venerdì 17 ottobre 2014

La civiltà coloniale europea tra dialettica e frammenti* - Alessandra Ciattini**

*Articolo già pubblicato in Aperture n° 28/2012 
**Docente di Antropologia religiosa, Università di Roma1, La Sapienza



 
Introduzione

In questo scritto, avvalendomi della riflessione di Aimé Césaire, cerco di delineare in maniera necessariamente non esaustiva il carattere dialettico della civiltà europea moderna e contemporanea, in particolare nella sua fase coloniale, tentando al contempo di individuare alcuni punti deboli del pensiero postmoderno, i quali a mio parere non consentono agli antropologi di cogliere che tale aspetto lacerante fa parte della sua stessa dinamica. Scendendo nel dettaglio, mi sembra che muovendosi sostanzialmente nella dimensione puramente culturalista, i postmoderni (in questa sede mi limito a menzionare James Clifford) non colgano due aspetti: 1) le differenze culturali sono l'altra faccia della diversa collocazione nell'ordine sociale capitalistico, anche se non sono riducibili alla mera dimensione economica; 2) l'accento posto sulle differenze spinge il postmodernismo a negare la validità di un punto di raccordo, che consenta di unificare in una visione d'insieme la dinamica della società capitalistica, nella quale i diversi segmenti trovino ciò che effettivamente li accomuna. Da ciò deriva la visione della realtà sociale come un coacervo eterogeneo di frammenti irrelati che è impossibile ricomporre in una visione d'insieme.


A mio parere, da tale impostazione sgorga quel concetto di interculturalità, tanto alla moda oggi, che si propone di instaurare la piena uguaglianza delle diverse culture – per certi versi ritenute incomunicabili -, affidandosi alla buona volontà degli individui e senza cambiare nulla nella struttura di potere. Da tale visione emerge anche il gusto per il frammento e per la precarietà usati come strumenti critici di tutte quelle concezioni del mondo che si sforzano di trovare elementi unificanti e che vedono in questi aspetti il frutto amaro del cosiddetto capitalismo flessibile. Ossia di quel capitalismo che ci ha resi flessibili, precari, mobili, relegati in un eterno presente e sempre disponibili alle mutevoli offerte del mercato (Sennett 2009). 

Il concetto di civiltà è un concetto normativo, in quanto si riferisce a norme e principi cui abbiamo attribuito un valore trascendente la contingenza storica. Nel caso della civiltà europea i capisaldi della sua organizzazione e della sua concezione del mondo sono radicati nella Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 e nella Dichiarazione dei diritti umani firmata a Parigi dopo la seconda guerra mondiale nel 1948. Dichiarazione che non è stata firmata da tutti gli Stati e il cui contenuto non è stato condiviso per ragioni politiche e culturali da alcuni paesi islamici ed socialisti.

Ovviamente tali valori hanno una storia molto più antica e certamente risalgono almeno parzialmente alla controversa eredità cristiana, la quale tuttavia è stata intesa ed applicata in forme assai diverse, oltre che alla nostra riflessione filosofica millenaria. Inoltre, tali valori hanno esteso la loro influenza al mondo intero grazie alla supremazia tecnologica e militare delle potenze europee, conquistando altre regioni del mondo e costituendo ciò che con un'espressione ambigua  ed insoddisfacente spesso è definito Occidente[1].

Non è questa la sede per analizzare dettagliatamente i valori umani, cui ci richiamiamo talvolta solo formalmente, e di cui ci serviamo assai spesso per criticare chi ad essi non si ispira. Ma credo invece che sia questa la sede per seguire Aimé Césaire ed affermare che tra la nostra civiltà – se si prendono sul serio i suoi valori  – e la colonizzazione c'è una totale incompatibilità, giacché quest'ultima annienta in un sol colpo tutti i valori umani (2010: 47) a gran voce proclamati, come il diritto alla vita, alla proprietà, alla resistenza contro la violenza etc.

Certo, mi si dirà che tali diritti, benché in qualche misura inerenti al messaggio cristiano, non facevano parte del bagaglio giuridico ed etico degli iberici, cui dobbiamo la prima forma di colono-evangelizzazione, per riprendere l'espressione di Enrique Dussel. Quest'ultima fu infatti ispirata dal famoso Requerimiento, che faceva discendere il potere da Dio, che lo avrebbe trasmesso al Papa e questi ai sovrani iberici e che riconosceva solo sudditi e non liberi cittadini. Si potrà  aggiungere, tuttavia, che, ponendosi proprio il problema della guerra di conquista, Francisco de Vitoria (1483-1546) riconosce a tutti gli uomini una serie di diritti naturali (jus gentium, peregrinandi et degendi, commercii,), la cui violazione può dar luogo al bellum iustum, in particolare quando viene ostacolata la possibilità di esercitare lo jus praedicandi et annuntiandi Evangelium (attività specifica degli cattolici invasori). Guerra giusta che nel fervore della lotta secondo de Vitoria può condurre anche allo sterminio, benché questo debba essere evitato quando i nemici sono debitamente sottomessi, come ci ricorda il famoso verso di Virgilio (VI, 853): <<parcere subiectis et debellare superbos>>.

L'aspetto importante del pensiero di de Vitoria, rilevato da Giuseppe Tosi (2006), sta nell'affermazione che gli uomini sono legati da una naturale parentela, in virtù della quale non vale l'espressione di Plauto homo homini lupus; espressione che però sembra aver ispirato il comportamento dei conquistadores e dei colonizzatori. De Vitoria sembrerebbe esprimere proprio questa contraddittorietà tra l'aspirazione ad innovare le relazioni tra gli uomini e l'effettivo comportamento degli spagnoli; tra il desiderio di dare una nuova riposta alle trasformazioni, che caratterizzano il suo periodo storico (l'evento della conquista), e la sua fedeltà alla tradizione; contrasto che trasparirebbe nell'ambivalenza del suo pensiero e lo renderebbe difficile da interpretare, ma che a mio parere scaturisce in definitiva dalla volontà di giustificare la conquista, sia pure in forma “moderna” ed  autonoma dalla teologia.

