**Docente di Antropologia religiosa, Università di Roma1, La Sapienza
In questo scritto, avvalendomi della riflessione
di Aimé Césaire, cerco di delineare in maniera necessariamente non esaustiva il
carattere dialettico della civiltà europea moderna e contemporanea, in
particolare nella sua fase coloniale, tentando al contempo di individuare
alcuni punti deboli del pensiero postmoderno, i quali a mio parere non
consentono agli antropologi di cogliere che tale aspetto lacerante fa parte della
sua stessa dinamica. Scendendo nel dettaglio, mi sembra che muovendosi
sostanzialmente nella dimensione puramente culturalista, i postmoderni (in
questa sede mi limito a menzionare James Clifford) non colgano due aspetti: 1)
le differenze culturali sono l'altra faccia della diversa collocazione
nell'ordine sociale capitalistico, anche se non sono riducibili alla mera
dimensione economica; 2) l'accento posto sulle differenze spinge il
postmodernismo a negare la validità di un punto di raccordo, che consenta di
unificare in una visione d'insieme la dinamica della società capitalistica,
nella quale i diversi segmenti trovino ciò che effettivamente li accomuna. Da
ciò deriva la visione della realtà sociale come un coacervo eterogeneo di
frammenti irrelati che è impossibile ricomporre in una visione d'insieme.
Note
A mio parere, da tale impostazione sgorga quel
concetto di interculturalità, tanto alla moda oggi, che si propone di
instaurare la piena uguaglianza delle diverse culture – per certi versi
ritenute incomunicabili -, affidandosi alla buona volontà degli individui e
senza cambiare nulla nella struttura di potere. Da tale visione emerge anche il
gusto per il frammento e per la precarietà usati come strumenti critici di
tutte quelle concezioni del mondo che si sforzano di trovare elementi
unificanti e che vedono in questi aspetti il frutto amaro del cosiddetto
capitalismo flessibile. Ossia di quel capitalismo che ci ha resi flessibili,
precari, mobili, relegati in un eterno presente e sempre disponibili alle mutevoli
offerte del mercato (Sennett 2009).
Il concetto di civiltà è un concetto normativo, in
quanto si riferisce a norme e principi cui abbiamo attribuito un valore
trascendente la contingenza storica. Nel caso della civiltà europea i capisaldi
della sua organizzazione e della sua concezione del mondo sono radicati nella
Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 e nella
Dichiarazione dei diritti umani firmata a Parigi dopo la seconda guerra
mondiale nel 1948. Dichiarazione che non è stata firmata da tutti gli Stati e
il cui contenuto non è stato condiviso per ragioni politiche e culturali da
alcuni paesi islamici ed socialisti.
Ovviamente tali valori hanno una storia molto più
antica e certamente risalgono almeno parzialmente alla controversa eredità
cristiana, la quale tuttavia è stata intesa ed applicata in forme assai
diverse, oltre che alla nostra riflessione filosofica millenaria. Inoltre, tali
valori hanno esteso la loro influenza al mondo intero grazie alla supremazia
tecnologica e militare delle potenze europee, conquistando altre regioni del
mondo e costituendo ciò che con un'espressione ambigua ed insoddisfacente spesso è definito
Occidente[1].
Non è questa la sede per analizzare
dettagliatamente i valori umani, cui ci richiamiamo talvolta solo formalmente,
e di cui ci serviamo assai spesso per criticare chi ad essi non si ispira. Ma
credo invece che sia questa la sede per seguire Aimé Césaire ed affermare che
tra la nostra civiltà – se si prendono sul serio i suoi valori – e la colonizzazione c'è una totale
incompatibilità, giacché quest'ultima annienta in un sol colpo tutti i valori
umani (2010: 47) a gran voce proclamati, come il diritto alla vita, alla
proprietà, alla resistenza contro la violenza etc.
Certo, mi si dirà che tali diritti, benché in
qualche misura inerenti al messaggio cristiano, non facevano parte del bagaglio
giuridico ed etico degli iberici, cui dobbiamo la prima forma di
colono-evangelizzazione, per riprendere l'espressione di Enrique Dussel.
