Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020 (vol. IX), a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 (http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico) - Questo testo è stato pubblicato per la prima volta in francese con il titolo L’État, le Public, le Commun: trois notions à l’épreuve de la crise sanitairene l volume Dessine-moi un pangolin, ouvrage coordonné par la revue Regards, Vauvert, Éditions Au diable vau-vert, 2020, pp. 107-29. Esso viene qui riprodotto per gentile concessione dell’editore. La traduzione italiana è di Francesca Borgarello. -
Etienne Balibar è un filosofo francese. Allievo di Louis Althusser, ha contribuito a sviluppare una nuova interpretazione del pensiero di Karl Marx, con specifiche riflessioni sui concetti di razza, cultura e identità, in vista di una concezione più inclusiva della cittadinanza e della democrazia in Europa.
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Epidemie, storia, capitalismo. Passi indietro e passi avanti. - Roberto Fineschi
1. Apprendere nella crisi
Innanzi tutto, voglio sottolineare l’incertezza dei tempi. Sto scrivendo alla metà di maggio (2020), per una pubblicazione che sarà disponibile a luglio... È molto presto per sviluppare una riflessione compiuta sul tema, e questo perché vi è l’intenzione di mettere in circolazione una pluralità di proposte nel momento stesso in cui queste si rendono necessarie a causa dell’intensità della crisi. Eppure, sarà forse già troppo tardi... Non abbiamo alcuna certezza che ciò che pensiamo oggi potrà essere ancora sostenibile tra due mesi. Non sappiamo se e quando “finiranno” la pandemia e la crisi sanitaria che questa provoca. Non sappiamo quale sarà l’entità e quali gli effetti della crisi economica che ne consegue. Non sappiamo quali saranno le ripercussioni, in termini di sofferenza e distruzione, ma anche di proteste, rivolte, di movimenti sociali e politici. E tuttavia, è da questo insieme di cose che dipende il referente di realtà delle parole di cui ci serviamo e, conseguentemente, il loro senso.
È una situazione strana, che non presenta però solo inconvenienti. Poiché tale indeterminatezza è la condizione nella quale –purché se ne assumano la misura e i rischi –diventa possibile descrivere una crisi di dimensioni storiche, per ciò che essa è: non una semplice “interruzione” nella vita di una società, o l’occasione di un’inversione di potere, ma un cambiamento forse radicale del modo di cambiamento stesso, che costringe dunque a scommettere su mutamenti sconosciuti, mettendo insieme ciò di cui disponiamo in termini d’esperienza e analisi, per immaginarne le possibilità. Tocca ai segni che affiorano nel tempo presente suggerirci a poco a poco le buone domande, piuttosto che alle nostre teorie e alle nostre previsioni precedenti la crisi proporne già la soluzione.
La scommessa che faccio è di affermare prima di tutto l’irreversibilità della rottura che si sta producendo. Non ci sarà un ritorno alla situazione precedente. Mi baso qui sulla famosa formula elaborata da Lenin nel 1920: «Chi sta in alto non può più vivere (e governare) come prima e chi sta in basso non vuole più vivere (ed essere governato) come prima». Non la intendo come una profezia, ma come la descrizione di una situazione di fatto. La crisi rivela delle condizioni che sono diventate incompatibili con la riproduzione del regime precedente e di cui fanno integralmente parte le reazioni di rifiuto che suscita nei “governati”. Essa si dà in una situazione tesa all’estremo, in cui il governo della società è diventato molto problematico, dal punto di vista dell’efficacia delle tecniche amministrative, dei modelli di crescita economica, della “sostenibilità” dei debiti, della tolleranza per il divario della ricchezza e per le discriminazioni culturali, o della legittimità delle forme d’autorità. Per questo motivo essa innesca un processo di transizione che non potrà più essere bloccato, ma le cui modalità e orientamenti restano indeterminati. Tutto ciò che possiamo affermare è che essa è foriera di altre possibili istituzioni politiche, altre modalità di lavorare e di vivere in comune, altre credenze collettive e altre scelte di valore. Come cambiano i processi di civilizzazione nella storia? Al prezzo di quali violenze, quali invenzioni e quali conversioni? È la questione con la quale, come le generazioni prima di noi, dovremo confrontarci e verso la quale non vi è mai stata una risposta unanime.
