sabato 12 giugno 2021

Lo Stato, il Pubblico, il Comune: tre concetti alla prova della crisi sanitaria - Etienne Balibar

Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020 (vol. IX), a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 (http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico) - Questo testo è stato pubblicato per la prima volta in francese con il titolo L’État, le Public, le Commun: trois notions à l’épreuve de la crise sanitairene l volume Dessine-moi  un pangolin, ouvrage coordonné par la revue Regards, Vauvert, Éditions Au diable vau-vert, 2020, pp. 107-29. Esso viene qui riprodotto per gentile concessione dell’editore. La traduzione italiana è di Francesca Borgarello. - 

Etienne Balibar è un filosofo francese. Allievo di Louis Althusser, ha contribuito a sviluppare una nuova interpretazione del pensiero di Karl Marx, con specifiche riflessioni sui concetti di razza, cultura e identità, in vista di una concezione più inclusiva della cittadinanza e della democrazia in Europa. 

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I fondamenti filosofici della società virale: Nietzsche e Hayek dal neoliberalismo al Covid-19 - Paolo Ercolani 


Lo scopo di questo breve scritto è abbozzare alcune riflessioni congiunturali, relative all’articolazione di tre concetti che occupano un posto centrale nel dibattito pubblico.  Riflessioni che, lungi dal distoglierci dalla situazione di crisi in cui siamo entrati,  dovrebbero  anzi  permetterci  di comprendere meglio le scelte che la crisi sta imponendo. È tuttavia necessaria qualche osservazione preliminare, affinché la discussione non assuma  un carattere eccessivamente accademico. 

1. Apprendere nella crisi 

Innanzi tutto, voglio sottolineare l’incertezza dei tempi. Sto scrivendo alla metà di maggio (2020), per una pubblicazione che sarà disponibile a luglio... È  molto  presto  per  sviluppare  una  riflessione  compiuta  sul  tema,  e  questo perché vi è l’intenzione di mettere in circolazione una pluralità di proposte nel momento  stesso in  cui  queste  si  rendono necessarie a causa dell’intensità della crisi. Eppure, sarà forse già troppo tardi... Non abbiamo alcuna certezza che ciò che pensiamo oggi potrà essere ancora sostenibile tra due mesi. Non sappiamo se e quando “finiranno” la pandemia e la crisi sanitaria che questa provoca. Non sappiamo quale sarà l’entità e quali gli effetti della crisi economica che ne consegue. Non sappiamo quali saranno le ripercussioni, in termini di sofferenza e distruzione, ma anche di proteste, rivolte, di movimenti sociali e politici. E tuttavia,  è  da  questo  insieme  di  cose  che  dipende  il  referente  di realtà  delle parole di cui ci serviamo e, conseguentemente, il loro senso. 

È una situazione strana, che non presenta però solo inconvenienti. Poiché tale indeterminatezza è la condizione nella quale –purché se ne assumano la misura e i rischi –diventa possibile descrivere una crisi di dimensioni storiche, per ciò che essa è: non una semplice “interruzione” nella vita di una società, o l’occasione di un’inversione di potere, ma un cambiamento forse radicale del modo  di  cambiamento stesso,  che  costringe  dunque  a scommettere su mutamenti sconosciuti, mettendo insieme ciò di cui disponiamo in termini d’esperienza e  analisi,  per  immaginarne  le  possibilità. Tocca  ai  segni  che affiorano  nel tempo  presente suggerirci  a  poco  a  poco  le  buone  domande,  piuttosto  che alle  nostre  teorie  e  alle  nostre  previsioni precedenti la  crisi  proporne  già  la soluzione. 

