalismo è la realizzazione dell’istinto naturale
dell’homo oeconomicus, la liberazione dalle precedenti costrizioni
sociali. Per Marx è l’ultimo dei modi di produzione. Per Polanyi il sistema
capitalistico, dominato dal libero mercato, non è né la prima
cosa, né semplicemente la seconda, ma uno spartiacque della storia, una
condizione completamente nuova, un’eccezione nella storia dell’umanità.
La trasformazione della precedente economia
in questo sistema è così completa che assomiglia più alla metamorfosi del bruco
che non a qualunque altra alterazione che possa essere espressa nei termini di
crescita e sviluppo continuo (ivi: 56).
Presto dal Capitale si
torna ai Manoscritti del ‘44. In termini assoluti è indubbio che il sistema capitalistico di
mercato abbia prodotto uno straordinario arricchimento di vasti settori della
popolazione, ma altrettanto straordinaria fu la miseria e il degrado spirituale
in cui precipitarono settori ben più vasti.
Tutto
l’impianto storico-economico polanyiano pecca di un qualche schematismo, ma
quel che interessa Polanyi in questo contesto, non è tanto il processo di separazione
fra capitale e lavoro, e, dunque, la teoria del valore-lavoro e la teoria dello
sfruttamento che ne consegue. E il problema non è neanche quello di spostare
l’attenzione dalla produzione alla distribuzione della ricchezza (diversamente
da quanto pensavano i suoi critici francesi, Dupré, Rey 1969; Meillassoux 1977).
La
rivoluzione del xix secolo è figlia e madre dei progressi della
scienza, del macchinismo, dell’enorme incremento della produttività e dei consumi,
ma in nessuno di questi fattori sta, per Polanyi, l’origine del collasso della
sua pretesa di civilizzazione. E determinante non fu neanche il mercato in
quanto tale. Determinante, più dei fatti, fu l’utopia del libero mercato su cui
la politica economica liberista si fondava e si fonda, e in base alla quale si
giustifica: il mito dell’individualismo, della concorrenza, il mito
dell’onnipotenza delle tecniche e della possibilità di uno sviluppo senza
limiti, quella macchina satanica che prima isola l’uomo assoggettandone
comportamenti, attività e rapporti sociali, alle leggi del mercato, e poi
ricostruisce fittiziamente una parvenza di potere sulle cose e una parvenza di
socialità fra gli uomini nella forma anonima del mercato e della massa.
La causa della degradazione non è, come spesso
si è voluto asserire, lo sfruttamento economico, ma la disgregazione
dell’ambiente culturale della vittima. Il processo economico può naturalmente
rappresentare il veicolo di questa distruzione e quasi sempre l’inferiorità
economica porterà il più debole a cedere (Polanyi 1944, trad. it.: 202).
Qui non posso
addentrarmi più di tanto in un’esposizione della teoria del conflitto fra le
classi sociali in Polanyi. Vale la pena, tuttavia, accennare al tema per
evitare possibili equivoci. Scrivono, ad esempio, Chris Hann e
Keith
Hart, in un testo, per altri versi, di ottima fattura: «Non si può negare che
Polanyi abbia rivolto ben poca attenzione al lavoro e al conflitto di classe» (2011, trad. it.: 86). Almeno per quanto riguarda il conflitto di classe,
l’affermazione mi sembra imprudente. In The Great Transformation e nei
lavori successivi Polanyi sviluppa una teoria articolata (a volte avvicinata a
quella gramsciana) delle classi sociali e, pur non parlando mai in termini di
classe in senso marxiano, non parlando, come dicevo, di proletari e di
capitalisti, ma utilizzando termini molto “larghi” (groups, sections
and classes, o semplicemente common people), ritiene il ruolo delle
“classi” essenziale per comprendere la storia moderna.
L’accentuazione posta sulla classe è
importante. I servizi alla società resi dalla classe agraria, dalla classe
media e dalle classi lavoratrici modellarono tutta la storia sociale del
diciannovesimo secolo. La loro parte era determinata dalla loro disponibilità a
svolgere varie funzioni che derivavano dalla funzione totale della società. Le
classi medie sostenevano la nascente economia di mercato (ivi: 170).
Vediamo i passaggi
essenziali di questa impostazione. Di certo, scrive Polanyi, specie nella prima
fase del capitalismo i rapporti fra le classi furono conflittuali e determinati
principalmente da motivi economici. I processi di industrializzazione e di
urbanizzazione della prima metà dell’Ottocento gettarono gran parte della società
in una condizione di disperazione materiale del tutto nuova, una situazione che
era difficile non vedere. «Né Charles Kingsley, né Friedrich Engels, né Blake,
né Carlyle si sbagliavano nel credere che l’immagine dell’uomo fosse stata
deturpata da qualche terribile catastrofe» (ivi: 125). Per tutto il xix secolo, il conflitto
fra le classi è stato, come voleva Marx, il motore della storia ed è stato in
primo luogo risultato di interessi economici e di sistemi di valori
antagonisti.
Più
la borghesia imprenditoriale ha imposto la logica del mercato, più le classi
deboli hanno messo in atto forme di difesa e tutela dei propri interessi. Il
conflitto era inevitabile, ma l’errore delle classi più deboli è stato di
assumere la lotta di classe come fondamento della propria politica, di vedere
solo una parte del problema, o meglio di vedere il problema solo dalla propria
parte, dal punto di vista in cui erano costrette dalla logica imposta dal
mercato. L’aspetto economico rimane la ragione materiale dell’antagonismo
sociale, ma a vedere solo la prospettiva economica e materiale del conflitto si
rischia di cadere nella trappola del pregiudizio materialista ed economicista,
e, dunque, nelle teorie che giustificano le sofferenze sociali come momento di
passaggio necessario, ma breve, per la realizzazione di una ricchezza diffusa.
Un
liberismo illuminato ha potuto e può anche riconoscere alla lotta di classe il
merito di mantenere un qualche “equilibrio” all’interno della struttura sociale. È la ragione che hanno permesso «il silenzio di
ghiaccio (the icy silence) con il quale Malthus e Ricardo sfioravano le
scene dalle quali nasceva la loro filosofia di perdizione del mondo» (ibid.).
Nulla di più era accaduto, insistevano questi
studiosi, se non che un graduale spiegamento delle forze del progresso
tecnologico aveva trasformato la vita della gente; indubbiamente molti
soffrirono nel corso di questo cambiamento, ma nel complesso si trattò di una
storia di continui miglioramenti. Questo esito felice era il risultato del
funzionamento quasi inconscio delle forze economiche che compivano la loro
benefica opera nonostante l’interferenza di gruppi impazienti che esageravano
le inevitabili difficoltà del tempo (ivi: 207).
