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La diffusione pandemica della pseudoscienza - Alessandra Ciattini e Aristide Bellacicco
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
Da: https://enricoberlinguer.org - Rinascita, 12 ottobre 1973 - Enrico Berlinguer (Sassari, 25 maggio 1922 – Padova, 11 giugno 1984) è stato Segretario generale del Partito Comunista Italiano dal 17 marzo 1972 al 11 giugno 1984.
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Abbiamo constatato che la via democratica non è né rettilinea né indolore. Più in generale il cammino del movimento operaio quali che siano le forme di lotta, non è stato mai né può essere una ascesa ininterrotta. Ci sono sempre alti e bassi, fasi di avanzata cui seguono fasi in cui il compito è di consolidare le conquiste raggiunte, e anche fasi in cui bisogna saper compiere una ritirata per evitare la disfatta, per raccogliere le forze e per preparare le condizioni di una ripresa del cammino in avanti. Questo vale sia quando il movimento operaio combatte stando all’opposizione sia quando esso conquista il potere o va al governo. Ha scritto Lenin: «Bisogna comprendere – e la classe rivoluzionaria impara a comprendere dalla propria amara esperienza – che non si può vincere senza aver appreso la scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata». Lenin stesso, che è stato certamente il capo rivoluzionario più audace nella scienza dell’offensiva, è stato anche il più audace nel saper cogliere tempestivamente i momenti del consolidamento e della ritirata, e nell’utilizzare questi momenti per prendere tempo, per riorganizzare le forze e per riprendere l’avanzata. Due esempi rivelatori di queste geniali capacità di Lenin furono il compromesso con l’imperialismo tedesco sancito con la pace di Brest Litovsk, e il compromesso con forze capitalistiche interne che caratterizzò quell’indirizzo che va sotto il nome di Nep (Nuova Politica Economica). Né va dimenticato che Lenin non esitò a compiere tali scelte andando contro corrente. Queste due grandi operazioni rivoluzionarie, che contribuirono in modo decisivo a salvare il potere sovietico e a garantirgli l’avvenire, vennero attuate in condizioni storiche irripetibili, ma il loro insegnamento di lungimiranza e sapienza tattica rimane integro.
Da: https://www.lacittafutura.it - Roberto Fineschi è un filosofo italiano. Ha studiato filosofia a Siena, Berlino e Palermo. Membro del comitato scientifico dell’edizione italiana delle Opere di Marx ed Engels (Marx. Dialectical Studies).
Da: Lenin, Opere Complete, vol. 33, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 385-397 - Pravda n. 258, 15 novembre 1922 - https://www.marx21.it
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Sulla Cooperazione - Vladimir Lenin (1923)
Better Fewer, But Better*- Vladimir Lenin (1923)
Il concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin - Vladimiro Giacché
RICERCHE MARXISTE - Momenti del dibattito sulla Nep - Stefano Garroni
Relazione al IV congresso dell’Internazionale comunista, 13 novembre 1922
Da: https://www.lacittafutura.it - Roberto Fineschi è un filosofo italiano. Ha studiato filosofia a Siena, Berlino e Palermo. Membro del comitato scientifico dell’edizione italiana delle Opere di Marx ed Engels (Marx. Dialectical Studies).
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Razzismo e capitalismo crepuscolare - Roberto Fineschi
Social e capitalismo crepuscolare (living in a box) - Roberto Fineschi
Persona, Razzismo, Neo-schiavismo: tendenze del capitalismo crepuscolare. - Roberto Fineschi
La politica scolastica fin qui seguita dimostra che il capitalismo crepuscolare non è più in grado di esercitare un’egemonia e opta per la formazione di una neo plebe ignorante e facilmente manipolabile, calcolando anche il rischio di forme di ribellismo fuorvianti.