La scommessa che faccio è di affermare prima di tutto l’irreversibilità della rottura  che  si  sta  producendo.  Non  ci  sarà  un  ritorno  alla  situazione precedente.  Mi  baso  qui  sulla  famosa  formula  elaborata da  Lenin  nel  1920: «Chi sta in alto non può più vivere (e governare) come prima e chi sta in basso non vuole più vivere (ed essere governato) come prima». Non la intendo come una profezia, ma come la descrizione di una situazione di fatto. La crisi rivela delle  condizioni  che  sono  diventate  incompatibili  con  la  riproduzione  del regime precedente e di cui fanno integralmente parte le reazioni di rifiuto che suscita nei “governati”. Essa si dà in una situazione tesa all’estremo, in cui il governo  della  società  è  diventato  molto  problematico,  dal  punto  di  vista dell’efficacia delle tecniche amministrative, dei modelli di crescita economica, della “sostenibilità” dei debiti, della tolleranza per il divario della ricchezza e per le discriminazioni culturali, o della legittimità delle forme d’autorità. Per questo motivo essa innesca un processo di transizione che non potrà più essere bloccato, ma le cui modalità e orientamenti restano indeterminati. Tutto ciò che  possiamo  affermare  è  che  essa  è  foriera  di  altre  possibili  istituzioni politiche,  altre  modalità  di  lavorare  e  di  vivere  in  comune,  altre  credenze collettive e altre scelte di valore. Come cambiano i processi di civilizzazione nella storia? Al prezzo di quali violenze, quali invenzioni e quali conversioni? È  la  questione  con  la  quale,  come  le  generazioni  prima  di  noi,  dovremo confrontarci e verso la quale non vi è mai stata una risposta unanime. 

Dopo aver buttato lì questi concetti generali, propongo due precisazioni. 

La prima è che certo alcuni poteri forti credono di poter continuare come prima, mettere  a  profitto  lo  “shock”  della  crisi,  come  dice  Naomi  Klein,  per accentuare  e  accelerare  cambiamenti,  che  erano  già  operanti  nel  periodo precedente. Negli appelli a “far ripartire l’economia”, senza riguardo per il costo umano, non è difficile individuare il progetto di accelerazionismo neoliberale e immaginare gli effetti devastanti che potrebbero generarsi. Molte di queste tendenze –che si tratti della finanziarizzazione o dell’indebitamento generale, delle   rivoluzioni   nella   divisione   del   lavoro,   o   della   mercificazione dell’ambiente –cercheranno  di  realizzarsi,  ma  si  scontreranno  con  ostacoli altrettanto potenti. Perciò le conseguenze non saranno una “riproduzione allargata” del neoliberalismo, anche se potrebbero essere peggiori di ciò. Di fatto,  le  forze  dominanti  del  capitalismo  devono reinventare una  strategia  di dominio e un progetto ideologico. Cosa che, di per sé, comporta un rischio. E  verosimilmente  queste  non  potranno  avere  luogo  senza  violenti  conflitti interni tra differenti “egemonie”. 

Una   seconda   precisazione   si   rende   a   questo   punto   necessaria:   la globalizzazione nella  sua  forma  attuale  produce  un’interdipendenza  delle economie  e  delle  società  senza  precedenti,  ma  non  ha  affatto  uniformato  i regimi  politici,  pareggiato  i  livelli  di  benessere,  o  avvicinato  le  tradizioni culturali in seno al “sistema-mondo”. Essa implica, oggi più che mai, delle polarizzazioni molto forti tra il Nord e il Sud come tra l’Est e l’Ovest. Più che mai essa è suscettibile di generare conflitti, eventualmente guerre su diverse “frontiere”. Ogni analisi di una situazione locale dipende  così  dal  posto  che essa occupa in un campo di relazioni geopolitiche instabili. Il che ci riconduce al  fatto  che  il  tempo  in  cui  siamo  costretti  a  situarci  è  fondamentalmente gravato d’incertezza. La crisi stessa deve insegnarci i mezzi per affrontarla e trattarla. 

2. Un nodo strategico: la crisi dei servizi pubblici  

Mi sembra che queste considerazioni conducano piuttosto naturalmente a provare a definire, ai fini dell’analisi, un nodo strategico, che cristallizzi i problemi presenti  nel punto  in cui ci  troviamo  e prefiguri delle poste in gioco  di più lunga  durata.  Non  si  tratta  di  politicizzare  artificialmente  situazioni  di disordine o di attivismo, ma di sviluppare la “politicità” m immanente  alle tensioni istituzionali, e allo stesso tempo rilevare la rottura tra il “prima” e il “dopo”, nell’istante in cui si produce. Penso che da noi (in Francia, ma senza dubbio  anche  altrove)  tale  nodo  strategico  sia  costituito  dal servizio  pubblico: crisi  del  servizio  pubblico, funzione  e  funzionamento  del  servizio  pubblico nella crisi, divenire dei conflitti di cui sarà, sempre di più, l’oggetto. 