 Analisi della civiltà europea secondo Césaire

Come è noto Aimé Césaire (1913-2008) è un personaggio assai interessante, un poeta, un uomo politico, un intellettuale, che è si formato nella società parigina cosmopolita nel terzo decennio del secolo XX, momento in cui la città francese era estremamente ricca ed articolata dal punto di vista culturale ed intellettuale. Egli era nato alla Martinica e a Parigi si era incontrato con molti intellettuali neri e bianchi critici nei confronti della cultura e della politica ufficiale dell'epoca come Leopold Sédar Senghor e Jean-Paul Sartre. Si era avvicinato al surrealismo, che aveva apportato una nuova vitalità alle produzioni artistiche europee, aveva simpatizzato con il marxismo anticoloniale, anche se nel 1956 uscirà dal Partito comunista francese, perché a suo parere non aveva posto al centro del suo interesse la lotta contro la metropoli. Dal 1945 fu per lungo tempo sindaco di Fort-de-France e sostenitore della trasformazione della Martinica in dipartimento francese, rivendicando un riconoscimento per l'uomo nero all'interno del più vasto orizzonte metropolitano. Ma egli fu anche e soprattutto teorico discusso della négritude, su cui torneremo.

Nel Discorso sul colonialismo, pubblicato nel 1955 a Parigi, Césaire sottolinea un punto essenziale che mette immediatamente sotto accusa il carattere civile della nostra forma sociale. Infatti, scrive: <<Una civiltà che gioca con i propri principi è una civiltà moribonda>> (2010: 45).

Anche se la frase è ad effetto, in realtà essa non dice nulla di nuovo. Sottolinea solo un processo noto e studiato dalla contraddittoria conclusione della Rivoluzione francese, secondo il quale la società borghese aveva nutrito nel suo stesso seno principi e valori, che avevano trasformato il mondo, ma poi, pur continuando ad essere presenti nella retorica politica e culturale, essi erano diventati lettera morta, parole vuote prive di efficacia e di senso[2].

Questo tema è oggetto non solo di riflessioni politiche e filosofiche, che auspicano la possibilità di un ribaltamento della società capitalistica, la quale si era costituita soprattutto grazie alle risorse provenienti dai paesi colonizzati (in primis l'America Latina), che investite ed adeguatamente valorizzate avevano costituito la base di quell'apparato tecnologico ed industriale, supportato dall'avanzamento del pensiero scientifico, su cui da secoli si fonda la discussa supremazia del cosiddetto Occidente. 

Come mostra György Lukács (1950: 69-90) esso sta anche al centro di romanzi europei fondamentali per comprendere che l'affermazione della società borghese susciti tutta una serie di speranze nelle possibilità che gli individui possano essere pienamente riconosciuti e valutati nel suo tessuto per le loro capacità; speranze che invece, proprio per la realizzazione più compiuta dei principi ad essa inerenti, vengono successivamente disilluse, producendo a livello personale crisi esistenziali drammatiche.

Mi sto qui riferendo al concetto di “uomo totale” (Lukács, 1950: 18), ossia a quell'ideale che almeno a partire dall'Umanesimo, sull'onda anche dell'ampliamento del mondo conosciuto, ha spinto gli individui a ricercare nel loro contesto storico-sociale la piena realizzazione delle loro aspirazioni e il potenziamento delle loro diverse capacità e sensibilità. 

Lukács sottolinea che questo tema è già presente in Denis Diderot, ma ricorda il celebre romanzo di Honoré de Balzac intitolato appunto “Les illusions perdues”. Per riassumere in poche parole un tema tanto complesso, si potrebbe dire che nella Parigi della Restaurazione il protagonista del romanzo, un delicato ma contraddittorio poeta, cerca di realizzare tutte le sue aspirazioni di gloria e di bellezza animate dalla stessa società del suo tempo, ma è destinato a rovinarsi, proprio perché quest'ultima seguendo meticolosamente le sue stesse leggi trasforma in merce la letteratura, subordinando così le aspettative individuali alle spietate leggi dell'arricchimento e del potere. Leggi che paradossalmente sgorgano anch'esse dalla volontà di realizzarsi ed ottenere riconoscimento e valore, anche se ciò viene ottenuto a detrimento degli altri.

Volevo dunque affermare che ha pienamente ragione Césaire, il quale come molti altri ha ben evidenziato questo dualismo della società borghese, che ha considerato gli uomini tutti uguali abolendo i privilegi feudali, ha in molti casi alimentato e potenziato il messaggio cristiano di fraternità, ha mirato alla piena realizzazione dell'individuo. Ma tutto questo è avvenuto, mentre la struttura economico-sociale stritolava di fatto questi stessi valori e nessuna indignazione suscitava lo sterminio di quelli che cristianamente erano considerati nello stesso tempo “creature di Dio” e “fratelli in Cristo”. E non ci si è neppure indignati – come osserva Césaire - quando un certo Padre Barde ha affermato che la redistribuzione dei beni attuata dal colonialismo risponde al disegno divino ed alle giuste esigenze della collettività umana (2010: 51)

Così, mentre i colonizzatori cercavano la loro piena realizzazione in America, sia pure tinta di sfumature feudali, negata loro in patria, cercando di costituirsi una salda e rilevante posizione economico-sociale, benché talvolta fossero travolti dal meccanismo da loro stessi innescato, agli indigeni[3] era riservato un trattamento inumano e crudele basato sull'affermazione della loro bestialità e/o inferiorità.

A questo punto non posso che citare lo stesso Césaire, il quale spiega molto bene a quali valori sia improntata la colonizzazione e non si riferisce solo all'America: <<Tra colonizzatore e colonizzato vi è spazio soltanto per le corvée, l'intimidazione, la pressione, la polizia, la frusta, lo stupro, le colture obbligatorie, il disprezzo, la diffidenza, l'insolenza, la sufficienza, la rozzezza, masse avvilite ed  élite decerebrate.
Nessun contatto umano, ma rapporti di dominazione e di sottomissione, che trasformano l'uomo colonizzatore in pedina, in ausiliare, in sentinella e l'uomo indigeno in strumento di produzione>> (2010: 55).

Ma giustamente Césaire non si ferma qui e va avanti nella sua analisi, soffermandosi anche sulle conseguenze che il regime di colonizzazione produce sullo stesso colonizzatore. Infatti, scrive: <<...la colonizzazione... disumanizza anche l'uomo più civilizzato... l'azione coloniale, l'impresa coloniale, la conquista fondata sul disprezzo dell'uomo indigeno, e giustificata da questo disprezzo, tende, inevitabilmente, a modificare anche colui che la intraprende. Il colonizzatore, per salvaguardare la propria buona coscienza, si abitua a vedere nell'altro la bestia (sottolineatura mia), si allena per trattarlo da bestia, e tende obiettivamente a trasformarsi lui stesso in bestia. È quest'azione, questo effetto boomerang della colonizzazione che è importante segnalare>> (2010: 53).

Questo comportamento animalesco, che dimentica i valori di comunanza umana prima affermati, è ben illustrato nel famoso film del regista cubano Tomás Gutiérrez Alea “La ultima cena” (1976), in cui è rappresentato il pasto che il padrone di una piantagione di canna da zucchero organizza per celebrare l'ultima cena in compagnia di alcuni dei suoi schiavi.