Lo sviluppo del mercato
era destinato indubbiamente a migliorare la condizione di vasti strati della
popolazione. La vera catastrofe non fu tanto di ordine economico; la vera
catastrofe, più sottile e meno riconoscibile, fu di ordine esistenziale: era
l’estensione dei meccanismi di espropriazione di cui Marx aveva parlato nei
saggi del 1944,
era la riduzione dei rapporti sociali e del senso comune alla logica del
mercato, una condizione di “vuoto culturale” (cultural vacuum) che
riguarda tutta la società e non una sola classe, per quanto fosse più evidente
nelle classi più deboli. Come la regola aurea della società medievale era il
diritto di nascita, così quella della società di mercato consiste nel separare
la vita “materiale” da quella “ideale”, e nell’asserire la priorità delle
motivazioni materiali rispetto a ogni altro aspetto dell’esistenza, nel fare in
modo che il “benessere”, la ricchezza e la povertà, come l’etica, l’estetica e
il diritto, diventino funzioni economiche, entrino nella sfera del proprio
potere.
Per quanto riguarda l’uomo, si fu costretti ad accettare l’eresia che i
suoi moventi possano essere definiti “materiali” e “ideali”, e che gli
incentivi intorno ai quali la sua vita materiale si organizza derivino dai
moventi “materiali” (Polanyi 1947a/1968: 59).
La mela era avvelenata.
Lo stesso popular Marxism non ha saputo sottrarsi all’inganno, ha avuto
il difetto di non vedere lo sviluppo del generale dietro il particolare, ha
interpretato questo scontro solo dal proprio “punto di vista”, come una lotta
economica per il dominio del mercato del lavoro. «I limiti della teoria della
lotta di classe in Marx, sono pertanto i seguenti: la lotta di classe non è una
realtà ultima. La realtà ultima è l’interesse di classe nel suo complesso» (Polanyi
1935/1987: 126).
Il
trionfo del mercato non si celebra sul piano dei fatti, ma nella capacità di
tradurre i fatti in valori e di occultarli nella quotidianità del senso
comune, nell’abilità di estendere la logica della merce, di convertire il common
people agli ideali del consumo. Come in una sorta di doppio vincolo
batesoniano, la vita delle classi deboli torna ogni volta a ribadire la logica generale del mercato: il consumo è percepito come una
conquista e il non consumo come un colpa.
I soli interessi di classe non possono perciò
offrire una spiegazione soddisfacente per nessun processo sociale di lungo
periodo, in primo luogo perché il processo in questione può decidere
sull’esistenza della classe stessa; in secondo luogo perché gli interessi di
certe classi determinano soltanto i fini e gli scopi per i quali le classi
stanno lottando, ma non anche il successo o il fallimento di tali sforzi
(Polanyi 1944,
trad. it.: 196).
I danni materiali del
primo capitalismo potevano essere superati, ma ai danni spirituali non ci
sarebbe stato rimedio. Cosa avviene quando la logica della concorrenza porta
il sistema sociale nel suo complesso ad avvicinarsi al punto di rottura, fino
al rischio di annullare il postulato dell’unità della società e di disgregarne
la sostanza umana e naturale? Lo scontro si sarebbe radicalizzato, e si sarebbe
rivelato nei momenti di crisi per quello che è: conflitto fra la logica
del “mercato” e il principio costitutivo della “società”. L’opposizione non
riguarda più solo una classe, ma diventa lotta di «diverse sezioni trasversali
della popolazione», lotta nell’interesse “non di una parte, ma dell’intera
società”. (Da qui l’interesse di Polanyi per le middle classes,
la cui vicenda è seguita in The Great Transformation dall’inizio
dell’accumulazione capitalistica fino al loro ruolo nella presa del potere del
fascismo).
Nel frattempo era in rapporto al problema
della miseria che la gente cominciava ad esplorare il significato della vita
in una società complessa. L’introduzione dell’economia politica nella sfera
dell’universale avveniva in due prospettive opposte, quella del progresso e
della perfettibilità da un lato, il determinismo e la dannazione dall’altro
(ivi: 109).
Bisogna uscire dal punto
di vista strettamente di classe: benché «la risposta giunga attraverso gruppi,
settori e classi […], la sfida è rivolta alla società nel suo complesso» (ivi:
196).
La diagnosi è quella condotta da Marx nei Manoscritti del ‘44, ma la prognosi sta più nella teoria dei
tipi logici di Russel che nel Manifesto del Partito Comunista.
Una volta che ci siamo liberati
dell’ossessione che soltanto degli interessi parziali e mai quelli generali
possano diventare efficaci, così come del pregiudizio che a questo si
accompagna della limitazione degli interessi dei gruppi umani al loro reddito
monetario, l’ampiezza e la capacità del movimento protezionista (di protezione
della società) perdono il loro mistero […]. Proprio perché il mercato
minacciava non gli interessi economici, ma gli interessi sociali di diverse
sezioni trasversali della popolazione, persone appartenenti a vari strati
economici univano inconsapevolmente le loro forze per affrontare il pericolo»
(ivi: 198-9).
Il nucleo di The Great Transformation sono ancora le
analisi degli anni Trenta: la stretta relazione fra la crisi economica come
malattia endemica del capitalismo e il fascismo come risposta massimamente
degradata alle contraddizioni e alle debolezze di quel sistema. «Per capire il
fascismo tedesco dobbiamo ritornare all’Inghilterra ricardiana» (ivi: 39). Ma l’alternativa polanyiana non è più fra
questa o quella classe, e neanche fra democrazia e totalitarismo, ma fra la
democrazia e la rovina di ogni forma sociale. Per dirla con il titolo di un
famoso saggio di Edward Thompson: non la lotta di classe, ma A class
struggle without class.
La nostra tesi è che l’idea di un mercato
autoregolato implicasse una grossa utopia. Un’istituzione del genere non
poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza
umana e naturale della società; essa avrebbe distrutto l’uomo fisicamente e
avrebbe trasformato il suo ambiente in un deserto. Era inevitabile che la
società prendesse delle misure per difendersi […]. Fu questo dilemma a spingere
lo sviluppo del sistema di mercato in un solco preciso (ivi: 6).
Né
questo, né quello
Fin dalle prime pagine
l’indagine cerca nell’etnologia una sponda per contestare le pretese
dell’ideologia capitalistica. Il liberismo ha proclamato i propri principi come
principî naturali e ha fatto della propria filosofia la misura di ogni economia
del passato e per fare ciò ha inteso ogni scambio, ogni forma di commercio come
forme imperfette di mercato, e ogni mercato come forma imperfetta del “libero”
mercato. Le ricerche storiche ed etnologiche offrono testimonianze di realtà
differenti, di molte e diverse forme di scambio: le forme dell’economia
domestica, della reciprocità, della redistribuzione, del commercio, e del
mercato, tutte, compreso il sedicente libero mercato, incorporate (embedded)
nell’organizzazione delle istituzioni sociali.
