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Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.
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Dopo la
presa del potere e conclusasi la conquista politica dello Stato da parte del
proletariato guidato dai comunisti, comincia il compito più difficile: la
costruzione della nuova economia. Questa è l’esplicita opinione di Lenin e di
Trockij.
Ma Trockij non si limita a ciò, infatti, elenca, anche, quali sono – e in quale ordine – gli ostacoli fondamentali, che nel corso della costruzione economica il proletariato incontra, ovvero: a) il livello di sviluppo delle forze produttive; b) il livello di sviluppo culturale del proletariato; c) la situazione politico-militare, in cui il proletariato si trova, dopo la conquista del potere. Come si vede chiaramente, gli ostacoli indicati da Trockij – per quanto ciò possa dispiacere lo scolasticismo ‘materialistico’ marxista – chiamano in causa, quello che la tradizione hegeliana significava con spirito oggettivo (vale a dire, lo sviluppo culturale, ovvero la capacità che la mente e il corpo umano hanno di svilupparsi nella storia, e di ricavare da ciò una crescente capacità di modificare il patrimonio delle proprie facoltà psico-fisiche e di conseguenza di produrre tecnologie adeguate a trasformare l’ambiente).
Ma Trockij
chiama in causa anche un ulteriore aspetto specifico e particolarmente
ultimativo, ovvero il rapporto fra potenziale militare proletario e quello
della classe avversa (nazionale e internazionale).
Il fatto che
quei tre ostacoli fondamentali già fossero operanti nei fatti, ha immediate
conseguenze, di cui ecco subito un esempio: Trockij insiste molto[1] sul fatto
che le decisioni economiche del potere sovietico furono, in gran parte, dovute
a necessità politico-militari e, quindi, a volte non furono corrette da un
punto di vista propriamente economico – l’esempio che Trockij fa – in modo
assai significativo – è quello delle nazionalizzazioni. Non si tratta, per
Trockij, di una situazione eccezionale, di una deviazione dalle ‘regole’ della
storia, perché in realtà è sul piano generale che dobbiamo comprendere – per
quanta immediata meraviglia [2] la cosa possa destare – che le rivoluzioni sono
l’espressione manifesta che il mondo non è assolutamente governato da una
razionalità economica[3]. In ogni società, lo sviluppo economico è legato,
anche, all’esistenza di una certa proporzione – prosegue Trockij – fra i
diversi rami produttivi. Per quale via il capitalismo si orienta verso la
proporzione ad esso funzionale? Mediante gli alti e bassi, le cadute e i rialzi
di un mercato, che si muove ‘secondo natura’, ovvero secondo una sostanziale e
gratuita meccanica necessità. L’economia socialista realizza quella
proporzione, invece, attraverso un piano centralizzato. Ma tale nuova organizzazione
razionale non può risolversi in un fenomeno, studiato a tavolino e imposto alla
realtà; sì piuttosto ha da trattarsi di un processo che si svolge
oggettivamente sulla base delle condizioni ed esigenze determinate del periodo
e del luogo[4].
Così Trockij
introduce la NEP (Nuova Politica Economica,NdR) – “Una volta usciti dal
comunismo di guerra, cioè da un complesso di misure urgenti per sostenere la
vita economica della fortezza assediata, si fece sentire il bisogno di passare
a un sistema di misure che assicurassero un’espansione graduale delle forze
produttive del paese, anche in mancanza della collaborazione dell’Europa
socialista”[5].
Il comunismo
di guerra si impone per motivi militari; il ritorno a ragionare in termini di
economia significa abbandonare il comunismo di guerra: - questa è l’origine
della Nep [6].
Più in
dettaglio, la Nep nasce, su proposta di Lenin[7], col X Congresso del Partito
bolscevico, 1921, per terminare nel 1929. La Nep procurò un apprezzabile
effetto socio-economico. Il settore socialista si trovò ampliato e rafforzato,
e l’alleanza politica degli operai con i contadini venne dotata di una base
economica sufficientemente solida.