Dopo aver buttato lì questi concetti generali, propongo due precisazioni.
La prima è che certo alcuni poteri forti credono di poter continuare come prima, mettere a profitto lo “shock” della crisi, come dice Naomi Klein, per accentuare e accelerare cambiamenti, che erano già operanti nel periodo precedente. Negli appelli a “far ripartire l’economia”, senza riguardo per il costo umano, non è difficile individuare il progetto di accelerazionismo neoliberale e immaginare gli effetti devastanti che potrebbero generarsi. Molte di queste tendenze –che si tratti della finanziarizzazione o dell’indebitamento generale, delle rivoluzioni nella divisione del lavoro, o della mercificazione dell’ambiente –cercheranno di realizzarsi, ma si scontreranno con ostacoli altrettanto potenti. Perciò le conseguenze non saranno una “riproduzione allargata” del neoliberalismo, anche se potrebbero essere peggiori di ciò. Di fatto, le forze dominanti del capitalismo devono reinventare una strategia di dominio e un progetto ideologico. Cosa che, di per sé, comporta un rischio. E verosimilmente queste non potranno avere luogo senza violenti conflitti interni tra differenti “egemonie”.
Una seconda precisazione si rende a questo punto necessaria: la globalizzazione nella sua forma attuale produce un’interdipendenza delle economie e delle società senza precedenti, ma non ha affatto uniformato i regimi politici, pareggiato i livelli di benessere, o avvicinato le tradizioni culturali in seno al “sistema-mondo”. Essa implica, oggi più che mai, delle polarizzazioni molto forti tra il Nord e il Sud come tra l’Est e l’Ovest. Più che mai essa è suscettibile di generare conflitti, eventualmente guerre su diverse “frontiere”. Ogni analisi di una situazione locale dipende così dal posto che essa occupa in un campo di relazioni geopolitiche instabili. Il che ci riconduce al fatto che il tempo in cui siamo costretti a situarci è fondamentalmente gravato d’incertezza. La crisi stessa deve insegnarci i mezzi per affrontarla e trattarla.
2. Un nodo strategico: la crisi dei servizi pubblici
Mi sembra che queste considerazioni conducano piuttosto naturalmente a provare a definire, ai fini dell’analisi, un nodo strategico, che cristallizzi i problemi presenti nel punto in cui ci troviamo e prefiguri delle poste in gioco di più lunga durata. Non si tratta di politicizzare artificialmente situazioni di disordine o di attivismo, ma di sviluppare la “politicità” m immanente alle tensioni istituzionali, e allo stesso tempo rilevare la rottura tra il “prima” e il “dopo”, nell’istante in cui si produce. Penso che da noi (in Francia, ma senza dubbio anche altrove) tale nodo strategico sia costituito dal servizio pubblico: crisi del servizio pubblico, funzione e funzionamento del servizio pubblico nella crisi, divenire dei conflitti di cui sarà, sempre di più, l’oggetto.
Ciò che colpisce, certo, è il fatto che la vita di un intero paese –dalla sua attività economica fino all’intimità degli abitanti –graviti attorno alla qualità, alle risorse e alle insufficienze del suo sistema di sanità pubblica. Tutti sono d’accordo nel pensare che la medicina faccia irruzione al centro della politica, non solamente in quanto istituzione incaricata di una funzione sociale indispensabile, ma in quanto servizio dei servizi, la cui interruzione o il cui malfunzionamento blocca tutto e che, conseguentemente, dev’essere preservato a ogni costo. Al contempo viene confermata la pertinenza dell’idea avanzata da Michel Foucault quando ha proposto di ripensare la politica intera, o le sue condizioni di possibilità, nei termini della biopolitica, per cui “il far vivere e il lasciare morire” non è un ambito specifico, ma il primo oggetto di governo e la base di tutti i rapporti di potere.
