sabato 28 agosto 2021

L’utopia della de-mercificazione della forza-lavoro - Domenico Laise

Da: https://www.lacittafutura.it - Domenico Laise è stato Professore Associato di Economia e Controllo delle Organizzazioni e di Sistemi di Controllo di Gestione presso la Facoltà di Ingegneria dell'informazione, informatica e statistica dell'Università di Roma 'La Sapienza'. Collabora con https://www.unigramsci.it



La mercificazione della forza-lavoro è una condizione necessaria per l’esistenza del modo di produzione capitalistico. Di conseguenza, la “de-mercificazione” della forza-lavoro è incompatibile con il modo di produzione capitalistico. È, cioè, la sua negazione. 

Dal tempo in cui Marx scriveva il Capitale ad oggi sono mutati molti aspetti nel modo in cui il lavoro viene organizzato ed erogato. L’introduzione di tecnologie come le piattaforme digitali, per esempio, ha generato quello che, da molti autori, viene chiamato il “capitalismo digitale”. Ma, nonostante queste “mutazioni”, alcuni aspetti essenziali del modo di produzione capitalistico non hanno subito modifiche sostanziali. Uno di questi aspetti è la “mercificazione della forza-lavoro”, ovvero la riduzione della forza-lavoro a merce. Da questo dato di fatto occorre ripartire per dare solide basi teoriche anche alle analisi delle forme moderne di erogazione e organizzazione tayloristiche del lavoro. Da questo incontestabile dato di fatto occorre ripartire per illustrare scientificamente l’esistenza dello sfruttamento del lavoro umano, anche nel capitalismo digitale.

Per illustrare la natura di alcune forme moderne del lavoro conviene prendere le mosse da un caso concreto e abbastanza noto: il lavoro con piattaforma digitale del food delivery. Attraverso l’uso di algoritmi di ottimizzazione, la piattaforma digitale Deliveroo è in grado di gestire le attività di un’ampia rete di lavoratori (una rete di fattorini o rider), disponibili just in time. Altri noti esempi di lavoratori impiegati e coordinati su piattaforme digitali sono gli autisti di Uber e i lavoratori dei magazzini di Amazon.

Una prima difficoltà che emerge nell’analisi del lavoro del food delivery è quella di individuare la natura del lavoro del driver che consegna il cibo. Sorge il seguente quesito: il driver è un lavoratore subordinato, etero-diretto dalla piattaforma, oppure è un lavoratore autonomo che sceglie quando e quanto lavorare e che si auto-dirige come un imprenditore di sé stesso?

Il rapporto di lavoro si svolge attraverso una rete complessa di protagonisti. Il produttore del cibo (il ristorante) si avvale della piattaforma digitale per individuare il rider che effettuerà la consegna del prodotto al consumatore, nel modo e nel tempo più rapido possibile. La difficoltà è, come già detto, quella di classificare queste attività come lavoro subordinato o lavoro autonomo. Il rider di Deliveroo, per esempio, è un lavoratore subordinato o è un lavoratore autonomo?

La difficoltà deriva dal fatto che le imprese, per ridurre i costi (contrattuali, indiretti e sociali), assumono il rider come un lavoratore autonomo, ma nelle maggior parte dei casi si tratta di una finzione (bogus self-employment). In realtà, il driver lavora, a tutti gli effetti, come lavoratore subordinato alle dipendenze. di un “padrone”(datore di lavoro).

La complessità del problema è testimoniata dal fatto che le controversie giuridiche su questo tema si protraggono per anni.