Preliminare
al varo della Nep era ristabilire l’ordine nelle campagne. Così fino al 1923
continuarono i duri scontri fra truppe dell’armata rossa e contadini. Fino agli
ultimi mesi del 1922, le squadre di requisizione proseguirono le loro
spedizioni nelle campagne, costringendo ancora, nonostante la Nep, i contadini
a consegnare le eccedenze. Tuttavia, il clima parve cambiare verso il 1923
quando venne finalmente consentita una ripresa di un’economia di mercato,
cercando anche di favorire il commercio fra città e campagna… Perciò i
contadini più ricchi, dopo aver devoluto allo Stato l’imposta stabilita,
potevano adesso commerciare liberamente con ciò che a loro rimaneva. Questo
favorì nei villaggi lo sviluppo della classe dei cosiddetti Kulaki che vennero
notevolmente rafforzati dal proseguimento della Nep….I Kulaki, come era facile
prevedere, vennero ben presto guardati con estremo sospetto dai bolscevichi che
vedevano in loro una sorta di nuovo ceto borghese che continuava ad acquisire
potere, e vennero addirittura odiati quando cominciarono a chiedere prezzi
sempre più alti nel vendere le loro eccedenze….
Senonché
l’introduzione della Nep destò anche vive preoccupazioni tra compagni: questa
svolta economica significa forse, - questa è la domanda, che angustia –
l’abbandono della prospettiva socialista e un graduale ritorno al capitalismo?
Il fondo di
verità presente in tale preoccupazione è che, a differenza del comunismo di
guerra, la Nep nasce dal bisogno, liberalizzando il commercio, di stimolare la
produzione agricola[8].
Tra il
capitalismo – nel quale i mezzi di produzione appartengono a privati e in cui
il mercato regola le relazioni economiche - e il socialismo integrale, vale a
dire un dirigismo economico e sociale, vi sono tappe di transizione: la Nep è
una di queste. (AA.VV, Paris, op.cit.Trockij 62s).
Insomma, il
fatto è che l’equilibrio fra i settori economici e fra i livelli tecnologici,
caratterizzanti ognuno di questi, che nel capitalismo vengono ottenuti
attraverso la ‘naturalità’ del mercato (come notava già lo stesso Hegel), col
socialismo debbono essere ottenuti con decisioni, che indichino un rapporto
collettivo consapevole con l’economia appunto. Di qui, l’insistito appello di
Lenin e Trockij a che i comunisti non si chiudano in credenze dogmatiche, ma si
aprano in modo spregiudicato all’esperienza e studino con la massima accuratezza
come si costruisce un’economia socialista.
Questo
impegno tenace, senza riserva ma, ad un tempo, attento a non perdere di vista
gli obiettivi strategici, è effettivamente un obbligo da parte comunista, dato
che non esiste una certa, inequivoca via diretta, che dal capitalismo conduca
al socialismo; è necessario convincersi, ad es. , che, almeno per un lungo
periodo, sarà necessario garantire una relativa libertà di decisione (dunque,
porre un limite alla pianificazione) ai singoli rami economici; che lo Stato
socialista dovrà utilizzare per molto tempo strumenti capitalistici come il
mercato, dunque, inevitabilmente riconoscere nel denaro una delle categorie,
indispensabili anche nella prospettiva della fuoriuscita dal capitalismo. Ma
questo ritorno al mercato e alla moneta significherà, anche, il ritorno ad una
qualche forma di feticismo economico. Ancora: nella fase di transizione,
sottolinea Trockij, è inevitabile riconoscere legittima la presenza di un certo
grado di concorrenza fra le industrie di Stato e fra queste e le altre ancora
private.
Ma è chiaro
che tutto questo non fa che aumentare l’incertezza tra i compagni, non fa che
rendere sempre più oscuro il destino, lo sbocco effettivo – e non quello
auspicato – della Nep.
Ritorno al capitalismo? Rinuncia agli ideali della Rivoluzione? Più
precisamente (e, dunque, più radicalmente) secondo Trockij, si stanno
svolgendo, contemporaneamente, due opposti processi di accumulazione –
capitalistico e/o socialistico – e tra le due prospettive la partita è aperta,
anche se il proletariato russo dispone, come armi nelle sue mani, del potere
statale e del fatto che, in suo possesso, sono anche le principali forze
produttive.
Per approfondire il punto di vista di Trockij, ovvero di uno degli intrascurabili
partecipanti a questo dibattito, è utile spostare la nostra attenzione su un
altro personaggio eminente della storia sovietica, che – per altro – fu anche
assai sensibile agli effetti della riflessione proprio di Trockij. Mi riferisco
all’economista E. Preobrajenskij.
In un articolo dedicato a Le prospettive della nuova politica economica,
Preobrajenskij richiama subito un presupposto, ovvio ai suoi tempi, vale a dire
che sia in Europa che nell’America centrale e del Nord esistevano certamente
molti Paesi più sviluppati – e non solo economicamente – rispetto alla Russia;
nessuno dei quali, tuttavia, poteva essere indicato come quello che mostrasse,
realizzato, il futuro della stessa Russia.