Chi ha recentemente affermato che i modesti risultati delle prove INVALSI dimostrerebbero la scarsa qualità dei professori italiani - soprattutto in relazione alle drammatiche prove in professionali e “scuole di frontiera” - probabilmente non è mai entrato in una di queste scuole o, se lo ha fatto, ha capito poco o niente di come funzionano le cose. In Italia ci sono dei pessimi professori? È sicuramente vero. Nell’esperienza scolastica di chiunque si annovera qualche personaggio più unico che raro, egregio rappresentante del mondo dell’incompetenza o con delle spalle tondissime. Per capire quali professori rispondano a questo identikit sono necessari studi pedagogici, sofisticate tecniche o procedure altamente formali? No, in genere basta parlarci cinque minuti, anche informalmente, per chiarirsi le idee. Pare evidente che non ci sia alcuna intenzione di individuarli (e non si nascondono). Ciò detto, se ne può dedurre che tutti i professori siano così? Be’, questo è semplicemente senza senso e, evidentemente, offensivo per un’intera categoria. Parlare delle persone senza i contesti è una facile scorciatoia e un modo per non affrontare davvero le molte questioni sul tavolo.
Da: https://www.ilriformista.it - Umberto De Giovannangeli, esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
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«Le lancette del tempo non vanno riportate indietro di vent’anni. Ma di altri venti ancora. Quando gli Stati Uniti pur di eliminare un governo liberamente eletto dagli afghani ma che aveva la “colpa” di essere vicino all’Unione Sovietica, decisero di finanziare, addestrare, armare i miliziani fondamentalisti di Osama bin Laden. Quarant’anni dopo, l’America fa i conti con la rivincita della Storia, molto più di un fallimento politico e militare». E di Storia il nostro interlocutore è un maestro. Luciano Canfora, filologo, storico, saggista. Una voce libera, cosa sempre più rara nell’Italia d’oggi. Professore emerito dell’Università di Bari, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista Quaderni di Storia (Dedalo Edizioni).
D. In questi giorni, tanto più alla luce del sanguinoso doppio attacco terroristico di giovedì a Kabul, in tanti si sono cimentati nel definire ciò che sta avvenendo in Afghanistan: fuga, resa, tradimento dell’America e dell’Occidente. Lei come la vede?
L.C. Direi che in tutta questa grande riflessione collettiva in corso, c’è una piccola, si fa per dire, ma vistosa lacuna: come mai quaranta e passa anni fa, gli Stati Uniti d’America hanno aiutato in tutti i modi la guerriglia islamica antisovietica in Afghanistan? Nel 1978, l’Afghanistan aveva avuto elezioni politiche e il partito popolare democratico, di fatto una specie di partito comunista, aveva stravinto le elezioni. L’intervento sovietico in appoggio di questo governo laico-giacobino, chiamiamolo così, scandalizzò l’Occidente, le Olimpiadi di Mosca furono boicottate, e cominciò la lunga guerriglia afghana alimentata in Pakistan, Paese all’epoca fedelissimo dell’America, e gli Stati Uniti pensarono di avere trovato, e in parte era vero, il modo di logorare la super potenza ostile, avversaria, con un Vietnam sovietico, che fu l’Afghanistan. Dieci anni di guerriglia, ben finanziata, armata. Gli Stati Uniti hanno una buona esperienza in questo campo perché, per esempio, addestrarono in California i guerriglieri kosovari dell’Uck, i quali dopo aver contribuito allo sfasciamento della Jugoslavia, hanno poi dato manforte all’Isis nel califfato siro-iracheno, contribuendo alla sua nefasta consacrazione. Chi è causa del suo mal pianga se stesso. I nostri giornalisti, studiosi, commentatori politici si sono dimenticati i primi vent’anni di questa storia. E la incominciano dal 2001. Così non si capisce niente. Come mai improvvisamente il talebano antisovietico, musulmano, da coccolare è diventato un nemico? La loro teoria è che l’attacco alle Torri Gemelle sarebbe partito dall’Afghanistan. Non so se si sia mai potuto dimostrare in maniera seria, oggettiva, tutto questo, ma mettiamo che sia vero, a quel punto diventa piuttosto stravagante l’idea che per punire l’attentato del 2001 ci stiamo vent’anni in Afghanistan, fino al 2021. Una punizione che sembra proprio di quelle descritte nell’inferno dantesco, di quelle che non finiscono mai. Al termine di questa mendace presentazione dei fatti, succede che, di botto, gli americani mollano tutto.
