martedì 28 ottobre 2014

RICERCHE MARXISTE - Momenti del dibattito sulla Nep - Stefano Garroni

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 Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.


Dopo la presa del potere e conclusasi la conquista politica dello Stato da parte del proletariato guidato dai comunisti, comincia il compito più difficile: la costruzione della nuova economia. Questa è l’esplicita opinione di Lenin e di Trockij.

Ma Trockij non si limita a ciò, infatti, elenca, anche, quali sono – e in quale ordine – gli ostacoli fondamentali, che nel corso della costruzione economica il proletariato incontra, ovvero: a) il livello di sviluppo delle forze produttive; b) il livello di sviluppo culturale del proletariato; c) la situazione politico-militare, in cui il proletariato si trova, dopo la conquista del potere. Come si vede chiaramente, gli ostacoli indicati da Trockij – per quanto ciò possa dispiacere lo scolasticismo ‘materialistico’ marxista – chiamano in causa, quello che la tradizione hegeliana significava con spirito oggettivo (vale a dire, lo sviluppo culturale, ovvero la capacità che la mente e il corpo umano hanno di svilupparsi nella storia, e di ricavare da ciò una crescente capacità di modificare il patrimonio delle proprie facoltà psico-fisiche e di conseguenza di produrre tecnologie adeguate a trasformare l’ambiente).

Ma Trockij chiama in causa anche un ulteriore aspetto specifico e particolarmente ultimativo, ovvero il rapporto fra potenziale militare proletario e quello della classe avversa (nazionale e internazionale).
Il fatto che quei tre ostacoli fondamentali già fossero operanti nei fatti, ha immediate conseguenze, di cui ecco subito un esempio: Trockij insiste molto[1] sul fatto che le decisioni economiche del potere sovietico furono, in gran parte, dovute a necessità politico-militari e, quindi, a volte non furono corrette da un punto di vista propriamente economico – l’esempio che Trockij fa – in modo assai significativo – è quello delle nazionalizzazioni. Non si tratta, per Trockij, di una situazione eccezionale, di una deviazione dalle ‘regole’ della storia, perché in realtà è sul piano generale che dobbiamo comprendere – per quanta immediata meraviglia [2] la cosa possa destare – che le rivoluzioni sono l’espressione manifesta che il mondo non è assolutamente governato da una razionalità economica[3]. In ogni società, lo sviluppo economico è legato, anche, all’esistenza di una certa proporzione – prosegue Trockij – fra i diversi rami produttivi. Per quale via il capitalismo si orienta verso la proporzione ad esso funzionale? Mediante gli alti e bassi, le cadute e i rialzi di un mercato, che si muove ‘secondo natura’, ovvero secondo una sostanziale e gratuita meccanica necessità. L’economia socialista realizza quella proporzione, invece, attraverso un piano centralizzato. Ma tale nuova organizzazione razionale non può risolversi in un fenomeno, studiato a tavolino e imposto alla realtà; sì piuttosto ha da trattarsi di un processo che si svolge oggettivamente sulla base delle condizioni ed esigenze determinate del periodo e del luogo[4].
Così Trockij introduce la NEP (Nuova Politica Economica,NdR) – “Una volta usciti dal comunismo di guerra, cioè da un complesso di misure urgenti per sostenere la vita economica della fortezza assediata, si fece sentire il bisogno di passare a un sistema di misure che assicurassero un’espansione graduale delle forze produttive del paese, anche in mancanza della collaborazione dell’Europa socialista”[5].
Il comunismo di guerra si impone per motivi militari; il ritorno a ragionare in termini di economia significa abbandonare il comunismo di guerra: - questa è l’origine della Nep [6].
Più in dettaglio, la Nep nasce, su proposta di Lenin[7], col X Congresso del Partito bolscevico, 1921, per terminare nel 1929. La Nep procurò un apprezzabile effetto socio-economico. Il settore socialista si trovò ampliato e rafforzato, e l’alleanza politica degli operai con i contadini venne dotata di una base economica sufficientemente solida.