Questo significa – ecco forse l’osservazione più interessante di Preobrajenskij
– che la storia ha conosciuto un détour inatteso, ovvero la vittoria e lo
stabilirsi della dittatura del proletariato precisamente in uno dei paesi
agricoli più arretrati d’Europa; questo détour, questo paradosso della presa
del potere comunista in uno dei paesi più poveri d’Europa, mentre i più evoluti
si confermano nel loro insabbiamento entro la struttura capitalistica, fa
sorgere problemi nuovi, gravi e inattesi proprio nel rapporto fra zone avanzate
e zone arretrate del mondo.
Una delle conseguenze più pericolose, che derivano al proletariato russo da
questa situazione, sta nell’impegno tenace, multiforme, instancabile, della
piccola borghesia a cercar di ricucire quelle fratture che, comunque, la
rivoluzione proletaria ha determinato nell’antica società russa; effetto di
tutto ciò è che nell’ex impero zarista si sta sviluppando un inedito processo
storico.
Vale
a dire la duplice e contraddittoria tendenza a sollecitare, da un lato, un
processo economico, sorretto dalla legge naturale, che è propria di un’economia
piccolo-borghese (ovvero una larga piccola produzione, che si ripresenta però
sotto le forme del sistema di proprietà e di produzione borghesi); dall’altro,
fanno la loro comparsa le leggi d’accumulazione socialista, le quali
naturalmente sollecitano la nascita di rapporti di produzione corrispondenti,
vale a dire anch’essi socialisti.
La
preparazione, che hanno i comunisti al potere nello Stato sovietico è
inevitabilmente lacunosa, insufficiente e da costruirsi attraverso le
esperienze (non sono questi i termini, che Preobrajenskij usa, ma è evidente il
suo richiamo al metodo per esperienza ed errore: come capita anche in altre
occasioni con Lenin e Trockij, in questo periodo di ‘invenzione’ della nuova economia
il gruppo bolscevico sente l’opportunità di aprirsi all’empirismo più marcato);
e, dunque, essi son costretti a cercar di avanzare tra le minacce,
rappresentate dalla piccola borghesia, e gli errori, che essi stessi possono
fare per semplice (e drammatica) ignoranza[9].
Ciò che
contribuisce a rendere particolarmente minaccioso il pericolo rappresentato
dalla piccola borghesia è, osserva Preobrajenskij, che nella realtà della
Russia sovietica, non essendo ancora il paese organizzato per farlo, l’interscambio
città-campagna, dunque, il sistema di reciproco approvvigionamento è
sostanzialmente nelle mani di un confuso strato sociale (i Nepmany), autentici
proprietari privati, che si intrufolano in tutti gli spazi, senza alcuno
scrupolo, e si arricchiscono, appunto ricorrendo ad imbrogli, sotterfugi e
solidarietà nascoste. Se lo sviluppo dell’economia sovietica dovesse portare ad
una crescita tale della produzione agricola, da far rinascere l’attività
d’esportazione dei beni prodotti dalla terra, quel confuso strato sociale, che
abbiamo indicato come quello dei nepmany, si trasformerebbe in un potente
fattore di collegamento fra contadini ricchi e capitale estero, dunque, in una
pericolosissima base per un’avventura restauratrice, reazionaria. In generale,
il mondo contadino russo appare a Preobrajenskij un ambiente assai equivoco e
pericoloso, perché in realtà diviso in tre livelli: quello dei contadini poveri
[10]– privi di terra, ma anche di qualunque sostegno tecnologico, dunque, del
tutto inadatti ad assicurare un rilancio della produzione terriera fino al
punto da poter dar vita di nuovo ad una vasta esportazione di beni; quello dei
contadini medi, che si differenziano dai primi non tanto per disponibilità
economica o tecnologica, quanto per gli stretti rapporti (di asservimento) che
hanno con i contadini ricchi o kulaki. Ed infine questi ultimi, spesso non solo
ricchi di disponibilità, ma anche gli autentici capi, le vere autorità
organizzatrici della vita nelle campagne e delle stesse scelte produttive.
Un
grandissimo pericolo – forse il maggiore per Preobrajenskij – è che intorno ai
Kulaki[11] vadano raccogliendosi tutti gli strati
sociali, incerti, indefiniti, risultati della disgregazione sociale ma non
certo di un suo sviluppo, per far nascere così una consistente forza sociale,
che potrebbe essere aiutata dal capitale estero e rovesciare il potere del
proletariato. Anche con Preobrajenskij, però, torna il tema del livello di
coscienza.