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Stefania Maurizi è una giornalista italiana.
"Voglio vivere in una società in cui puoi esporre
i crimini di guerra, la sorveglianza di massa,
senza passare 7 anni in prigione come
Chelsea Manning, senza essere detenuta
arbitrariamente per 9 anni come Julian #Assange,
senza essere costretta a scappare in Russia,
come Edward Snowden."
Stefania Maurizi, "Il potete segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks" in uscita per Chiarelettere.
Vedi anche il bel lavoro di Riccardo Iacona per la RAI "Presa Diretta", che ricostruisce tutta la vicenda Assange:
https://www.raiplay.it/programmi/presadiretta
E altro: Il processo a Julian Assange - Alessandra Ciattini
Partiamo da Julian Assange e l’Afghanistan un'associazione più che mai doverosa visti gli ultimi avvenimenti. Nei giorni scorsi è diventato virale un video del Fondatore di WikiLeaks, il quale, nel 2011, spiegava che per gli Usa in Afghanistan "l'obiettivo era una guerra eterna". Già da queste parole si intuisce il motivo per il quale gli inquilini della Casa Bianca degli ultimi anni chiedono la sua testa?
Non c’è alcun dubbio che la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano sulla guerra in Afghanistan, gli Afghan War Logs, da parte di WikiLeaks nel luglio del 2010, sia costata la libertà a Julian Assange. Dal 2010, non è più un uomo libero. I file sulla guerra in Afghanistan, quelli sul conflitto in Iraq, i cablo della diplomazia americana e le schede dei detenuti di Guantanamo sono i documenti per cui rischia 175 anni di prigione negli Stati Uniti. Ma la libertà l’ha persa già dal 2010, quando iniziò a pubblicare queste rivelazioni e, da quel momento in poi, è finito inizialmente agli arresti domiciliari per 18 mesi, poi è rimasto confinato sette anni nell’ambasciata dell’Ecuador senza mai un’ora d’aria e senza via d’uscita, infine è stato incarcerato nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, in cui si trova dall’11 maggio 2019 in attesa che la giustizia inglese decida se estradarlo negli USA dove appunto rischia 175 anni. Ricordo la reazione furibonda del Pentagono, nel luglio del 2010: accusò immediatamente Julian Assange e i giornalisti di WikiLeaks di avere “le mani sporche di sangue”, perché, secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, gli Afghan War Logs esponevano i traduttori e i collaboratori delle truppe americane e occidentali, i cui nomi comparivano nei file, alla rappresaglia dei Talebani.
Da: https://www.sinistrainrete.info - Tania Toffanin, Università degli Studi di Padova - Roberto Finelli insegna Storia della filosofia all’Università di Roma Tre e dirige la rivista on-line “Consecutio (Rerum) temporum. Hegeliana. Marxiana. Freudiana” (http://www.consecutio.org) -
Leggi anche: Agamben e Cacciari sul green pass. Tu chiamale se vuoi "argomentazioni" - Giovanni Boniolo
Che cos'è la libertà? Il Covid-19 e la difesa del diritto alla vita - Emiliano Alessandroni
Abbiamo inteso di scrivere qualche riflessione insieme su quanto Giorgo Agamben e Massimo Cacciari hanno pubblicato il 26 luglio sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (A proposito del decreto sul “green pass”), perché ci sembra utile fare un poco di chiarezza sullo spirito del tempo, sul Zeitgeist, di cui i due autori citati ci appaiono essere solo l’epifenomeno più vistoso e accreditato.
Vogliamo provare brevemente a comprendere cosa ci sia dietro una tale rivendicazione di libertà individuale, sottratta ad ogni condizionamento e mediazione con la libertà collettiva, in un richiedere verosimilmente assai dimentico della definizione data, ormai tempo addietro, da Franco Fortini, secondo cui “la mia libertà inizia, non dove finisce, ma dove inizia la libertà dell’altro”. E dunque comprendere perché il nostro tempo, storico e culturale, si sia connotato, sempre più, per una moltiplicazione e ipertrofia dei diritti individuali del singolo, di contro ai diritti comuni e sociali.
