Da: https://gyorgylukacs.wordpress.com - Prefazione a La distruzione della ragione
Gy6rgy Lukacs (Budapest, 13 aprile 1885 – Budapest, 4 giugno 1971) è stato un filosofo, sociologo, politologo, storico della letteratura e critico letterario ungherese.
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Questo libro non pretende affatto di essere una storia della filosofia reazionaria o addirittura un trattato sul suo sviluppo. L’autore sa bene che l’irrazionalismo, di cui viene qui presentato l’affermarsi e l’estendersi a indirizzo dominante della filosofia borghese, è solo una delle tendenze importanti nella filosofia reazionaria borghese. Benché non vi sia praticamente filosofia reazionaria che non celi un determinato elemento irrazionalistico, il campo della filosofia reazionaria borghese è molto più ampio di quanto non sia quello della filosofia irrazionalistica, nel senso proprio e rigoroso del termine.
Ma neppure questa limitazione basta a circoscrivere il nostro compito. Anche in quest’ambito più ristretto, non si tratta di fare una storia vasta e particolareggiata dell’irrazionalismo, che aspiri alla completezza, bensì di tracciare la linea principale del suo sviluppo, di analizzare le tappe e i rappresentanti più importanti e più tipici. Questa linea principale va presentata come la risposta più significativa e grave di conseguenze data dalla reazione ai grandi problemi degli ultimi centocinquanta anni.
La storia della filosofia, alla stessa maniera della storia dell’arte e della storia della letteratura, non è mai, come pensano i suoi storici borghesi, semplice storia di idee filosofiche o magari di personalità. I problemi e i modi di risolverli vengono stabiliti per la filosofia dallo sviluppo delle forze produttive, dall’evoluzione sociale, dallo svolgersi delle lotte di classe. Le linee fondamentali e decisive di una qualsiasi filosofia non possono essere scoperte se non in base alla conoscenza di queste primarie forze motrici. Se si fa il tentativo di porre e di spiegare il nesso dei problemi filosofici in base a un cosiddetto sviluppo immanente della filosofia, si ha necessariamente un travisamento idealistico dei nessi più importanti, anche se gli storici possiedono la necessaria cultura e hanno la buona intenzione di essere oggettivi. È evidente che l’indirizzo denominato delle «scienze dello spirito» rappresenta rispetto a questo punto di vista non un progresso, ma un regresso: l’impostazione ideologica deformante rimane, ed è soltanto più confusa, più deformante in senso idealistico. Basti confrontare Dilthey e la sua scuola con la storiografia filosofica degli hegeliani, per esempio con Erdmann.
Da ciò non consegue, come pensano i volgarizzatori, che vengano trascurati i problemi puramente filosofici. Anzi, solo in questo nesso può risultar chiara la differenza fra le questioni importanti, dotate di un significato permanente, e le divergenze professorali fatte di sfumature. Proprio la via che conduce dalla vita sociale alla vita sociale conferisce ai pensieri filosofici la loro vera portata, determina la loro profondità anche nel senso strettamente filosofico. A questo riguardo è del tutto secondaria la questione, in che misura i singoli pensatori siano consapevoli di questa loro posizione, di questa loro funzione storico-sociale. Anche in filosofia si giudicano non le opinioni, ma le azioni, cioè l’espressione obbiettiva del pensiero, la sua efficacia storicamente necessaria. In questo senso ogni pensatore è responsabile di fronte alla storia del contenuto obbiettivo del suo filosofare.
Il nostro argomento è pertanto la via della Germania ad Hitler nel campo della filosofia. Occorre mostrare cioè in che modo questo processo reale si rispecchia nella filosofia, in che modo proposizioni filosofiche, in quanto riflessi nel pensiero dello svolgimento reale che condusse la Germania a Hitler, contribuirono ad accelerare questo processo. Il fatto di limitarci così ad esporre questa parte eminentemente astratta dell’evoluzione non implica affatto una sopravvalutazione dell’importanza della filosofia nell’agitata totalità dello svolgimento reale. Crediamo tuttavia non inutile aggiungere che la sottovalutazione dell’elemento filosofico sarebbe almeno altrettanto pericolosa quanto poco conforme alla realtà.
Questi punti di vista determinano il modo di trattare la materia. Di capitale importanza per la scelta degli argomenti sono anzitutto la genesi e la funzione sociali. Il nostro compito è di smascherare tutte le posizioni di pensiero che hanno preparato la Weltanschauung nazionalsocialista, per quanto lontane possano essere dall’hitlerismo e per quanto poco possano aver avuto, soggettivamente, intenzioni di tal genere. Una delle tesi fondamentali di questo libro è che non c’è nessuna Weltanschauung «innocente». Non c’è sotto nessun rapporto; ma specialmente in rapporto al nostro problema; e questo proprio in senso filosofico: l’assumere posizione a favore della ragione oppure contro di essa decide al tempo stesso dell’essenza di una filosofia come filosofia, della sua funzione nello sviluppo sociale. Questo già per il fatto che la ragione stessa non può essere qualcosa di neutrale che se ne stia, senza prender partito, al di sopra dell’evoluzione sociale, ma rispecchia sempre, e conduce al concetto, la razionalità concreta (o l’irrazionalità) di una situazione sociale, di una direzione di sviluppo; e con ciò la favorisce o la ostacola. Ma questa determinatezza sociale dei contenuti e delle forme della ragione non implica affatto un relativismo storico. Nonostante la determinatezza storico-sociale di questi contenuti e di queste forme, la progressività di ogni situazione o tendenza di sviluppo sono alcunché di obbiettivo che opera indipendentemente dalla coscienza umana. Ora, che questa realtà, la quale si muove in avanti, venga concepita come ragione o come irrazionalità, e venga di conseguenza approvata o ripudiata, in quanto considerata come quella o come questa, è ciò che appunto costituisce un elemento essenziale e decisivo della posizione di partito e della lotta di classe in filosofia.
È di somma importanza scoprire questa genesi e questa funzione. Ma in se stesso non è ancora affatto sufficiente. L’obbiettività del progresso è bensì sufficiente a stigmatizzare giustamente come reazionaria una singola manifestazione o corrente. Ma una vera critica marxista-leninista della filosofia reazionaria non si può fermare a questo punto. Deve invece mostrare concretamente nello stesso materiale filosofico, e come conseguenze obbiettivamente e filosoficamente necessarie di tali posizioni, la falsità del pensiero, il travisamento delle questioni fondamentali della filosofia, la distruzione dei suoi risultati ecc. La critica immanente è perciò un legittimo, anzi un indispensabile elemento per esporre e smascherare le tendenze reazionarie in filosofia. Anche i classici del marxismo l’hanno continuamente usata, così Engels nell’Anti-Dühring, così Lenin nello scritto sull’empiriocriticismo. Il rifiuto della critica immanente come elemento di una esposizione complessiva che comprenda al tempo stesso la genesi e la funzione sociali, la caratteristica di classe, lo smascheramento sociale ecc., deve condurre di necessità a una specie di settarismo filosofico, a considerare le cose come se tutto ciò che risulta chiaro a un marxista-leninista consapevole fosse evidente senza dimostrazione anche per i suoi lettori. Ciò che Lenin ha detto dell’atteggiamento politico dei marxisti: «Ma l’importante è proprio il non considerare superato per la classe, superato per le masse ciò che è superato per noi», vale anche perfettamente per l’esposizione marxista della filosofia. L’opposizione delle diverse ideologie borghesi ai risultati del materialismo dialettico e storico è il naturale fondamento della nostra esposizione, della nostra critica. Ma anche la dimostrazione obbiettiva e filosofica dell’incoerenza e contraddittorietà interna delle singole filosofie è indispensabile se si vuol mettere davvero in concreta evidenza il loro carattere reazionario.
Questa generale verità è particolarmente valida per la storia dell’irrazionalismo moderno. Esso invero, come il nostro libro prende a dimostrare, è sorto ed ha operato in continua lotta col materialismo e col metodo dialettico. Anche in questa polemica filosofica si rispecchia la lotta di classe. Infatti, non è certo un caso che l’ultima e più evoluta forma di dialettica idealistica si sia sviluppata in relazione con la Rivoluzione francese e specialmente con le conseguenze sociali di essa. Il carattere storico di questa dialettica, i cui grandi precursori furono Vico e Herder, trova un’espressione metodologicamente cosciente e logicamente elaborata soltanto dopo la Rivoluzione francese, anzitutto nella dialettica hegeliana. Si tratta qui della necessità di difendere storicamente e di meglio definire il concetto di progresso pervenendo a una concezione di gran lunga superiore a quella dell’illuminismo. (I motivi che hanno promosso questa dialettica idealistica non si esauriscono naturalmente in questo: mi limito a ricordare le nuove tendenze delle scienze della natura che Engels scopre nelFeuerbach). Il primo periodo importante dell’irrazionalismo moderno sorge perciò in opposizione al concetto idealistico e storico-dialettico di progresso; la via che va da Schelling a Kierkegaard è al tempo stesso la via che conduce da una reazione feudale contro la Rivoluzione francese alla ostilità borghese verso il progresso.