Quest'ultima fu infatti ispirata dal famoso Requerimiento, che faceva
discendere il potere da Dio, che lo avrebbe trasmesso al Papa e questi ai
sovrani iberici e che riconosceva solo sudditi e non liberi cittadini. Si
potrà aggiungere, tuttavia, che,
ponendosi proprio il problema della guerra di conquista, Francisco de Vitoria
(1483-1546) riconosce a tutti gli uomini una serie di diritti naturali (jus
gentium, peregrinandi et degendi, commercii,), la cui violazione può
dar luogo al bellum iustum, in particolare quando viene ostacolata la
possibilità di esercitare lo jus praedicandi et annuntiandi Evangelium (attività
specifica degli cattolici invasori). Guerra giusta che nel fervore della lotta
secondo de Vitoria può condurre anche allo sterminio, benché questo debba essere
evitato quando i nemici sono debitamente sottomessi, come ci ricorda il famoso
verso di Virgilio (VI, 853): <<parcere subiectis et debellare
superbos>>.
L'aspetto importante del pensiero di de Vitoria,
rilevato da Giuseppe Tosi (2006), sta nell'affermazione che gli uomini sono
legati da una naturale parentela, in virtù della quale non vale l'espressione
di Plauto homo homini lupus; espressione che però sembra aver ispirato
il comportamento dei conquistadores e dei colonizzatori. De
Vitoria sembrerebbe esprimere proprio questa contraddittorietà tra
l'aspirazione ad innovare le relazioni tra gli uomini e l'effettivo
comportamento degli spagnoli; tra il desiderio di dare una nuova riposta alle
trasformazioni, che caratterizzano il suo periodo storico (l'evento della
conquista), e la sua fedeltà alla tradizione; contrasto che trasparirebbe
nell'ambivalenza del suo pensiero e lo renderebbe difficile da interpretare, ma
che a mio parere scaturisce in definitiva dalla volontà di giustificare la
conquista, sia pure in forma “moderna” ed
autonoma dalla teologia.
Analisi
della civiltà europea secondo Césaire
Come è noto Aimé Césaire (1913-2008) è un
personaggio assai interessante, un poeta, un uomo politico, un intellettuale,
che è si formato nella società parigina cosmopolita nel terzo decennio del
secolo XX, momento in cui la città francese era estremamente ricca ed
articolata dal punto di vista culturale ed intellettuale. Egli era nato alla
Martinica e a Parigi si era incontrato con molti intellettuali neri e bianchi
critici nei confronti della cultura e della politica ufficiale dell'epoca come
Leopold Sédar Senghor e Jean-Paul Sartre. Si era avvicinato al surrealismo, che
aveva apportato una nuova vitalità alle produzioni artistiche europee, aveva
simpatizzato con il marxismo anticoloniale, anche se nel 1956 uscirà dal
Partito comunista francese, perché a suo parere non aveva posto al centro del
suo interesse la lotta contro la metropoli. Dal 1945 fu per lungo tempo sindaco
di Fort-de-France e sostenitore della trasformazione della Martinica in
dipartimento francese, rivendicando un riconoscimento per l'uomo nero
all'interno del più vasto orizzonte metropolitano. Ma egli fu anche e
soprattutto teorico discusso della négritude, su cui torneremo.
Nel Discorso sul colonialismo, pubblicato
nel 1955 a Parigi, Césaire sottolinea un punto essenziale che mette
immediatamente sotto accusa il carattere civile della nostra forma sociale.
Infatti, scrive: <<Una civiltà che gioca con i propri principi è una
civiltà moribonda>> (2010: 45).
Anche se la frase è ad effetto, in realtà essa non
dice nulla di nuovo. Sottolinea solo un processo noto e studiato dalla
contraddittoria conclusione della Rivoluzione francese, secondo il quale la
società borghese aveva nutrito nel suo stesso seno principi e valori, che
avevano trasformato il mondo, ma poi, pur continuando ad essere presenti nella
retorica politica e culturale, essi erano diventati lettera morta, parole vuote
prive di efficacia e di senso[2].