Tale gesto ha il senso di ribadire i legami di fratellanza cristiana tra padrone e schiavo, anche se il principio gerarchico non è messo in discussione.  Durante il pasto, cui partecipa anche il cappellano della piantagione, il padrone giunge sino ad umiliarsi cristianamente lavando i piedi ad alcuni schiavi; tuttavia, nello stesso tempo li invita alla rassegnazione, sollecitandoli addirittura a considerarsi fortunati proprio per la loro condizione. Infatti, proprio perché tanto soffrono sulla terra a loro sarebbe riservato un posto speciale nel regno celeste. Il giorno dopo lo stesso padrone sterminerà senza alcuna pietà gli schiavi, che incolleriti si sono ribellati, perché nonostante sia venerdì santo e nonostante il sacerdote intervenga invocando il rispetto della settimana santa, il mayoral  li vuole costringere a lavorare nella piantagione. Addirittura, fa impalare le loro teste come monito per gli altri schiavi che potrebbero seguire il loro sciagurato esempio.

La trasformazione dell'europeo in animale in quanto tratta gli altri come bestie sembra assimilabile al processo dialettico, in virtù del quale il padrone dello schiavo per la sua dipendenza da quest'ultimo diventa esso stesso intimamente servo, celebre topos della riflessione hegeliana.

L'altra pesante accusa che Césaire lancia contro la civiltà europea è – mi pare – attualissima. Infatti, egli afferma che è una civiltà incapace di risolvere i problemi causati dal proprio funzionamento, e proprio per questo è una civiltà decadente. Ritroviamo lo stesso contenuto in un'altra accusa fatta dall'intellettuale caraibico, il quale scrive: << Una civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte alle questioni cruciali è una civiltà compromessa>>.

Dicevo accusa attualissima, pensando ad eventi e problemi che ci angustiano quotidianamente e che  sono appunto il frutto dello stesso funzionamento della società capitalistica, come la crisi economico-sociale, l'impoverimento di larghi strati della popolazione, la serissima questione ecologica, la cui non soluzione sembra prefiguri la fine della stessa vita sul pianeta.

Dal punto di vista di Césaire i problemi che la civiltà europea ha creato, non sa e non vuole risolvere sono due: la questione del proletariato e la questione coloniale.

In un certo senso, queste due questioni riassumono i problemi su indicati, in quanto si riferiscono alla forte polarizzazione tra gli strati sociali e tra paesi ricchi e paesi poveri, aumentata negli ultimi decenni grazie al cosiddetto neoliberismo, la cui soluzione sembra non essere possibile nel quadro della società capitalistica, che d'altra parte mostra evidenti segni di crisi e di declino. Declino e decadenza in molteplici sensi e che  toccano profondamente anche gli Stati Uniti, la cui supremazia è certamente salvaguardata soprattutto dal loro sofisticatissimo apparato militare. 

Possiamo osservare, dunque, che già nel 1955 l'intellettuale caraibico gettava luce sulla decadenza della civiltà europea e considerava sintomo ed espressione di questo processo la colonizzazione, nella quale proprio i suoi valori fondanti erano stati e sono costantemente derisi e violati. Processo di decadenza che negli ultimi decenni si è fatto più acuto e nel quale la società contemporanea sta sempre più sprofondando, lacerata da una crisi economico-sociale, che è anche e soprattutto una crisi di civiltà. Ossia una crisi esplosiva che delinea un periodo di transizione, anche se non è chiaro verso cosa ci stiamo dirigendo angustiati dalla forte sensazione che la nostra meta sia la fine.

Scrive Max Weber che in generale coloro che godono in questo mondo di vantaggi e privilegi come  l'onore, il potere, il possesso, il piacere e quindi sono in un certo senso “felici”, desiderano anche che la loro “felicità” sia legittimata. E in ciò sono soccorsi da forme di teodicea religiosa, che considerano legittima la loro felice sorte, ribadendo che essi l'hanno pienamente meritata, come gli “infelici” invece hanno meritato la loro miserevole condizione (1997: 12).

A questo proposito potrei illustrare le concezioni negative degli amerindiani, che hanno costituito il quadro ideologico nel quale è stata portata avanti la colonizzazione nelle sue varie tappe.

Mi soffermerò brevemente solo sull'indigenismo, ideologia che secondo Herbert appartiene alla fase in cui il colonizzatore non è più nelle condizioni politico-sociali di essere apertamente razzista e paternalista e il colonizzato comincia a comprendere che il suo destino sta nelle sue mani. L'indigenismo è un'ideologia che oscilla tra l'assimilazionismo e il riconoscimento formale delle differenze culturali, occultando il legame tra queste ultime e le condizioni politico-sociali. Esso getta così una spessa coltre sull'antagonismo che oppone l'”indigeno” alle classi dominanti, le quali per la loro consolidata posizione sociale non hanno più bisogno di ribadire costantemente la loro superiorità, che resta un fatto obiettivo (1972a: cap. VIII).

L'occultamento di questa contraddizione consente alla società ormai neocoloniale di non mettersi in discussione e quindi – come aveva osservato Césaire - di non porsi il problema della soluzione dei problemi da lei stessa creati, salvaguardando al contempo lo status quo. Ma è proprio la mancata soluzione dei problemi politici e sociali che attiva il processo di declino e di decadenza, il quale tuttavia può prolungarsi per molto tempo, avvolgendo di angoscia la vita sociale ed individuale. 

Un altro elemento dialettico proprio della società coloniale e ben illustrato dall'intellettuale caraibico consiste nel modo di concepire gli amerindiani: essi sono animali, contrapposti agli europei che soli sono pienamente umani[4]. Ma – come si è visto – tale concezione, che si concreta in pratiche brutali, ha conseguenze sui suoi stessi autori, i quali trattando gli altri come bestie diventano bestie essi stessi, dandosi a comportamenti inconcepibili per gli esseri umani anche ai tempi della conquista, come del resto si può ricavare da scrittori di quel periodo, come per esempio Michel de Montaigne e Bartolomé de Las Casas[5].

L'analisi di Césaire giunge alla conclusione sconcertante, secondo cui il carattere barbarico della civiltà europea sarebbe profondamente radicato nella sua anima umanista e cristiana. Infatti, egli afferma che il borghese umanista e cristiano del XX secolo <<...porta dentro di sé un Hitler, nascosto, rimosso>>, al quale non perdona <<...il crimine in sé, il crimine contro l'uomo, ma il crimine contro l'uomo bianco, e il fatto di aver applicato all'Europa quei procedimenti colonialisti che sino ad allora erano riservati esclusivamente agli Arabi di Algeria, ai coolie dell'India e ai neri dell'Africa>> (2010: 49).