Con la battaglia combattuta dal proletariato parigino nel giugno del 1848 e specialmente con la Comune di Parigi la situazione cambia in modo radicale: d’ora innanzi la Weltanschauung del proletariato, il materialismo dialettico e storico, sarà l’avversario la cui natura essenziale determinerà l’ulteriore svolgimento dell’irrazionalismo. Questo nuovo periodo ha in Nietzsche il suo primo e più importante rappresentante. Entrambe le tappe dell’irrazionalismo combattono contro il più alto concetto filosofico di progresso del loro tempo. Anche dal punto di vista puramente filosofico, però, risulta esserci una differenza qualitativa a seconda che l’avversario è una dialettica idealistico-borghese oppure la dialettica materialistica, la Weltanschauung proletaria, il socialismo. Nel primo stadio è ancora possibile una critica relativamente giustificata, che mostri i difetti e i limiti reali della dialettica idealistica. Nel secondo stadio vediamo invece che i filosofi borghesi sono già privi della capacità e della volontà di studiare davvero l’avversario, di fare il tentativo di controbatterlo in modo serio. Ciò avviene già in Nietzsche; e quanto più chiaramente appare il nuovo avversario, particolarmente a partire dalla grande Rivoluzione dell’ottobre 1917, tanto più basso diventa il livello della volontà e della capacità di combattere con le armi leali del pensiero contro l’avversario reale e ben noto; tanto più decisamente intervengono la distorsione, la calunnia e la demagogia a prendere il posto dell’onesta polemica scientifica. Anche in questo si vedono chiaramente i riflessi dell’acuirsi della lotta di classe. L’affermazione fatta da Marx dopo la rivoluzione del 1848: «Les capacités de la bourgeoisie s’en vont», appare confermata nei successivi momenti in modo sempre più evidente. E ciò non solo nella polemica centrale testé menzionata, ma anche in tutta la costruzione e nella complessiva elaborazione delle singole filosofie irrazionalistiche. Il veleno apologetico si diffonde dalla questione centrale alla periferia: arbitrio, contraddittorietà, infondatezza dei principi, argomentazioni sofistiche ecc. caratterizzano sempre più le filosofie irrazionalistiche che compaiono più tardi. L’abbassarsi del livello filosofico è quindi un tratto essenziale nello sviluppo dell’irrazionalismo. Nella Weltanschauung nazionalsocialista questa tendenza si rivela nel modo più tangibile e più evidente.
Nonostante questo, però, va messa in evidenza l’unità di sviluppo dell’irrazionalismo. Infatti la semplice constatazione dell’abbassarsi del livello filosofico non basta affatto a caratterizzare la storia dell’irrazionalismo. Constatazioni del genere furono fatte ripetutamente nella pretesa lotta della borghesia contro Hitler. Il loro scopo, però, era molto spesso uno scopo controrivoluzionario, anzi perfino un’apologia dello stesso fascismo: sacrificare Hitler e Rosenberg per salvare ideologicamente «l’essenza», cioè la forma più reazionaria del capitalismo monopolistico tedesco e l’avvenire di un nuovo e aggressivo imperialismo della Germania. Il ripiegamento dal «basso livello» di Hitler ai «grandi pensatori» Spengler, Heidegger o Nietzsche, è quindi, dal punto di vista filosofico, come dal punto di vista politico, una ritirata strategica, uno sganciamento dal nemico incalzante per riordinare le file della reazione, per riattizzare, in circostanze più favorevoli, un’offensiva metodologicamente «migliorata» dell’estrema reazione.
Di fronte a queste tendenze, i cui inizi risalgono molto indietro, si devono mettere in evidenza due cose. In primo luogo, l’abbassarsi del livello filosofico è un fenomeno necessariamente condizionato dalla società. Non già il minor valore della personalità filosofica di Rosenberg rispetto, per esempio, a Nietzsche, è l’elemento decisivo. Al contrario, proprio per il suo minor valore morale e intellettuale Rosenberg è diventato il teorico adatto del nazionalsocialismo. E nel caso che il suddetto ripiegamento su Nietzsche o Spengler desse di nuovo luogo a un’offensiva filosofica, il suo protagonista, per una storica necessità, dovrebbe rappresentare un livello filosofico ancora più basso di quello di Rosenberg: e ciò del tutto indipendentemente dalle sue capacità personali, dalla sua cultura ecc. Infatti il livello filosofico di un ideologo è in definitiva determinato dalla sua capacità di approfondire le questioni del suo tempo e di sollevarle alla massima altezza dell’astrazione filosofica, dalla misura in cui il punto di vista della classe sociale sul cui terreno egli poggia permette di andare – in tali questioni – fino in fondo e fino alle estreme conseguenze. (Non si dimentichi che il cogito di Descartes o il Deus sive natura di Spinoza furono alla loro epoca formulazioni e soluzioni estremamente attuali e ardite posizioni di parte). Il «geniale» arbitrio e la superficialità di Nietzsche nella loro inferiorità rispetto alla filosofia classica sono altrettanto condizionati dalla situazione sociale, come la sua superiorità rispetto alle molto più frivole e vane costruzioni di Spengler o addirittura alla vuota demagogia di Rosenberg. Quando si porta il giudizio dell’irrazionalismo moderno sul piano astrattamente isolato delle differenze di livello spirituale, si vuole evitare di considerare l’essenza e gli effetti politico-sociali delle sue conseguenze ultime. A parte il carattere politico di tutti i tentativi del genere, bisogna anche sottolineare energicamente la loro – del resto inseparabile – inutilità, proprio in senso filosofico. (In che modo ciò si sia concretamente verificato nel dopoguerra, sarà da noi trattato quando verremo alle conclusioni).
Questa constatazione è strettamente legata alla nostra seconda osservazione. Cercheremo di dimostrare in questo libro che in nessuna delle sue fasi lo sviluppo dell’irrazionalismo manifesta un carattere essenzialmente «immanente», come se da un certo modo di porre e di risolvere i problemi scaturissero altri problemi e altre soluzioni per impulso dell’interna dialettica del pensiero filosofico in movimento. Vogliamo al contrario mostrare che le diverse fasi dell’irrazionalismo sono nate come risposte reazionarie ai problemi della lotta di classe. Il contenuto, la forma, il metodo, il tono della sua reazione al progresso della società vengono quindi determinati non da una dialettica di tal genere ad esso intrinseca e peculiare, bensì invece dall’avversario, dalle condizioni di lotta che vengono imposte alla borghesia reazionaria. A ciò bisogna attenersi come a un principio fondamentale dello sviluppo dell’irrazionalismo.
Questo però non significa che l’irrazionalismo – entro la cornice sociale così determinata – non mostri un’unità ideale. Anzi, proprio da questo suo carattere deriva che i problemi di contenuto e di metodo da esso sollevati sono saldamente connessi e rivelano una sorprendente (e stretta) unità. La svalutazione dell’intelletto e della ragione, l’esaltazione acritica dell’intuizione, l’aristocratica gnoseologia, il ripudio del progresso storico-sociale, la creazione di miti ecc. sono motivi che ritroviamo praticamente in ogni pensatore irrazionalista. La reazione filosofica dei rappresentanti dei residui feudali e della borghesia al progresso sociale può, in determinate circostanze e da parte di singoli rappresentanti di quest’indirizzo particolarmente dotati, ricevere una forma brillante e ricca di spirito; ma il contenuto filosofico presente nell’intero sviluppo è estremamente monotono e insufficiente. E siccome, secondo quanto abbiamo mostrato, il campo intellettuale della polemica, la possibilità di accogliere nel sistema di pensiero almeno certi riflessi (per quanto deformati) della realtà, si restringe continuamente con necessità sociale, è inevitabile che si abbassi il livello filosofico mentre rimangono invariati determinati motivi decisivi di pensiero. L’attenersi a queste costanti determinazioni di pensiero rispecchia l’unità dei fondamenti sociali reazionari dell’irrazionalismo, per quanti cambiamenti qualitativi possano e debbano essere accertati anche nello svolgimento che va da Schelling fino a Hitler. Lo sfociare della filosofia irrazionalistica tedesca nell’hitlerismo è perciò una necessità solo in quanto le concrete lotte di classe – certo non senza l’aiuto di questo sviluppo ideologico – hanno prodotto questo risultato. Dal punto di vista dello sviluppo dell’irrazionalismo, i risultati di queste lotte di classe sono perciò dati di fatto invariabili, che vengono ad avere un corrispondente riflesso filosofico, ai quali l’irrazionalismo reagisce in un modo o nell’altro, ma comunque, considerati da questo punto di vista, dati di fatto invariabili. Con ciò naturalmente non si vuol dire che essi, sotto l’aspetto storico-obbiettivo, siano stati delle necessità fatali.