Non
mi soffermo su questo, peraltro centrale, argomento polanyiano, se non per
notare (benché su questa lettura non tutti sarebbero d’accordo) che le diverse
forme economiche non configurano alcun andamento evolutivo, e che la singola
forma, per quanto in certe condizioni storiche sia dominante, non è in alcun
modo esclusiva rispetto alle altre. Nel sistema capitalistico, ad esempio, il
mercato è la forma prevalente, ma certamente non l’unica. E, per altro verso,
il mercato self-regulating non appare per la prima volta con la nascita
del sistema capitalistico: per quanto il suo ruolo fosse marginale, il mercato
è già presente in altre situazioni storiche, per esempio nella società
greca del iv secolo avanti Cristo, o alla fine del Medioevo, quando per la
prima volta si forma una classe media di mercanti in grado di gestire a proprio favore
l’equilibrio della domanda e dell’offerta.
Convengo
con diversi critici sul fatto che la stessa definizione delle forme economiche
considerate (sia in The Great Transformation, sia nei saggi poi apparsi
in Primitive, Archaic and Modern Economies) è molto generica e sul fatto
che il rapporto fra sistema economico e assetto istituzionale è spesso poco
chiaro. Se poi si dovesse scendere (o meglio salire) a livelli più tecnici non
si potrebbero ignorare le confusioni del testo (Pavanello 1993): ad esempio, la nozione, confusa quanto
mai, di “economia domestica”, trattata a volte come forma secondaria della
reciprocità, altre volte come forma secondaria della redistribuzione, a volte
come forma a se stante, praticata in stadi avanzati dello sviluppo, senza mai
distinguerne adeguatamente la funzione nel quadro della forma economica
dominante (Baum 1996).
Affrontare
questo livello del lavoro di Polanyi ci porterebbe comunque troppo lontano.
Quel che preme evidenziare è solo come a Polanyi sia ben chiaro che tutte le
forme economiche sono socialmente incorporate (come, per altro verso, ogni
istituzione sociale è economicamente incorporata) e, per altro verso, come
quel che caratterizza il mercato capitalistico non sia il libero mercato in
sé, ma l’illusione di una possibile autonomia del piano economico, illusione
che si esprime in una (pseudo)filosofia e prende corpo in conseguenti
istituzioni.
Lasciate
che lo sottolinei ancora: accanto ad altre forme di scambio, di certo si sono
date nella storia forme di contrattazione di una parte dei beni sul libero
mercato; quel che, secondo Polanyi, non si è mai data è stata l’ideologia che
pretende di separare la sfera economica da ogni altra sfera sociale. La stessa
nozione di economia -come attività autonoma finalizzata al profitto - è tanto
marginale ed eccezionale nelle società precapitalistiche, che spesso manca
anche il termine (o vi sono molti termini) per separarla e distinguerla dalle
altre sfere della vita sociale. E, come ha osservato Victoria Tauli-Corpuz,
Presidente del Forum Permanente delle Nazioni Unite per i Popoli Indigeni, per
il mondo non capitalistico il benessere è ancora il vivere bene, il buen
vivir, il fare ciò che è giusto fare: «Per gli Igorot Kankana-ey
(Filippine), a cui appartengo, il gawis ay biag (letteralmente, buona
vita) implica numerosi tabù e regole, legati all’idea innata, che potremmo
tradurre come “questo non si fa”» (Tauli-corpuz 2010, trad. it.: 151).
Ciò
che rende embedded il mercato capitalistico è proprio la sua illusoria
pretesa di essere not embedded. Qui sta l’origine del suo paradosso.
Polanyi parla di pseudo-filosofia (ma anche pseudo-humanitarianism, pseudo-problems,
pseudo-liberal regimes) non perché sia genericamente una cattiva
filosofia, ma perché, come i diversi pseudo-problemi, è frutto di
un’illusione, di quel che altri avrebbero chiamato falsa coscienza.
Noto, solo di sfuggita, che, a differenza di quanto hanno pensato
alcuni suoi critici francesi (Le Velly 2008), non vi è, a questo proposito in Polanyi
alcuna contraddizione, né vi sono due Polanyi: un Polanyi che pensa ogni
economia come encastrée, e un Polanyi che descrive l’economia capitalistica
di mercato come désencastrée. La contraddizione sta piuttosto nello
stesso sistema capitalistico, nella continua, esasperata tensione fra fatti e
valori, fra quel che il mercato fa e quel che dice di fare.
E
prima di chiudere questa breve parentesi osservo come anche l’antica, vexata
quaestio dell’opposizione fra approccio formalista e approccio
sostantivista andrebbe ripensata in questa prospettiva. La questione nella sua
forma essenziale è presto detta: per un approccio formalista i principi e le
categorie elementari dell’economica sono gli stessi ovunque e la stessa
classica definizione di economia come scienza che studia il comportamento
umano come relazione tra fini e mezzi scarsi suscettibili di usi alternativi,
è valida ieri come oggi e come domani; per contro, un approccio sostantivista
dà rilievo alle varianti sociali e culturali, e contesta che uno stesso
astratto modello possa essere applicato a società diverse. Quanto detto finora
porta alla conclusione che anche in questo caso si tratti di una falsa
opposizione, sulla quale non si dovrebbe più di tanto insistere se non fosse
che alcuni allievi di Polanyi fecero dell’approccio sostantivista una sorta di
bandiera della propria scuola (come, peraltro, accade sul versante opposto),
finendo così per condizionare malamente l’eredità di Polanyi e per qualche
tempo lo stesso dibattito sul rapporto fra economia e cultura. Leggiamo
Polanyi:
Naturalmente non vi è nulla da obiettare
contro la fusione dei due significati in un unico concetto, purché si sia
consapevoli dei limiti del concetto così ottenuto […]. Tuttavia, accettare il
concetto composto di mezzi materiali scarsi ed economizzazione come se avesse
validità universale, deve rendere molto più difficile rimuovere la fallacia
economicista della posizione strategica che tuttora occupa nel nostro pensiero
(Polanyi 1977,
trad. it.: 43).
Quel che Polanyi dice è
semplicemente che assumere in modo astratto la posizione formalista rende poi
più difficile distinguere il comportamento razionale, proprio di ogni uomo,
dalla razionalità propria del capitalismo. In sé la prospettiva formalista non
ci dice nulla di nuovo, o meglio ci dice una cosa ovvia: che tutti gli uomini
sono razionali e vale per l’economia come per ogni altro comportamento umano.
«In parole povere: non comportarti come un pazzo» (ivi: 51). A ben guardare i mezzi sono sempre scarsi
(e comunque – punto essenziale – non illimitati!, Polanyi 1977, trad. it.: 48; Pavanello 1993:
36) e ci sono
sempre scelte da fare. E varrà sempre il principio in base al quale il primo
fine che determina la scelta dei mezzi è in ogni sistema economico (diciamolo
con Marx) la riproduzione del le
condizioni di produzione della propria esistenza. Ma la relazione fra mezzi e
fini (“la logica della scelta”) non si presenta mai nella sua pura astrazione:
questa è l’illusione e l’inganno che ci portiamo dietro. Come la natura si
presenta sempre incarnata nella cultura, così la razionalità economica si
presenta sempre incarnata nelle situazioni concrete. È lì, nella storia, che la
incontriamo e che la studiamo. È nella sua forma incarnata che Polanyi comincia
a studiarla dal 1922,
quando si pone il problema di conciliare in un’economia socialista «massima
produttività» e «bisogni sociali», ed è nella sua forma incarnata che
storicamente la studia nel sistema economico del mondo classico o nei sistemi
economici acquisitivi. La distinzione fra le due prospettive può essere solo
di metodo, può avere solo la funzione di non farci cadere nella trappola, di
non assumere la logica del mercato come l’unica logica possibile.