Ciò che colpisce, certo, è il fatto che la vita di un intero paese –dalla sua attività economica fino all’intimità degli abitanti –graviti attorno alla qualità, alle risorse e alle insufficienze del suo sistema di sanità pubblica. Tutti sono d’accordo nel pensare che la medicina faccia irruzione al centro della politica, non  solamente  in  quanto  istituzione  incaricata  di  una  funzione  sociale indispensabile,  ma  in  quanto servizio  dei  servizi,  la  cui  interruzione  o  il  cui malfunzionamento  blocca  tutto  e  che,  conseguentemente,  dev’essere preservato a ogni costo. Al contempo viene confermata la pertinenza dell’idea avanzata  da  Michel  Foucault  quando  ha  proposto  di  ripensare  la  politica intera, o le sue condizioni di possibilità, nei termini della biopolitica, per cui “il far vivere e il lasciare morire” non è un ambito specifico, ma il primo oggetto di governo e la base di tutti i rapporti di potere. 

Tuttavia, Foucault non considera le istituzioni mediche e sanitarie sotto il profilo del servizio pubblico e delle contraddizioni che comporta, in parte a causa della sua posizione ambivalente nei confronti  delle questioni  giuridiche e, a fortiori, nei confronti di qualsiasi teoria dello Stato che paia accreditare l’idea che esso  domini  la  vita  sociale.  Ora,  è  la  natura  precisa  delle  relazioni  tra  le politiche  dello  Stato  (liberali,  socialiste,  neoliberali),  le  forme  storiche  dello Stato stesso consecutive l’una all’altra e la manutenzione quotidiana della società da parte dei servizi pubblici, che si è trovata messa in questione dallo “stato d’eccezione” sanitario attuale. Ed appare come un problema il fatto che la pressione  esercitata  sui  corpi  del  personale  sanitario  che  si  occupano  di questo servizio, così come la dipendenza reciproca, acuta e conflittuale, nella quale essa li ha posti nei confronti del governo, abbiano colpito duramente questa  istituzione  proprio mentre  essa  era  in  piena  rivolta  contro  i  poteri pubblici. È possibile presumere che tale questione dominerà l’intero prossimo periodo “strategicamente”, attraverso inevitabili rapporti di forza. Servizio pubblico, poteri pubblici, funzione pubblica, ordine pubblico, finanze pubbliche, tutto ciò che  gravita  attorno  al  problema  della  salute  e  delle  condizioni  della  sua protezione e dei suoi usi: questo è, mi sembra, il nodo delle questioni attorno alle quali dobbiamo cercare di riflettere per articolare emergenza immediata e prospettiva  di  lungo  termine.  Ma  prima  di  dirne  qualcosa  in  più,  vorrei precisare qualche elemento di definizione e analisi concreta. 

Prima di tutto, la sanità è un “servizio” complesso, che non possiamo ridurre ai soli ospedali, anche se integrati dalla medicina di territorio: esso non funziona  se  non  in  stretta  combinazione  con  attività  produttive  e  culturali, l’insieme delle quali si estende a quasi tutta la società. In cima a tali attività figurano  naturalmente  la  ricerca  scientifica, l’industria  farmaceutica  e  la tecnologia biomedica, l’informazione statistica e demografica, ma anche i trasporti specializzati, le strutture d’insegnamento superiore e professionale, gli organismi d’assistenza e di soccorso popolare, i lavori di pulizia o  di ristorazione svolti dagli ormai famosi “premiers de corvée”1, e, non da ultimo, quella  parte  di  cure  fisiche  e  psicologiche  assicurate  a  casa  da  parenti  e collaboratori del “malato” che si trova in ciascuno di noi... Un servizio come la sanità pubblica è dunque non tanto un’istituzione settoriale, ma un “punto di vista” sull’intera società, che tesse legami tra un gran numero di suoi membri, in breve, genera del “comune”2. Potremmo dire altrettanto, naturalmente, di altri servizi, in particolare dell’educazione. Ciò che mi conduce al punto seguente. 