Tuttavia, Foucault non considera le istituzioni mediche e sanitarie sotto il profilo del servizio pubblico e delle contraddizioni che comporta, in parte a causa della sua posizione ambivalente nei confronti delle questioni giuridiche e, a fortiori, nei confronti di qualsiasi teoria dello Stato che paia accreditare l’idea che esso domini la vita sociale. Ora, è la natura precisa delle relazioni tra le politiche dello Stato (liberali, socialiste, neoliberali), le forme storiche dello Stato stesso consecutive l’una all’altra e la manutenzione quotidiana della società da parte dei servizi pubblici, che si è trovata messa in questione dallo “stato d’eccezione” sanitario attuale. Ed appare come un problema il fatto che la pressione esercitata sui corpi del personale sanitario che si occupano di questo servizio, così come la dipendenza reciproca, acuta e conflittuale, nella quale essa li ha posti nei confronti del governo, abbiano colpito duramente questa istituzione proprio mentre essa era in piena rivolta contro i poteri pubblici. È possibile presumere che tale questione dominerà l’intero prossimo periodo “strategicamente”, attraverso inevitabili rapporti di forza. Servizio pubblico, poteri pubblici, funzione pubblica, ordine pubblico, finanze pubbliche, tutto ciò che gravita attorno al problema della salute e delle condizioni della sua protezione e dei suoi usi: questo è, mi sembra, il nodo delle questioni attorno alle quali dobbiamo cercare di riflettere per articolare emergenza immediata e prospettiva di lungo termine. Ma prima di dirne qualcosa in più, vorrei precisare qualche elemento di definizione e analisi concreta.
Prima di tutto, la sanità è un “servizio” complesso, che non possiamo ridurre ai soli ospedali, anche se integrati dalla medicina di territorio: esso non funziona se non in stretta combinazione con attività produttive e culturali, l’insieme delle quali si estende a quasi tutta la società. In cima a tali attività figurano naturalmente la ricerca scientifica, l’industria farmaceutica e la tecnologia biomedica, l’informazione statistica e demografica, ma anche i trasporti specializzati, le strutture d’insegnamento superiore e professionale, gli organismi d’assistenza e di soccorso popolare, i lavori di pulizia o di ristorazione svolti dagli ormai famosi “premiers de corvée”1, e, non da ultimo, quella parte di cure fisiche e psicologiche assicurate a casa da parenti e collaboratori del “malato” che si trova in ciascuno di noi... Un servizio come la sanità pubblica è dunque non tanto un’istituzione settoriale, ma un “punto di vista” sull’intera società, che tesse legami tra un gran numero di suoi membri, in breve, genera del “comune”2. Potremmo dire altrettanto, naturalmente, di altri servizi, in particolare dell’educazione. Ciò che mi conduce al punto seguente.