L'incontro / scontro tra civiltà

Un altro importante aspetto della figura di Césaire è rappresentato dall'adesione al movimento surrealista, che si sviluppa in Francia fra le due guerre mondiali. Ovviamente tale adesione non è casuale e non è in contraddizione con i contenuti del Discorso sul colonialismo analizzati parzialmente nelle pagine precedenti.

Anche se non è semplice definire il surrealismo per la sua complessità, si può dire con Franco Fortini che <<esso fu un movimento di idee, il quale volle estendersi a più campi del pensiero e dell'attività umana>>. Esso sorge e cresce a Parigi negli anni successivi alla prima guerra mondiale, città nella quale erano fiorite varie correnti artistiche e letterarie e nella quale alcuni giovani <<accumunati dal disgusto per il recente conflitto e per la società che lo aveva provocato e subito>> dettero vita appunto al surrealismo (1959: 7).

André Breton, il maggior teorico del movimento, sostiene che: <<Dettato dal pensiero, fuor di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale...il surrealismo si fonda sulla credenza nella realtà superiore di certe forme di associazione fino ad oggi trascurate, nella onnipotenza del sogno, nel giuoco disinteressato del pensiero. Tende a distruggere definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita...>> (cit. da Fortini, 1959: 9).

Il richiamo alla surrealtà, identificata in questo caso con meccanismi ritenuti irrazionali ed inconsci, ma anche con la dimensione energetica sovrannaturale espressa per esempio dalla cosiddetta arte primitiva, manifesta l'intima lacerazione dell'individuo tra la dimensione del desiderio e del sogno e quella della razionalità e della moralità plasmate dalla società borghese del tempo. Lacerazione che taluni surrealisti vorrebbero ricomporre, operando nella loro stessa esperienza esistenziale una saldatura tra la parte diurna e la parte notturna dell'individuo, tra ragione e desiderio, tra piacere e  lavoro (Fortini, 1959: 11).

A parere dei surrealisti tale saldatura può essere realizzata solo mediante la rivolta contro la società borghese del tempo e contro i suoi fondamenti come la famiglia, la religione, lo Stato. Da tale atteggiamento scaturisce l'avvicinamento al movimento comunista internazionale, con il quale i surrealisti intrattennero rapporti variegati ed anche conflittuali, al cui centro sta il grave problema dell'autonomia della cultura e della sua relazione con la prassi politica.

Si può dunque affermare che molti surrealisti prefigurarono la loro attività, che si concreta in opere letterarie ed artistiche, come uno strumento, che dovrebbe contribuire alla piena conoscenza di noi stessi ed alla nostra emancipazione intellettuale e sociale; bisogna tuttavia aggiungere che taluni, in nome di una rivolta assoluta e perciò indeterminata, per la loro visione disperata e disperante, finiscono nel disfattismo e nel suicidio, come per esempio Jacques Vaché (1896-1919). Per questa ragione sono stati accusati di proporre strumenti di rivolta del tutto inadeguati alla realizzazione di un effettivo cambiamento, finendo col diventare essi stessi complici dell'ordine che avrebbero voluto rovesciare, il quale è stato capace addirittura di appropriarsi di una serie dei loro temi utilizzandoli nella pubblicità, nei film dell'orrore e nella letteratura fantascientifica, smorzandone la carica scandalosa e ribelle (Fortini, 1959: 46). 

Da questa breve analisi del movimento surrealista, cui Césaire aderisce scrivendo straordinarie opere poetiche, mi pare si possa ricavare che esso pone al centro della sua riflessione e della sua attività la lacerazione dell'uomo moderno, la quale deriva a sua volta dalla complessità dialettica della società borghese, in cui ad esempio è possibile scoprire la dimensione più recondita dell'individuo, ponendo l'accento sull'”uomo totale”, per negarne e violarne poi le più elementari esigenze. Naturalmente la coscienza di tale lacerazione è resa più disperante dallo sconvolgimento prodotto dalla prima guerra mondiale, che costò all'Europa 16 milioni di morti. Per questa ragione tale consapevolezza assume talvolta i toni della sfiducia totale nel progresso e nell'emancipazione umana, caratterizzanti il pensiero positivista  ed evoluzionista; atteggiamento questo che sembra essere oggi dominante nel ceto intellettuale, convinto della fine delle “grandi narrazioni” e che pure condivide con la classi dominanti una serie di privilegi.

Il saggio di James Clifford intitolato “Modellamento etnografico dell'io” (cap. 3), contenuto in I frutti puri impazziscono (1993), benché sostanzialmente psicologistico, riprende queste tematiche e le applica allo sviluppo novecentesco della ricerca etnografica. Se mai ce ne fosse stato bisogno, egli cerca di mostrare che l'individualità è un prodotto artificiale, che scaturisce dalla trama della vita sociale e culturale e che quindi è in definitiva opera di una costruzione; cerca anche di illustrare che è indispensabile darsi una forma di identità per controllare se stessi e gli altri, attribuendosi così  un'autorità, la quale dà fondamento alla capacità di descrivere, interpretare e rappresentare universi culturali diversi. Anche se – sottolinea Clifford – ciò viene fatto con una certa dose di ironia (1993:  117), perché chiaramente chi scopre di avere un'identità artificiale non può aver fino in fondo fede in se stesso e nella sua opera.

Clifford sceglie come esempi paradigmatici di questo processo, attraverso il quale l'autore tenta di costruirsi un'identità in un mondo caratterizzato dalla multiculturalità e dalla pluralità dei linguaggi, ossia da quella che Michail Bachtin chiama “eteroglossia”, due personaggi per certi versi assimilabili come Joseph Conrad e Bronislaw Malinowski. Come è noto, entrambi erano di origine polacca e si integrarono pienamente nella cultura anglosassone ma non senza sforzi, pur maneggiando diverse lingue e culture, come quella francese e quelle proprie delle isole melanesiane dove Malinowski intraprese la sua ricerca sul campo con conflitti e contraddizioni personali, documentate dal suo famoso Diario.  

A parere di Clifford, questi due autori, proprio per la loro collocazione in una zona di frontiera e per la loro condizione di sradicamento, sembrano vivere una profonda crisi di identità, accompagnata da un profondo senso di <<dissoluzione morale>> (1993: 122). Processo al quale entrambi reagirebbero, non ricadendo nel nichilismo, costruendo <<una posizione soggettiva e un luogo storico di autorità narrativa che veridicamente contrappone  verità diverse>> (1993: 123).