Preliminare al varo della Nep era ristabilire l’ordine nelle campagne. Così fino al 1923 continuarono i duri scontri fra truppe dell’armata rossa e contadini. Fino agli ultimi mesi del 1922, le squadre di requisizione proseguirono le loro spedizioni nelle campagne, costringendo ancora, nonostante la Nep, i contadini a consegnare le eccedenze. Tuttavia, il clima parve cambiare verso il 1923 quando venne finalmente consentita una ripresa di un’economia di mercato, cercando anche di favorire il commercio fra città e campagna… Perciò i contadini più ricchi, dopo aver devoluto allo Stato l’imposta stabilita, potevano adesso commerciare liberamente con ciò che a loro rimaneva. Questo favorì nei villaggi lo sviluppo della classe dei cosiddetti Kulaki che vennero notevolmente rafforzati dal proseguimento della Nep….I Kulaki, come era facile prevedere, vennero ben presto guardati con estremo sospetto dai bolscevichi che vedevano in loro una sorta di nuovo ceto borghese che continuava ad acquisire potere, e vennero addirittura odiati quando cominciarono a chiedere prezzi sempre più alti nel vendere le loro eccedenze….
Senonché l’introduzione della Nep destò anche vive preoccupazioni tra compagni: questa svolta economica significa forse, - questa è la domanda, che angustia – l’abbandono della prospettiva socialista e un graduale ritorno al capitalismo?
Il fondo di verità presente in tale preoccupazione è che, a differenza del comunismo di guerra, la Nep nasce dal bisogno, liberalizzando il commercio, di stimolare la produzione agricola[8].
Tra il capitalismo – nel quale i mezzi di produzione appartengono a privati e in cui il mercato regola le relazioni economiche - e il socialismo integrale, vale a dire un dirigismo economico e sociale, vi sono tappe di transizione: la Nep è una di queste. (AA.VV, Paris, op.cit.Trockij 62s).
Insomma, il fatto è che l’equilibrio fra i settori economici e fra i livelli tecnologici, caratterizzanti ognuno di questi, che nel capitalismo vengono ottenuti attraverso la ‘naturalità’ del mercato (come notava già lo stesso Hegel), col socialismo debbono essere ottenuti con decisioni, che indichino un rapporto collettivo consapevole con l’economia appunto. Di qui, l’insistito appello di Lenin e Trockij a che i comunisti non si chiudano in credenze dogmatiche, ma si aprano in modo spregiudicato all’esperienza e studino con la massima accuratezza come si costruisce un’economia socialista.
Questo impegno tenace, senza riserva ma, ad un tempo, attento a non perdere di vista gli obiettivi strategici, è effettivamente un obbligo da parte comunista, dato che non esiste una certa, inequivoca via diretta, che dal capitalismo conduca al socialismo; è necessario convincersi, ad es. , che, almeno per un lungo periodo, sarà necessario garantire una relativa libertà di decisione (dunque, porre un limite alla pianificazione) ai singoli rami economici; che lo Stato socialista dovrà utilizzare per molto tempo strumenti capitalistici come il mercato, dunque, inevitabilmente riconoscere nel denaro una delle categorie, indispensabili anche nella prospettiva della fuoriuscita dal capitalismo. Ma questo ritorno al mercato e alla moneta significherà, anche, il ritorno ad una qualche forma di feticismo economico. Ancora: nella fase di transizione, sottolinea Trockij, è inevitabile riconoscere legittima la presenza di un certo grado di concorrenza fra le industrie di Stato e fra queste e le altre ancora private.
Ma è chiaro che tutto questo non fa che aumentare l’incertezza tra i compagni, non fa che rendere sempre più oscuro il destino, lo sbocco effettivo – e non quello auspicato – della Nep.
 Ritorno al capitalismo? Rinuncia agli ideali della Rivoluzione? Più precisamente (e, dunque, più radicalmente) secondo Trockij, si stanno svolgendo, contemporaneamente, due opposti processi di accumulazione – capitalistico e/o socialistico – e tra le due prospettive la partita è aperta, anche se il proletariato russo dispone, come armi nelle sue mani, del potere statale e del fatto che, in suo possesso, sono anche le principali forze produttive.
 Per approfondire il punto di vista di Trockij, ovvero di uno degli intrascurabili partecipanti a questo dibattito, è utile spostare la nostra attenzione su un altro personaggio eminente della storia sovietica, che – per altro – fu anche assai sensibile agli effetti della riflessione proprio di Trockij. Mi riferisco all’economista E. Preobrajenskij.
 In un articolo dedicato a Le prospettive della nuova politica economica, Preobrajenskij richiama subito un presupposto, ovvio ai suoi tempi, vale a dire che sia in Europa che nell’America centrale e del Nord esistevano certamente molti Paesi più sviluppati – e non solo economicamente – rispetto alla Russia; nessuno dei quali, tuttavia, poteva essere indicato come quello che mostrasse, realizzato, il futuro della stessa Russia.