La  definizione  dei  “servizi  pubblici”  attraverso  la funzione  sociale che svolgono, il regime di diritto delle istituzioni che li garantiscono, la modalità del loro finanziamento e della loro integrazione o meno alla funzione pubblica, è una materia controversa, variabile da un paese e da un periodo all’altro. Venendo dopo “l’età dell’oro” dello Stato nazional-sociale  sviluppato  dai  capitalismi riformisti del XX secolo, che hanno istituito la “cittadinanza sociale” (T. H. Marshall) e l’hanno posta al cuore della cittadinanza politica, le politiche neoliberali hanno avuto come obbiettivo di “razionalizzare” il loro modo di gestione, così come di “privatizzare” il più grande numero possibile di essi. Hanno   rivoluzionato  dall’alto  le  condizioni  di  vita  e  di  lavoro  della popolazione, generando un’enorme incertezza su quali servizi possano essere ritenuti intrinsecamente pubblici, “non privatizzabili”. Tale questione è parallela a quella dei beni comuni della società (se non dell’umanità), che nella coscienza collettiva le viene spontaneamente associata; ma può esserne dissociata, se si avanza un concetto di “comune” come distinto dal “pubblico” e persino opposto ad esso, come vorrebbero oggi i teorici neo-comunisti3. Lascio per il momento da parte tale questione, per sottolineare un elemento che mi sembra cruciale: vi è una pluralità di servizi complementari, ma eterogenei, cosicché il loro  modo  d’utilizzo  da  parte  dello  Stato –e,  correlativamente,  la  loro articolazione  con  la cittadinanza individuale  e  collettiva –sono  divergenti  e persino  antinomici.  Citerò  due  esempi  estremi  di  cui  la  crisi  attuale  ha  in qualche modo “testato” la qualità del funzionamento: la scuola, il cui “servizio” proprio è l’insegnamento o la formazione individuale –ma che mira anche alla correzione delle diseguaglianze d’origine sociale e all’istituzione delle “eguaglianze  d’opportunità” –e  la polizia, il  cui  “servizio”  proprio  è ufficialmente  la  sicurezza  e  l’ordine  pubblico  (dunque  la  protezione  dei cittadini  dalla  loro  propria  indisciplina,  con  tutta  la  violenza  che  un  tale concetto  implica,  come  si  può  vedere  nell’attuazione  delle  regole  di “distanziamento sociale”). I due esempi sono sufficienti a mostrare che il rapporto dei servizi pubblici con lo Stato e la società è lungi dal porre gli stessi problemi in ogni contesto. Problemi che sono tuttavia sempre essenzialmente politici, e non “tecnici” o “amministrativi”. La fase neoliberale e le reazioni di massa che essa provoca esemplificano l’effetto della situazione politica sulla nozione di servizio pubblico. Ciò che qui deve interessarci è l’azione di ritorno della questione dei servizi pubblici sulla politica stessa. 

Infine, i servizi  pubblici reali, storicamente costituiti, sono sede di un conflitto molto acuto tra l’universalità e l’eguaglianza.  Questo  conflitto  può assumere  parecchie  forme,  di  diversa  gravità,  ma  sempre  potenzialmente destabilizzanti. Ora, esse stanno raggiungendo nella crisi sanitaria, con le sue conseguenze economiche e sociali, un grado intollerabile. I cittadini “eguali per diritto” non lo sono oggi né davanti alla malattia, né davanti ai mezzi mobilitati  per  proteggere  la  società e che fanno appello alla “solidarietà nazionale”, quando non alla necessità di una “sacra unione”. Si è potuto osservare che la differenza dei tassi di contagio e di mortalità rinvia a “co-morbilità”, che hanno una determinazione di classe, già manifesta nei livelli di speranza di vita straordinariamente diseguali degli adulti di diverse professioni e tenori di vita. Elemento cui viene ad aggiungersi la diseguaglianza strutturale delle  risorse  mediche  tra  zone  urbane  e  periferiche.  Queste  diseguaglianze sono ancora più eclatanti nel caso delle regole dello “stato d’emergenza sanitaria”, poiché i salariati costretti a continuare a lavorare fuori casa e senza protezioni sono nella grande maggioranza dei casi  lavoratori manuali (sovente immigrati, a volte irregolari); poiché le condizioni di confinamento nelle unità d’abitazione  minuscole  risultano  insopportabili  o  inapplicabili;  poiché  la disoccupazione forzata spedisce fin da ora ai “Restos du cœur”4 la nicchia più indigente degli intermittenti e dei precari. 