Nonostante Clifford associ tali dolorosi processi psicologici alla crisi generale diagnosticata da studiosi che analizzano i decenni di transizione tra XIX e XX secolo, in definitiva egli li considera effetti della scoperta che la cultura è una finzione collettiva, la quale resta tuttavia il fondamento dell'identità e della libertà individuale (1993: 131). In tale nuovo contesto semantico, in cui non si parla più in senso evoluzionistico di cultura ma di culture, il modellamento dell'identità personale, senza il quale è inimmaginabile ogni relazione costruttiva tra l'io e il mondo, è sì un processo artificiale, ma terribilmente serio (Ibidem), il quale costituisce l'unica risposta alla disgregazione e alla dissoluzione di una soggettività già frammentata ed ha pertanto una funzione salvifica. Da esso scaturisce <<la costruzione di una nuova figura pubblica, quella dell'antropologo come ricercatore sul campo>> (1993: 136), che gli antropologi interpretativi e postmoderni hanno cercato di sostituire negli ultimi decenni con studiosi sempre più aperti a modalità di ricerca più dialogiche e sensibili allo stile narrativo (1993: 138).

Il presupposto di fondo su cui si basa la riflessione dell'antropologo americano è racchiuso nel titolo dell'opera, che tanto successo ha avuto anche in Italia, I frutti puri impazziscono, con il quale egli vuole lanciare una battaglia contro l'essenzialismo antropologico, il quale ha concepite come essenze coerenti e fondate le culture descritte e le identità degli autori che le descrivevano.

Non posso fare a meno di osservare, avendo dedicato un lavoro alla religione considerata da E. B. Tylor un errore proprio per le sue pretese essenzialistiche, che sono parecchi secoli che l'essenzialismo acritico è considerato un errore filosofico. Ho scritto essenzialismo acritico, perché è risultato ragionevole a molti che, senza la costruzione di categorie dotate di una certa dose di stabilità, anche se criticamente vagliate, è del tutto impossibile portare avanti un qualsiasi lavoro di ricerca scientifica, la quale in ambito umanistico non deve necessariamente identificarsi con il modello di scientificità proprio delle scienze naturali. Né ha senso riproporre forme di contrapposizione tra comprendere e spiegare, richiamandosi ad autori come Wilhem Dilthey strettamente legato ad un certo contesto storico-culturale, per dar conto della vita sociale che invece ha bisogno di queste due prospettive metodologiche, se ne vogliamo cogliere la complessità e variabilità. Ovviamente ciò a una condizione, la quale si fonda su una scelta non solo conoscitiva ma anche e soprattutto etico-politica: mantenere la ricerca umanistica nell'ambito dell'attività scientifica così come si è sviluppata nella nostra tradizione storico-culturale e non trasferirla nella dimensione letteraria. Come mostrano molte monografie, in quest'ultima il protagonista non è più rappresentato dalla grandi questioni teoriche, ma dallo stesso ricercatore con le sue problematiche psicologiche attanagliato dal desiderio di cogliere lo sfuggevole e soggettivo vissuto nella sua immediatezza.

A mio parere i risultati di questa scelta interpretativa sono quelli di proporsi un obiettivo irraggiungibile e di produrre un ripiegamento narcisistico sulla figura dell'etnografo divenuto l'eroe di un'attività che trasforma i cosiddetti oggetti della ricerca in coautori.

Dicevo che l'adesione dell'autore del Discorso sul colonialismo al surrealismo non è casuale e – aggiungo – non contraddittoria. Infatti, quest'ultimo, richiamandosi ad una surrealtà onirica, mitologica, immaginativa e considerandola la vera realtà, fa apparire del tutto assurda la società contemporanea, mettendone in luce le profonde contraddizioni, che la grande guerra e l'impresa coloniale divenuta imperialistica avevano messo a fuoco. Come si è visto, questa è la prospettiva di Césaire che lancia la sua accusa contro la contraddittorietà e l'irrazionalità della società coloniale europea.

Secondo Clifford (1993: 144) da tale atteggiamento, che <<valorizza il frammento, le collezioni bizzarre, le giustapposizioni sorprendenti, che cerca di provocare la manifestazione di realtà straordinarie tratte dai domini dell'erotico, dell'esotico e dell'inconscio>>, sarebbe scaturita anche l'etnografia. Quest'ultima deve essere intesa come il tentavo di comprensione di universi culturali alternativi, che se giustapposti e accostati come in un collage al nostro mondo mostrano l'assurdità del nostro senso comune, della consueta realtà nella quale viviamo quotidianamente. La scoperta dell'assurdità di quanto ci è familiare provoca una forte sensazione di sradicamento e estraniamento,  che fa apparire ostile quanto avrebbe avuto la funzione di rassicurarci. Come si è visto, a ciò gli antropologi reagiscono creando la figura del ricercatore del campo che assume un atteggiamento relativistico e che fonda la sua autorità-identità sulla stessa attività di ricerca. 

Tuttavia, la sensazione di spaesamento può attenuarsi nel momento in cui scopriamo che le forme di vita  extra-occidentali divengono ben presto articolazioni della società globale e che l'assurdità del nostro vivere quotidiano è essa stessa frutto delle dinamica sociale, nella quale svolge una precisa funzione. Insomma, la sensazione di vivere in un mondo fatto di frammenti irrelati si attutisce, se scopriamo che tra questi ultimi ci sono relazioni e legami, anche se possono essere profondamente contraddittori.

Molto si è scritto e con maggiore competenza della mia sull'influenza dei manufatti artistici esotici sulla cultura e sull'arte europea, evidenziando come la relazione con prodotti di orizzonti culturali diversi  spinga da un lato alla relativizzazione del proprio punto di vista, dall'altro alla scoperta della problematicità e irragionevolezza di ciò che ci appariva a tutta prima naturale e familiare e che consideravamo un aspetto scontato della nostra vita quotidiana.

Come è noto tale acquisizione di consapevolezza caratterizza l'opera di Montaigne che, comparando i costumi dei cannibali americani con quelli dell'Europa dilaniata dalle guerre di religione, non li trova tanto criticabili se giudicati alla luce della ragione e non da una prospettiva etnocentrica.

Il ricorso alla ragione getta una luce sinistra sulle nostre abitudini e sui nostri costumi, sanciti dalla  nostra tradizione intellettuale e culturale, i quali in questa prospettiva possono generare in noi un senso di drammatico estraniamento, tanto più drammatico in quanto in virtù di questo processo – come si è visto - il familiare ci appare sempre più estraneo ed assurdo, distante ed addirittura innaturale[6].