Altra
cosa è poi osservare le incertezze di Polanyi etnologo; osservare come lo
stesso Polanyi non si accorga, ad esempio, di come per fuoriuscire dalla logica
del presente non basti moltiplicare le forme dello scambio, ma si debba andare
molto più in profondità e “moltiplicare”, ad esempio, la categoria di
“socialità” e la categoria di “lavoro” (Pavanello 1993). E a scavare in questo senso, come ha più
volte osservato Aria, sarebbe stata a Polanyi non poco utile la lettura della
scuola sociologica francese e del lavoro di Marcel Mauss in particolare. Si
tratterebbe di essere più polanyiani di Polanyi, ma questo è altro discorso. Quandoque
bonus dormitat Homerus.
Dal
punto di vista storico The Great Transformation si snoda esattamente
lungo questa tensione fra fatti e valori, fra quel che il mercato fa e quel che
dice di fare. Nella società nata dalla grande trasformazione i due piani si
sostengono reciprocamente, ma si incontrano, tuttavia, con una torsione mai
troppo sottolineata: il pensiero liberale fece sorgere l’illusione di una
libertà senza confini, promise una «società dalla quale potere e coercizione
fossero assenti e un mondo nel quale la forza non avesse alcuna funzione», ma
quelle idee si formarono in una ambiente ancora preindustriale, in una società
nella quale lo status prevale ancora sul contractus, dove le
relazioni della Gemeinschat prevalgono su quelle della Gesellschaft.
L’ideologia del mercato nacque già vecchia e costituzionalmente incapace di
risolvere il problema della pratica della libertà e della democrazia in una
società complessa. A una teoria economica astratta e illusoria corrisponde
un’illusoria e astratta pratica della democrazia. E il difetto genetico della
società borghese. È la tesi che percorre tutta l’opera di Polanyi ed è la
principale ragione che lo porta ad assumere Robert Owen, rispetto ad altri
utopisti, come proprio riferimento. Nell’utopista gallese, più che in ogni
altro anticipatore del pensiero socialista, Polanyi riconosceva la capacità di
porre il problema della democrazia non in astratto, e non “da una sola parte”, ma
come conquista generale nel contesto dei problemi economici, sociali ed etici
di un ambiente urbano-industriale.
Il
travolgente processo di urbanizzazione e di industrializzazione della seconda
metà dell’Ottocento è lo sfondo storico sul quale questo scarto fra valori e
fatti era destinato a palesarsi pienamente. Uno scarto che non poteva certo
essere riempito dal miracolismo della favola di Mandeville, o dall’altrettanto
miracolosa immagine della invisible hand, né dalla buona volontà dei
riformatori; uno scarto che in poco tempo trasformò il mercato in un mostro
senza volto e la promessa di libertà in alienazione e solitudine.
Il tessuto della società divenne veramente visibile soltanto al contatto
con la macchina. Così la tecnologia in parte creò e in parte rivelò
l’esistenza di una struttura interpersonale che ci circonda, dotata di una sua
consistenza autonoma; non più un mero aggregato di persone, e nemmeno il
Leviatano di Hobbes, ma una realtà inesorabile come la morte, non nelle sue
forme mutevoli, ma nella stabilità della sua esistenza (Polanyi 1957/1987: 177).
Alla società dominata
dal mercato Polanyi si oppone con tale forza concettuale e verbale che la
bilancia sembra pendere quasi dalla parte della Gemeinschaft, e
giustificare le accuse di romanticismo e di nostalgismo. Famoso rimane il
giudizio in questo senso di Scott Cook in uno dei saggi centrali della
polemica formalisti/sostantivisti (1966: 324):
l’approccio polanyiano è considerato «a by-product of a romantic ideology
rooted in an antipathy toward the “market economy” and an idealization of the
“primitive”». E basta spingersi un po’ oltre e s’incontrano i consensi della
Nuova Destra (la destra del fondamentalismo cattolico, la destra di André de
Benoist in Francia, e di Marco Tarchi in Italia).
Polanyi
diventa rappresentante del neo-comunitarismo. Ma anche in questo caso è bene
capire la grammatica “per opposizioni” che guida il pensiero di Polanyi.
Altrove, e non solo negli scritti del secondo dopoguerra, di fronte al
macchinismo trionfante e al mito del progresso, Polanyi prende piuttosto le
difese liberali dell’individuo, contro un astratto principio di uguaglianza.
La vita interiore dell’uomo (the inner
life) sta per estinguersi perché egli ha perso la fiducia nella libertà
individuale che nutriva quella vita. La sopravvivenza interiore ed
esteriore richiede un realismo che ancora non possediamo. Non c’è soluzione in
vista senza una riforma della nostra coscienza che postuli la libertà di
fronte alla realtà della società (Polanyi 1957: 181,
corsivo mio).
Si potrebbero citare
molti, analoghi passi, ma Polanyi non è né questo, né quello, non sta né
all’uno, né all’altro estremo. Il suo problema è di uscire
dalla logica dei «filosofi di statura inferiore», di rifiutare la logica delle
«inadequate alternatives that are usually offered», «la logica del fino e non
oltre il liberismo, o del tutto o niente del collettivismo, o della pura e
semplice negazione dell’individualismo». Non si tratta di mediare meglio, si
tratta di ridefinire i termini in modo tale da rendere evidente la possibilità
di rigettare la stessa alternativa. Scrive bene Robert Morrison McIver, nella
Prefazione all’edizione americana di The Great Transformation.
We
must not abandon the principle of individual freedom but we must re-create it.
We cannot restore a past society, even if the haze of history hides its evils
from us; we must rebuild society for ourselves, learning from the past what
lessons and what warnings we are capable of learning. Perhaps in doing so we
might also bear in mind that the causation of human affairs is too deeply
tangled to be wholly unraveled by the wisest minds. There is always a point
where we must trust our values in action, so that the urgent forces of the
present world may release themselves in new directions towards new goals […].
Here he [every intelligent man] may gain new glimpses of a deeper faith. Here
he can learn to look beyond the inadequate alternatives that are usually
offered to him, the thus far and no farther of liberalism, the all or nothing
of collectivism, the sheer negation of individualism, for these all tend to
make some economic system the primary desideratum, and it is only as we
discover the primacy of society, the inclusive coherent unity of human
interdependence, that we can hope to transcend the perplexities and the
contradictions of our times.
