giovedì 12 settembre 2013

Attualità del “Germinal” di Emile Zola - Aristide Bellacicco -

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In “Germinal” di Zola il protagonista assoluto della narrazione è il dominio di classe e il conflitto che ne scaturisce. La forma corale del romanzo risponde a quanto l’autore vuol mettere in luce: i personaggi della famiglia Maheu, minatori da generazioni, sono esponenti tipici del loro ambiente sociale, i loro problemi e le loro sofferenze sono quelle di tutti e di ciascuno, il loro è un destino condiviso da migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini che sono incatenati all’estrazione del carbone come all’unica forma di sostentamento – peraltro miserevole - alla quale possono e debbono accedere.
La mistificazione borghese del “libero lavoratore” è smascherata da Zola proprio attraverso la forma particolare del rapporto di produzione che lega il minatore al capitale: non si tratta, in “Germinal”, di veri e propri lavoratori salariati. Le varie squadre di minatori hanno per così dire in appalto una sezione limitata dell’immensa vena carbonifera, e vengono pagate in rapporto alla quantità di minerale estratto, cioè a cottimo. “Liberi professionisti” della miniera, si direbbe: in loro sopravvive, sebbene in una versione ferocemente farsesca, la figura dell’operaio professionale, che vende sì se stesso al capitale, ma il cui lavoro non ha ancora del tutto perduto il proprio carattere specifico e “privato”.
Non si diventa minatori con un’ addestramento di “un quarto d’ora”, come reciterà più tardi la parabola fordista. E’ ancora un’”arte” che ci si tramanda da padre in figlio, da madre in figlia, da generazione in generazione. Ma la sostanza è ormai pienamente capitalistica: nessuno degli operai possiede un qualsivoglia strumento di produzione al di là delle proprie braccia, tutto il resto – ascensori, picconi, cunei, lampade, vagoni per il trasporto del minerale, macchine motrici ecc - appartiene al padrone del sottosuolo, del paesaggio devastato, del cielo nero di fuliggine e di ogni cosa comprese le squallide abitazioni dei minatori, raccolte a formare villaggi la cui unica ragion d’essere risiede nelle esigenze produttive del capitale stesso. 

Un capitale ormai per lo più senza volto: nella prima scena del romanzo, quando il giovane operaio Etienne, in cerca di lavoro, domanda al vecchio (cinquantotto anni !) Bonnemort, capostipite vivente dei Maheu, a chi appartengano i pozzi e le fiammeggianti ciminiere che occupano la campagna, l’altro risponde “Chissà, a qualcuno che sta laggiù”, indicando con un gesto del braccio qualcosa di vago e lontano e, nello stesso tempo, il luogo, altrettanto remoto e indefinito, dove questo “qualcosa” o “qualcuno” risiede. Più volte nel corso del romanzo, Zola si riferisce al Capitale come a “un dio sconosciuto” che vive in un tempio oscuro, un vuoto più che un presenza, e che solo talvolta si condensa nella forma di anonimi affaristi, ben vestiti quanto spietati, che però non sono a loro volta che “membri” di un consiglio di amministrazione, azionisti di maggioranza o loro rappresentanti, nessuno dei quali, di per sé, è il Capitale.
Questa rappresentazione del capitale, certamente, appare nel romanzo anche come figura dell’immaginario degli stessi operai, eppure non è solo il prodotto di uno spaesamento o di una lontananza fisica e sociale dai centri (Parigi?) dai quali viene esercitato il potere di vita o di morte su migliaia di esseri umani. Non di un mito da diseredati si tratta, bensì della forma adeguata che il capitale stesso assume durante e al di là della rivoluzione industriale: Marx scrive, proprio in quegli anni, che il capitale non è una cosa, un oggetto, ma un rapporto fra gli uomini. E precisamente quel rapporto che costringe alcuni uomini a produrre merce per altri in cambio di un salario.
Non le macchine, gli ascensori, le gallerie, i forni alimentati a coke, i vagoni delle linea ferrata sotterranea sono il capitale, ma quel gesto, o quell’insieme di gesti, con i quali ogni giorno migliaia di minatori, senza nulla che li costringa a parte la necessità di sopravvivere, si lasciano condurre sotto terra a estrarre carbone. Il loro risveglio alle quattro del mattino, quando è ancora notte, la frettolosa e frugale colazione, la marcia di un’ora o più per raggiungere i pozzi mentre appena albeggia, il loro affollarsi nel montacarichi che, al segnale di “arriva la carne!”, li sprofonda fino alla quota negativa di ottocento metri, la loro serietà e dedizione al lavoro, addirittura l’orgoglio per un mestiere che, tutto sommato, sentono come base della loro identità individuale ancor prima che collettiva: il rapporto di capitale si manifesta in ognuna di tali movenze che scandiscono inesorabilmente la vita dei minatori. Perché, e questo in “Germinal” è chiarissimo, il solo immaginare che l’attività umana e la soddisfazione dei bisogni più elementari, compreso l’amore e la riproduzione, possa avvenire in assenza dell’invisibile catena che lega gli uomini al carbone e al profitto, significa già immaginare, progettare, o anche solo sognare, la rivoluzione.