Se si vuol intendere rettamente lo sviluppo della filosofia irrazionalistica tedesca, è necessario tener fermi nella loro connessione i seguenti elementi: la dipendenza dello sviluppo dell’irrazionalismo dalle decisive lotte di classe in Germania e nel mondo intero, ciò che implica naturalmente il rifiuto di uno sviluppo «immanente»; il carattere unitario dei contenuti e dei metodi mentre si restringe continuamente il campo per un vero sviluppo filosofico, ciò che necessariamente favorisce il rafforzamento delle tendenze apologetiche e demagogiche; infine, come conseguenza, il necessario, continuo e rapido abbassarsi del livello filosofico. Solo così diventa comprensibile come si sia avuta con Hitler la volgarizzazione demagogica di tutti i motivi di pensiero della decisa reazione filosofica, il coronamento ideologico e politico dello sviluppo dell’irrazionalismo.
L’intento di elaborare in modo chiaro questi motivi e tendenze dello sviluppo dell’irrazionalismo in Germania, determina il modo di esposizione del nostro lavoro. Perciò non può trattarsi d’altro che di mettere nella giusta luce mediante un’analisi approfondita i punti essenziali; e non già di fare una storia particolareggiata dell’irrazionalismo o magari della filosofia reazionaria in generale con la pretesa di trattare o anche soltanto enumerare tutte le forme e le tendenze. Coscientemente si rinuncia quindi alla completezza. Quando, per esempio, si tratta dell’irrazionalismo romantico del principio del secolo XIX, le sue determinazioni più importanti vengono indicate nel principale rappresentante di quest’indirizzo, in Schelling; Friedrich Schlegel, Baader, Görres ecc. vengono appena o non vengono affatto menzionati; manca anche una trattazione di Schleiermacher, lo cui tendenze specifiche acquistano un ampio significato reazionario solo con Kierkegaard; manca l’irrazionalismo del secondo periodo di Fichte, che solo nella scuola di Rickert, e particolarmente in Lask, ebbe un’efficacia, del resto episodica per lo svolgimento generale. Mancano Weisse e Fichte junior, ecc. ecc. Così, nel periodo imperialistico, Husserl viene a trovarsi in secondo piano, giacché le tendenze irrazionalistiche, presenti fin da principio nel suo metodo filosofico, diventano realmente esplicite solo per opera di Scheler e particolarmente di Heidegger; così, accanto a Spengler, passano nello sfondo Leopold Ziegler e Keyserling; accanto a Klages, Theodor Lessing; e così pure, accanto a Heidegger, Jaspers ecc.
A questo si aggiunge che, siccome noi consideriamo l’irrazionalismo come la corrente principale della filosofia reazionaria dei secoli XIX e XX, importanti e influenti pensatori decisamente reazionari, in cui l’irrazionalismo non rappresenta il centro del loro mondo di pensiero, del pari non sono trattati. Ciò avviene per l’eclettico Eduard von Hartmann accanto al deciso irrazionalista Nietzsche; così, sempre in rapporto a Nietzsche, per il Lagarde, e inoltre, nell’epoca dell’immediata preparazione del fascismo tedesco, per Moeller van den Bruck ecc. ecc. Speriamo, limitando in tal modo l’argomento, di rendere più chiara la linea principale dello svolgimento. Gli storici futuri della filosofia tedesca, ci auguriamo, perfezioneranno e completeranno variamente la linea generale qui presentata della filosofia reazionaria in Germania.
L’intento che ci proponiamo e l’argomento fanno poi sì che la corrente che va da Schelling a Hitler non possa presentare nella nostra esposizione il carattere unitario che ha avuto nella realtà sociale. I capitoli II, III e IV cercano di mettere in chiaro questo sviluppo nel campo della filosofia irrazionalistica in senso stretto. Il programma sopra menzionato: la linea di sviluppo da Schelling a Hitler, trova qui la sua trattazione. Con questo però non si può ancora considerare assolto il nostro compito. In primo luogo siamo tenuti anche a mostrare, almeno in un esempio importante, come l’irrazionalismo, in quanto principale tendenza reazionaria dell’epoca, abbia potuto assoggettare l’intera filosofia borghese. Ciò viene diffusamente esposto nel capitolo V a proposito del neohegelidmo imperialistico; ai precursori più importanti si accenna solo brevemente. In secondo luogo, il capitolo VI presenta lo stesso sviluppo, che è già stato analizzato filosoficamente, nel campo della sociologia tedesca. Crediamo che la chiarezza e la perspicuità del nesso complessivo abbiano soltanto da guadagnare se un elemento così importante viene trattato a parte e non già disperso e risolto nella filosofia. Finalmente, in terzo luogo, nel capitolo VII, sono presentati parimentia parte i precursori storici della teoria razzista. L’importanza centrale che un mediocre eclettico come H. St. Chamberlain acquistò nel fascismo tedesco può essere posta solo così nella giusta luce: fu lui ad operare la «sintesi» dell’irrazionalismo filosofico del periodo Imperialistico, e cioè della filosofia della vita, con la teoria razzista n cui risultati del darwinismo sociale. Diventò così il precursore immediato di Hitler e di Rosenberg, il «classico» del nazionalsocialismo. È chiaro che la trattazione riassuntiva dell’età hitleriana può acquistare il suo vero valore proprio in questo nesso, dove naturalmente debbono essere sempre tenuti presenti i risultati del IV e del VI capitolo. Come è ovvio, questo sistema di esposizione presenta qualche inconveniente; Simmel, per esempio, è un importante sociologo e tuttavia viene analizzato essenzialmente allorché si tratta della «filosofia della vita» dell’imperialismo; fra Rickert e Max Weber, fra Dilthey e Freyer, fra Heidegger e C. Schmitt ecc. sussistono intimi nessi: essi tuttavia debbono essere per forza trattati separatamente. Questi sono inconvenienti inevitabili, a cui si deve accennare fin d’ora. Speriamo però che la chiarezza della linea principale compensi gli elementi negativi.
La nostra opera non può quasi fondarsi su lavori storici precedenti. Una storia marxista della filosofia non esiste ancora, e le esposizioni borghesi sono del tutto inutilizzabili dal punto di vista della nostra problematica. Questo naturalmente non è un caso. Gli storici borghesi della filosofia tedesca ignorano o sminuiscono la parte sostenuta da Marx e dal marxismo. Essi non sono quindi in grado, né di fronte alla grande crisi della filosofia tedesca degli anni ’30 e ’40, né di fronte alla successiva fase di decadenza, di prendere giustamente posizione, anche solo in modo approssimativo, anche solo in rapporto ai dati di fatto. Secondo gli hegeliani la filosofia tedesca si è conclusa con Hegel; secondo i neokantiani ha raggiunto il punto culminante in Kant, e la confusione creata dai suoi successori poteva essere ricondotta all’ordine solo mediante il ritorno a lui. Eduard von Hartmann cerca di effettuare una «sintesi» fra Hegel e l’irrazionalismo (dell’ultimo Schelling e di Schopenhauer) ecc. In ogni caso, per gli storici borghesi, la crisi decisiva della filosofia tedesca, la dissoluzione dell’hegelismo, è estranea alla storia della filosofia. Gli storici della filosofia del periodo imperialistico, essenzialmente sulla base di un’accettazione dell’irrazionalismo, creano da un lato un’armonia fra Hegel e il romanticismo, dall’altro lato un’armonia fra Kant e Hegel; per cui tutte le importanti lotte di tendenza sono in teoria eliminate e viene tracciata un’unica linea di sviluppo senza problemi e senza contraddizioni che conduce all’irrazionalismo – senz’altro accettato – del periodo imperialistico. L’unico storico marxista, Franz Mehring, molto benemerito in altri campi, da un lato conosce troppo poco la filosofia classica tedesca, ad eccezione di Kant, dall’altro non coglie abbastanza i caratteri specifici del periodo imperialistico per poter servir da guida nelle nostre questioni.