Una prefazione
(purtroppo assente nell’edizione italiana) che bisogna leggere attentamente
prima di affrontare il libro. McIver aveva, infatti, un’assidua frequenza
intellettuale con Polanyi, di cui fu collega come docente di Scienze Politiche
e Sociologia alla Colombia, e tutto lascia pensare che le parole della
Prefazione siano risultato delle loro discussioni, se non suggerite dallo
stesso Polanyi per evitare interpretazioni riduttive, in un senso o nell’altro,
del proprio lavoro.
La
prospettiva etnografico-comparativa ci aiuta a fuoriuscire dalla gabbia del
linguaggio, ci indirizza per un’altra strada, ci dà conto della specificità del
sistema capitalistico e lo fa liberandoci dall’evoluzionismo del materialismo
volgare che la sua ideologia racchiude, ci insegna a pensare i diversi sistemi
economici per quello che erano, e non per quello che si suppone mancasse loro
per diventare sistemi liberisti, e ci rende palese l’inganno dei fatti nascosto
nelle parole del presente. La ricerca storico/etnologica ci incalza, in primo
luogo, a trovare le differenze al di sotto di una pretesa, astratta identità
della natura umana.
Il
metodo della ricerca etnologica di Polanyi (o meglio il metodo che sottostà
alla lettura polanyiana delle ricerche etnologiche) si definirà negli scritti
successivi, ma già in The Great Transformation la riflessione di
Polanyi si rivolge verso quella prospettiva e quel progetto che
diverrà centrale negli ultimi scritti.
Il
percorso della conoscenza, per così dire, s’inverte: l’altra faccia della
prospettiva comparativa offre la possibilità di trovare principi unificanti
al di sotto delle apparenti differenze, di fare del piano etnologico
materia di una teoria antropologica generale. È un passaggio importante,
e, forse, il nodo di tutto il libro: ma è un passaggio che richiede prudenza.
Rese manifeste le torsioni dell’iperliberismo, si rischia di cadere in un nuovo
teleologismo; magari nel sostenere con Rousseau, o peggio con Engels, un
qualche comunismo primitivo e naturale: «In realtà i suggerimenti di Adam Smith
sulla psicologia economica dell’uomo primitivo erano tanto falsi quanto la
psicologia politica del selvaggio di Rousseau» (Polanyi 1944, trad. it.: 58-9).
L’incontro
di queste due direzioni costituirà l’impalcatura di quello che Polanyi chiamerà
«il mio sistema». Restiamo, tuttavia, al lavoro del 1944. “Al positivo” le ricerche etnologiche non
ci dicono molto sulla natura umana; ne evidenziano solo pochi e generici
tratti. Ci dicono che l’uomo non è per natura né homo religiosus, né homo
oeconomicus, quando si faccia l’errore di intendere la religione come la
nostra idea di religione e l’economia come la nostra idea di economia. Ma già
in The Great Trasformation ci dicono che l’uomo si è sempre interrogato
sul senso della propria esistenza, e che ha sempre avuto a che fare con i
problemi della propria sussistenza; e, di certo, e principalmente, ci dicono,
che l’uomo è un animale sociale, e che la socialità è stata ed è, anzi, un
fattore di primaria importanza per lo sviluppo e la sopravvivenza della
specie.
Se, infatti, una conclusione emerge più
chiaramente di altre dagli studi recenti sulle società primitive, è
l’immutabilità dell’uomo come essere sociale […]. L’eccezionale scoperta delle
recenti ricerche storiche ed antropologiche è che l’economia dell’uomo, di
regola, è immersa nei rapporto sociali […]. La spiegazione in termini si
sopravvivenza è semplice (ivi: 61).
Più la ricerca procede
più il sistema capitalistico appare a Polanyi non solo specifico, ma exceptional
e unnatural. La società fondata sulla pretesa del mercato
autoregolato è innaturale non perché etnologicamente si possa costatare
l’assenza del mercato presso tutti i precedenti sistemi sociali, e non perché
il mercato autoregolato sia tale “nei fatti” (la mano che regola quella legge è
sempre stata molto meno “invisible” di quanto, la teoria abbia potuto
desiderare e prevedere), ma perché la sua forza è tale da occultare la stessa
natura di quei fatti, confondendo le cause con gli effetti, portando lo scontro
ai i limiti stessi della natura e della specie.
Anche
in questo caso, tuttavia, dobbiamo sapere intendere l’opposizione fra “libero
mercato” ed “economia di piano”. Abbiamo visto quanto radicale sia la polanyiana nei confronti del self-regulating
market. Non c’è argomento per il quale Polanyi usi espressioni più
violente. Anche in questo caso, tuttavia, basta andare a qualche scritto degli
anni del secondo dopoguerra, ai saggi sull’economia pianificata dei paesi
interni al sistema sovietico, perché la prospettiva de La Grande
Trasformazione sembri ribaltarsi: la richiesta diventa piuttosto quella di
introdurre nei regimi dell’economia pianificata più libero mercato. La
citazione che segue è tratta da una conferenza tenuta a Budapest nel 1963, e se ne intende, dunque, l’aspetto
politico, ma riflette bene il modo di pensare di Polanyi.
Ora, mentre il capitalismo si vedrebbe
costretto a introdurre elementi di pianificazione nella sua struttura
eccessivamente influenzata dal mercato, il socialismo a sua volta prenderebbe
in considerazione la possibilità di migliorare i risultato della
pianificazione economica, introducendo certi elementi di mercato (Duczynska
Polanyi 1977,
trad. it.: xviii).
Polanyi usa spesso il
termine “paradossale” per descrivere questo “duplice movimento” che
caratterizza la vita e la storia degli uomini. Ogni sistema contiene in sé i
pericoli della propria autodistruzione e deve mettere in moto meccanismi di
salvaguardia. Ma nella società capitalistica il paradosso si manifesta in
maniera estrema, fino a coinvolgere la sopravvivenza della natura e della
specie.
Abbastanza paradossalmente non soltanto gli
esseri umani e le risorse naturali, ma anche l’organizzazione della stessa
produzione capitalistica doveva essere protetta dagli effetti devastanti di un
mercato autoregolantesi. Ritorniamo a quello che abbiamo indicato come un duplice
movimento. Esso può essere rappresentato come l’azione di due principi
organizzativi nella società, ciascuno di essi ponendosi fini istituzionali
specifici, avendo l’appoggio di precise forze sociali ed usando i propri metodi
particolari. L’uno era il principio del liberismo economico […] l’altro era il
principio della protezione sociale che mirava alla conservazione dell’uomo e
della natura […]. Su questo paradosso se ne innestava un altro: mentre l’economia
del laissez-faire era prodotto di una deliberata azione da parte dello
Stato, le successive limitazioni al laissez-faire iniziarono in modo
spontaneo. Il laissez-faire era pianificato, la pianificazione non lo
era (Polanyi 1944,
trad. it.: 170,
180).
Ogni sistema deve
trovare un punto di equilibrio fra i vincoli sociali e le ragioni della propria
sussistenza. E in questo il capitalismo non è diverso da altri sistemi.