Tale sconvolgimento – come del resto è avvenuto – può riguardare la stessa ragione, la quale, se identificata tout court con un certo sistema storico-sociale finisce con l'essere rigettata con quest'ultimo, quando ad esso ci si vuole ribellare per la sua disumanità ed assurdità. In questo caso, si dimentica che solo la ragione, pur prodotto della vita sociale e culturale, ha la capacità di criticare lo stesso sistema, in cui sorge e si sviluppa, prefigurandone l'alternativa.

Tutti questi temi, nutriti dalla seria crisi dei primi decenni del Novecento, stanno – mi pare - alla base della scelta anticoloniale e surrealista di Césaire, il quale costruendo il concetto di négritude mostra sostanzialmente la totale alterità della società europea rispetto una serie di valori che essa stessa ha la pretesa di incarnare.

La negritudine

Si tratta di un concetto fondamentale, che ha lo scopo di valorizzare una serie di caratteristiche etniche e culturali dei popoli neri contrapponendole a quelle dei membri degli altri gruppi. Pur riconoscendosi come l'inventore di questo concetto, Césaire afferma di non amare sempre questo termine, riferendosi ai diversi modi in cui viene usato e sottolineando che non ha non significato biologico. Specifica che con questa parola intende riferirsi a <<una somma di esperienze storicamente vissute, che sono giunte a definire e a caratterizzare il destino di una forma di vita umana>>. In particolare, tali esperienze vissute scaturiscono dal fatto che i portatori della negritudine sono stati <<vittime delle peggiori violenze conosciute nella storia...[e] sono stati e sono ancora oggi rigettati ai margini e oggetto di diverse forme di oppressione>> (2010: 91-92).

A questo crudele trattamento essi hanno opposto una resistenza continua, una lotta irriducibile  ed un'inesauribile speranza; atteggiamenti questi che fanno parte dunque del bagaglio morale e culturale dei popoli neri.

In questa prospettiva, la negritudine non è né una filosofia né una metafisica, ma un modo di <<vivere la storia nella storia>>, che è depositato nella memoria e nell'inconscio collettivo dei neri, frutto delle terribili esperienze vissute e recepite. Fondandosi su tale vissuto storicamente determinato il nero prende coscienza della propria differenza, opera per resistere ed affermarsi, per stabilire legami di solidarietà e di fedeltà con i suoi simili (2010: 92-93).

In definitiva, la negritudine è un soprassalto di dignità, è rifiuto dell'oppressione, è rivolta e battaglia contro l'oppressione (2010: 94). Sono questi tratti che ci fanno pensare ai cimarrones, i quali fuggivano dai loro padroni, si nascondevano in luoghi inaccessibili, pronti a difendersi e ad attaccare se necessario. Ma al contempo essa costituisce la messa in questione di quello che Césaire chiama il riduzionismo europeo, che concepisce l'universale a partire dai suoi propri principi e postulati, i quali ucciderebbero la stessa umanità dell'uomo.

Dunque, per mezzo della negritudine il nero si riappropria di se stesso, ma non per tornare al passato, che taluni fautori di essa descrivono in termini idealizzati, ma per superare quel passato fatto rivivere e riattivato (2010: 94-95).

Tale processo è colto da Jean-Paul Sartre, il quale dedica un denso saggio alla poesia nera e malgascia di lingua francese, che fa da introduzione ad un'antologia curata da Senghor pubblicata nel 1948. Egli scrive che si tratta di una poesia “orfica”, giacché è caratterizzata da una una ricerca incessante che costituisce una sorta di <<ridiscesa agli Inferi splendenti dell'anima nera>> (160: 248). Ma a suo parere tale <<razzismo antirazzista>>, espresso dal concetto di négritude, che è un modo di essere nel mondo, deve essere dialetticamente superato a vantaggio degli stessi africani per costruire una società in cui non ci siano disuguaglianza e oppressione. Per questa ragione, a suo parere l'africano, che ha riscoperto la sua anima nera, <<cammina su una cresta tra particolarismo passato, che ha già scalato, e l'universalismo futuro, che sarà  il crepuscolo della sua “negritudine”; [egli] è colui che ha vissuto sino in fondo il particolarismo per scoprirvi l'aurora dell'universale>> (1960: 273).

Il concetto di negritudine si coniuga con quello di identità, che come si è visto è trattato da Clifford e che costituisce uno dei temi principali della ricerca antropologica contemporanea, la quale tuttavia, adottando un approccio essenzialmente culturalista, non riesce a collegare adeguatamente la dimensione soggettiva della coscienza agli altri livelli della vita sociale; a mio parere non riesce nemmeno a vedere che la lacerazione interiore è al contempo sintomo e prodotto di una complessa e articolata dinamica sociale. Inoltre, riflettendo il processo di disgregazione psicologica, sociale e culturale prodotto dal capitalismo flessibile, immagina le identità (ossia la coscienza di sé e del proprio ruolo sociale) come aggregati mutevoli di elementi, che si scompongono e ricompongono. Non coglie così che tutte le forme di coscienza pur cangianti sono caratterizzate da quello che Césaire chiama <<il nocciolo duro e irriducibile>> (2010: 96), ossia la struttura di fondo che anch'essa può trasformarsi, anche se questo è un processo assai complesso e di lunga durata.

Per esempio, ho cercato di mostrare che alla base dell'ideologia politica dello Stato cubano e delle religioni di origine africana praticate nell'isola caraibica vi è lo stesso atteggiamento immanentistico verso il reale, il quale a mio parere costituisce la struttura di fondo che rende compatibili queste due diverse concezioni del mondo (Ciattini 2011), spiegandone la convivenza. Intendevo indicare con il termine immanentismo l'atteggiamento di chi opera affinché il bene e il giusto si realizzino in questo mondo e pertanto non crede nel possibile compenso celeste di quanto ha sofferto in terra. Nella logica immanentistica la salvezza deve ottenersi qui ed ora con gli strumenti che abbiamo a disposizione: nel caso delle religioni afrocubane ovviamente si tratta di mezzi rituali, nel caso dell'ideologia rivoluzionaria  ci si avvale di strumenti politici.

Come si vede, si tratta di visioni del mondo diverse, ma accomunate da una stessa prospettiva, secondo la quale il destino dell'uomo si compie tutto nella vita terrena.

Il concetto di négritude è stato ripreso da altri autori ed ha influenzato profondamente gli studi sul tema della diversità culturale. In questa sede mi limiterò a citare l'opera di Léopold Sédar Senghor, il quale se ne avvale sia per illustrare la specificità della civiltà africana sia per prefigurare una forma di associazione tra quest'ultima e l'antica civiltà francese. Ci sembra interessante questo riferimento perché Senghor ipotizza la conciliazione e l'armonia tra entità che Césaire aveva considerato dialetticamente opposte nel processo di colonizzazione.