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Germinal” è, nel suo principale nucleo narrativo, la storia di uno sciopero che avviene nel mezzo di una crisi capitalistica di sovrapproduzione, e che è da questa provocato. La lotta degli operai durerà circa tre mesi, avrà un momento di violenta catarsi che porterà all’uccisione quasi rituale di un piccolo commerciante odioso e di bassi appetiti, ed esiterà in una sconfitta per fame e scoramento che riporterà i minatori nei pozzi con quella riduzione di salario che era stata la causa scatenante della lotta. Gli scioperanti troveranno la loro guida nel giovane Etienne Lantier, macchinista licenziato per aver “schiaffeggiato il suo capo” e riciclatosi operaio di miniera per non morire di fame. Questo Etienne, sorta di esponente di un”avanguardia” proletaria ancora in nuce, proveniente da un settore di classe operaia più evoluta e consapevole, si troverà, nel corso dello sciopero, a vivere una sorta di progressivo distacco dai suoi stessi compagni dei quali compiange la miseria ma anche rifiuta la degradazione morale e fisica, segno di una rassegnazione al “destino” di cui egli vuol liberarsi. E lo farà, a suo modo, decidendo, nell’epilogo del romanzo, di emigrare in Inghilterra per lavorare a tempo pieno nell’Internazionale. Subisce , Etienne, un processo che si potrebbe chiamare di “deriva piccolo-borghese”, una decisa aspirazione al riscatto sociale interpretato però anche in chiave di promozione individuale e , forse, si può intravvedere nella sua vicenda la dinamica che porterà – e in quegli anni sta già portando - alla costituzione di quelle élite operaie e intellettuali i cui rapporti con la classe diverranno, come la storia del movimento operaio ci insegna, anche molto problematici. Ma questo forse va già oltre il romanzo: e nella visione dello stesso Zola, sia pure nell’estrema oggettività e “naturalismo” della narrazione, o forse proprio per questo, la genuina indignazione per “il dio oscuro” capitalistico che mangia le vite si trova ancora legata ad una aspettativa di rivoluzione fortemente segnata da caratteri mitici e millenaristici.
Ma al di là di questi limiti e delle loro comprensibili e ovvie ragioni, il quadro che “Germinal” ci restituisce della “condizione della classe operaia in Francia” – parafrasando il titolo di un famoso scritto di Engels – è perfetto.
E non soltanto per l’immensa ricchezza di dettagli che si compongono in un insieme compatto e coerente in ogni sua parte, dove gli eventi, le condizioni di lavoro, le anime e i corpi, la biologia e la psicologia degli operai e dei loro stessi padroni sono connessi dal vincolo di una necessità che non da essi proviene ma dal “dio oscuro”; ma soprattutto perché, a una lettura più attenta, si nota come tutto ciò che in Germinal appare appunto come necessario e fatale lo è sì, ma solo perché fra gli uomini vigono quei rapporti di dominio e sudditanza specifici della società dominata dal capitale.
Questo fa ancora oggi l’attualità del romanzo: il suo carattere - se mi si passa il termine – anti-feticistico. Le categorie dell’economia politica classica e di quella marxista – valore, plusvalore, prezzo, salario, profitto – sono lì sotto gli occhi del lettore e non c’è professore che possa discettarne astrattamente : il plusvalore è quella carretta pesantissima e carica di carbone che i minatori trasportano penosamente fino alla superficie, è ognuno dei singoli gesti con cui il minatore Maheu provvede, sudando, respirando a fatica, bestemmiando, a staccare il carbone dalla vena, è ancora l’esistenza stessa del “carbone” che semplicemente non esisterebbe senza il lavoro degli operai. Questo “carbone”, che tinge di scuro ogni pagina di “Germinal”, è in se stesso una mistificazione, un feticcio: “quel” carbone, quello che riempie le carrette e i polmoni del vecchio Bonnemort che sputa nero, è tutt’altro che un elemento presente in natura, è tutt’altro che il “giacimento”carbonifero (senza considerare che questo è già tale solo perché il capitale ci ha messo gli occhi sopra), ma è già il segno di una estraniazione del lavoro umano (una estrazione estraniata) il cui esser tale si manifesta nel gesto “naturale” “ovvio” “quotidiano” col quale gli operai lo consegnano “spontaneamente” al padrone dopo averlo estratto senza che il padrone abbia fatto nulla.
E i prezzi del cibo e degli indumenti degli operai sono rappresentati come i rapporti di forza fra i commercianti – in combutta con i padroni - e gli operai stessi, così come il salario (“il salario è la lotta ostile fra operaio e capitalista” scrive Marx) è nient’altro che la prova provata dell’assoggettamento del lavoro al capitale (cioè, agli uomini che lo posseggono, chiunque essi siano).