Paradossalmente il mercato aveva e ha bisogno che dall’esterno si pongano
limiti alle proprie interne tensioni distruttive: ha bisogno di una controparte
che impedisca, attraverso un estremo sfruttamento della forza-lavoro, una
distribuzione aberrante della ricchezza e una conseguente diminuzione della
domanda; ha bisogno di un potere centrale che salvaguardi i beni limitati della
natura; e, infine, ha bisogno
di
istituzioni che garantiscano il valore della moneta, che limitino il processo
attraverso il quale la moneta-segno permette alla ricchezza fittizia di
moltiplicarsi senza limiti.
Il
capitalismo vive finché queste sue interne tensioni fra mercato e società
trovano un qualche equilibrio: soluzioni di spirito socialdemocratico o
keynesiano, nel migliore e più augurabile dei casi, ma soluzioni che Polanyi
giudica alla lunga provvisorie, perché se «il laissez-faire era pianificato,
la pianificazione non lo era».
La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato
implicasse una grande utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per
un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza umana e naturale
della società; essa avrebbe distrutto l’uomo fisicamente e avrebbe trasformato
il suo ambiente in un deserto. Era inevitabile che la società prendesse delle
misure per difendersi, ma qualunque misura avesse preso, essa ostacolava
l’autoregolazione del mercato, disorganizzava la vita industriale e metteva
così in pericolo la società in un altro modo (ivi: 6).
Abbandonato a se stesso,
o restando prigioniero «del modo in cui questa dualità dette forma alle cose:
fatto e valore, empirismo e normatività, società e comunità, scienza e
religione […]» (Polanyi-Levitt, Mendell 1987: xx),
il sistema è condannato a implodere. È quel che oggi si rende evidente, ma
sostenitori e avversari del mercato sono spesso intrappolati nella logica
generale del sistema, non sono più capaci di distinguere.
Se voi, che possedete le cose di cui le masse
hanno bisogno assoluto, poteste rendervi conto di questa realtà, allora
sareste in grado di salvarvi. Se foste capaci di distinguere le cause dagli
effetti, di persuadervi che Paine, Marx, Jefferson, Lenin furono effetti e non
cause, allora potreste sopravvivere. Ma non ne siete assolutamente capaci.
Perché il possesso vi congela in altrettanti “io” e vi aliena i “noi”
(Steinbeck 1940,
trad. it.: 167).
Ripeness
is all. La coscienza dei limiti è maturità
Sempre più negli scritti
degli anni Cinquanta l’accento si sposta dalla critica economica e sociale
alle conseguenze antropologiche generali del capitalismo. Negli anni trenta e
durante la guerra Polanyi ha annunciato la fine della civiltà capitalistica, ma
nel dopoguerra la ripresa economica torna a illudere. Il potenziamento della
civiltà delle macchine, la diffusione dei sistemi di comunicazione, le nuove
fonti energetiche, l’utilizzo massiccio delle risorse naturali, imprimono nuovo
slancio all’economia. Grazie alla natura fittizia della ricchezza il sistema
promette e distribuisce nuovi beni e consumi per tutti: illusioni, promesse e
“debiti”. Per gli economisti era il
trionfo del mercato, la progressiva presa di possesso di tutti gli strati della
società e di tutte le aree del mondo. Per Polanyi la nuova rivoluzione
tecnologica era un prolungarsi dell’agonia: ridava spazio alle illusioni di un
mondo e di un mercato senza barriere, all’utopia di superare ogni limite
biologico, ogni limite posto dalla natura e dalla vita sociale. Mentre il corpo
del capitalismo si estende gli agenti patogeni ne aggrediscono gli spazi più
fittizi, più innaturali e per questo più deboli: lo spazio del lavoro, della
natura, del denaro. E, dunque, la disgregazione sociale, la minaccia degli
equilibri ecologici, il crollo delle economie costruite sulla ricchezza
virtuale e illimitata delle monete-segno.
Ma oggi la preoccupazione fondamentale non ha
per oggetto l’uguaglianza, la giustizia, la carità e una vita umana per i
lavoratori, ma piuttosto la libertà e la sopravvivenza di tutti (Polanyi 1977, trad. it.: 16)
L’indagine si sposta
sempre più verso una teoria generale delle condizioni materiali di vita della
specie umana, come storia generale dell’«economia umana», come «processo
istituzionalizzato di interazione che ha la funzione di provvedere ai mezzi
materiali della società» (ivi: 60).
A
un testo incompiuto al quale Polanyi lavorò per buona parte degli anni
Cinquanta, Harry Pearson diede il titolo Livelihood of Man, La
sussistenza dell’uomo. Titolo più che pertinente, quando non si intenda il
termine economia in un’accezione economicistica. L’ipotesi del libro era
“semplice”: un saggio sull’«economia umana», senza altri aggettivi, liberando
il termine dalle costrizioni dentro le quali la storia recente lo aveva
ingabbiato, un libro che ricostruisse il posto delle ragioni economiche nella
storia dei sistemi sociali. Un libro che ovviamente Polanyi non portò e non
avrebbe mai potuto portare a termine. Le ricerche etnologiche, però, non
avrebbero avuto, come in The Great Transformation, solo la funzione di
maschera di contrasto, ma si sarebbero dovute moltiplicare e diventare
fondamento di una filosofia più generale, «la nostra concezione morale e
filosofica» (Polanyi 1977,
trad. it.: 27). Il lavoro
sarebbe iniziato con le seguenti parole:
Quest’opera è il contributo di uno storico
dell’economia agli affari mondiali in un periodo di rischiose trasformazioni.
Il suo scopo è semplice: per accrescere la nostra libertà di adattamento
creativo, e in tal modo aumentare le nostre possibilità di sopravvivenza, si
dovrebbe riconsiderare completamente il problema dei mezzi materiali di
sussistenza dell’uomo (ivi: 7).
Un libro rimasto
interrotto, un libro difficile per la vastità del progetto, ma principalmente
un libro che ancora una volta si sarebbe rivelato “anacronistico e profetico”,
fuori tempo, se, anche nei periodi di crisi, i suoi
lettori fossero stati prigionieri di quella che chiamava «una obsoleta
mentalità di mercato», quella stessa mentalità che porta oggi a una lettura
economicista, prima che politico-antropologica, della crisi.
Una
cosa è comunque certa: il libro non avrebbe proposto una nuova illusione. Come
dicevo, anche aprendo il più possibile l’orizzonte della ricerca, spianando il
territorio dall’intralcio delle parole, e tornando a mettere in rilievo
l’insieme dei fatti e le loro relazioni, la natura dicotomica della vita non si
risolve e non si risolvono le sue tante contraddizioni. Is a Free Society
Possible? La risposta era già data nell’ultima pagina di The Great
Transformation:
La scoperta della società è l’ancora della
libertà. La coscienza umana è nata da limitazioni alle quali l’uomo si è
rassegnato […]. Rassegnandosi a quella realtà così come si è rassegnato alla
morte, egli diventa maturo e capace di esistere come essere umano in una
società industriale […]. Impariamo che la libertà che abbiamo perso era
soltanto un’illusione, mentre la libertà che acquistiamo è reale.
