giovedì 12 agosto 2021

Il filosofo democratico - José Luis Villacañas

Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 (http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico) - Questo testo è stato pubblicato in spagnolo sul quotidiano “Levante” il 23 marzo 2020. La traduzione italiana è di Alessandro Volpi. - José Luis Villacañas (Universidad Complutense de Madrid) è un professore, filosofo politico, storico della filosofia e storico delle idee politiche, concetti e mentalità spagnola.
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Nella rete si rincorrono le critiche: dove sono i filosofi? I giornali titolano: “una crisi priva di bussola”, come se fossimo senza una rotta perché i filosofi non riescono a tracciarla. Questi ammonimenti devono aver infastidito qualcuno,  che  quindi  si è  lanciato in  diagnosi  e  pronostici.  Complessivamente, tanto gli uni come gli altri sono autoaffermativi. I filosofi sono troppo raffinati per assumere un atteggiamento paternalistico e proclamare “ve lo avevo detto”. Ma, anche se in una maniera più raffinata, ognuno ci vuole far pensare che la realtà gli dà ragione. È una forma speciale di godimento. Per molti anni, in solitudine, hanno assemblatole proprie costruzioni mentali. Ora si tratta di una cosa diversa. La realtà, finalmente, si piega davanti all’onnipotenza del loro pensiero. 

E qui prende avvio un moto circolare. Così come ciò che uno ha pensato lungo  quaranta  anni  deve  inevitabilmente  essere  eterodosso,  e  presumibilmente strampalato, ancor di più lo sarà questo momento glorioso, in cui qualcuno  crede che la realtà gli stia dando ragione. Così che i loro  interventi di fronte alla  crisi,  dettati  da  questa  attitudine,  non  possono  coincidere  con l’esperienza generale, né con il senso comune. Le loro dichiarazioni sono quindi necessariamente accolte dalla maggioranza dei lettori con un intenso scetticismo. E dato che, inoltre, saranno propensi ad approfittare della situazione per rinnovare antiche polemiche con altri colleghi, subito si invischieranno in dibattiti che saranno comprensibili solo ai più prossimi. 

Di solito, quando la situazione è normale, le loro trovate ci fanno evadere dalla noia e i loro complessi ragionamenti soddisfano la necessità del nostro permanente attivismo neuronale. Ma quando la realtà si impone, e reclama la nostra attenzione, cioè quando non ci stiamo annoiando, l’invito ad introdurci nell’intricato mondo dei loro giochi ingegnosi viene di solito ricevuto con un giustificato disprezzo che può arrivare fino alla noia e all’avversione. 

A questa situazione si deve rispondere negando la premessa maggiore. In questa crisi non siamo privi di orientamento perché i filosofi non avrebbero adempiuto  al loro dovere di direzione dell’umanità. Noi filosofi dobbiamo negare a noi stessi questo compito. Non può essere questo il nostro lavoro, e ciò è ancor più vero se diamo per assodato che il filosofo deve avere coscienza della  condizione  democratica  del  suo  mestiere.  Il  filosofo  non  ha  altre  evidenze oltre a quelle di cui sono in possesso i suoi concittadini. Condivide il mondo  con  questi.  Non  ha  un  mondo  proprio.  Non  vede  più  lontano, né diagnostica  meglio.  Questo  sarebbe  il  compito,  nel  migliore  dei  casi,  delle scienze sociali, non della filosofia. Questa non ha altro oggetto che l’esperienza condivisa e non ha altro metodo che evitare proprio che ci slanciamo in diagnosi precipitose. La principale missione del filosofo è di impedire che la gente segua i cattivi filosofi. Questi non mancheranno mai. 

Quando Husserl dichiarò: “alle cose stesse!”, in realtà, avrebbe dovuto dire: “ancor di più alle cose stesse!”. Non è mai troppo. La conseguenza di questo motto era: non pensare precipitosamente, non concludere prima del tempo. Questa massima definisce l’onorevole confraternita degli scettici. I suoi militanti  non  si stancano  mai  di  ascoltare  e domandare.  Se  un militare carico di medaglie ci dice che siamo tutti soldati in questa guerra, lo si ascolta. A me piacerebbe essere solidale. Non vorrei che il mio virus arrivasse a qualcuno  e  producesse sofferenze  e  morte. Ma questo  non  mi  trasforma  in  un soldato. Non tutte le maniere di compiere il proprio dovere hanno la forma che si esige nell’esercito. Chi lo pensa, si comporta come quei filosofi arroganti che credono che il mondo debba essere come essi pensano. Il filosofo democratico richiama l’attenzione sul danno che produce il fatto di confondere il pensiero con la realtà. 