Senghor rivendica l'antichità e l'originalità della civiltà nero-africana, che ha costituito organizzazioni politiche complesse come l'Impero del Ghana prima dell'introduzione dell'Islam e ha dato vita a nazioni, nel senso di comunità caratterizzate da una stessa razza, lingua, religione, stesse tradizioni (1964: 46). Tali comunità conoscevano la proprietà privata (ammesso che questo termine si possa usare in un contesto tanto diverso) degli oggetti di uso individuale, mentre tutti gli altri beni (i fiumi, i laghi, la terra etc.) erano inalienabili ed appartenevano agli spiriti, anche se di fatto erano amministrati dai capi. Per questa loro funzione era loro attribuito il titolo di padroni della Terra (1964: 49-50).

Egli si sofferma in particolare sulla società dei Serere (Senegal), sottolineandone il carattere armonico, il quale scaturirebbe dalla relazione gerarchica ma equilibrata tra le caste, tra i sessi e tra le generazioni (1964: 53). Si tratta ovviamente di una visione idealizzata di una società in cui inevitabilmente era presente il conflitto e la contraddizione, basti pensare alla partecipazione degli africani alla tratta degli schiavi. Ma per Senghor  il magico equilibrio africano è sconvolto solo dall'intervento europeo, che distrugge l'etica comunitaria sostituendola con la morale del denaro (1964: 100).

I tratti della psicofisiologia dell'africano, delineata da Senghor, si ispirano chiaramente a Lucien Lévy-Bruhl, il quale – come è noto – aveva fatto un quadro della mentalità primitiva e mistica contrapposta a quella logica e razionale. A parere dello scrittore africano il nero non è privo di ragione, ma la sua ragione ha un carattere sintetico e non discorsivo, essa è simpatetica e non antagonista. Non impoverisce le cose, non le inserisce in schemi rigidi, eliminando la linfa vitale. Essa entra direttamente nel cuore palpitante della realtà (1964: 202-203).

In definitiva, Senghor identifica la scienza con lo scientismo e le contrappone la visione mistica, al cui centro stanno la nozione di forza vitale e l'idea che quest'ultima sia presente in tutte le manifestazioni del cosmo (1964: 203-204). Contrapposizione questa che caratterizza una ben precisa tendenza che sin dalla fine dell'Ottocento, criticando aspramente il positivismo, ha finito con  il disconoscere  la complessiva capacità conoscitiva del pensiero scientifico.

Come si vede la cosmologia delineata da Senghor coincide con quello che gli antropologi hanno chiamato animismo, concezione che attribuisce all'uomo il compito di accrescere la forza vitale insita negli esseri con l'ausilio dei poteri sovrannaturali e di difenderla dalle influenze nefaste.

Pur riconoscendo la profonda differenza tra la civiltà africana e quella francese, caratterizzata sostanzialmente dal razionalismo cartesiano per sua natura assimilazionista, egli immagina la possibilità di un'assimilazione reciproca, dalla quale scaturisca l'associazione. A suo parere, infatti, la Metropoli deve comprendere lo spirito dell'Africa, le cui civiltà a loro volta debbono assorbire in maniera attiva e prudente lo spirito francese che permetterà loro di fuoriuscire dalla stagnazione e risorgere dalla loro decadenza. Solo a queste condizioni le due civiltà, di cui viene riconosciuta la diversità, avranno un ideale comune e una stessa ragione di vivere, basi costitutive di una forma associativa all'interno dell'Impero francese (Senghor, 1964: 40-45).

In definitiva, Senghor si colloca sul piano puramente culturalista, immaginando che le differenze tra la civiltà africana e quella francese sono puramente “spirituali” e non comprendendo che esse fanno tutt'uno con la natura contraddittoria della società capitalistica, che ha inglobato forme differenti di vita sociale dotate di finalità difformi sotto la sua egemonia. 

Il punto di raccordo

Mi pare che a questo punto possiamo tirare le somme di quanto abbiamo esposto nelle pagine precedenti.

Abbiamo messo in evidenza che nel pensiero di Césaire, di Clifford e di Senghor ha una grande importanza la differenza culturale, intesa come specifica identità. In particolare, nella riflessione di Clifford l'identità appare come prodotto di una costruzione a partire da uno sforzo sintetico di una realtà fortemente frammentata e contraddittoria, in cui somiglianza e differenza, familiare ed estraneo si contrappongono, benché costituiscano aspetti della <<modernità mondiale>> (1993: 174). Nonostante sia critico nei confronti dell'<<umanesimo occidentale>> o almeno di certi suoi esiti, Clifford dichiara che bisogna essere cauti dell'abbandonarlo, perché esso <<offre ancora le basi per la resistenza all'oppressione e un necessario invito a tolleranza, comprensione e pietà>> (Ibidem).

È interessante osservare che Clifford nonostante nel suo scritto faccia in più occasione riferimento al potere, non spiega mai né di cosa è fatto né in cosa consista. Ciò spiega il suo generico richiamo all'umanesimo, alla tolleranza e alla pietà, ossia in sostanza alla buona volontà degli individui che – come si è già visto nel caso di Senghor – lascia intatte le strutture di potere in nome di una lodevole, ma inefficace comprensione tra le culture.

Insomma, possiamo dire che gli autori esaminati si pongono il problema della relazione tra universale e particolare, o meglio si chiedono se è possibile dar vita a un universalismo che non uccida e neghi la particolarità dei singoli contesti socio-culturali. Ossia, si pongono il problema del punto di raccordo, anche se per l'impostazione adottata non riescono a trovarlo in maniera convincente.

A mio parere Césaire sembra essere il più consapevole che la differenza culturale non è una mera difformità di stili di vita, ma è il frutto della contraddizione tra forme sociali coesistenti e di quella tra il funzionamento effettivo della società capitalistica e la sua ideologia apparentemente ugualitaria e democratica.

Come ha mostrato Césaire, si tratta di contraddizioni inerenti alla società capitalistica, che il colonialismo non ha fatto altro che inasprire. Ma Clifford non ha in mente solo il tradizionale contrasto coloniale, si riferisce anche, senza nominarla esplicitamente, alla frammentazione della società contemporanea in seguito alle politiche neoliberali.

Su questo tema rimando ad uno scritto di Eric J. Hobsbawm (1996), il quale osserva che il concetto di identità appare negli studi sociologici e antropologici solo negli anni '60. A suo parere la sua diffusione sarebbe il risultato dello straordinario e rapido sconvolgimento avvenuto nel ultimi decenni del '900, che avrebbe messo in discussione l'autorità e la funzione agglutinante della nazione e dei partiti politici quali rappresentanti delle classi.