Rispetto al marxismo
popolare (ma anche rispetto a Marx) le differenze sono molte, ma la principale
sta nel riconoscere come queste opposizioni – l’opposizione fra libertà e
giustizia e fra individuo e società, come tutte le altre che ne conseguono – non
siano risolvibili. Non c’è un’utopia da realizzare, un qualche paradiso da
portare in terra, che sia il paradiso consumistico o quello comunistico. Non
scriveremo mai come voleva Marx nella Critica del Programma di Gotha (1875): «Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno
secondo i suoi bisogni!». Carlo Marx, dopo gli anni Quaranta, dopo la
definitiva rottura con gli utopisti, non scrisse mai di quel che sarebbe stata
la “società futura”. E questo fu, anzi, uno degli aspetti decisivi
dell’ingresso nella maturità della sua opera. Ne scrisse solo una volta, nel 1875, appunto, in quello scritto infelice, e fu
peggiore utopista di tutti gli utopisti.
La
differenza rispetto al marxismo sta nel riconoscere che, se si torna dalle
parole ai fatti «il mio sistema» non può mai arrestarsi e pacificarsi, ma, come
la vita, è sempre un processo, «un sistema in movimento», un territorio di
incontri e di scontri, un insieme di molteplici mediazioni sul piano storico
come su quello antropologico. Le ragioni della storia e quelle
dell’antropologia marceranno sempre insieme: abbiamo bisogno dell’una e
dell’altra prospettiva, ma marceranno sorvegliandosi reciprocamente, perché non
sia concesso all’una o all’altra prospettiva farsi interprete unico nel teatro
delle differenze, o nel teatro delle identità.
Torniamo
a lavorare sulle parole usate da Polanyi. Paradox è termine usato molto
spesso. Paradossale è uno stato di cose che contiene in sé e alimenta il
proprio contrario: paradossale storicamente è stato il tentativo di espandere
la logica del mercato; paradossali sono quelle filastrocche («famous doggerels») del dottor Mandeville sulla società delle api,
quell’idea balsana che dalla libertà di ognuno nasca miraculously la
libertà di tutti; paradossale è l’idea stessa del mercato autoregolato, l’idea
che gli equilibri del libero mercato possano tradursi, altrettanto
miracolosamente, in equilibri sociali; paradossale è la lotta delle due classi,
una lotta destinata alla lunga e oltre un certo livello, a diventare tossica e
a far tracollare tutto il sistema.
Il
fatto è che al paradosso non c’è soluzione. Paradossale, irrisolta e
irrisolvibile, è la società dominata dal mercato capitalistico e paradossale
sarà ogni società futura, a meno che non sia pensata da utopisti per esseri che
stanno fuori della storia, «per angeli o demoni, per fanciulli o filosofi»
(Polanyi 1977,
trad. it.: 44). Per
antropologi e storici la domanda sulla libertà che Polanyi si era posto negli
anni di Vienna, non può che avere una non-risposta. «Bisogna riconoscere che
sul piano puramente normativo il paradosso della libertà nella società resta
irrisolto» (ivi: 168).
Si
intende bene ora la ragione per la quale, come dicevo, Polanyi non non usa
quasi mai il termine dialectic (solo una volta in The Great Transformation)
e gli preferisce piuttosto contrast, opposition, ambivalence etc.
Come forse aveva imparato in Inghilterra da Bertrand Russel, o negli Stati
Uniti leggendo Bateson, davanti al paradosso ogni mediazione si rivela impossibile,
l’unica cosa che si può fare è un salto di livello. È bene, dunque, che le
scienze sociali, se vogliono parlare della realtà, comincino a trovare parole
più semplici, non altre parole, ma parole “più ampie”, apparentemente meno
tecniche, ma che permettano di rendere visibile il paradosso e, al tempo
stesso, consentano di rendere più evidente la possibilità di superarlo.
Termini quali offerta, domanda e
prezzo, dovrebbero essere sostituiti da termini più ampi, quali risorse,
richieste ed equivalenze […]. Una volta usciti dalla gabbia di
nozioni che si contraddicono da sole, si può entrare in contatto con la realtà.
(ivi: 42, corsivo mio).
Coniare nuovi termini è
un vizio antico delle nostre discipline, per coprire il vuoto delle idee, o per
riprovare a ingabbiare la storia. Polanyi non ci offre nuove soluzioni
sociali, e non ci offre nuovi termini. Anzi, a volte sembra che tutte le
definizioni offerte alla fine vadano a incontrarsi all’interno di uno stesso
spazio tautologico. Le definizioni sono quanto di più ampio e semplice
possibile. La migliore “economia” non ha bisogno di aggettivi che la
qualifichino: diventa semplicemente «economia umana» come ricerca dei
meccanismi di “equivalenza” fra “risorse” e “richieste”. E così per
“socialismo”, per “libertà”, o per “democrazia”.
Bisogna
usare le parole più “spaziose”, dentro le quali gli storici possa
no riconoscere la pluralità delle forme, e i politici le molte
strade possibili: parlare di “mercati” e non di mercato, osservare le molte
strade verso una maggiore democrazia (ragione che spiega – come nel caso di
Popper o di Wittgenstein – una sua attenzione per le vicende sovietiche, per
poi prenderne decisamente le distanze).
Nei
saggi degli anni Cinquanta il tema della libertà rimane centrale, ma assume una
rilevanza nuova e pesante almeno per tre ragioni storiche: il diffondersi di
una potenza tecnologica ben maggiore di quella sperimentata fra le due guerre;
la paura di un conflitto atomico fra le due grandi potenze; il fallimento
dell’esperienza del socialismo sovietico, nel quale in alcuni momenti Polanyi
aveva confidato. La questione della libertà si ripropone con più immediatezza e
forza.
Per
un altro libro, in collaborazione con l’economista Abraham Rotstein, aveva già
firmato il contratto e aveva già indicato il titolo Freedom and Technology.
Brancoliamo in cerca di risposte […].
L’utopia liberale del mercato del xix secolo,
e il socialismo antiliberale dei russi, ci hanno insegnato alcune delle
inevitabili alternative. Siamo alle prese con un dilemma (Polanyi
1957/1987: 182-4).
Ogni idealismo è messo
da parte. Davanti al paradosso la risposta retorica non può essere che
l’ossimoro: «In ultima analisi l’individuo deve essere costretto a essere
libero» (Polanyi 1953:
168).
O detto altrimenti, la società deve essere costretta a garantire la libertà
individuale:
Non c’è soluzione in vista senza una riforma
della nostra coscienza che postuli la libertà di fronte alla realtà della
società […]. La libertà in una società complessa è un passaporto inviolabile
(Polanyi 1957/1987: 182, 185).