“Dobbiamo
osservare che in generale una singolare confusione di idee regna presso di
noi…L’analisi del nostro sistema economico – in quanto formazione sociale, che
avanza attraverso lo sviluppo antagonista di contraddizioni e lotta tra la
legge d’accumulazione primitiva (socialista) e la legge del valore, viene scandalosamente
confuso con il problema di sapere se l’attenuazione delle contraddizioni di
classe è per noi un vantaggio o non.
Evidentemente
a tutti appariva chiaro che il problema russo era, prima di tutto, un problema
di aumento della produzione, particolarmente industriale. Aumento che, tra
l’altro, rendesse più favorevoli le possibilità di una grande produzione
agricola – di massa e perfino anche esportabile.
Il fatto è
che bisogna fare i conti con la realtà, osserva Preobrajenskij, e dunque
partire dal dato di fatto che il capitale straniero, presente in Russia sotto
forma di credito a lungo temine, era una quantità tutt’altro che esaltante e
che, proprio per questo, il problema dell’industrializzazione s’intrecciava con
quello dell’utilizzazione delle risorse interiori, secondo una loro
distribuzione equilibrata fra città e campagna.
Ecco
l’autentico problema dell’accumulazione socialista primitiva, che non può
prescindere da una certa proporzionalità fra i vari rami produttivi nel suo
sviluppo allargato.
Nelle
condizioni di rarità mercantile, in cui la Russia, si trova, succede che, da un
lato, il contadino possegga un eccedenza di capitale e che, dall’altro, non
riesca a vendere adeguatamente i suoi prodotti.
In questo
modo si crea un’eccedenza di capitali, che potrebbero utilmente essere
impiegati per allargare, espandere la produzione industriale, inserire nuovi
contadini nelle fabbriche, dunque, favorire un maggior afflusso di prodotti al
mercato.
Insomma,
dalle contraddizioni esistenti verrebbero anche le indicazioni per il loro
superamento. Al contrario, però, il gruppo di destra, che dirige il Paese
(Bucharin, Stalin) persegue una politica opposta, che non potrà che aggravare
le difficoltà del Paese.
Riprendendo
il tema di ciò che differenzia l’accumulazione socialista da quella
capitalista, Preobrajenskij richiama l’esperienza che è sotto gli occhi di
tutti: ovvero, l’esistenza in Russia di un monopolio statale del commercio
estero, che certo non ha riscontro nei Paesi capitalistici, il protezionismo
socialista, un piano rigoroso di importazione elaborato a favore
dell’industrializzazione del Paese, lo scambio non equivalente con l’economia
privata, che garantisce all’economia di Stato accumulazioni in condizioni
estremamente sfavorevoli di un basso livello tecnologico. Come si vede, in
conclusione, l’accumulazione socialista non può realizzarsi se non in
violazione della legge del valore.
La seconda
caratteristica – diretta conseguenza della prima – è che l’equilibrio del
sistema non è raggiunto sulla base della legge del valore e dello scambio di
equivalenti, ma sì sulla base di una lotta tra quest’ultima e la legge
dell’accumulazione socialista primitiva. Da punto di vista dell’equilibrio, la
caratteristica specifica della nostra economia durante il periodo
dell’accumulazione socialista primitiva consiste precisamente nell’assenza di
scambio equivalente, che è la tendenza dominante verso cui tende l’economia
capitalistica.
Insomma
giusta l’analisi di Preobrajenskij, lo sviluppo dell’economia socialista russa
non solo entra in immediata contraddizione con le leggi dell’accumulazione
capitalistica in Russia, perché in realtà la tendenza espansiva dell’economia
socialista, nel senso della creazione di rapporti e condizioni profondamente
nuovi sia a livello produttivo che dello scambio, spinge per aprirsi la strada
al livello internazionale. In altre parole, lo sviluppo del socialismo in
Russia tende, di necessità, ad assumere le caratteristiche di una
contraddizione radicale con il mercato mondiale. Di qui, anche in
Preobrajenskij, la consapevolezza che il comportamento del proletariato
occidentale (perché proletariato di paesi capitalisticamente maturi) giocherà
un ruolo decisivo anche sul destino della rivoluzione sovietica.
In questo
dibattito, ovviamente interviene anche Bucharin - che, all’epoca, è con Stalin
la massima autorità politica - e lo fa alla sua maniera, voglio dire portando
il discorso anche ad un livello propriamente teoretico.