La definizione dei “servizi pubblici” attraverso la funzione sociale che svolgono, il regime di diritto delle istituzioni che li garantiscono, la modalità del loro finanziamento e della loro integrazione o meno alla funzione pubblica, è una materia controversa, variabile da un paese e da un periodo all’altro. Venendo dopo “l’età dell’oro” dello Stato nazional-sociale sviluppato dai capitalismi riformisti del XX secolo, che hanno istituito la “cittadinanza sociale” (T. H. Marshall) e l’hanno posta al cuore della cittadinanza politica, le politiche neoliberali hanno avuto come obbiettivo di “razionalizzare” il loro modo di gestione, così come di “privatizzare” il più grande numero possibile di essi. Hanno rivoluzionato dall’alto le condizioni di vita e di lavoro della popolazione, generando un’enorme incertezza su quali servizi possano essere ritenuti intrinsecamente pubblici, “non privatizzabili”. Tale questione è parallela a quella dei beni comuni della società (se non dell’umanità), che nella coscienza collettiva le viene spontaneamente associata; ma può esserne dissociata, se si avanza un concetto di “comune” come distinto dal “pubblico” e persino opposto ad esso, come vorrebbero oggi i teorici neo-comunisti3. Lascio per il momento da parte tale questione, per sottolineare un elemento che mi sembra cruciale: vi è una pluralità di servizi complementari, ma eterogenei, cosicché il loro modo d’utilizzo da parte dello Stato –e, correlativamente, la loro articolazione con la cittadinanza individuale e collettiva –sono divergenti e persino antinomici. Citerò due esempi estremi di cui la crisi attuale ha in qualche modo “testato” la qualità del funzionamento: la scuola, il cui “servizio” proprio è l’insegnamento o la formazione individuale –ma che mira anche alla correzione delle diseguaglianze d’origine sociale e all’istituzione delle “eguaglianze d’opportunità” –e la polizia, il cui “servizio” proprio è ufficialmente la sicurezza e l’ordine pubblico (dunque la protezione dei cittadini dalla loro propria indisciplina, con tutta la violenza che un tale concetto implica, come si può vedere nell’attuazione delle regole di “distanziamento sociale”). I due esempi sono sufficienti a mostrare che il rapporto dei servizi pubblici con lo Stato e la società è lungi dal porre gli stessi problemi in ogni contesto. Problemi che sono tuttavia sempre essenzialmente politici, e non “tecnici” o “amministrativi”. La fase neoliberale e le reazioni di massa che essa provoca esemplificano l’effetto della situazione politica sulla nozione di servizio pubblico. Ciò che qui deve interessarci è l’azione di ritorno della questione dei servizi pubblici sulla politica stessa.
Infine, i servizi pubblici reali, storicamente costituiti, sono sede di un conflitto molto acuto tra l’universalità e l’eguaglianza. Questo conflitto può assumere parecchie forme, di diversa gravità, ma sempre potenzialmente destabilizzanti. Ora, esse stanno raggiungendo nella crisi sanitaria, con le sue conseguenze economiche e sociali, un grado intollerabile. I cittadini “eguali per diritto” non lo sono oggi né davanti alla malattia, né davanti ai mezzi mobilitati per proteggere la società e che fanno appello alla “solidarietà nazionale”, quando non alla necessità di una “sacra unione”. Si è potuto osservare che la differenza dei tassi di contagio e di mortalità rinvia a “co-morbilità”, che hanno una determinazione di classe, già manifesta nei livelli di speranza di vita straordinariamente diseguali degli adulti di diverse professioni e tenori di vita. Elemento cui viene ad aggiungersi la diseguaglianza strutturale delle risorse mediche tra zone urbane e periferiche. Queste diseguaglianze sono ancora più eclatanti nel caso delle regole dello “stato d’emergenza sanitaria”, poiché i salariati costretti a continuare a lavorare fuori casa e senza protezioni sono nella grande maggioranza dei casi lavoratori manuali (sovente immigrati, a volte irregolari); poiché le condizioni di confinamento nelle unità d’abitazione minuscole risultano insopportabili o inapplicabili; poiché la disoccupazione forzata spedisce fin da ora ai “Restos du cœur”4 la nicchia più indigente degli intermittenti e dei precari.