Sia la dimensione simbolica, sia quella materiale della contraddizione sono particolarmente visibili nei casi delle istituzioni che ho indicato prima come figure antitetiche del servizio pubblico: la scuola e la polizia. La sospensione degli insegnamenti “in presenza” si traduce nell’allontanamento definitivo dei bambini delle classi povere, dato a cui persino il discorso ufficiale è costretto a   prestare   attenzione.  Le   pratiche   dei   controlli   si   accompagnano   nei “quartieri” al perpetuarsi delle violenze  razziste  che  lo  stesso  discorso,  al contrario, si sforza di nascondere. È possibile mettere insieme tutto questo capovolgendo  la formula  di  cui  mi  sono  servito: il servizio  pubblico  distrugge  il comune, e allo stesso tempo contraddice l’universalità che, in regime repubblicano, costituisce a un tempo la sua ragione d’essere e il compito morale del lavoro dei suoi funzionari. Tale contraddizione è permanente, ma assume una nuova intensità. Vorrei cercare di interpretarne il senso sul piano delle nozioni generali – che  definiscono  la  funzione  storica  del  servizio  pubblico  in  una  società capitalistica come la nostra – e, al tempo stesso, sul piano della dinamica politica al centro della crisi stessa, così come fin qui delineato. 

3. Lo Stato e il servizio pubblico 

La questione dello Stato, affrontata nei termini del suo “ritorno”, ma anche sotto il profilo della sua costituzione formale e materiale, è bruscamente tornata ad essere la questione centrale del dibattito politico. Dunque, anche filosofico. Un’alternativa la domina, ereditata dai conflitti ideologici del XX secolo: essa postula che gli interventi statali e le attività di mercato sono antitetiche le  une  alle  altre  (e  a  partire  da  ciò  diventerà  possibile  ricercare  la  loro complementarità). Le dichiarazioni che il presidente Macron è stato indotto a fare evocando i “beni pubblici”, che non possono in quanto tali dipendere dalle “leggi del mercato”, ne conseguono direttamente. Esse hanno forse sorpreso  (se  non  preoccupato)  provenendo  da  un  simile  personaggio,  ma soprattutto segnalano immediatamente l’esistenza di una profonda ambiguità, poiché il “non mercato” incarnato dallo Stato e dalle azioni di cui esso è promotore  può  variare  tra  contenuti  tanto  lontani  quali  l’investimento pubblico,  la  nazionalizzazione  o  anche  la  pianificazione,  da  un  lato;  e  la gratuità dei servizi corrispondenti a “diritti fondamentali”, dall’altro. In altre parole, o una limitazione della concorrenza e del profitto, che non modifica la forma-merce, o invece un’abolizione di questa forma stessa in nome di altri valori.  Cosa  significa  uscire  dalle  leggi  del  mercato  in  una  società  e  in  un mondo dove esse sono generalizzate? E quali strumenti lo permettono? 

Non è difficile mostrare che ambiguità altrettanto fondamentali incidono su  ciascun  interrogativo  circolante  in  questo  momento  a  proposito  del “Leviatano” moderno: che cosa è invariante nella sua struttura dalle origini? Cosa,  al  contrario,  ha  subito  una  trasformazione  sotto  l’effetto  delle rivoluzioni  della  storia  contemporanea,  consolidando  le  politiche  sociali persino  in  seno  al  capitalismo,  prima  di  intraprenderne  lo  smantellamento; rinforzando   il   carattere   nazionale  dello  Stato,   prima   di   decentrarlo progressivamente verso istituzioni sovranazionali? Ma le ambiguità non sono minori per ciò che concerne la relazione tra “governanti” e “governati”, nella quale  si  potrebbe  vedere  la struttura  elementare dell’istituzione politica della forma statale, ma che oscilla seguendo i rapporti di forza e le eredità storiche tra l’autoritarismo  e  la  democratizzazione,  il  centralismo  e  il  federalismo,  o l’autonomia per le comunità territoriali. Non ho la pretesa di riunire in qualche formula i termini di tutte queste discussioni, ma voglio suggerire che la crisi in corso le sposta e orienta in due direzioni; che l’una e l’altra assegnano una funzione strategica al modo di organizzazione e al funzionamento dei servizi pubblici. Da un lato si pone in termini nuovi la questione della “polizia” (nel senso di Jaques Rancière), cioè dei rapporti stretti che possono stabilirsi tra la necessità di costrizioni amministrative per organizzare l’erogazione dei servizi universali e le pratiche di normalizzazione e controllo “assoggettanti” coloro che accedono a quegli stessi servizi. Dall’altro si pone con rinnovata insistenza la questione di sapere se il “pubblico” e il “comune” rappresentano una sola dimensione dell’esistenza sociale, o se è opportuno invece ricercare tra questi tre concetti – lo statale, il  pubblico,  il  comune – un’articolazione più complessa  e instabile. Una questione conduce all’altra. 