Questo tema è oggetto non solo di riflessioni
politiche e filosofiche, che auspicano la possibilità di un ribaltamento della
società capitalistica, la quale si era costituita soprattutto grazie alle
risorse provenienti dai paesi colonizzati (in primis l'America Latina), che
investite ed adeguatamente valorizzate avevano costituito la base di
quell'apparato tecnologico ed industriale, supportato dall'avanzamento del
pensiero scientifico, su cui da secoli si fonda la discussa supremazia del
cosiddetto Occidente.
Come mostra György Lukács
(1950: 69-90) esso sta anche al centro di romanzi europei fondamentali
per comprendere che l'affermazione della società borghese susciti tutta una
serie di speranze nelle possibilità che gli individui possano essere pienamente
riconosciuti e valutati nel suo tessuto per le loro capacità; speranze che
invece, proprio per la realizzazione più compiuta dei principi ad essa
inerenti, vengono successivamente disilluse, producendo a livello personale
crisi esistenziali drammatiche.
Mi sto qui riferendo al concetto di “uomo totale”
(Lukács, 1950: 18), ossia a quell'ideale che almeno a partire dall'Umanesimo,
sull'onda anche dell'ampliamento del mondo conosciuto, ha spinto gli individui
a ricercare nel loro contesto storico-sociale la piena realizzazione delle loro
aspirazioni e il potenziamento delle loro diverse capacità e sensibilità.
Lukács sottolinea che questo tema è già presente
in Denis Diderot, ma ricorda il celebre romanzo di Honoré de Balzac intitolato
appunto “Les illusions perdues”. Per
riassumere in poche parole un tema tanto complesso, si potrebbe dire che nella
Parigi della Restaurazione il protagonista del romanzo, un delicato ma
contraddittorio poeta, cerca di realizzare tutte le sue aspirazioni di gloria e
di bellezza animate dalla stessa società del suo tempo, ma è destinato a
rovinarsi, proprio perché quest'ultima seguendo meticolosamente le sue stesse
leggi trasforma in merce la letteratura, subordinando così le aspettative
individuali alle spietate leggi dell'arricchimento e del potere. Leggi che paradossalmente
sgorgano anch'esse dalla volontà di realizzarsi ed ottenere riconoscimento e
valore, anche se ciò viene ottenuto a detrimento degli altri.
Volevo dunque affermare che ha pienamente ragione
Césaire, il quale come molti altri ha ben evidenziato questo dualismo della
società borghese, che ha considerato gli uomini tutti uguali abolendo i
privilegi feudali, ha in molti casi alimentato e potenziato il messaggio
cristiano di fraternità, ha mirato alla piena realizzazione dell'individuo. Ma
tutto questo è avvenuto, mentre la struttura economico-sociale stritolava di
fatto questi stessi valori e nessuna indignazione suscitava lo sterminio di
quelli che cristianamente erano considerati nello stesso tempo “creature di
Dio” e “fratelli in Cristo”. E non ci si è neppure indignati – come osserva
Césaire - quando un certo Padre Barde ha affermato che la redistribuzione dei
beni attuata dal colonialismo risponde al disegno divino ed alle giuste
esigenze della collettività umana (2010: 51)
Così, mentre i colonizzatori cercavano la loro
piena realizzazione in America, sia pure tinta di sfumature feudali, negata
loro in patria, cercando di costituirsi una salda e rilevante posizione
economico-sociale, benché talvolta fossero travolti dal meccanismo da loro stessi
innescato, agli indigeni[3] era riservato un trattamento
inumano e crudele basato sull'affermazione della loro bestialità e/o
inferiorità.