Di recente, la Procura di Milano ha condannato le varie società di food delivery a pagare 733 milioni di multa e l’assunzione di 60 mila rider, tutti con contratto di lavoratore parasubordinato, una via di mezzo (un ibrido) tra lavoratore autonomo e lavoratore subordinato. L’espressione “lavoro parasubordinato” indica una particolare forma di lavoro autonomo che si differenzia dal modello generale perché − nonostante la qualificazione formale − presenta talune affinità con il lavoro subordinato. Per meglio comprendere il problema, è opportuno ricordare come il lavoro subordinato si distingue dal lavoro autonomo a causa della necessaria sottomissione del lavoratore alle direttive del proprio datore di lavoro (cosiddetta. etero-direzione). Laddove tale elemento non emerge con evidenza, la giurisprudenza ha sottolineato come si sia comunque in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, se ricorrono altri indici detti “suppletivi”, quali l’inserimento del lavoratore nell’impresa del committente, la continuità della prestazione, il rispetto dell’orario di lavoro e una retribuzione fissa a scadenze prestabilite.

Dall’indagine della Procura di Milano emerge, tra l’altro, l’uso “terroristico” della disciplina, tipica del lavoro subordinato, ottenuta mediante gli algoritmi della piattaforma. Ogni rider è classificato (ranked) dalla piattaforma per determinare il suo rendimento. Se il rendimento è basso, perché i consumatori del cibo gli hanno assegnato un voto (score) basso, o perché il rider non ha lavorato in alcuni giorni e in alcune fasce orarie, il rider è retrocesso (è punito) e non può usufruire delle ferie e dei giorni di malattia. Queste sono evidenti forme di taylorismo digitale.

Come problema più generale, la dottrina giuslavorista pone, per il futuro, l’obiettivo di salvaguardare la “dignità dei lavoratori”, riducendo al massimo la loro attuale “reificazione e mercificazione”. La realizzazione concreta di tale obiettivo poggia e fa leva sul principio che: “il lavoro non è una merce” [1].

Questo principio, che è alla base di tutta la dottrina giuslavorista, è stato introdotto dall’Ilo (International Labour Office), nel 1944, nella conferenza che si è tenuta a Filadelfia (Usa) [2]. Più di recente tale principio è stato sostenuto anche da autorevoli sociologi [3] e da Papa Francesco [4].

Nell’Ottocento la dottrina giuridica considerava il lavoro come una entità esistente in sé e per sé e, quindi, come una entità separabile dalla persona del lavoratore. Di conseguenza, si riteneva che il lavoro, in quanto tale, potesse essere scambiato come una qualunque altra merce sul mercato del lavoro in cambio di un compenso. 

Dopo la conferenza di Filadelfia del 1944, si afferma il principio che “il lavoro non è una merce” come tutte le altre. Il lavoro in sé e per sé non esiste. Esistono, invece, le persone che lavorano e che hanno “dignità, bisogni e diritti umani” che rendono giuridicamente impossibile considerare il lavoro come una qualunque merce. 

Il diritto del lavoro del Novecento con il suo bagaglio di protezioni dei bisogni umani fondamentali (malattia, maternità, istruzione, ecc.) è entrato in crisi negli ultimi decenni del secolo scorso, in particolare dopo l’affermarsi dell'ideologia neoliberista della flessibilità del lavoro, basata sulla maggiore efficienza del mercato. 

È opinione diffusa che nel futuro, ci sarà bisogno di una inversione di rotta. Bisogna “de-mercificare” il lavoro, difendere e proteggere la “dignità del lavoratore”, anche dagli algoritmi delle piattaforme e dalle innovazioni tecnologiche (piattaforme digitali) che fissano i tempi e i ritmi del lavoro. Bisogna abbandonare l’ideologia del “lavoro-merce”, del lavoro flessibile con orari duri, paghe di fame (2 dollari al giorno) e assenza di tutela giuridica e sindacale [5].

Ma, sorge il seguente problema; “è la de-mercificazione della forza-lavoro un obiettivo praticabile (non utopico), in un modo di produzione capitalistico?” La risposta è negativa. Difatti, come tutte le innovazioni tecnologiche e organizzative, le piattaforme digitali, quando usate in modo capitalistico, sono finalizzate alla l’estrazione massima del plusvalore e, quindi, del profitto. Il problema non è, perciò, la piattaforma digitale e l’informatica, ma il loro uso capitalistico, l’uso rivolto al profitto.