L’unico libro recente in cui venga almeno compiuto lo sforzo di approfondire i problemi dello sviluppo filosofico in Germania è l’opera – ricca di cognizioni – di K. Löwith: Da Hegel a Nietzsche. Ivi vien compiuto per la prima volta, nella storiografia filosofica borghese tedesca, il tentativo di inserire organicamente nello svolgimento la dissoluzione dell’hegelismo e la filosofia del giovane Marx. Ma già dal fatto che Löwith fa culminare questo svolgimento in Nietzsche, e certo non nel senso di smascherarne le tendenze, appare chiaramente che egli non vede i problemi reali del periodo trattato e quando si imbatte in essi li pone decisamente alla rovescia. Poiché egli scorge la direzione principale semplicemente in un allontanamento da Hegel, i suoi critici di destra e di sinistra, e, in particolare, Kierkegaard e Marx, vengono a trovarsi per lui sullo stesso piano: il loro contrasto in tutte le questioni appare come semplice diversità di temi in un indirizzo fondamentale essenzialmente uniforme. Si comprende facilmente come con un orientamento di questo genere Löwith veda fra gli hegeliani del periodo della dissoluzione (Ruge, Bauer), Feuerbach e Marx solo diversità di sfumature in una tendenza unica, non già opposizioni qualitative. Siccome il suo libro occupa una posizione quasi unica nella recente storiografia filosofica borghese per quanto riguarda la conoscenza della materia, ne riportiamo un passo abbastanza lungo, di decisiva importanza, affinché il lettore stesso possa giudicare come questo metodo conduca alla parificazione di Marx e Kierkegaard, e quindi a conseguenze simili a quelle che sono state tratte da alcuni prefascisti di «sinistra» (per esempio da H. Fischer in: Marx und Nietzsche als Entdecker und Kritiker der Dekadenz [M. e N. come scopritori e critici della decadenza]). Dice Löwith:
Poco prima della rivoluzione del 1848, Marx e Kierkegaard espressero la loro volontà di una nuova decisione, e le loro parole conservano valore anche oggi: Marx lo fece nel Manifesto dei comunisti (1847) e Kierkegaard in un Proclama letterario (1846). Il Manifesto si chiude con l’incitamento: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!»; il Proclama, con l’esortazione a ciascuno di adoprarsi per la propria salvezza, mentre la profezia sull’avvenire del mondo è sopportabile tutt’al più come uno scherzo. Ma, considerato storicamente, questo contrasto caratterizza due aspetti di una comune distruzione del mondo borghese-cristiano. Per la rivoluzione contro il mondo borghese-capitalistico, Marx si è appoggiato sulla massa del proletariato; mentre Kierkegaard, nella sua lotta contro il mondo borghese-cristiano, ha riposto ogni sua speranza nell’individuo. Con ciò si accorda il fatto che per Marx la società borghese è una società di «individui isolati», in cui l’uomo è estraneo al suo «essere generico», e che per Kierkegaard la cristianità si riduce a un cristianesimo volgarizzato per la folla, in cui nessuno si presenta come successore di Cristo. Poiché però Hegel ha mediato nell’essenza questi contrasti esistenti, cioè la società borghese con lo Stato e lo Stato con il cristianesimo, le prese di posizione sia di Marx quanto di Kierkegaard tendono a mettere in rilievo la distinzione e il contrasto insiti in quelle mediazioni. Marx si volge contro l’estraniarsi da sé che il capitalismo rappresenta per l’uomo; Kierkegaard contro l’estraniarsi da sé che la cristianità rappresenta per il cristiano1.
Anche questa dunque è una notte in cui tutte le vacche sono nere. La storiografia marxista non può certo servirsi di siffatti lavori preliminari per venir a capo di quest’argomento.
Infine bisogna porre ancora la questione perché, tranne poche interpolazioni, come Kierkegaard e Gobineau, la nostra esposizione si sia limitata all’irrazionalismo tedesco. Cercheremo di tratteggiare nel primo capitolo le particolari condizioni che hanno fatto della Germania un terreno singolarmente adatto per l’irrazionalismo. Ma ciò non cambia nulla al fatto che l’irrazionalismo è un fenomeno internazionale, tanto nella sua lotta contro il concetto borghese di progresso quanto nella lotta contro quello del socialismo. Non vi è dubbio che in entrambi i periodi sono sorti nei diversi paesi importanti rappresentanti della reazione sociale e politica. Così, durante la Rivoluzione francese, in Inghilterra si ebbe Burke, come più tardi in Francia ci furono De Bonald, De Maistre e altri. Certo costoro combattono l’ideologia della Rivoluzione francese senza elaborare a tal fine un nuovo specifico metodo filosofico, come è avvenuto in Germania. Non mancano, in verità, anche tentativi del genere; si pensi, per esempio, a Maine de Biran. Ma è indubitabile che anche questi fu ben lontano dal produrre durevoli effetti internazionali come Schelling o Schopenhauer e dall’elaborare in modo così netto e definito i principi del nuovo irrazionalismo. Ciò è a sua volta in rapporto col fatto che Maine de Biran, in contrasto col deciso reazionarismo dei romantici tedeschi, fu un ideologo del juste milieu. La fioritura dell’irrazionalismo nel periodo imperialistico fa apparire con particolare evidenza la funzione di guida della Germania in questo campo. Naturalmente si allude qui in primo luogo a Nietzsche, che, per il contenuto e per il metodo, diventò il modello della reazione irrazionalistica dagli USA fino alla Russia zarista, e il cui influsso non potè né può esser paragonato nemmeno lontanamente a quello di nessun altro teorico della reazione. Anche in seguito, Spengler rimane un modello internazionale per le concezioni irrazionalistiche nella filosofia della storia fino a Toynbee; Heidegger è il modello per l’esistenzialismo francese, esercita già da tempo un’azione decisiva suOrtega y Gasset, influisce in modo profondo e pericoloso sul pensiero borghese in America ecc.
Le cause determinanti di questa diversità potrebbero naturalmente essere stabilite soltanto sulla base della storia concreta dei singoli paesi. Solo una considerazione storica di questo genere metterebbe in chiaro le tendenze che ricevettero in Germania la loro forma «classica», spinta fino alle estreme conseguenze, mentre in altri paesi rimasero a mezza strada. Vi è naturalmente il caso Mussolini con le sue fonti filosofiche: James, Pareto, Sorel e Bergson; ma anche qui l’azione internazionale non è certo così forte, in estensione e in profondità, come già nel periodo preparatorio del fascismo tedesco e tanto più sotto Hitler. Così possiamo osservare ovunque la comparsa di tutti i motivi dell’irrazionalismo; in questo senso esso è realmente un fenomeno internazionale, specie nel periodo imperialistico. Ma solo in casi estremamente rari, isolati ed episodici, accade che se ne traggano tutte le conseguenze, e che l’irrazionalismo diventi un indirizzo universalmente dominante come in Germania; in questo senso sussiste l’egemonia dell’evoluzione tedesca. (Della situazione attuale parleremo nella conclusione).
Questa tendenza può essere osservata già anteriormente alla prima guerra mondiale. Come in Germania, in quasi tutti i paesi che occupano posizioni preminenti nel periodo imperialistico l’irrazionalismo raggiunge forme altamente sviluppate. Ciò avviene col pragmatismo nei paesi anglosassoni; con Boutroux, Bergson ecc. in Francia; con Croce in Italia. Queste forme, pur nella loro affinità quanto ai fondamenti ultimi del pensiero, presentano una diversità estremamente varia, che è determinata in ciascun paese principalmente dal carattere, dall’intensità e dall’asprezza della lotta di classe, e poi anche dalla tradizione filosofica ricevuta e dalle posizioni di pensiero con cui direttamente si polemizza. Nella nostra minuta analisi delle singole tappe dello sviluppo filosofico in Germania, esse sono dedotte, come già si è fatto presente, dalle concrete circostanze storiche. Se non si scoprono questi reali fondamenti storico-sociali, non è possibile alcuna analisi scientifica. Questo vale naturalmente anche per le considerazioni seguenti, che non hanno perciò mai la pretesa di essere anche soltanto lo schizzo di una trattazione scientifica di dottrine filosofiche o di indirizzi. Esse semplicemente interpretano alcuni tratti generalissimi come sorti dalla comune natura dell’economia imperialistica, sia pure nel diverso grado di sviluppo dei singoli paesi, nell’ineguale sviluppo dell’imperialismo, che, nonostante questa comune natura dei fondamenti, provoca al tempo stesso diversità concrete.