Sia la dimensione simbolica, sia quella materiale della contraddizione sono particolarmente visibili nei casi delle istituzioni che ho indicato prima come figure antitetiche del servizio pubblico: la scuola e la polizia. La sospensione degli insegnamenti “in presenza” si traduce nell’allontanamento definitivo dei bambini delle classi povere, dato a cui persino il discorso ufficiale è costretto a prestare attenzione. Le pratiche dei controlli si accompagnano nei “quartieri” al perpetuarsi delle violenze razziste che lo stesso discorso, al contrario, si sforza di nascondere. È possibile mettere insieme tutto questo capovolgendo la formula di cui mi sono servito: il servizio pubblico distrugge il comune, e allo stesso tempo contraddice l’universalità che, in regime repubblicano, costituisce a un tempo la sua ragione d’essere e il compito morale del lavoro dei suoi funzionari. Tale contraddizione è permanente, ma assume una nuova intensità. Vorrei cercare di interpretarne il senso sul piano delle nozioni generali – che definiscono la funzione storica del servizio pubblico in una società capitalistica come la nostra – e, al tempo stesso, sul piano della dinamica politica al centro della crisi stessa, così come fin qui delineato.
3. Lo Stato e il servizio pubblico
La questione dello Stato, affrontata nei termini del suo “ritorno”, ma anche sotto il profilo della sua costituzione formale e materiale, è bruscamente tornata ad essere la questione centrale del dibattito politico. Dunque, anche filosofico. Un’alternativa la domina, ereditata dai conflitti ideologici del XX secolo: essa postula che gli interventi statali e le attività di mercato sono antitetiche le une alle altre (e a partire da ciò diventerà possibile ricercare la loro complementarità). Le dichiarazioni che il presidente Macron è stato indotto a fare evocando i “beni pubblici”, che non possono in quanto tali dipendere dalle “leggi del mercato”, ne conseguono direttamente. Esse hanno forse sorpreso (se non preoccupato) provenendo da un simile personaggio, ma soprattutto segnalano immediatamente l’esistenza di una profonda ambiguità, poiché il “non mercato” incarnato dallo Stato e dalle azioni di cui esso è promotore può variare tra contenuti tanto lontani quali l’investimento pubblico, la nazionalizzazione o anche la pianificazione, da un lato; e la gratuità dei servizi corrispondenti a “diritti fondamentali”, dall’altro. In altre parole, o una limitazione della concorrenza e del profitto, che non modifica la forma-merce, o invece un’abolizione di questa forma stessa in nome di altri valori. Cosa significa uscire dalle leggi del mercato in una società e in un mondo dove esse sono generalizzate? E quali strumenti lo permettono?
Non è difficile mostrare che ambiguità altrettanto fondamentali incidono su ciascun interrogativo circolante in questo momento a proposito del “Leviatano” moderno: che cosa è invariante nella sua struttura dalle origini? Cosa, al contrario, ha subito una trasformazione sotto l’effetto delle rivoluzioni della storia contemporanea, consolidando le politiche sociali persino in seno al capitalismo, prima di intraprenderne lo smantellamento; rinforzando il carattere nazionale dello Stato, prima di decentrarlo progressivamente verso istituzioni sovranazionali? Ma le ambiguità non sono minori per ciò che concerne la relazione tra “governanti” e “governati”, nella quale si potrebbe vedere la struttura elementare dell’istituzione politica della forma statale, ma che oscilla seguendo i rapporti di forza e le eredità storiche tra l’autoritarismo e la democratizzazione, il centralismo e il federalismo, o l’autonomia per le comunità territoriali. Non ho la pretesa di riunire in qualche formula i termini di tutte queste discussioni, ma voglio suggerire che la crisi in corso le sposta e orienta in due direzioni; che l’una e l’altra assegnano una funzione strategica al modo di organizzazione e al funzionamento dei servizi pubblici. Da un lato si pone in termini nuovi la questione della “polizia” (nel senso di Jaques Rancière), cioè dei rapporti stretti che possono stabilirsi tra la necessità di costrizioni amministrative per organizzare l’erogazione dei servizi universali e le pratiche di normalizzazione e controllo “assoggettanti” coloro che accedono a quegli stessi servizi. Dall’altro si pone con rinnovata insistenza la questione di sapere se il “pubblico” e il “comune” rappresentano una sola dimensione dell’esistenza sociale, o se è opportuno invece ricercare tra questi tre concetti – lo statale, il pubblico, il comune – un’articolazione più complessa e instabile. Una questione conduce all’altra.