La realtà
economica e politica, che la Russia conosce, è inedita; ma da ciò consegue -
rimarca Bucharin - che lo stesso pensiero di Marx deve esser revocato in
dubbio, a causa della sua intima natura di sapere storico e, quindi, per
definizione modificabile, trasformabile (ovviamente, entro certi limiti, ché
altrimenti non si tratterebbe più del pensiero di Marx).
Cosa sono,
infatti, le categorie economiche marxiane, se non generalizzazioni e, dunque,
astrazioni, ricavate da un patrimonio storico determinato? Modificandosi i
fatti economico-sociali, che ne erano alla base, necessariamente debbono
modificarsi anche le categorie che hanno la funzione di rappresentarli.
E’ sulla
base di questo ragionamento, che Bucharin chiama le categorie economiche
marxiane spectralement réelle et en meme temps réellement spectrale - non può
sfuggire a un attento lettore che ci troviamo ancora una volta di fronte
all’uso, da parte marxista, di un linguaggio empiristico, giustificato dalla novità
dei problemi urgentemente da risolvere, ma che può destare qualche meraviglia e
perplessità, se usato - come in questo caso - con chiari intenti teoretici.
(D’altronde questo è, forse, uno dei limiti fondamentali del pensiero in
generale di Bucharin, il quale - a detta di Lenin - non aveva mai compreso
appieno la dialettica). Ma proseguiamo.
Secondo
Bucharin, questi sono i tratti caratteristici essenziali della metodologia
economica marxiana: a) il punto di vista obiettivamente sociale - dunque, una
riflessione economica non astrattamente tecnicistica, né con pretese
sovrastoriche -; b) la netta sottolineatura della centralità del momento
produzione; c) la posizione storico-dialettica[12].
Confermando
l’altro livello teorico su cui colloca il proprio intervento, Bucharin corregge
la tesi di Preobrajenskij, nel senso che certamente è vero che la legge del
valore assicura l’equilibrio del sistema mercantile, ma quando questo è ancora
al livello del sistema mercantile semplice, mentre nel caso di un sistema
mercantile, sviluppatosi in senso nettamente capitalistico, il fattore
d’equilibrio non è più quello precedente, ma sì la legge del prezzo di
produzione. (AA.VV., Paris, 1973:180).
Com’è facile
immaginare, questa messa a punto teorica a proposito di ciò che consente
l’equilibrio nel sistema capitalistico, non ha, per Bucharin, solo una finalità
astrattamente scientifica - come di chi voglia correggere un errore,
disinteressandosi però completamente delle conseguenze pratiche sia dell’errore
che della sua correzione.
Al contrario
è proprio un punto di linea politica, che Bucharin vuol affrontare e ribadire
nel senso in cui, a suo parere, Lenin lo intendeva.
In sostanza
sia le argomentazioni di Preobrajenskij sulle due leggi, opposte,
contraddittorie, che presiedono all’accumulazione capitalistica e/o
socialistica; sia le ripetute messe in guardia di Trockij contro i pericoli
rappresentati dalla piccola borghesia russa, con le sue possibilità di saldarsi
al grande capitale estero, entrambi questi fattori vengono intesi da Bucharin
come se gli altri due dirigenti ritenessero l’unità operai-contadini ormai un
fattore di freno e non di avanzata verso il socialismo.
In espressa
polemica con Trockij, Bucharin afferma che la dottrina del blocco operaio e
contadino costituisce il tratto originale essenziale del leninismo, che Trockij
continuamente sottovaluta e tende perfino ad abbandonare, tanto che, un suo
seguace (Preobrajenskij) può giungere a descrivere quella dell’accumulazione
socialista come la fase dello sfruttamento del contadino da parte dell’operaio.
In
contrapposizione all’orientamento ‘trockista’, Bucharin ricorda l’ottimismo di
Lenin sia rispetto alla prospettiva dell’alleanza operai-contadini, sia
l’ottimismo, espresso dallo stesso Lenin, di poter fare degli stessi nepmany
collaboratori del comune sforzo di percorrere la via della società di
transizione verso la direzione del socialismo.
[1] - N.
Boukarine, E. Preobrajenskij, L. Troskij, Le débat soviètique sur le valeur,
Paris 1972: 57. D’ora in Avanti, AA.VV, 1972 e il numero della pagina.