Cominciamo  dalla  questione  della  “polizia”.  Vi  è  certo  qualcosa  di paranoico  nelle  descrizioni  che  in  questo  momento  alcune  grandi  menti  ci offrono,  dell’evoluzione  inarrestabile  dello  “stato  d’eccezione”, che   il confinamento  (ben  presto  sostituito  dal  tracciamento  informatico  degli individui,  come  condizione  della  sospensione  del  primo)  rappresenta  verso una società di tipo totalitario. Quella stessa che, ci viene detto, il capitalismo avrebbe sempre avuto in animo di realizzare al fine di annientare le resistenze al  suo  ordine  economico,  ma  che  avrebbe  aspettato  d’incontrare  una rivoluzione   tecnologica   (lo   smartphone   e   i big   data)   e   una   catastrofe antropologica (la pandemia) per poter infine attuarsi. E tuttavia, al di là delle forme  di  moralizzazione  e  disciplina –che  storicamente,  in  ciò  che  ho chiamato Stato nazional-sociale, sono state la contropartita dell’acquisizione dei diritti sociali e della protezione contro le incertezze della vita economica –l’evoluzione  verso  ciò  che  Deleuze  aveva  chiamato  una  “società  del controllo” è proprio una delle possibilità dischiuse dal riconoscimento di una minaccia  endemica  generalizzata,  e  senza  fine  prevedibile,  alla  vita  degli individui. D’altronde, essa esiste già, sotto forme che variano da un paese e da  un  regime  politico  all’altro.  Essa  conferisce  un  contenuto  molto  più oppressivo a ciò che possiamo  considerare come la formazione  statale in senso largo: una formazione che non s’istituisce “al di sopra” o “al di fuori” della società civile, ma si trova con essa in un rapporto di compenetrazione evolutiva, poiché  la  funzione  dello  Stato  è organizzare  la  società, ricercando il “giusto” equilibrio  (quello  che  è  sostenibile,  difendibile)  tra  la  promozione  di  certi interessi  di  classe,  di  genere,  di  razza,  di  cultura,  e  la  proclamazione  di  un “diritto ai diritti” per tutti i soggetti. Tale questione di organizzazione o, come diceva  Gramsci, di  egemonia,  sta  senza  dubbio  cambiando  di  significato.  Se l’intera società deve  essere  sorvegliata  ed  al  contempo  protetta,  e  se  alcune istanze  di  governo – prolungate  da  una  rete  di  servizi  incaricati  di  educare, curare, informare, assistere, censire, controllare le persone – fanno in questo modo  penetrare  lo  Stato  in  ciascun  “rapporto  sociale”,  allora  il  campo d’azione del servizio pubblico si espande smisuratamente e lo trasforma in macchina  d’asservimento  universale. Il suo rapporto “normativo”  (come dicono i filosofi) con l’istituzione della cittadinanza viene a essere stravolto e di fatto annullato. Ma questa difficoltà non si risolve con un “ritorno ai principi” dello Stato di diritto, poiché essa origina da questi stessi principi. Di qui l’interesse e forse la necessità di rivolgersi ora verso ciò che, idealmente almeno,  sembra  costituire  l’alternativa  radicale  a  una  tale  espansione  o “socializzazione” continua della funzione statale, e che incarna nei dibattiti attuali la promozione dell’idea di “comune”. 