 Questo significa – ecco forse l’osservazione più interessante di Preobrajenskij – che la storia ha conosciuto un détour inatteso, ovvero la vittoria e lo stabilirsi della dittatura del proletariato precisamente in uno dei paesi agricoli più arretrati d’Europa; questo détour, questo paradosso della presa del potere comunista in uno dei paesi più poveri d’Europa, mentre i più evoluti si confermano nel loro insabbiamento entro la struttura capitalistica, fa sorgere problemi nuovi, gravi e inattesi proprio nel rapporto fra zone avanzate e zone arretrate del mondo.
 Una delle conseguenze più pericolose, che derivano al proletariato russo da questa situazione, sta nell’impegno tenace, multiforme, instancabile, della piccola borghesia a cercar di ricucire quelle fratture che, comunque, la rivoluzione proletaria ha determinato nell’antica società russa; effetto di tutto ciò è che nell’ex impero zarista si sta sviluppando un inedito processo storico.
  Vale a dire la duplice e contraddittoria tendenza a sollecitare, da un lato, un processo economico, sorretto dalla legge naturale, che è propria di un’economia piccolo-borghese (ovvero una larga piccola produzione, che si ripresenta però sotto le forme del sistema di proprietà e di produzione borghesi); dall’altro, fanno la loro comparsa le leggi d’accumulazione socialista, le quali naturalmente sollecitano la nascita di rapporti di produzione corrispondenti, vale a dire anch’essi socialisti.
La preparazione, che hanno i comunisti al potere nello Stato sovietico è inevitabilmente lacunosa, insufficiente e da costruirsi attraverso le esperienze (non sono questi i termini, che Preobrajenskij usa, ma è evidente il suo richiamo al metodo per esperienza ed errore: come capita anche in altre occasioni con Lenin e Trockij, in questo periodo di ‘invenzione’ della nuova economia il gruppo bolscevico sente l’opportunità di aprirsi all’empirismo più marcato); e, dunque, essi son costretti a cercar di avanzare tra le minacce, rappresentate dalla piccola borghesia, e gli errori, che essi stessi possono fare per semplice (e drammatica) ignoranza[9].
Ciò che contribuisce a rendere particolarmente minaccioso il pericolo rappresentato dalla piccola borghesia è, osserva Preobrajenskij, che nella realtà della Russia sovietica, non essendo ancora il paese organizzato per farlo, l’interscambio città-campagna, dunque, il sistema di reciproco approvvigionamento è sostanzialmente nelle mani di un confuso strato sociale (i Nepmany), autentici proprietari privati, che si intrufolano in tutti gli spazi, senza alcuno scrupolo, e si arricchiscono, appunto ricorrendo ad imbrogli, sotterfugi e solidarietà nascoste. Se lo sviluppo dell’economia sovietica dovesse portare ad una crescita tale della produzione agricola, da far rinascere l’attività d’esportazione dei beni prodotti dalla terra, quel confuso strato sociale, che abbiamo indicato come quello dei nepmany, si trasformerebbe in un potente fattore di collegamento fra contadini ricchi e capitale estero, dunque, in una pericolosissima base per un’avventura restauratrice, reazionaria. In generale, il mondo contadino russo appare a Preobrajenskij un ambiente assai equivoco e pericoloso, perché in realtà diviso in tre livelli: quello dei contadini poveri [10]– privi di terra, ma anche di qualunque sostegno tecnologico, dunque, del tutto inadatti ad assicurare un rilancio della produzione terriera fino al punto da poter dar vita di nuovo ad una vasta esportazione di beni; quello dei contadini medi, che si differenziano dai primi non tanto per disponibilità economica o tecnologica, quanto per gli stretti rapporti (di asservimento) che hanno con i contadini ricchi o kulaki. Ed infine questi ultimi, spesso non solo ricchi di disponibilità, ma anche gli autentici capi, le vere autorità organizzatrici della vita nelle campagne e delle stesse scelte produttive.
Un grandissimo pericolo – forse il maggiore per Preobrajenskij – è che intorno ai Kulaki[11] vadano raccogliendosi tutti gli strati sociali, incerti, indefiniti, risultati della disgregazione sociale ma non certo di un suo sviluppo, per far nascere così una consistente forza sociale, che potrebbe essere aiutata dal capitale estero e rovesciare il potere del proletariato. Anche con Preobrajenskij, però, torna il tema del livello di coscienza.