Cominciamo dalla questione della “polizia”. Vi è certo qualcosa di paranoico nelle descrizioni che in questo momento alcune grandi menti ci offrono, dell’evoluzione inarrestabile dello “stato d’eccezione”, che il confinamento (ben presto sostituito dal tracciamento informatico degli individui, come condizione della sospensione del primo) rappresenta verso una società di tipo totalitario. Quella stessa che, ci viene detto, il capitalismo avrebbe sempre avuto in animo di realizzare al fine di annientare le resistenze al suo ordine economico, ma che avrebbe aspettato d’incontrare una rivoluzione tecnologica (lo smartphone e i big data) e una catastrofe antropologica (la pandemia) per poter infine attuarsi. E tuttavia, al di là delle forme di moralizzazione e disciplina –che storicamente, in ciò che ho chiamato Stato nazional-sociale, sono state la contropartita dell’acquisizione dei diritti sociali e della protezione contro le incertezze della vita economica –l’evoluzione verso ciò che Deleuze aveva chiamato una “società del controllo” è proprio una delle possibilità dischiuse dal riconoscimento di una minaccia endemica generalizzata, e senza fine prevedibile, alla vita degli individui. D’altronde, essa esiste già, sotto forme che variano da un paese e da un regime politico all’altro. Essa conferisce un contenuto molto più oppressivo a ciò che possiamo considerare come la formazione statale in senso largo: una formazione che non s’istituisce “al di sopra” o “al di fuori” della società civile, ma si trova con essa in un rapporto di compenetrazione evolutiva, poiché la funzione dello Stato è organizzare la società, ricercando il “giusto” equilibrio (quello che è sostenibile, difendibile) tra la promozione di certi interessi di classe, di genere, di razza, di cultura, e la proclamazione di un “diritto ai diritti” per tutti i soggetti. Tale questione di organizzazione o, come diceva Gramsci, di egemonia, sta senza dubbio cambiando di significato. Se l’intera società deve essere sorvegliata ed al contempo protetta, e se alcune istanze di governo – prolungate da una rete di servizi incaricati di educare, curare, informare, assistere, censire, controllare le persone – fanno in questo modo penetrare lo Stato in ciascun “rapporto sociale”, allora il campo d’azione del servizio pubblico si espande smisuratamente e lo trasforma in macchina d’asservimento universale. Il suo rapporto “normativo” (come dicono i filosofi) con l’istituzione della cittadinanza viene a essere stravolto e di fatto annullato. Ma questa difficoltà non si risolve con un “ritorno ai principi” dello Stato di diritto, poiché essa origina da questi stessi principi. Di qui l’interesse e forse la necessità di rivolgersi ora verso ciò che, idealmente almeno, sembra costituire l’alternativa radicale a una tale espansione o “socializzazione” continua della funzione statale, e che incarna nei dibattiti attuali la promozione dell’idea di “comune”.