Qui naturalmente possiamo illustrare questa nostra concezione solo in alcuni esempi rapidamente abbozzati. I bisogni ideologici affini, determinati come tali dall’economia imperialistica, provocano, in circostanze sociali concretamente diverse, varietà molto diverse d’irrazionalismo, che anzi, considerate superficialmente, possono sembrare opposte. Si pensi ad esempio a Croce rispetto a W. James e al pragmatismo. Entrambi, per quanto concerne i predecessori filosofici immediati, sono in lotta contro determinate tradizioni hegeliane. Il fatto che ciò sia possibile nell’età dell’imperialismo rispecchia una differenza fra lo sviluppo filosofico della Germania e quello degli altri paesi occidentali. Per la Germania la rivoluzione del 1848 porta a compimento la dissoluzione dell’hegelismo; l’irrazionalista Schopenhauer diventa il filosofo-guida della Germania post-rivoluzionaria, del periodo che prepara la fondazione dell’impero per opera di Bismarck. Invece, nei paesi anglosassoni e in Italia, la filosofia hegeliana sostiene anche in questo periodo una parte molto importante, anzi accresce perfino la sua influenza. Ciò dipende dal fatto che ivi il concetto borghese di progresso non si è ancora venuto a trovare in aperta crisi come in Germania; la crisi vi rimane ancora latente e nascosta; il concetto di progresso, conforme ai risultati del 1848, è semplicemente attenuato e annacquato in senso liberale. Dal punto di vista filosofico, ne deriva che la dialettica hegeliana perde completamente il suo carattere di «algebra della rivoluzione» (Herzen), che Hegel viene sempre più avvicinato a Kant e al kantismo. Un hegelismo di questa fatta può essere quindi, specialmente nei paesi anglosassoni, un fenomeno parallelo alla sociologia avanzante, che predica del pari un evoluzionismo liberale, come anzitutto quella di Herbert Spencer. Osserviamo qui soltanto di passaggio che nei residui dell’hegelismo tedesco ha luogo un processo analogo di ritorno a Kant, solo che esso, nel generale regresso di tutto l’indirizzo, non sostiene una parte importante come in Occidente. Basta accennare all’evoluzioone di Rosenkranz e di Vischer; quest’ultimo svolge una funzione di pioniere nei confronti della filosofia dell’imperialismo in quanto il suo volgersi a Kant include già l’interpretazione irrazionalistica del medesimo.
Croce non è affatto immediatamente sotto l’influsso di Vischer, ma i suoi rapporti con Hegel (e con Vico, da lui «scoperto» e fatto conoscere) procedono su di una linea analoga tendente all’irrazionalismo. Egli è quindi molto vicino al tardo hegelismo tedesco del periodo imperialistico, solo con l’importante differenza che questo concepisce la filosofia hegeliana che pretende di rinnovare come un’ideologia comune destinata a unificare tutta la reazione (compreso il nazionalsocialismo), mentre Croce resta fermo ad un liberalismo, certo molto reazionario, del periodo imperialistico, e rifiuta filosoficamente il fascismo. (L’altro principale hegeliano italiano, Gentile, diventa peraltro, ad un certo momento, il teorico del «periodo di consolidamento» del fascismo). Quando Croce distingue «ciò che è vivo» e «ciò che è morto» in Hegel, intende con quello un moderato irrazionalismo liberale, con questo la dialettica e l’obbiettività. Entrambe le tendenze hanno come intento principale la lotta contro il marxismo. In questa è di decisiva importanza, dal punto di vista filosofico, la radicale soggettivizzazione della storia, la radicale eliminazione delle leggi storiche. «Una legge storica, un concetto storico – dice Croce – sono una vera contradictio in adiecto». In un altro punto afferma che la storia è sempre storia contemporanea. Qui non solo va notata la stretta affinità con l’indirizzo tedesco di Windelband e di Rickert, con l’incipiente irrazionalizzazione della storia, ma anche la maniera in cui Croce dissolve un problema dialettico reale, costituito dal fatto che la conoscenza del presente (del più alto grado raggiunto in un processo di sviluppo) offre la chiave per la conoscenza dei meno evoluti gradi del passato, in un soggettivismo irrazionalistico. La storia diventa arte, e, naturalmente arte nel senso di Croce, in cui una perfezione concepita in senso puramente formalistico si unisce all’intuizione, unico preteso organo della produttività e della ricettività adeguata. La ragione è esclusa da tutti i campi dell’attività sociale dell’uomo, ad eccezione di un campo – subordinato nel sistema – della prassi economica, e di un campo, del pari subordinato nell’ambito del sistema, e concepito come indipendente dalla realtà vera e propria, riservato alla logica e alle scienze della natura. (Anche qui è visibile il parallelismo con Windelband e Rickert). In una parola: Croce crea un «sistema» d’irrazionalismo per l’uso borghese e decadente del parassitismo dell’età imperialistica. Per la reazione estremista questo irrazionalismo non è più sufficiente già anteriormente alla prima guerra mondiale: si pensi all’opposizione di destra contro Croce da parte di Papini ecc. Ma è degno di nota come, a differenza di ciò che avviene in Germania, questo irrazionalismo liberal-reazionario di Croce abbia potuto mantenersi ancora oggi come una delle principali ideologie d’Italia.
Per la sua essenza filosofica il pragmatismo, di cui esamineremo qui brevemente soltanto il maggiore rappresentante, W. James, è di gran lunga più radicale in senso irrazionalistico, senza per questo andare molto al di là di Croce nelle conclusioni. Ma il pubblico a cui James deve offrire un succedaneo irrazionalistico della filosofia è completamente diverso. Certo, se si considera l’ambiente filosofico, i predecessori diretti a cui James si ricollega in maniera polemica, la situazione sembra mostrare certe somiglianze. In entrambi i casi, infatti, si tratta di cosiddetti hegeliani, che in realtà sono degli idealisti soggettivi palesi o camuffati, dei kantiani. L’atteggiamento di fronte a questi predecessori è però nei due pensatori del tutto opposto. Mentre Croce pretende di continuare le tradizioni hegeliane (e vichiane) dell’Italia, convertendole di fatto in un irrazionalismo, James invece si trova in lotta aperta con queste tradizioni dei paesi anglosassoni.
Questa polemica aperta denota un’affinità profonda con lo svolgimento europeo. Come Mach e Avenarius volgono i loro attacchi principali contro il vecchio idealismo mentre in realtà combattono con vera decisione soltanto il materialismo filosofico, così fa anche James. Egli è vicino ad essi anche per il fatto che questa unione della lotta reale contro il materialismo e dei finti attacchi contro l’idealismo assume un atteggiamento come se questa «nuova» filosofia s’innalzasse finalmente al di sopra della falsa opposizione di materialismo e idealismo, come se con essa fosse stata scoperta una terza via nella filosofia. Questa affinità riguarda tutte le questioni essenziali della filosofia, e deve quindi costituire la base della valutazione del pragmatismo. Ma le differenze, proprio dal nostro punto di vista, sono almeno altrettanto importanti. Anzitutto perché l’irrazionalismo che nella dottrina di Mach è contenuto in modo implicito e si afferma nettamente solo poco per volta, in James appare già in modo esplicito e pienamente dispiegato. Ciò si esprime già nel fatto che Mach ed Avenarius cercano anzitutto una motivazione gnoseologica delle scienze esatte della natura e vogliono far credere di essere perfettamente neutrali nelle questioni relative alla visione della vita; James invece esordisce proprio con la pretesa di saper risolvere immediatamente, con l’aiuto della sua nuova filosofia, le questioni relative alla visione della vita. Egli si rivolge subito, non già a cerchie relativamente ristrette di dotti, ma cerca di appagare i bisogni ideologici della vita quotidiana, dell’uomo medio. Apparentemente è solo una differenza terminologica se i seguaci di Mach pongono l’«economia del pensiero» come criterio gnoseologico della verità, mentre James pone come equivalenti verità e utilità (per un individuo qualsiasi). Da un lato James estende a tutta la vita la validità della teoria gnoseologica di Mach e le conferisce un deciso accento di filosofia della vita, d’altro lato le dà un significato più generale che va oltre la tecnica dell’«economia di pensiero».