Tale perdita avrebbe spinto gli individui contrapposti ad un potere sempre più transnazionale a ricercare stabilità e certezza nell'identità del piccolo gruppo sia esso etnico, sessuale o culturale. Il richiamo all'identità sembrerebbe dunque realizzarsi in un mondo frammentato che ha spezzato le identità tradizionali e che è in grado di produrne sempre nuove.

A mio parere tutti gli studi, che si fondano sul concetto di identità e che in nome di questo rinnegano e condannano tutte le forme di universalismo, rischiano di assumere come modello quanto è solo il prodotto della frantumazione operata dal già menzionato capitalismo flessibile. Ossia, scambiano per naturale e metafisica una condizione storicamente determinata, dalla quale scaturisce una realtà divisa e frantumata, e per questa via finiscono per ratificarla come immutabile.

Hobsbawm osserva che le identità collettive presentano vari caratteri: sono definite per contrasto (es. palestinesi contro israeliani), sono multiple, mutevoli, intercambiabili, contestuali.

Se lo storico inglese ha ragione, non ha senso fissarsi su un'unica identità per contrapporre un non ben definito “altro” ad un altrettanto misterioso “noi” secondo la retorica postmoderna. Infatti, se il latinoamericano è diverso dall'europeo (usando queste generalizzazioni in senso puramente indicativo), d'altra parte facciamo entrambi parte di una stessa forma di vita sociale, che pur nella sua contraddittorietà presenta tratti comuni nei due continenti. Per questa via, non si scopre un universale astratto, ma il concreto punto di raccordo che unifica esperienze storiche tanto diverse senza annullare i contrasti e le contraddizioni.

Insomma, voglio dire che individuare punti di raccordo è possibile e che ciò non nega l'esistenza della diversità, che in un contesto con una differente struttura di potere può essere anche valorizzata.

Scrive Césaire che egli non accetta la concezione punitiva e carceraria dell'identità, secondo la quale essa è concepita come prigione o ghetto nel quale siamo chiusi per difenderci e distinguerci dagli altri. Egli pensa all'espansione e al superamento dell'identità riconquistata (la négritude), per gettare le basi di nuova nuova fraternità (2010: 98).

Naturalmente essa potrà attuarsi non con l'impegno volontaristico, ma con il superamento delle contraddizioni in cui versa la società contemporanea; contraddizioni che non producono frammenti irrelati ma pezzi di uno stesso meccanismo tra loro articolati ed operanti insieme sia pure nello stridore prodotto dal loro contatto.    

Note

[1]    L'espressione “Occidente” è mistificante, in quanto occulta le differenze radicali presenti nei paesi che lo costituirebbero. Si pensi per esempio alla differenza tra l'Europa centrale e la penisola iberica. Inoltre, questo termine in realtà si riferisce surrettiziamente anche a paesi orientali, per esempio il Giappone, il quale può essere messo nello stesso insieme solo per l'adozione di una certa forma sociale di organizzazione: il capitalismo avanzato. Credo quindi che in generale gli antropologi, sottomessi al culturalismo statunitense, non abbiano il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e preferiscano trovare un termine ambiguo, che non sollevi preoccupanti antagonismi.
[2]    Naturalmente non si intende qui sostenere la tesi che questa sia l'unica contraddizione delle società borghese.
[3]    Come rimarca Jean-Loup Herbert il termine “indigeno” fa anch'esso parte dei rapporti coloniali, perché fu imposto dal colonizzatore che non voleva chiamare con i propri nomi le popolazioni autoctone (1972: 68, nota 1).
[4]    L'Enciclica di Paolo III Sublimis Deus, emanata nel 1537, interviene su questo punto condannando la schiavitù degli indios e riconoscendo la loro piena umanità; fatto che giustifica dal punto di vista teologico la necessità di convertirli. Tuttavia, tale enciclica, in seguito alle pressioni esercitate sul papa da Carlo V, viene successivamente annullata nel Breve Non indecens videtur del 1538: l'abolizione della schiavitù avrebbe messo a rischio la società coloniale e i proventi che derivano dallo sfruttamento delle terre americane (Giammanco 2010).
[5]    Bisogna osservare, tuttavia, che sia Montaigne che Las Casas giustificavano la conquista coloniale, benché auspicassero che fosse realizzata senza violenza.
[6]    Naturalmente sarebbe ovvio qui fare riferimento al concetto freudiano di “perturbante” e ai racconti di Guy de Maupassant dedicati a “Le Horla” , che significherebbe qualcosa che è al di fuori, è estraneo e straniero (1995: 127).In questi racconti si descrive la sconcertante trasformazione di aspetti della nostra vita quotidiana in qualcosa di misteriosamente altro, che suscita una grande angoscia.
   

 Bibliografia

Césaire A., Discorso sul colonialismo, Ombre corte, Verona 2010.

Ciattini A., Cubanidad, mitología e ideología política, in Quaderno La cooperación internacional y el desarrollo local. Un análisis sectorial de la innovación y la relación población y ambiente, a cura di L. Vasapollo, 2011, pp. 269-79.

Clifford J., I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

Fortini F., Il movimento surrealista, Garzanti, Milano 1959.

Giammanco R., Missione politico-religiosa, schiavitù ed etnocidi negli Stati Uniti d'America, www. ariannaeditrice.it, 2010.

Herbert J.-L.,  Essai d'explication théorique de la réalité sociale guatémaltèque, in Indianité et lutte des classes di J.-L. Herbert, C. Guzman Bockler e J. Quan, Union générale de Éditions, Parigi 1972.

Herbert J.-L., Expressions idéologique de la lutte de classe: de la discrimination raciale institutionelle a sa mystification. L'indigénisme, in Indianité et lutte des classes di J.-L. Herbert, C. Guzman Bockler e J. Quan, Union générale de Éditions, Parigi1972a.

Hobsbawm E., Identity Politics and the Left, http://www.amielandmelburn.org.. uk/articles/1996%20annula%20lecture.htm. 

Lukács G., Saggi sul realismo, Einaudi, Torino 1950.

Maupassant de G., Tutti i racconti, Nerwton, Roma 1995.

Sartre J. P., Orfeo negro, in Che cos'è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 1960, pp. 241-278.

Senghor Sédar L., Liberté I. Négritude et humanisme, Éditions du Seuil, Parigi 1964.

Sennett R., L'uomo flessibile, Feltrinelli, Milano 2009.

Tosi G., La teoria della guerra giusta in Francisco de Vitoria e il dibattito sulla Conquista, Jura Gentium, “Rivista di Filosofia del diritto internazionale e della politica globale”, II, 2006, 1.

Weber M., Sociología de la religión, Ediciones Coyoacán, México, D. F. 1997.


 




 

Nessun commento:

Posta un commento