E ossimorica è anche per
Polanyi la nozione di «cultura popolare»: l’idea che il passaggio a una nuova
epoca abbia come premessa e condizione il progresso della cultura, ma di una
cultura che sia popolare, «senso collettivo del lavoro, della vita e della
quotidianità» (Polanyi 1932/1987: 67).
In conclusione Jean Jacques Rousseau legò
indissolubilmente il concetto di una società libera all’idea di una cultura
popolare. La contraddizione tra libertà e eguaglianza solo in parte risolta
nella polis, era destinata a diventare un problema in ogni comunità più
grande della città di Rousseau (Polanyi 1953, trad. it.: 169).
Dietro quel (tanto criticato)
forced to be free c’è gran parte della vita di Polanyi, l’impegno, da
Budapest a Londra, nell’educazione degli adulti. E, per altro verso, dietro
quel “passaporto inviolabile” della libertà individuale, c’è la repressione
della rivolta ungherese, la dittatura del regime sovietico, il soffocamento di
quei balbettii e di quelle speranze degli scrittori
ungheresi ai quali in quegli anni cercava nell’antologia The Plough and the
Pen di ridare la parola.
Come
Lukács aveva teorizzato in molti suoi lavori, e come la storia sovietica era
destinata a dimostrare, Polanyi riconosceva il carattere efficiente della
letteratura, la capacità di porre domande, di anticipare gli eventi, la forza
di guidare i fatti. Ma principalmente trovava nella letteratura e nell’arte in
generale la possibilità di contrapporre al processo di degrado culturale
indotto da un mercato sempre più anonimo e autoreferenziale, un nuovo
Occidente. The New West è il titolo di un altro possibile progetto di
libro, un libro che avrebbe dovuto ripensare la cultura europea proprio a
partire dai valori delle diverse arti, dalla letteratura, al cinema, alla
pittura, alla danza. Nel materiale preparatorio per quel libro ci sono annotati
in ordine alfabetico fra gli altri: Auden, Brecht, Camus, Chaplin, Gide e
Lukács, Sartre, Silone, Sinclair, Steinbeck, ma anche Einstein e Russel. Si
trattava di portare alla luce quel che in altra occasione aveva chiamato
bergsonianamente l’élan vital dell’umanità, il principio naturale della
sua resistenza. Scrive bene McRobbie:
Non solo Polanyi trovò nella letteratura la
conferma di quanto vitale fosse nell’uomo la capacità di una visione creativa,
ma altrettanto fecero alcuni dei suoi studenti e collaboratori. Così, Geroge
Dalton ricorda in una sua lettera di essere stato molto influenzato dai romanzi
di Romain Gary, Isak Dinesen (Karen Blixen) e Paul Medow (McRobbie,
Polanyi-Levitt 2006:
98).
Una nuova versione de The
Great Transformation sarebbe stata l’insieme di tutti questi progetti: i
saggi etnologici che Dalton pubblicò nel 1968 in Primitive, Archaic and Modern Economies,
i saggi delle sue lezioni che Pearson raccolse in Livelihood of Man, ma
anche Freedom and Technology, il saggio su Jean Jacques Rousseau,
il progetto di New West e molti altri.
Dicevo
che negli anni Settanta leggemmo Polanyi accanto a Marcuse e Adorno. E, in
effetti, negli ultimi scritti Polanyi si avvicina e anticipa i temi che di lì a
poco Herbert Marcuse avrebbe sviluppato in One-Dimensional Man, e più in
generale temi che erano propri della scuola di Francoforte e di buona parte
della sociologia emigrata dall’Europa negli Stati Uniti. La strada che gli
eredi francofortesi di Hegel predicavano, sembrava, tuttavia, a Polanyi interna
allo stesso sistema che volevano combattere. La rivolta individualistica, la
polemica antitecnologica, e anche le diverse teorie della decrescita, che pure
al suo pensiero si richiamavano, dovevano sembrargli, e gli sarebbero
sembrate, tanto impotenti, quanto in altri tempi gli erano sembrati inadeguati
e insufficienti, e comunque interni alla natura innaturale del capitalismo, il
marxismo e la lotta di classe. Il problema non stava nel recuperare la
soggettività degli individui o della classe, né nel liberare la politica, nel
negare quel che la filosofia del xix secolo
aveva negato, ma nel fuoriuscire da quella logica, nel superare alla radice la
dicotomia fra individuo e società, tra politica ed economia, e riconoscere
quella legge antica della sussistenza umana, stravolta dalle presunzioni degli
ultimi due secoli, per la quale alla natura si comanda ubbidendole.
Polanyi
era sempre stato un accanito lettore di Shakespeare e il saggio polanyiano del 1957 su La libertà in una società complessa finisce
con un’annotazione shakespeariana che è bene (ogni tanto) ripeterci e
riscrivere a lettere maiuscole: «ripeness is all»
(King Lear Atto v, Scena ii).
Le
forze spirituali pronte a prendere la successione nelle nostre vite personali
sono oggi disperse in una lotta donchisciottesca contro la realtà della
società. Il coraggio morale rivelerà i limiti interni del progresso tecnologico
e della libertà. La ricerca dei limiti è maturità.
Nei
saggi antropologici che seguono The Great Transformation non appare più
un’affermazione che in qualche modo richiami le prime parole di quel testo: Nineteenth
Century civilization has collapsed. Più avanza nei suoi studi più il
processo di superamento della civiltà di mercato gli sembra lontano e
difficile. La conquista della libertà in una società complessa avrebbe
richiesto un percorso molto più lungo di quanto alla fine degli anni trenta
aveva supposto, e principalmente avrebbe coinvolto presto l’intera umanità.
Polanyi si sarebbe riconosciuto bene nei due aggettivi con i quali l’amico di
gioventù aveva caratterizzato il suo pensiero: “profetico e anacronistico”; ma
avrebbe amato di più quel che di lui lasciò scritto la moglie: «Pur essendo un
umanista, egli fu soprattutto un realista» (Duczynska Polanyi 1970, trad. it.: ix).
L’opposizione che il mio sistema di pensiero
ha infine suscitato, è un buon segno. Mi sarebbe piaciuto durare più a lungo e
prendere parte alla lotta, ma l’uomo è un essere mortale (ivi: xix).
Note
1. Per la diffusione dell’opera di Polanyi e
per una descrizione dell’Archivio Polanyi, si può vedere il sito del Karl
Polanyi Institute of Political Economy della Concordia University di Montreal.
Per la forte ripresa internazionale del suo pensiero si può consultare – in
rete – anche il numero 38 del
2008 della
rivista “Interventions économiques/Papers in Political Economy”, Le
renouveau de la pensée polanyienne. La bibliografia più recente è in Dale 2010a e 2010b.
2. Ringrazio tutti i colleghi che hanno letto
e commentato il testo. Un grazie particolare a Antonino Colajanni, massimo
esperto di storia dell’antropologia sociale, e a Matteo Aria, ben più di me
esperto di antropologia economica. Come altre volte è capitato, devo ringraziare
Eugenio Testa per l’attenta lettura e per i molti suggerimenti di contenuto e
forma.
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