Anche qui è chiaramente visibile l’atteggiamento fondamentale dell’irrazionalismo di fronte alla dialettica. Una tesi fondamentale del materialismo dialettico è che la prassi rappresenta il criterio della verità teoretica. L’esattezza o l’inesattezza del rispecchiamento teoretico della realtà oggettiva esistente indipendentemente dalla nostra coscienza, o meglio il grado della nostra approssimazione ad essa, si dimostra solo nella prassi, mediante la prassi. James, che vede chiaramente i limiti, l’inettitudine dell’idealismo metafisico, che accenna più volte a questi limiti (osservando per esempio che l’idealismo concepisce il mondo come «perfetto e compiuto dall’eternità», mentre il pragmatismo cerca di coglierlo nel divenire), elimina tanto dalla teoria che dalla prassi ogni rapporto con la realtà oggettiva, convertendo così la dialettica in un irrazionalismo soggettivo. James lo ammette anche apertamente, cercando di appagare così i bisogni ideologici del man in the street americano. Nella vita d’affari quotidiana si è costretti, pena il fallimento, a osservare bene la realtà (senza curarsi del fatto che la sua verità oggettiva, la sua indipendenza dalla coscienza è negata dal punto di vista gnoseologico), in tutti gli altri campi domina invece illimitato l’arbitrio irrazionalistico. Dice James: «Il mondo pratico degli affari è a sua volta in gran parte razionale agli occhi del politico, del militare, dell’uomo dominato dallo spirito degli affari… ma è irrazionale per il temperamento morale e artistico».
Appare qui con chiarezza un’importante funzione dell’irrazionalismo: uno dei suoi compiti sociali più importanti per la borghesia reazionaria è propriamente quello di offrire agli uomini un confort sul terreno della visione della vita, l’illusione di una perfetta libertà, l’illusione dell’indipendenza personale, della superiorità morale e intellettuale, mentre il loro comportamento li ricollega continuamente, nelle loro azioni reali, alla borghesia reazionaria, e li mette incondizionatamente al suo servizio. In successive analisi dettagliate potremo vedere come questo confort stia alla base anche del più «sublime» ascetismo della filosofia irrazionalistica, come, per esempio, in Schopenhauer o in Kierkegaard. James esprime questo pensiero con l’ingenuo cinismo dell’uomo d’affari americano vittorioso e cosciente di sé; egli soddisfa i bisogni ideologici del tipo Babbitt. Anche questi, come Sinclair Lewis mostra egregiamente, vuole vedere assicurato il suo diritto a un’intuizione eminentemente personale, anche lui esperimenta nella pratica che verità e utilità sono concetti equivalenti nella condotta di vita di un vero americano. La consapevolezza e il cinismo diJames si trovano naturalmente ad un livello di pensiero un po’ più alto di quello del Babbitt di Sinclair Lewis. James, per esempio, rifiuta l’idealismo, ma non dimentica di mostrare verso di esso una pragmatistica reverenza in quanto esso è utile alla vita di tutti i giorni e aumenta il confort filosofico. Dice James dell’assoluto dell’idealismo: «Garantisce vacanze morali. È ciò che fa anche ogni intuizione religiosa». Questo confort sarebbe però intellettualmente poco efficace se non contenesse un netto rifiuto del materialismo, una pretesa confutazione della visione della vita scientificamente fondata. James si adatta cinicamente a questo compito. Coerente al pragmatismo, non adduce un solo argomento obbiettivo contro il materialismo; fa notare soltanto che esso come principio d’interpretazione dell’universo non è affatto «più utile» della fede in Dio. «Se noi – egli dichiara – chiamiamo la causa del mondo materia, non togliamo ad esso alcuna delle sue parti costitutive, e non accresciamo la sua ricchezza se chiamiamo la sua causa Dio… Dio, se esiste, ha fatto tanto quanto possono fare gli atomi ed è benemerito quanto gli atomi e non di più». In tal modo Babbitt può credere tranquillamente in Dio, nel Dio di qualsiasi religione o setta senza urtare contro le esigenze che la scienza presenta a un up to date gentleman.
In James il concetto di creazione di miti non appare mai con quella chiarezza di contenuto che si trova, per esempio, in Nietzsche, che nella gnoseologia e nella sua etica presenta molti tratti pragmatistici; ma egli fornisce una giustificazione gnoseologica e perfino un imperativo morale affinché ogni Babbitt, in tutti i campi della vita, orci o accolga per suo uso personale quei miti che gli sembrano propriamente utili; il pragmatismo gli dà a tal fine la necessaria buona coscienza intellettuale. Esso quindi, proprio nella sua vuotezza e superficialità, era il magazzino di visioni della vita che occorreva all’America d’anteguerra con le sue prospettive d’illimitata prosperità e sicurezza.
È facile capire che, nella misura in cui il pragmatismo divenne operante in altri paesi, in condizioni di una più aspra e più evoluta lotta di classe, i suoi elementi puramente impliciti abbiano dovuto diventare rapidamente espliciti. Ciò si verifica in modo quanto mai chiaro in Bergson. Con ciò naturalmente non si vuole affatto sostenere un influsso diretto del pragmatismo su Bergson; si tratta invece anche qui di tendenze parallele; e questo parallelismo viene sottolineato, anche sotto l’aspetto soggettivo, dalla reciproca stima di James e di Bergson. Gli elementi comuni ad entrambi sono il ripudio della realtà oggettiva e della sua conoscibilità razionale, la riduzione della conoscenza a semplice utilità tecnica, l’appello a un’apprensione intuitiva della vera realtà dichiarata essenzialmente irrazionale. Tuttavia, in queste fondamentali tendenze comuni, appaiono non trascurabili differenze di accento e di proporzioni, le cui cause vanno ricercate nella diversità d’ambiente sociale in cui quelle hanno agito, e conformemente nella diversità delle tradizioni di pensiero a cui si ricollegano accogliendole o avversandole. Bergson, da un lato, svolge il moderno agnosticismo in modo molto più ardito e più deciso di James risolvendolo in una dichiarata produzione di miti; d’altro lato, almeno nel periodo della decisiva influenza internazionale, la sua filosofia è diretta molto di più alla critica delle concezioni delle scienze della natura, alla distruzione del loro diritto di esprimere verità obbiettive, alla sostituzione filosofica delle scienze della natura con miti biologici, che non ai problemi della vita sociale. Solo molto tardi esce il suo libro sull’etica e sulla religione, che fu ben lungi dall’avere una risonanza così vasta come i precedenti miti biologici. L’intuizione bergsoniana si volge verso l’esterno in quanto tendenza a distruggere l’obbiettività e la verità della conoscenza scientifica; si volge verso l’interno in quanto introspezione dell’individuo parassitario dell’età imperialistica, isolato e staccato dalla vita sociale. (Non è un semplice caso che le maggiori conseguenze della dottrina bergsoniana si manifestino in Proust).
Qui è tangibile il contrasto non solo con James, ma specialmente coi contemporanei e ammiratori di Bergson in Germania. L’«intuizione geniale» di Dilthey, l’intuizione di Simmel e di Gundolf, la «contemplazione delle essenze» diScheler ecc., sono orientate fin da principio in senso sociale, per non parlare di Nietzsche e di Spengler; l’allontanamento dalla razionalità e dall’obbiettività appare qui subito e direttamente una decisa presa di posizione contro il progresso sociale. Ciò avviene in Bergson solo in modo indiretto, e per quanto fortemente la sua ultima opera etico-religiosa sia orientata in senso reazionario e mistico, essa resta di gran lunga indietro, su questa via, all’irrazionalismo tedesco del tempo in cui è apparsa. Questo non significa naturalmente che l’influenza di Bergson non operi in questa direzione anche in Francia: diremo subito qualcosa di più particolareggiato a proposito di Sorel. Ma anche altrove, dall’adesione di Péguy alla reazione cattolica fino agli inizi dell’attuale agente ideologico di De Gaulle, R. Aron, questa azione è ovunque riconoscibile.
L’attacco principale di Bergson è tuttavia rivolto contro l’obbiettività e la scientificità della conoscenza data dalle scienze della natura. L’astratta e brusca contrapposizione della razionalità e dell’intuizione irrazionalistica raggiunge in lui – sul terreno gnoseologico – il suo punto culminante nell’imperialismo prebellico. Ciò che in Mach era una questione puramente gnoseologica, ciò che in James dava luogo a una generale fondazione di miti individuali e soggettivi, si manifesta in Bergson come organica visione mitico-irrazionale dell’universo, che al quadro dato dalle scienze della natura, di cui Bergson respinge la pretesa di conoscere obbiettivamente la realtà non meno recisamente di quanto avevano fatto Mach o James e a cui riconosce, alla stessa guisa di costoro, solo un’utilità tecnica, contrappone un quadro metafisico ricco di colore e di movimento: all’inerte, morto, rigido mondo spaziale, un mondo del movimento, della vita, del tempo, della durata. Ciò che in Mach era semplicemente un appello agnostico all’immediatezza soggettiva della percezione dà luogo in Bergson a una visione dell’universo fondata sull’intuizione radicalmente irrazionalistica.