“Dobbiamo osservare che in generale una singolare confusione di idee regna presso di noi…L’analisi del nostro sistema economico – in quanto formazione sociale, che avanza attraverso lo sviluppo antagonista di contraddizioni e lotta tra la legge d’accumulazione primitiva (socialista) e la legge del valore, viene scandalosamente confuso con il problema di sapere se l’attenuazione delle contraddizioni di classe è per noi un vantaggio o non.
Evidentemente a tutti appariva chiaro che il problema russo era, prima di tutto, un problema di aumento della produzione, particolarmente industriale. Aumento che, tra l’altro, rendesse più favorevoli le possibilità di una grande produzione agricola – di massa e perfino anche esportabile.
Il fatto è che bisogna fare i conti con la realtà, osserva Preobrajenskij, e dunque partire dal dato di fatto che il capitale straniero, presente in Russia sotto forma di credito a lungo temine, era una quantità tutt’altro che esaltante e che, proprio per questo, il problema dell’industrializzazione s’intrecciava con quello dell’utilizzazione delle risorse interiori, secondo una loro distribuzione equilibrata fra città e campagna.
Ecco l’autentico problema dell’accumulazione socialista primitiva, che non può prescindere da una certa proporzionalità fra i vari rami produttivi nel suo sviluppo allargato.
Nelle condizioni di rarità mercantile, in cui la Russia, si trova, succede che, da un lato, il contadino possegga un eccedenza di capitale e che, dall’altro, non riesca a vendere adeguatamente i suoi prodotti.
In questo modo si crea un’eccedenza di capitali, che potrebbero utilmente essere impiegati per allargare, espandere la produzione industriale, inserire nuovi contadini nelle fabbriche, dunque, favorire un maggior afflusso di prodotti al mercato.
Insomma, dalle contraddizioni esistenti verrebbero anche le indicazioni per il loro superamento. Al contrario, però, il gruppo di destra, che dirige il Paese (Bucharin, Stalin) persegue una politica opposta, che non potrà che aggravare le difficoltà del Paese.
Riprendendo il tema di ciò che differenzia l’accumulazione socialista da quella capitalista, Preobrajenskij richiama l’esperienza che è sotto gli occhi di tutti: ovvero, l’esistenza in Russia di un monopolio statale del commercio estero, che certo non ha riscontro nei Paesi capitalistici, il protezionismo socialista, un piano rigoroso di importazione elaborato a favore dell’industrializzazione del Paese, lo scambio non equivalente con l’economia privata, che garantisce all’economia di Stato accumulazioni in condizioni estremamente sfavorevoli di un basso livello tecnologico. Come si vede, in conclusione, l’accumulazione socialista non può realizzarsi se non in violazione della legge del valore.
La seconda caratteristica – diretta conseguenza della prima – è che l’equilibrio del sistema non è raggiunto sulla base della legge del valore e dello scambio di equivalenti, ma sì sulla base di una lotta tra quest’ultima e la legge dell’accumulazione socialista primitiva. Da punto di vista dell’equilibrio, la caratteristica specifica della nostra economia durante il periodo dell’accumulazione socialista primitiva consiste precisamente nell’assenza di scambio equivalente, che è la tendenza dominante verso cui tende l’economia capitalistica.
Insomma giusta l’analisi di Preobrajenskij, lo sviluppo dell’economia socialista russa non solo entra in immediata contraddizione con le leggi dell’accumulazione capitalistica in Russia, perché in realtà la tendenza espansiva dell’economia socialista, nel senso della creazione di rapporti e condizioni profondamente nuovi sia a livello produttivo che dello scambio, spinge per aprirsi la strada al livello internazionale. In altre parole, lo sviluppo del socialismo in Russia tende, di necessità, ad assumere le caratteristiche di una contraddizione radicale con il mercato mondiale. Di qui, anche in Preobrajenskij, la consapevolezza che il comportamento del proletariato occidentale (perché proletariato di paesi capitalisticamente maturi) giocherà un ruolo decisivo anche sul destino della rivoluzione sovietica.
In questo dibattito, ovviamente interviene anche Bucharin - che, all’epoca, è con Stalin la massima autorità politica - e lo fa alla sua maniera, voglio dire portando il discorso anche ad un livello propriamente teoretico.