4. Dal “comune” alla comunità politica
Considererò questi dibattitti in una formulazione condensata, dunque inevitabilmente semplificata, per far emergere pienamente l’opposizione che mi sembra cruciale tra una problematica binaria, nella quale il servizio pubblico, perdendo la sua specificità, è costretto a “scegliere” tra l’appartenenza allo Stato e l’espressione del comune; e una problematica che gli conferisce un’autonomia almeno relativa e dunque lo statuto di un terzo termine5. L’assunto fondamentale della problematica binaria è sostanzialmente l’idea che la società possieda dei bisogni “fondamentali” (materiali, culturali) storicamente costituiti e sviluppati, il riconoscimento dei quali istituisce dei diritti essi stessi fondamentali. Il conflitto delle ideologie politico-economiche genera allora tendenze opposte nel limitare per quanto è possibile, o, al contrario, nell’ampliare illimitatamente la sfera di questi bisogni e di questi diritti: liberalismo, socialismo o solidarismo. Ma, per quanto ci riguarda qui, l’alternativa decisiva oppone l’idea che lo Stato è per essenza il rappresentante della società o il titolare del “bene comune”, all’idea che esso costituisca qualcosa come un “apparato di cattura”, usurpante una funzione di cui i cittadini potrebbero e dovrebbero occuparsi essi stessi, nel loro proprio interesse, acquisendo le competenze e inventando le forme di governo proprie a questa missione. Il “pubblico”, in queste condizioni, non dispone veramente di un’autonomia: o designa la dimensione sociale dello Stato (ciò che Léon Duguit chiamava il “suo contenuto materiale”, opposto al “disordine sociale”)6, o al contrario designa la modalità sotto la quale la società diviene una comunità, e questa un corpo politico auto-amministrato. Vi si ritrova in qualche modo la vecchia opposizione tra le idee di sovranità, rappresentanza, mediazione politica senza la quale gli individui e i gruppi sociali non sarebbero capaci di superare i loro conflitti (Hobbes, Hegel, Rousseau stesso, in maniera più contraddittoria), e di autonomia, immanenza, capacità ugualmente ripartita tra cittadini quando si tratta d’organizzare la propria vita (Proudhon e Marx, che su questo punto convergono). Naturalmente, questa opposizione può essere risolta nei due sensi, ma si coniuga facilmente con la rappresentazione (che condivido interamente) di una società dominata dai rapporti di sfruttamento e dai meccanismi d’espropriazione, di cui lo Stato si farebbe o il servitore zelante o il regolatore più o meno attivo.
Ora, mi sembra che l’esperienza che stiamo attraversando ci obblighi a uscire da questo binarismo troppo semplice. Essa autonomizza la nozione di servizio pubblico, sia rispetto allo statale, che al comune, e gli conferisce una specificità, una conflittualità propria, di cui è necessario rendere conto e forse, politicamente, sapersene appropriare collettivamente. Non tanto al fine di erigere una sfera giuridico-politica autonoma, quanto piuttosto al fine di iscrivervi la concorrenza stessa tra due logiche, tra due tipi di potere, l’uno e l’altro necessari, ma l’uno come l’altro gravati da conflitti che si estendono dal piano locale e quotidiano fino alla sfera internazionale e potenzialmente planetaria. Beninteso, quest’esperienza si fa nell’emergenza, ma credo che essa non si dia nello sbalordimento o nell’oblio delle situazioni che l’hanno preceduta. Il “personale sanitario” è riuscito a far capire alla popolazione ciò che c’era di “sistemico” (se non di premeditato) nello stato d’impreparazione, di scarsità, di malfunzionamento autoritario, d’ingiustizia e alle volte di crudeltà (pensiamo agli EHPAD)7 di un servizio sanitario in via di mercificazione e privatizzazione accelerate. Al tempo stesso, hanno costituito tra loro e attorno a loro del “comune”, prodotto un effetto di comunità, che non è solamente morale o sentimentale, certamente non privo di contraddizioni (poiché comporta anch’esso le sue gerarchie e le sue ineguaglianze), ma che è profondamente politico, cosciente di ciò che deve esigere, delle forze sulle quali può contare e dei valori morali che deve difendere. Eppure, non mira a sostituire il comune allo Stato. Punterebbe piuttosto a imporre allo Stato – uno Stato che, nell’ultimo periodo, si era totalmente dedicato agli interessi della classe dominante, e persino degli strati maggiormente privilegiati di quest’ultima – di servire il servizio pubblico, in particolare traendo dall’economia di mercato le risorse necessarie, mobilizzandole poi in modo razionale, sotto un controllo democratico. La coscienza comune (e credo giusta) è che il servizio pubblico ha sempre bisogno dello Stato, dai suoi vertici fino a ciò che ci arrischieremo a chiamare “lo Stato dal basso” (quello Stato che “ognuno di noi è”: funzionari, impiegati della funzione pubblica, e soprattutto i “governati” o i cittadini, nella misura in cui ci interessiamo al suo funzionamento e alle sue politiche)8. Ma ciò non vuol dire che il servizio pubblico appartiene allo Stato. Poiché non può esserne un ingranaggio o un’emanazione, deve distinguersene, anche se attraverso delle frontiere imprecise e costantemente contestate. Per rinforzare la propria autonomia ha dunque esso stesso bisogno che il “comune” si organizzi, che si esprima e che si opponga a ragion veduta (il che non significa in uno spirito di conciliazione) alle pratiche di governo. Arbitro dei conflitti a venire tra lo statale e il comune, il servizio pubblico è anche la posta in gioco del loro scontro. Quest’ultimo non è che all’inizio.