La tesi secondo cui “il lavoro non è merce” è rintracciabile nella teoria economica già all’inizio del 1800. Marx nel capitolo diciassettesimo del primo libro del Capitale (nella nota 25), tra i sostenitori di tale tesi, cita Th. Hodgskin, un autorevole socialista ricardiano. 

Anche Marx sostiene che il lavoro non è merce. 

Nel capitalismo, come osserva Marx, nello stesso Capitolo diciassettesimo, il “lavoro è la sostanza e la misura immanente dei valori, ma esso non ha valore”. Ma ciò che non ha valore non può essere merce. Perciò, il lavoro non può essere una merce. Se il lavoro fosse una merce, se esistesse il valore del lavoro e se il capitalista pagasse questo valore, allora non esisterebbe nessun plusvalore e nessun capitale.

Ma allora, se il lavoro non è mercificato, che cosa vende il lavoratore sul mercato del lavoro?

In un contesto capitalistico il lavoratore per vivere è costretto a vendere l’unica merce che possiede: la sua forza-lavoro.

La forza-lavoro, a differenza del lavoro, è una merce. Come tutte le altre merci, la forza lavoro ha un valore e un valore d’uso. Ha un valore pari al lavoro, socialmente necessario, incorporato nelle merci salario (lavoro pagato). Ha anche un valore d’uso pari al lavoro, socialmente necessario, incorporato nelle merci prodotte dal lavoratore (lavoro erogato) e appropriate dal capitalista, che ha “affittato” la forza-lavoro per un’unità di tempo (giorno, settimana, ecc.). La differenza tra lavoro erogato e lavoro pagato è il plusvalore, misura dello sfruttamento capitalistico.

Lo sfruttamento così inteso non è un fatto etico, ma dipende da condizioni oggettive della produzione e dalla esistenza della forza-lavoro merce.

Quindi, ciò che in realtà, il lavoratore vende non è il suo lavoro, ma è la sua forza lavoro. Perciò, il lavoro non è merce, ma la forza lavoro lo è. Ed è dalla mercificazione della forza-lavoro che dipende la produzione di plusvalore e, quindi, quella del profitto [6]. In un mondo capitalistico, allora, la forza-lavoro non può essere “de-mercificata” senza l’abbandono del lavoro salariato, senza, cioè, l’abbattimento del modo di produzione capitalistico.

Non si può, quindi, pretendere di “de-mercificare la forza lavoro” senza il superamento del modo di produzione capitalistico. Gli sforzi tesi a de-mercificare la forza-lavoro, proposti da alcuni autorevoli studiosi, sono destinati, perciò, al fallimento. 

Se si rimane all’interno del capitalismo la forza-lavoro non può essere “de-mercificata”. È, cioè, utopico proporre la de-mercificazione della forza-lavoro, poiché il capitalismo implica l’esistenza di forza-lavoro merce

Si può, perciò, concludere che è “Nella persistenza della categoria di merce della forza lavoro.[...] che si trova la chiave per intendere le forme reali del lavoro[…] Anche se sono moltissime le novità […] nulla è cambiato da allora nel capitalismo sotto questo riguardo generale: di lì occorre ripartire proprio per restituire solidi fondamenti all’analisi dei lavori in quanto lavoro” [7].

 

Note:

[1] De Stefano, V., (2018), La persona dietro il lavoro non è una merce né una tecnologia”, Il Nuovo Manifesto Coop Editrice, Roma.

[2] Le Roy, A., (1949), L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) e la giustizia sociale, (a cura di) E. Canzoneri, Roma 1949.

[3] Gallino, L., (2007), Il lavoro non è una merce, Laterza, Bari.

[4] Papa Francesco, (2014), Messaggio del Santo Padre Francesco in occasione della Conferenza dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), Ginevra, 28-5.

[5] Gallino, L.(2007), op.cit.

[6] Marx, K. (1973), Il Capitale, Libro I, Cap. 17-esimo, Ed. Riuniti, Roma.

[7] Pala, G., (1992), Il comando sul lavoro: la difficoltà di accettare un pasto, A/sinistra, Roma.


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