La realtà economica e politica, che la Russia conosce, è inedita; ma da ciò consegue - rimarca Bucharin - che lo stesso pensiero di Marx deve esser revocato in dubbio, a causa della sua intima natura di sapere storico e, quindi, per definizione modificabile, trasformabile (ovviamente, entro certi limiti, ché altrimenti non si tratterebbe più del pensiero di Marx).
Cosa sono, infatti, le categorie economiche marxiane, se non generalizzazioni e, dunque, astrazioni, ricavate da un patrimonio storico determinato? Modificandosi i fatti economico-sociali, che ne erano alla base, necessariamente debbono modificarsi anche le categorie che hanno la funzione di rappresentarli.
E’ sulla base di questo ragionamento, che Bucharin chiama le categorie economiche marxiane spectralement réelle et en meme temps réellement spectrale - non può sfuggire a un attento lettore che ci troviamo ancora una volta di fronte all’uso, da parte marxista, di un linguaggio empiristico, giustificato dalla novità dei problemi urgentemente da risolvere, ma che può destare qualche meraviglia e perplessità, se usato - come in questo caso - con chiari intenti teoretici. (D’altronde questo è, forse, uno dei limiti fondamentali del pensiero in generale di Bucharin, il quale - a detta di Lenin - non aveva mai compreso appieno la dialettica). Ma proseguiamo.
Secondo Bucharin, questi sono i tratti caratteristici essenziali della metodologia economica marxiana: a) il punto di vista obiettivamente sociale - dunque, una riflessione economica non astrattamente tecnicistica, né con pretese sovrastoriche -; b) la netta sottolineatura della centralità del momento produzione; c) la posizione storico-dialettica[12].
Confermando l’altro livello teorico su cui colloca il proprio intervento, Bucharin corregge la tesi di Preobrajenskij, nel senso che certamente è vero che la legge del valore assicura l’equilibrio del sistema mercantile, ma quando questo è ancora al livello del sistema mercantile semplice, mentre nel caso di un sistema mercantile, sviluppatosi in senso nettamente capitalistico, il fattore d’equilibrio non è più quello precedente, ma sì la legge del prezzo di produzione. (AA.VV., Paris, 1973:180).
Com’è facile immaginare, questa messa a punto teorica a proposito di ciò che consente l’equilibrio nel sistema capitalistico, non ha, per Bucharin, solo una finalità astrattamente scientifica - come di chi voglia correggere un errore, disinteressandosi però completamente delle conseguenze pratiche sia dell’errore che della sua correzione.
Al contrario è proprio un punto di linea politica, che Bucharin vuol affrontare e ribadire nel senso in cui, a suo parere, Lenin lo intendeva.
In sostanza sia le argomentazioni di Preobrajenskij sulle due leggi, opposte, contraddittorie, che presiedono all’accumulazione capitalistica e/o socialistica; sia le ripetute messe in guardia di Trockij contro i pericoli rappresentati dalla piccola borghesia russa, con le sue possibilità di saldarsi al grande capitale estero, entrambi questi fattori vengono intesi da Bucharin come se gli altri due dirigenti ritenessero l’unità operai-contadini ormai un fattore di freno e non di avanzata verso il socialismo.
In espressa polemica con Trockij, Bucharin afferma che la dottrina del blocco operaio e contadino costituisce il tratto originale essenziale del leninismo, che Trockij continuamente sottovaluta e tende perfino ad abbandonare, tanto che, un suo seguace (Preobrajenskij) può giungere a descrivere quella dell’accumulazione socialista come la fase dello sfruttamento del contadino da parte dell’operaio.
In contrapposizione all’orientamento ‘trockista’, Bucharin ricorda l’ottimismo di Lenin sia rispetto alla prospettiva dell’alleanza operai-contadini, sia l’ottimismo, espresso dallo stesso Lenin, di poter fare degli stessi nepmany collaboratori del comune sforzo di percorrere la via della società di transizione verso la direzione del socialismo.






[1] - N. Boukarine, E. Preobrajenskij, L. Troskij, Le débat soviètique sur le valeur, Paris 1972: 57. D’ora in Avanti, AA.VV, 1972 e il numero della pagina.