Lo si sarà compreso: non descrivo un movimento, così come non delineo un programma. Cerco di formulare una questione che dovrebbe essere allo stesso tempo di cittadinanza (un modo di immaginare l’azione dei governati in risposta ai governanti) e di civiltà (una maniera di sviluppare i conflitti all’interno della società evitando una loro deviazione verso la guerra civile). Attendo di vedere se questa formulazione è utile, se è adeguata alle prove che stiamo per attraversare. Essa non esclude assolutamente altre questioni di cui è necessario dibattere: del ruolo economico dello Stato e delle trasformazioni che dovrebbe subire, della “legge del mercato” e delle sue regolamentazioni o dei suoi limiti, dei nostri stili di vita e del nostro rapporto all’ambiente naturale. Tuttavia, sono propenso a credere che è necessario non evitarla: non solo per accogliere le esigenze che si esprimono con forza nella società, ma perché la specificità della crisi sanitaria–o, se vogliamo esprimerci con Foucault, della “biopolitica” –non venga nascosta nella violenza dei disordini che si preannunciano, e venga assunta permanentemente come una bussola. Questa potrebbe essere una delle condizioni che permetteranno di mettere in discussione la simmetria mortale tra l’autoritarismo tecnocratico o poliziesco e la “collera” populista –di destra e di sinistra –da cui siamo ugualmente minacciati.
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1 I “premiers de corvées” sono coloro che nel dibattitto pubblico italiano vengono chiamati “lavoratori in primalinea” o “lavoratori essenziali”[N.d.T.].
2 Si è scelto di tradurre il termine francese commun sempre letteralmente, evitando formule come “beni comuni”, “ciò che è comune”, ecc. Si è ritenuto in questo modo di preservare il senso che il concetto assumenel dibattitto filosofico odierno[N.d.T.].
3 Nonostante le divergenze, Antonio Negri e Michael Hardt (Commonwealth, Assembly), Pierre Dardot e Christian Laval (Commun)si avvicinano su questo punto.
4I “Restos du coeur” sono i banchi alimentari, gli empori solidali, le mense popolari, ecc.[N.d.T.].
5 Mi ispiro in particolare all’esposizione, notevolmente chiara e argomentata, di Pierre Dardot e Christian Laval, Commun. Essai sur la révolution au XX siècle, Paris, La Découverte, 2014, pp. 514 sgg.: «I servizi pubblici devono diventare istituzioni del comune».
6 L. Duguit, La Transformation du droit public(1925), citato da Thomas Buccon-Gibod, Autorité et démocratie. L’exercice du pouvoir dans les sociétés modernes, Paris, L.G.D.J., 2014.
7 Acronimo per Etablissement d’hébergement pour personnes âgées dépendantes. Gli EHPAD sono case di riposo, ovvero residenze per anziani con assistenza medica. Corrispondono alle italiane RSA (Residenze Sanitarie per Anziani)[N.d.T.].
8 Marco Pavlopoulos, L’Etat c’est nous, “Le blog Mediapart”, 12 maggio 2020 [on line].
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