Non so se Zola possa essere definito un marxista, e in fondo credo di no: ma è innegabile che in “Germinal” il carattere del “materialismo” di un Marx correttamente inteso – vale a dire che le “categorie” economiche non hanno oggettività se non all’interno di un particolare rapporto di dominio/sudditanza fra gli uomini – è interamente presente. E’ in questo uno dei motivi principali per rileggere o riconsiderare questo romanzo proprio oggi che l’”economia” – senza ulteriori specificazioni – tende, benché disperatamente, a presentare se stessa come un qualcosa di assoluto e di naturale, di “oggettivo” appunto: chimera, questa, che sembra purtroppo ipnotizzare anche qualche economista che continua a dichiararsi marxista.
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Germinal” non è certamente un trattato di economia capitalistica: ma si potrebbe dire che esso sia un esempio del modo in cui un tale trattato dovrebbe essere scritto quando si intenda l’economia non come una scienza che dimori in una sua astratta separatezza – o, in forma meccanicistica, come pura indagine sulle“cause” di determinati “effetti” - bensì come parte della totalità di una certa forma di vita storicamente determinata e di un particolare modo di presentarsi delle relazioni fra gli uomini.
In questa chiave, non è improprio l’accostamento fra il romanzo di Zola e il Capitolo 23 del primo libro del Capitale di Marx: “La legge generale dell’accumulazione capitalistica” (ma il discorso potrebbe allargarsi al Capitale nel suo complesso).
Il capitolo in questione inizia così: “In questo capitolo” scrive Marx “trattiamo della influenza che l’aumento del capitale esercita sulle sorti della classe operaia.”
E’ un incipit in cui non è difficile sentir risuonare insieme ironia ed indignazione. Sullo sfondo delle categorie che via Marx mette in campo nello sviluppo della trattazione (legge dell’accumulazione, composizione organica del capitale, salario come variabile dipendente, esercito industriale di riserva ecc.) si profilano sempre più chiaramente le condizioni di vita della classe operaia che sono sì l’”effetto” dell’accumulazione del capitale – seguono cioè le sue leggi: ma tali leggi non avrebbero potuto in alcun modo venir messe in luce se lo sguardo dello studioso non si fosse spinto a fondo nella miseria dei cottage e delle workhouse, nella scarsità del vitto, nella sua infima qualità, nel nomadismo coatto della popolazione “in cerca di lavoro”, nel progressivo decadimento fisico e morale degli strati più poveri della classe operaia stessa e così via.
E’ chiarissimo, in questo capitolo, come le “leggi” dell’economia capitalistica non abbiano in sé nulla di naturale o di meccanico, ma siano, appunto, “leggi” anche e soprattutto nel senso di “costrizioni” che la classe proprietaria impone alla classe che lavora benché – e questo Marx ce lo insegna tante volte – esse appaiano in forma rovesciata: “ci sono troppi operai” significa in realtà che la produttività del capitale costante è cresciuta al punto di produrre una maggiore quantità di merci con una forza- lavoro uguale o diminuita, così come il fatto che l’operaio si nutra di “pane di segala e acquavite di patate”, invece che di pane bianco e vino, significa che il capitale ha bisogno di far diminuire i salari per aumentare i profitti e dunque obbliga gli operai a spendere di meno per procurarsi i mezzi di sussistenza
Il quinto paragrafo del capitolo che stiamo esaminando viene intitolato da Marx: “Illustrazione della legge generale dell’accumulazione capitalistica” : in esso non si parla quasi per nulla di economia in senso tipico. Marx tratta invece con grande accuratezza e dovizia di dettagli della quantità di “ carbonio e azoto” che entravano nella dieta degli operai, di quanta birra e quanto latte essi ricevessero – o non ricevessero – settimanalmente, delle condizioni abitative e climatiche dei quartieri che nascevano a Londra o in altre grandi città, dello stato dei cottage nei sobborghi e nelle campagne sottomesse dalla grande industria.
Si incontrano frasi come questa: “Wrestingworth: stanza da letto lunga dodici piedi e larga dieci all’incirca…gli inquilini devono costruirsi i cessi…sei adulti stanno in una stanza da letto con quattro bambini.”
Oppure: “Beenham: nel giugno 1864 un uomo con moglie e quattro bambini abitava in un cottage a un piano. Una delle bambine ritornò dal lavoro con la scarlattina. Morì.”
E ancora: “Una fiacchezza mortale, un abbandono disperato alla sporcizia dominano Gambinglay…da otto a nove persone pigiate dentro una stanza destinata ad accoglierne una sola…”
Sembra quasi di ritrovarsi, in anticipo sui tempi di scrittura, nel paesaggio fisico e morale di “Germinal”, nel villaggio dove abitano i Maheu e i loro compagni. E non soltanto per l’ovvia somiglianza fra situazioni ed eventi che risalgono grosso modo alla medesima fase storica, ma proprio per il riconoscimento dell’intima corrispondenza fra una determinata dimensione “economica” (sia essa la”legge generale dell’accumulazione capitalistica” o “il dio oscuro” di cui parla Zola) e la vita degli esseri umani: ma quel dio e quella legge non hanno ormai più nulla di trascendente in chiave teologica, né di oggettivo in senso piattamente materialistico o scientista, bensì vengono riconosciuti come esclusivamente consistenti nell’ assoggettamento di una parte degli uomini ad un’altra sotto il regno della merce.


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