Anche qui si riconosce facilmente il carattere fondamentale dell’irrazionalismo moderno. Al fallimento della mentalità metafisico-meccanicistica di fronte alla dialettica del reale, alla causa della crisi generale delle scienze della natura nel periodo imperialistico, Bergson non contrappone la conoscenza del movimento dialettico reale e delle sue leggi; ciò può esser fatto soltanto dal materialismo dialettico. Al contrario, l’opera di Bergson consiste nell’escogitare una immagine dell’universo che dietro la seducente apparenza di una viva mobilità restaura proprio la statica conservatrice e reazionaria. Per illustrare questa situazione consideriamo un problema-chiave: Bergson combatte il meccanicistico e morto evoluzionismo di Spencer, ma insieme nega l’ereditarietà dei caratteri acquisiti in biologia. Così, proprio nella questione in cui era diventata necessaria e possibile una revisione in senso dialettico della dottrina darwiniana (Mičurin e i mičuriniani hanno sviluppato questo problema sulla base del materialismo dialettico), Bergson prende posizione contro il vero evoluzionismo. La sua filosofia pertanto s’inserisce anzitutto in quel movimento internazionale volto a distruggere l’obbiettività delle scienze della natura, che, iniziato da Mach e da Avenarius, ebbe nel periodo imperialistico rappresentanti molto importanti anche in Francia; basta ricordare Poincaré e Duhem.
Il significato filosofico di queste tendenze è particolarmente notevole in Francia, dove le tradizioni dell’illuminismo (e con esse quelle del materialismo e dell’ateismo) sono molto più profondamente radicate che in Germania. Ma come già si è mostrato, Bergson, nella creazione di miti decisamente irrazionalistici, va molto al di là di questo indirizzo; egli rivolge i suoi attacchi da un punto di vista filosofico contro l’obbiettività e la razionalità, contro il predominio della ragione (che è del pari un’antica tradizione francese) e si batte per una visione irrazionalistica dell’universo. Egli offre così ai critici di destra, ai critici di parte reazionaria della vita capitalistica, operanti già da decenni, una base filosofica e l’illusione di un accordo dei risultati più recenti delle scienze della natura. Mentre la maggior parte dei teorici reazionari che si erano avuti fino allora in Francia conducevano per lo più i loro attacchi in nome della monarchia e dell’ultramontanismo, limitando così la loro efficacia a quegli ambienti che erano già decisamente reazionari, la filosofia bergsoniana ai rivolge anche a quella intellettualità che era insoddisfatta dell’evoluzione capitalisticamente corrotta della Terza Repubblica, e che cominciava a cercare la propria strada anche verso sinistra nella direzione del socialismo. Come ogni notevole filosofo della vita di stampo irrazionalistico, Bergson «approfondisce» questo problema giungendo alla conclusione che si tratta di un’universale opposizione filosofica del morto e del vivente, mentre questi ambienti, senza bisogno di esplicite indicazioni da parte di Bergson, capirono facilmente che con il concetto di morto si doveva intendere la democrazia capitalistica e che la loro opposizione contro di questa trovava una tinse filosofica in Bergson. (Cercheremo di illustrare, a proposito di Sorcel come ciò si attui concretamente).
Sotto questo aspetto Bergson esercita in Francia, all’epoca della crisi, verso la fine del secolo XIX e il principio del XX (affare Dreyfus ecc.), un’influenza simile a quella avuta in Germania da Nietzsche all’epoca dell’abolizione delle leggi contro il socialismo. La differenza sta ancora in questo, che la nietzschiana filosofia irrazionalistica della vita fu un chiaro appello all’attività imperialistica antidemocratica e antisocialista, mentre questi intenti non furono apertamente espressi in Bergson, ma proclamati solo in forma generale e filosofica e perfino velati di neutralismo. Questa apparente neutralità di Bergson non solo è fatta per confondere e trarre in errore un’intellettualità che attraversa una crisi ideologica, ma la confonde e trae in errore proprio in senso reazionario. (Questa azione di Bergson può essere studiata particolarmente bene nello sviluppo di Péguy). Il resistente comunista G. Politzer, assassinato dai fascisti di Hitler, caratterizza molto bene la natura reazionaria dell’astrattezza bergsoniana osservando:
Fondersi con la vita universale, vibrare con la vita universale, significa rimanere freddi e indifferenti nei riguardi della vita: le genuine emozioni sono sommerse nel tutto della sensibilità universale. Un pogrom si svolge nella durata come una rivoluzione: mentre si cerca di cogliere i momenti della durata nel loro colorito individuale, mentre si ammira la dinamica della confusione dei suoi momenti, si dimentica precisamente che da una parte si ha a che fare con un pogrom e dall’altra con una rivoluzione.
Qui si vede chiaramente che cosa unisce il più notevole rappresentante dell’irrazionalismo dell’Europa occidentale con la figura centrale di questo indirizzo in Germania, cioè con Nietzsche, e al tempo stesso quanto il primo rimane necessariamente indietro rispetto al secondo – in conseguenza della diversità di sviluppo dei due paesi – per concretezza e decisione nella costruzione della visione reazionaria e irrazionalistica del mondo.
Questa differenza appare anche in rapporto alle tradizioni filosofiche. Mentre in Germania già lo Schelling dell’ultimo periodo rivolge i suoi attacchi contro il razionalismo creato da Descartes, attacchi che in seguito, come vedremo a suo luogo, raggiunsero ai tempi di Hitler la forma estrema del ripudio di tutte le filosofie progressive borghesi e dell’esaltazione di tutte le tendenze reazionarie, Bergson e il bergsonismo si mantengono sulla linea di una nuova interpretazione, per lo più non polemica, dei filosofi del progresso. È vero che Bergson critica i positivisti e anche Kant, è vero che si ricollega a certi mistici francesi come Madame Guyon, ma per lui e per i suoi seguaci non si può parlare di ripudio delle grandi tradizioni francesi. Ciò non accade neppure nel corso dell’evoluzione successiva: J. Wahl, che è molto vicino all’esistenzialismo, cerca ancora di salvare l’interno rapporto di Bergson con Descartes in quanto stabilisce un parallelo bergsoniano al cogito: Je dure donc je suis. Si tratta qui di un esatto parallelo a quei tedeschi che cercano d’interpretare come irrazionalisti i filosofi del passato, come Simmel per Kant e Dilthey per Hegel. Questo limite non è stato superato in Francia neppure dagli esistenzialisti; anche costoro mettono in evidenza la loro «ortodossia» cartesiana.
L’aver determinato fino a che punto Bergson proceda nell’attuazione dell’irrazionalismo non vuol dire certo che in Francia non si sia avuta una reazione ideologica militante. Tutto il periodo imperialistico ne è pieno (si pensi a Bourget, a Barrès, a Maurras ecc.). Senonché ivi l’irrazionalismo filosofico è ben lungi dall’avere il netto predominio che acquista in Germania. Nella sociologia, invece, l’attacco apertamente reazionario è ancora più aspro che nei paesi tedeschi. Il ritardato sviluppo capitalistico della Germania, il compiersi dell’unità germanica nella forma bismarckiana voluta dai reazionari e dai Junker, hanno addirittura come conseguenza che la sociologia, come scienza tipica del periodo apologetico della borghesia, si può affermare soltanto con difficoltà, dopo aver vinto gli ostacoli frapposti dall’ideologia dei residui feudali. Mostreremo a suo luogo come la sociologia tedesca, nella sua critica della democrazia, abbia variamente elaborato i risultati dell’Occidente adattandoli alle finalità specificamente tedesche.
Naturalmente non possiamo trattare qui neppure in modo sommario la sociologia occidentale. Essa perfeziona ciò che i fondatori di questa nuova scienza borghese avevano inventato: la rigorosa separazione dei fenomeni sociali dalla loro base economica, il rinvio dei problemi economici a un’altra scienza del tutto distinta dalla sociologia. Già con ciò si raggiunge un fine apologetico. Privare la sociologia della sua base economica significa privarla anche della sua base storica: le determinazioni della società capitalistica, presentate in modo confuso e apologetico, possono essere ormai considerate categorie eterne della socialità in generale. E che siffatta metodologia persegua lo scopo di dimostrare direttamente o indirettamente l’impossibilità del socialismo e di ogni rivoluzione, non ha del pari bisogno di commento. Degli innumerevoli temi della sociologia occidentale ne mettiamo qui in evidenza due particolarmente importanti per l’evoluzione filosofica. Nasce dunque una scienza particolare, la «psicologia delle masse». Il suo principale rappresentante, Le Bon, contrappone, per dirla in breve, la psicologia della massa, considerala come semplice istinto e barbarie, alla razionalità, alla civiltà del pensiero del singolo. Perciò, quanto maggiore influenza acquistano le masse sulla vita pubblica, e tanto più devono sembrare minacciati i risultati dell’evoluzione culturale dell’umanità. A questo appello alla difesa contro la democrazia e il socialismo, lanciato in nome della scienza, risponde un altro eminente sociologo del periodo imperialistico, Pareto, con un canto consolatorio in nome della stessa sociologia. Se (sempre per dirla in breve) la storia di tutte le trasformazioni sociali è soltanto la sostituzione di una vecchia élite con una nuova, i fondamenti eterni della società capitalistica sono salvi dal punto di vista sociologico, e non si può nemmeno parlare di un tipo fondamentalmente nuovo di società, della società socialista. Il tedesco R. Michels, un futuro seguace di Mussolini, applicò questi principi anche al movimento operaio e sfruttò il fatto del sorgere di una burocrazia operaia nelle condizioni dell’imperialismo, condizioni delle quali egli naturalmente non parla, per far apparire l’imborghesimento di ogni movimento operaio come conforme alle leggi della sociologia.