La cosa peggiore del pensiero è che ha dimostrato molte volte che ha poca capacità di porre un freno a sé stesso. In questo dovrebbe prima di tutto non smettere  di  farsi  domande.  Essere  soldato,  quando  lo  dice  un  generale,  ci mette  in  una  condizione  peculiare  di  inferiorità.  E  questa  posizione  non  è confortevole.  Non  voglio  insistere  troppo  sui  rischi  che  queste  asimmetrie comportano.  Ciò  che  voglio  suggerire,  è  che  un  modo  di  pensare  privo  di rigore  ha  molte  probabilità  di  portarci,  in  queste  condizioni,  a  un  concetto molto vicino a quello dell’inferiorità, al concetto della colpevolezza. Purtroppo credo che stiamo percorrendo questo cammino, perché sembra che la lotta politica non cesserà, in questa situazione. Sarà il cammino più sterile. Un cammino di fronda indiscriminata. Molti saranno dei soldati, di molte fazioni diverse. Siamo stanchi di sentirci dire che questa crisi tirerà fuori il peggio e il meglio di noi. Non farà né una cosa né l’altra. Tirerà fuori solo noi stessi. 

Devo confessare che il mio spirito ha riconosciuto sé stesso quando il mio buon  amico  Pablo Dreizik ha messo  sulla sua bacheca questo  aforisma di Kafka: «Non è necessario che tu esca di casa. Rimani seduto alla tua tavola e ascolta  attentamente.  Non  ascoltare  nemmeno.  Limitati  ad  aspettare.  Non aspettare nemmeno. Rimani semplicemente in silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato. Non può evitarlo. Estasiato, si contorcerà davanti a te». Buona o cattiva, non vedo in che modo questa crisi possa tirarmi fuori un’altra attitudine. Con essa identifico ciò che prima ho chiamato l’ideale dell’ascolto da parte del filosofo democratico. Questo mondo, che non può evitare di esibirsi, che si contorce per esibirsi, che si estasia nella propria esibizione, non smetterà di manifestarsi. E allora farà ciò che ha preferito fare da millenni in queste situazioni. Cercare soldati, cercare colpevoli. 

Chi presterà attenzione, lo udirà. Nessuno deve ingannarsi su ciò. Sfilerà davanti a noi ciò che ciascuno è. E quando, osservate da una sufficiente distanza, tutte queste voci disegneranno una forma apprezzabile, questo ci darà l’immagine di un paese. Ogni livello di civilizzazione, ogni forma di vita, ogni idea preconcetta, ogni situazione morale, finirà per gridare al mondo ciò che è. La Cina lo farà in un modo. Trump in un altro, cercando di comprare in esclusiva la scienza tedesca. Boris Johnson ricorrerà al suo darwinismo sfacciato. Israele proteggendo l’ascendenza e l’esperienza degli anziani. Ognuno si ritrarrà, senza pietà. 

Forse, al filosofo in questa situazione basterà non ingannarsi e non essere usato. Niente sarà migliore, una volta che la pandemia sarà passata. Se le catastrofi avessero aiutato a migliorare il senso di cittadinanza, da molto tempo staremmo nel kantiano regno dei fini. Non dobbiamo confidare nel fatto che la  natura  ci  aiuti, con  le  sue  continue  catastrofi, e  compia  per  noi  il  nostro lavoro mentale. Non lo farà. Non c’è niente di più certo della capacità di dimenticare la sofferenza. Questa è l’ennesima pandemia che l’umanità patisce. In generale, tutte sono state accolte con grida e voci, quando non con capri espiatori.  I  più  dignitosi  condivideranno  la  sofferenza  con  sacrifici  che  saranno coperti dalle grida. Alzare la voce è un gesto che forse andrebbe giustificato, di fronte al sospetto di opportunismo. 

Per quanto mi riguarda, penso che l’unica cosa ragionevole sia riuscire a trarre piccoli insegnamenti da questa esperienza. Quanti letti d’ospedale pienamente  equipaggiati  deve  tenere  un  paese  come  il  nostro?  Di  quante  maschere chirurgiche dobbiamo poter disporre? Quanti medici attivi devono esserci, per ogni mille abitanti? Come inquadrare i medici pensionati in servizi di emergenza? Che forme di telelavoro possiamo predisporre in caso di necessità? Come possiamo garantire condizioni di vita minimamente degne, affinché non si aggiunga altra sofferenza a una disgrazia come questa? Ovviamente, ci sono altre domande: che contributo fiscale dovrebbero dare coloro che hanno redditi elevati? E altre simili. Se vogliamo disporre di un governo responsabile, dovremmo sviluppare questo dibattito. In questa situazione, è l’unica cosa che interessa al filosofo democratico. Il significato di ciò è comprensibile  a  tutto  il  mondo:  evitare  la  sofferenza  e  rendere  possibili  vita  e morte degne. 

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