4. Dal “comune” alla comunità politica 

Considererò  questi  dibattitti  in  una  formulazione  condensata,  dunque inevitabilmente semplificata, per far emergere pienamente l’opposizione che mi  sembra  cruciale  tra  una  problematica  binaria,  nella  quale  il  servizio pubblico,   perdendo   la   sua   specificità, è  costretto  a  “scegliere”  tra l’appartenenza allo Stato e l’espressione del comune; e una problematica che gli conferisce un’autonomia almeno relativa e dunque lo statuto di un terzo termine5. L’assunto fondamentale della problematica binaria è sostanzialmente l’idea che la società possieda dei bisogni “fondamentali” (materiali, culturali) storicamente  costituiti  e  sviluppati,  il  riconoscimento  dei  quali  istituisce  dei diritti essi stessi fondamentali. Il conflitto delle ideologie politico-economiche genera  allora  tendenze  opposte  nel  limitare  per  quanto  è  possibile, o, al contrario, nell’ampliare illimitatamente la sfera di questi bisogni e di questi diritti: liberalismo, socialismo o solidarismo. Ma, per quanto ci riguarda qui, l’alternativa decisiva oppone l’idea che lo Stato è per essenza il rappresentante della società o il titolare del “bene comune”, all’idea che esso costituisca qualcosa come un “apparato di cattura”, usurpante una  funzione  di  cui  i cittadini  potrebbero  e  dovrebbero  occuparsi  essi  stessi,  nel  loro  proprio interesse, acquisendo le competenze e inventando le forme di governo proprie a questa missione. Il “pubblico”, in queste condizioni, non dispone veramente di un’autonomia: o designa la dimensione sociale dello Stato (ciò che Léon Duguit chiamava il “suo contenuto materiale”, opposto al “disordine sociale”)6, o al contrario  designa  la  modalità  sotto  la  quale la società  diviene  una  comunità,  e questa un corpo politico auto-amministrato. Vi si ritrova in qualche modo la vecchia  opposizione  tra  le  idee  di  sovranità,  rappresentanza,  mediazione politica senza la quale gli individui e i gruppi sociali non sarebbero capaci di superare  i  loro  conflitti  (Hobbes,  Hegel,  Rousseau  stesso,  in  maniera  più contraddittoria), e di autonomia, immanenza, capacità ugualmente ripartita tra cittadini quando si tratta d’organizzare la propria vita (Proudhon e Marx, che su questo punto convergono). Naturalmente, questa opposizione può essere risolta nei due sensi, ma si coniuga facilmente con la rappresentazione (che condivido interamente) di una società dominata dai rapporti di sfruttamento e dai meccanismi d’espropriazione, di cui lo Stato si farebbe o il servitore zelante o il regolatore più o meno attivo. 

Ora, mi sembra che l’esperienza che stiamo attraversando ci obblighi a uscire  da questo  binarismo  troppo  semplice.  Essa autonomizza  la  nozione  di servizio  pubblico,  sia  rispetto  allo  statale,  che  al  comune,  e  gli  conferisce  una specificità, una conflittualità propria, di cui è necessario rendere conto e forse, politicamente,  sapersene appropriare  collettivamente.  Non  tanto  al  fine  di erigere  una  sfera  giuridico-politica  autonoma,  quanto  piuttosto  al  fine  di iscrivervi la concorrenza stessa tra due logiche, tra due tipi di potere, l’uno e l’altro necessari, ma l’uno come l’altro gravati da conflitti che si estendono dal piano locale e quotidiano fino alla sfera internazionale e potenzialmente planetaria. Beninteso, quest’esperienza si fa nell’emergenza, ma credo che essa non si dia nello sbalordimento o nell’oblio delle situazioni che l’hanno  preceduta.  Il “personale sanitario” è riuscito a far capire alla popolazione ciò che c’era di “sistemico” (se non di premeditato) nello stato d’impreparazione, di scarsità, di  malfunzionamento  autoritario,  d’ingiustizia  e  alle  volte  di  crudeltà (pensiamo  agli  EHPAD)7 di  un  servizio  sanitario  in  via di  mercificazione  e privatizzazione accelerate. Al tempo stesso, hanno costituito tra loro e attorno a loro del “comune”, prodotto un effetto di comunità, che non è solamente morale o  sentimentale,  certamente  non  privo  di  contraddizioni  (poiché  comporta anch’esso le sue gerarchie e le sue ineguaglianze), ma che è profondamente politico, cosciente di ciò che deve esigere, delle forze sulle quali può contare e dei valori morali che deve difendere. Eppure, non mira a sostituire il comune allo Stato. Punterebbe piuttosto a imporre allo Stato – uno Stato che, nell’ultimo periodo,  si  era  totalmente  dedicato  agli  interessi  della  classe  dominante,  e persino degli strati maggiormente privilegiati di quest’ultima – di servire  il servizio  pubblico, in particolare traendo dall’economia di mercato le risorse necessarie,   mobilizzandole   poi   in   modo   razionale,   sotto   un   controllo democratico. La coscienza comune (e credo giusta) è che il servizio pubblico ha sempre bisogno dello Stato, dai suoi vertici fino a ciò che ci arrischieremo a chiamare “lo Stato dal basso” (quello Stato che “ognuno di noi è”: funzionari, impiegati della funzione pubblica, e soprattutto i “governati” o i cittadini, nella misura in cui ci interessiamo al suo funzionamento e alle sue politiche)8. Ma ciò non vuol dire che il servizio pubblico appartiene allo Stato. Poiché non può esserne  un  ingranaggio  o  un’emanazione,  deve distinguersene, anche   se attraverso delle frontiere imprecise e costantemente contestate. Per rinforzare la propria autonomia ha dunque esso stesso bisogno che il “comune” si organizzi, che si esprima e che si opponga a ragion veduta (il che non significa in uno spirito di conciliazione) alle pratiche di governo. Arbitro dei conflitti a venire tra lo statale e il comune, il servizio pubblico è anche la posta in gioco del loro scontro. Quest’ultimo non è che all’inizio. 