[2] - Come si vede la tanta polemica, che il tardo Novecento conoscerà, contro lo ‘storicismo’ che, anche nel caso del marxismo, si legherebbe inevitabilmente a predeterminismo -, se si tiene presente senza amputazioni arbitrarie la riflessione marxista, non ha fondamento teorico. Su questo tema, rinvio a A. Schmidt, Geschichte und Struktur, Carl Hanser Verlang 1971.
[3] - Il modo credo più chiaro di spiegare la distanza fra razionalità, nel senso di Max Weber e/o nel senso della tradizione dialettica di Hegel e Marx, lo si trova in Dialettica di L. Sichirollo, di cui uso l’edizione romana degli Editori riuniti 2003.
[4] - non solo, già qui si mostra una concezione non burocratica della centralizzazione, ma è anche implicito un nesso profondo fra centralizzazione e partecipazione diretta dei lavoratori. Ecco una delle prove che la discussione sulla Nep e, in generale, sullo sviluppo post-capitalistico della Russia, ha come uno dei suoi temi centrali il ruolo, che si assegna (o non si assegna) alla presenza attiva e consapevole dei lavoratori (AA.VV, Paris 1972:59).
[5] - Paris, op.cit.: 61.
[6] - Il periodo della Nep si estende dal 1921 al 1928. Al XIII Congresso del Partito – …Lenin fu uno dei pochi che tentò di descrivere con comprensione lo stato d’animo degli operai in quel periodo: < Voi ricordate che il periodo precedente l’autunno del 1923 fu un periodo in cui da una parte una grande massa di operai vide la crescita delle nostre realizzazioni economiche… L’industria si sviluppava, la situazione finanziaria dello Stato migliorava, le ferrovie funzionavano meglio, e noi stessi, nelle riunioni e nei giornali, proclamavano trionfalmente: si va meglio, sempre meglio, ogni anno; e al tempo stesso la massa degli operai cominciò a sentirsi un po’ disorientata: sì, facciamo progressi è evidente, ma anche i nepmany fanno baldoria e ingrassano sempre più. La massa degli operai cominciò ad indignarsi: facciamo progressi, ma per noialtri operai c’è un arresto nel miglioramento della nostra situazione>. (Carr. Einaudi 1965:92).
[7] -Già l’8 febbraio 191, Lenin elaborò delle tesi che prevedevano la transizione della politica del ‘comunismo di guerra’ alla Nep. I punti fondamentali erano i seguenti: 1) soddisfare le esigenze dei contadini, sostituendo le requisizioni con una imposta in natura (cioè in grano), che poi diventerà in denaro, il contadino poteva liberamente vendere i suoi prodotti sul mercato locale; 2) diminuire il tasso di questa imposta in rapporto alle requisizioni dell’ultimo anno; approvare il principio secondo cui il tasso di imposta deve essere fissato secondo l’impegno dell’agricoltore, ovvero che deve diminuire se l’impegno aumenta; 3) estendere la libertà per l’agricoltore, di utilizzare le eccedenze rimanenti nel circuito economico locale, a condizione che l’imposta sia versata rapidamente e completamente.
[8] – Paris,op. cit.: 62. Si consideri anche che questo è il periodo, in cui dall’interno del Partito bolscevico si levarono voci contrarie alla pianificazione economica (Rykov, Molotov, Kamenev, Mikojan) e voci, invece, che la riproponevano (Pjatakov, Trorkij, Preobrajenskij). (Carr, op. cit. 123)
[9] - “L’esistenza di una seria crisi economica, accompagnata da nette divisioni nelle file del Partito e del suo Comitato centrale, ormai non poteva più essere dissimulata. I lavoratori industriali erano in uno stato di fermento, quasi di rivolta”. (Carr, op. cit.: 100s).
[10] - I tre settori che costituiscono l’economia sovietica in generale, nella descrizione di Preobrajenskij: 1) quello statale; 2) quello capitalistico privato; 3) quello della piccola produzione.
[11] - La critica, che a un certo punto Trockij muoverà alla Nep, temendone un’applicazione di lungo periodo, derivava proprio dalla preoccupazione che i Kulaki non solo rafforzassero i loro legami con quanto vi era ancora di reazionario all’interno della Russia, ed all’esterno, guadagnandosi solidarietà e sostegno da parte del capitale estero; ma anche che i Kulaki finissero per aumentare pericolosamente il loro peso nel Partito e nello Stato. (Trockij, 1967: 22).

[12] - Paris, op. cit. : 173.

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