Il dibattito che l’obbligatorietà della certificazione verde ha aperto si situa, peraltro, all’interno di uno scenario internazionale che impone alcune riflessioni. Pensiamo infatti che tale dibattito sia fondamentalmente centrato sui diritti individuali, all’interno di un contesto nel quale le libertà individuali sono pienamente garantite. Per contro, quanto sta succedendo in Afghanistan ci impone di riflettere, a partire proprio dalle libertà individuali, in termini meno eurocentrici. Sforzo questo che pensiamo sia necessario per uscire dal provincialismo del dibattito italiano ed europeo in tema di diritti fondamentali e libertà personali.
L’impianto accusatorio che sostiene la vasta schiera di coloro che si oppongono all’introduzione della certificazione verde poggia in buona misura sui concetti di limitazione della libertà personale e di discriminazione.
Da: https://www.lacittafutura.it - Domenico Laise è stato Professore Associato di Economia e Controllo delle Organizzazioni e di Sistemi di Controllo di Gestione presso la Facoltà di Ingegneria dell'informazione, informatica e statistica dell'Università di Roma 'La Sapienza'. Collabora con https://www.unigramsci.it
Da: https://www.marxismo-oggi.it - EmilianoAlessandroni, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.
Leggi anche: Il filosofo democratico - José Luis Villacañas«Libertà! Libertà! Libertà!». È con questo grido, ripetuto e cadenzato da un veemente battito di mani e da un ritmico rumore di colpi sul tavolo, che in Italia, nell'ottobre 2020, novanta clienti di un ristorante di Pesaro, hanno difeso la decisione del suo proprietario Umberto Carriera, di violare le misure anti-Covid imposte dallo Stato e di mantenere aperto il proprio locale.
«Ci stanno prendendo in giro», ha affermato il titolare del ristorante e già proprietario di sei esercizi commerciali, non molto prima di incontrare il leader della Lega Matteo Salvini: «il virus è un cazzo di virus come gli altri...qualunque decisione verrà presa dal governo d'ora in poi, i miei ristoranti non chiuderanno più»[1].
Allo stato attuale, questo «virus come gli altri», ha ucciso, soltanto in Italia, circa 130.000 persone.
Ma non sembra essere una questione quantitativa: basso o alto che sia il numero delle vittime, 10 mila o 1 milione, la convivenza con la morte sembra essere un prezzo che si dovrebbe essere disposti a pagare per difendere qualcosa di così elevato e prezioso come la libertà. Questo almeno il senso delle parole pronunciate dal Premier britannico Boris Johnson: «Da noi vi sono più contagi che in Italia perché amiamo la libertà»[2]. Come dire, l'attaccamento alla libertà è presso gli inglesi così forte che essi non la deturperebbero mai, a nessun costo, con misure restrittive e lockdown di qualunque genere. Eppure quando questo costo ha cominciato a salire vertiginosamente e le masse di cadaveri a costipare gli obitori, sono stati proprio gli inglesi a chiedere al Premier Johnson qualche deturpazione di quella libertà che egli aveva tanto sbandierato[3].
Sulla stessa linea si era collocato negli Usa il Presidente Donald Trump. Inveendo contro i governatori che nei singoli Stati imponevano misure restrittive, egli ha affermato immediatamente che, qualunque cosa fosse successo, avrebbe difeso fino all'ultimo la democrazia: così ben presto lo vediamo schierarsi apertamente a fianco di tutti i manifestanti che hanno cominciato a sfilare per le strade americane per protestare contro il lockdown (siamo nel maggio 2020): «il grande popolo» americano «vuole la libertà», ha affermato celebrando e incitando le dimostrazioni[4]. In quel momento, tuttavia, a New York montagne di cadaveri venivano gettate nelle fosse comuni poiché i cimiteri erano ormai così saturi di feretri da scoppiare[5].