Una posizione particolare nella filosofia e nella sociologia occidentali è quella di G. Sorel. Lenin lo definì una volta molto opportunamente «il noto confusionario». In lui infatti si mescolano premesse e conclusioni che sono fra loro in nettissima contraddizione. Nelle sue convinzioni filosofiche Sorel è un pensatore puramente borghese, un tipico intellettuale piccolo-borghese. Dal punto di vista economico come da quello filosofico egli accetta la revisione del marxismo compiuta da Bernstein. Insieme a Bernstein rifiuta la dialettica interna dello sviluppo economico, in particolare del capitalismo, come processo che conduce necessariamente alla rivoluzione proletaria; conformemente a ciò, seguendo ancora Bernstein, respinge anche la dialettica come metodo filosofico. Questa viene da lui sostituita col pragmatismo di James e anzitutto con l’intuizione bergsoniana. Dalla sociologia borghese del suo tempo egli assume l’idea dell’irrazionalità del movimento delle masse, come pure la concezione delle élites di Pareto. Considera il progresso come una tipica illusione borghese, facendo generalmente proprie a questo riguardo le argomentazioni degli ideologi della reazione.
Da queste reazionarie premesse idealistico-borghesi, con un salto mortale filosofico veramente irrazionalistico, Sorel sviluppa una teoria della «pura» rivoluzione proletaria, il mito dello sciopero generale, il mito dell’impiego della violenza da parte del proletariato. È questa la figura tipica del ribellismo piccolo-borghese: Sorel odia e disprezza la cultura della borghesia, ma non in un sol punto concreto si sa liberare dall’influsso di essa, che determina tutto il suo pensiero. Se quindi il suo odio e il suo disprezzo si sforzano di esprimersi, il risultato non può essere che un salto nell’ignoto completo, nel puro nulla. Ciò che Sorel chiama proletario non è nient’altro che un’astratta negazione di tutto l’elemento borghese, senza alcun contenuto concreto. Infatti, non appena egli comincia a pensare, pensa in contenuti borghesi, in forme borghesi. L’intuizione bergsoniana, l’irrazionalismo della durée réelle acquistano qui l’accento di un’utopia della completa disperazione. Proprio nella concezione del mito soreliano si esprime chiaramente questa astratta povertà di contenuto; Sorel, anzi, respinge fin da principio ogni specie di politica, ed è del tutto indifferente di fronte ai fini e ai mezzi reali e concreti dei singoli scioperi: l’intuizione irrazionalistica, il vuoto mito da essa creato, è completamente staccato dalla vera realtà sociale, non è che un estatico salto nel nulla.
Ma proprio in questo consiste il motivo del fascino che Sorel esercitò su di una determinata parte dell’intellettualità nel periodo imperialistico; proprio perciò tale irrazionalismo può esasperare in senso passionale il malcontento verso la società capitalistica distogliendolo da ogni effettiva lotta contro di essa. Anche se le tendenze monarchiche furono un semplice episodio in Sorel, un significato più che episodico ha il fatto che egli nella grande crisi rivoluzionaria scoppiata alla fine della prima guerra mondiale si potè accendere d’entusiasmo al tempo stesso per Lenin, per Mussolini.e per Ebert. La mancanza d’indirizzo che Politzer rimprovera a Bergson si manifesta formalmente in Sorel come attività passionale, ma senza poter cessare di essere mancanza d’indirizzo. Ed è certo più che un semplice caso il fatto che la così vuota teoria soreliana del mito sia diventata, almeno in certi momenti, importante per Mussolini. In tal modo, naturalmente, la confusione spontaneamente irrazionalistica di Sorel si converte in una cosciente demagogia. Ma questa trasformazione si potè compiere – e ciò è l’importante – senza alcun cambiamento essenziale nel contenuto e nel metodo. Il mito di Sorel è così esclusivamente passionale, così privo di contenuto, che si potè risolvere senza sforzo nel mito demagogico del fascismo. Quando Mussolini dice: «Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, una passione. Non è necessario che sia una realtà. Esso è reale in quanto è uno stimolo, una fede, in quanto significa coraggio», questo è puro Sorel; la gnoseologia del pragmatismo e l’intuizione bergsoniana sono qui diventate veicolo dell’ideologia del fascismo.
Di un fascismo, è vero, che, con tutti i suoi orrori, non ha mai raggiunto il significato universale di terrore che l’hitlerismo ha avuto per il mondo intero. (È, per esempio, caratteristico che il fascismo di Horthy in Ungheria, che era in stretti rapporti politici col fascismo italiano, abbia tuttavia preso la sua ideologia dalla Germania, allora ancora prefascista). Anche qui, certamente, il nesso ideologico di Mussolini con Bergson e Sorel è molto più debole e formale che non quello fra Hitler e l’irrazionalismo tedesco. Ma se si possono fare tutte queste riserve, già questo solo fatto mette in luce ciò che noi qui e in seguito intendiamo dimostrare: non c’è nessuna presa di posizione filosofica «innocente». In rapporto alla responsabilità di fronte all’umanità è del tutto irrilevante se l’etica e la filosofia della storia non conducano in Bergson medesimo a conseguenze fasciste, quando dalla sua filosofia Mussolini, senza travisarla, potè svolgere una ideologia del fascismo. Ciò entra così poco in considerazione, come non libera dalla loro responsabilità Spengler o Stefan George, in quanto precursori ideologici di Hitler, il fatto che il «nazionalsocialismo», una volta attuato, non abbia affatto corrisposto al loro gusto personale. Il semplice fatto dei nessi che qui si sono mostrati deve di necessità costituire un discite moniti di grande importanza per ogni intellettuale onesto dell’Occidente. Esso prova che la possibilità di una ideologia fascista aggressiva e reazionaria è contenuta obbiettivamente in ogni espressione filosofica dell’irrazionalismo. Quando, dove e come, da tale possibilità, in apparenza innocente, sorga una tremenda realtà fascista, è cosa che non si decide filosoficamente, né sul terreno della filosofia. Ma la comprensione di questo contesto non dovrebbe attenuare, ma accrescere la responsabilità dei pensatori. Sarebbe un pericoloso ingannar se stessi, una pura ipocrisia, lavarsi le mani per proclamare la propria innocenza e – in nome di Croce o di James – guardare con disdegno lo sviluppo dell’irrazionalismo tedesco.
Concludendo: le nostre considerazioni dovrebbero aver mostrato che, nonostante la connessione spirituale Bergson-Sorel-Mussolini, non resta per nulla diminuita la funzione di guida sostenuta dall’irrazionalismo tedesco. La Germania dei secoli XIX e XX rimane la terra «classica» dell’irrazionalismo, il terreno dove questo si è sviluppato nel modo più rigoglioso e più vario e dove perciò può essere studiato nella maniera più proficua, come Marx prese a fare per il capitalismo in Inghilterra.
Crediamo che questo dato di fatto appartenga ai lati più ignominiosi della storia tedesca. Appunto per questo deve essere studiato a fondo, affinché i Tedeschi possano venirne a capo in modo radicale e impedire con energia che si perpetui o si rinnovi. Il popolo di Dürer, di Thomas Münzer, di Goethe e di Karl Marx ha tanta grandezza nel suo passato, così grandi prospettive per il suo avvenire che non ha motivo di temere di liberarsi senza riguardo di un pericoloso passato e della sua perniciosa e funesta eredità. In questo duplice significato, tedesco e internazionale, questo libro vuole essere un monito, un insegnamento per ogni intellettuale onesto.
Budapest, novembre 1952.
1 K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, trad. Colli, Einaudi, Torino 19592, pp. 250 sg. [N.d.T.].
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