[2] - Come si
vede la tanta polemica, che il tardo Novecento conoscerà, contro lo
‘storicismo’ che, anche nel caso del marxismo, si legherebbe inevitabilmente a
predeterminismo -, se si tiene presente senza amputazioni arbitrarie la
riflessione marxista, non ha fondamento teorico. Su questo tema, rinvio a A.
Schmidt, Geschichte und Struktur,
Carl Hanser Verlang 1971.
[3] - Il modo
credo più chiaro di spiegare la distanza fra razionalità, nel senso di Max
Weber e/o nel senso della tradizione dialettica di Hegel e Marx, lo si trova in
Dialettica di L. Sichirollo, di cui
uso l’edizione romana degli Editori riuniti 2003.
[4] - non
solo, già qui si mostra una concezione non burocratica della centralizzazione,
ma è anche implicito un nesso profondo fra centralizzazione e partecipazione
diretta dei lavoratori. Ecco una delle prove che la discussione sulla Nep e, in
generale, sullo sviluppo post-capitalistico della Russia, ha come uno dei suoi
temi centrali il ruolo, che si assegna (o non si assegna) alla presenza attiva
e consapevole dei lavoratori (AA.VV, Paris 1972:59).
[5] - Paris, op.cit.: 61.
[6] - Il
periodo della Nep si estende dal 1921 al 1928. Al XIII Congresso del Partito –
…Lenin fu uno dei pochi che tentò di descrivere con comprensione lo stato
d’animo degli operai in quel periodo: < Voi ricordate che il periodo
precedente l’autunno del 1923 fu un periodo in cui da una parte una grande
massa di operai vide la crescita delle nostre realizzazioni economiche…
L’industria si sviluppava, la situazione finanziaria dello Stato migliorava, le
ferrovie funzionavano meglio, e noi stessi, nelle riunioni e nei giornali,
proclamavano trionfalmente: si va meglio, sempre meglio, ogni anno; e al tempo
stesso la massa degli operai cominciò a sentirsi un po’ disorientata: sì,
facciamo progressi è evidente, ma anche i nepmany
fanno baldoria e ingrassano sempre più. La massa degli operai cominciò ad
indignarsi: facciamo progressi, ma per noialtri operai c’è un arresto nel
miglioramento della nostra situazione>. (Carr. Einaudi 1965:92).
[7] -Già l’8
febbraio 191, Lenin elaborò delle tesi che prevedevano la transizione della
politica del ‘comunismo di guerra’ alla Nep. I punti fondamentali erano i
seguenti: 1) soddisfare le esigenze dei contadini, sostituendo le requisizioni
con una imposta in natura (cioè in grano), che poi diventerà in denaro, il
contadino poteva liberamente vendere i suoi prodotti sul mercato locale; 2)
diminuire il tasso di questa imposta in rapporto alle requisizioni dell’ultimo
anno; approvare il principio secondo cui il tasso di imposta deve essere
fissato secondo l’impegno dell’agricoltore, ovvero che deve diminuire se
l’impegno aumenta; 3) estendere la libertà per l’agricoltore, di utilizzare le
eccedenze rimanenti nel circuito economico locale, a condizione che l’imposta
sia versata rapidamente e completamente.
[8] – Paris,op. cit.: 62. Si consideri anche che
questo è il periodo, in cui dall’interno del Partito bolscevico si levarono
voci contrarie alla pianificazione economica (Rykov, Molotov, Kamenev, Mikojan)
e voci, invece, che la riproponevano (Pjatakov, Trorkij, Preobrajenskij). (Carr,
op. cit. 123)
[9] -
“L’esistenza di una seria crisi economica, accompagnata da nette divisioni
nelle file del Partito e del suo Comitato centrale, ormai non poteva più essere
dissimulata. I lavoratori industriali erano in uno stato di fermento, quasi di
rivolta”. (Carr, op. cit.: 100s).
[10] - I tre
settori che costituiscono l’economia sovietica in generale, nella descrizione
di Preobrajenskij: 1) quello statale; 2) quello capitalistico privato; 3)
quello della piccola produzione.
[11] - La
critica, che a un certo punto Trockij muoverà alla Nep, temendone
un’applicazione di lungo periodo, derivava proprio dalla preoccupazione che i
Kulaki non solo rafforzassero i loro legami con quanto vi era ancora di
reazionario all’interno della Russia, ed all’esterno, guadagnandosi solidarietà
e sostegno da parte del capitale estero; ma anche che i Kulaki finissero per
aumentare pericolosamente il loro peso nel Partito e nello Stato. (Trockij,
1967: 22).
[12] - Paris,
op. cit. : 173.
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