Lo si sarà compreso: non descrivo un movimento, così come non delineo un programma. Cerco  di formulare una questione che dovrebbe essere allo stesso tempo di cittadinanza (un modo di immaginare l’azione dei governati in risposta  ai  governanti)  e  di civiltà (una  maniera  di  sviluppare  i  conflitti all’interno della società evitando una loro deviazione verso la guerra civile). Attendo di vedere se questa formulazione è utile, se è adeguata alle prove che stiamo per attraversare. Essa non esclude assolutamente altre questioni di cui è necessario dibattere: del ruolo economico dello Stato e delle trasformazioni che dovrebbe subire, della “legge del mercato” e delle sue regolamentazioni o dei suoi limiti, dei nostri stili di vita e del nostro rapporto all’ambiente naturale. Tuttavia, sono propenso a credere che è necessario non evitarla: non solo per accogliere le esigenze che si esprimono con forza nella società, ma perché la specificità della crisi sanitaria–o, se vogliamo esprimerci con Foucault, della “biopolitica” –non  venga  nascosta  nella  violenza  dei  disordini  che  si preannunciano, e venga assunta permanentemente come una bussola. Questa potrebbe  essere  una  delle  condizioni  che  permetteranno  di  mettere  in discussione la simmetria mortale tra l’autoritarismo tecnocratico o poliziesco e la “collera” populista –di  destra  e  di  sinistra –da  cui  siamo  ugualmente minacciati. 

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1 I “premiers de corvées” sono coloro che nel dibattitto pubblico italiano vengono chiamati “lavoratori in primalinea” o “lavoratori essenziali”[N.d.T.]. 

2 Si  è  scelto  di  tradurre  il  termine  francese commun sempre  letteralmente,  evitando formule come “beni comuni”, “ciò che è comune”, ecc.  Si è ritenuto in questo modo di preservare il senso che il concetto assumenel dibattitto filosofico odierno[N.d.T.]. 

3 Nonostante le divergenze, Antonio Negri e Michael Hardt (Commonwealth, Assembly), Pierre Dardot e Christian Laval (Commun)si avvicinano su questo punto. 

4I “Restos du coeur” sono i banchi alimentari, gli empori solidali, le mense popolari, ecc.[N.d.T.]. 

5 Mi ispiro in particolare all’esposizione, notevolmente chiara e argomentata, di Pierre Dardot  e  Christian  Laval, Commun.  Essai  sur  la  révolution  au  XX  siècle,  Paris,  La Découverte,  2014, pp.  514 sgg.: «I  servizi  pubblici  devono  diventare  istituzioni  del comune». 

6 L. Duguit, La Transformation du droit public(1925), citato da Thomas Buccon-Gibod, Autorité et démocratie. L’exercice du pouvoir dans les sociétés modernes, Paris, L.G.D.J., 2014. 

7 Acronimo per Etablissement d’hébergement pour personnes âgées dépendantes. Gli EHPAD sono case di riposo, ovvero residenze per anziani con assistenza medica. Corrispondono alle italiane RSA (Residenze Sanitarie per Anziani)[N.d.T.]. 

8 Marco Pavlopoulos, L’Etat c’est nous, “Le blog Mediapart”, 12 maggio 2020 [on line]. 


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