A questo punto non posso che citare lo stesso
Césaire, il quale spiega molto bene a quali valori sia improntata la colonizzazione
e non si riferisce solo all'America: <<Tra colonizzatore e colonizzato vi
è spazio soltanto per le corvée, l'intimidazione, la pressione, la polizia, la
frusta, lo stupro, le colture obbligatorie, il disprezzo, la diffidenza,
l'insolenza, la sufficienza, la rozzezza, masse avvilite ed élite decerebrate.
Nessun contatto umano, ma rapporti di dominazione
e di sottomissione, che trasformano l'uomo colonizzatore in pedina, in
ausiliare, in sentinella e l'uomo indigeno in strumento di produzione>>
(2010: 55).
Ma giustamente Césaire non si ferma qui e va
avanti nella sua analisi, soffermandosi anche sulle conseguenze che il regime
di colonizzazione produce sullo stesso colonizzatore. Infatti, scrive:
<<...la colonizzazione... disumanizza anche l'uomo più civilizzato...
l'azione coloniale, l'impresa coloniale, la conquista fondata sul disprezzo
dell'uomo indigeno, e giustificata da questo disprezzo, tende, inevitabilmente,
a modificare anche colui che la intraprende. Il colonizzatore, per salvaguardare
la propria buona coscienza, si abitua a vedere nell'altro la bestia (sottolineatura
mia), si allena per trattarlo da bestia, e tende obiettivamente a trasformarsi
lui stesso in bestia. È quest'azione, questo effetto boomerang della
colonizzazione che è importante segnalare>> (2010: 53).
Questo comportamento animalesco, che dimentica i
valori di comunanza umana prima affermati, è ben illustrato nel famoso film del
regista cubano Tomás Gutiérrez Alea “La ultima cena” (1976), in cui è
rappresentato il pasto che il padrone di una piantagione di canna da zucchero
organizza per celebrare l'ultima cena in compagnia di alcuni dei suoi schiavi.
Tale gesto ha il senso di ribadire i legami di
fratellanza cristiana tra padrone e schiavo, anche se il principio gerarchico
non è messo in discussione. Durante il
pasto, cui partecipa anche il cappellano della piantagione, il padrone giunge
sino ad umiliarsi cristianamente lavando i piedi ad alcuni schiavi; tuttavia,
nello stesso tempo li invita alla rassegnazione, sollecitandoli addirittura a
considerarsi fortunati proprio per la loro condizione. Infatti, proprio perché
tanto soffrono sulla terra a loro sarebbe riservato un posto speciale nel regno
celeste. Il giorno dopo lo stesso padrone sterminerà senza alcuna pietà gli
schiavi, che incolleriti si sono ribellati, perché nonostante sia venerdì santo
e nonostante il sacerdote intervenga invocando il rispetto della settimana
santa, il mayoral li vuole
costringere a lavorare nella piantagione. Addirittura, fa impalare le loro
teste come monito per gli altri schiavi che potrebbero seguire il loro
sciagurato esempio.
La trasformazione dell'europeo in animale in
quanto tratta gli altri come bestie sembra assimilabile al processo dialettico,
in virtù del quale il padrone dello schiavo per la sua dipendenza da
quest'ultimo diventa esso stesso intimamente servo, celebre topos della
riflessione hegeliana.
L'altra pesante accusa che Césaire lancia contro
la civiltà europea è – mi pare – attualissima. Infatti, egli afferma che è una
civiltà incapace di risolvere i problemi causati dal proprio funzionamento, e
proprio per questo è una civiltà decadente. Ritroviamo lo stesso contenuto in
un'altra accusa fatta dall'intellettuale caraibico, il quale scrive: <<
Una civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte alle questioni cruciali
è una civiltà compromessa>>.
Dicevo accusa attualissima, pensando ad eventi e
problemi che ci angustiano quotidianamente e che sono appunto il frutto dello stesso
funzionamento della società capitalistica, come la crisi economico-sociale,
l'impoverimento di larghi strati della popolazione, la serissima questione
ecologica, la cui non soluzione sembra prefiguri la fine della stessa vita sul
pianeta.
Dal punto di vista di Césaire i problemi che la
civiltà europea ha creato, non sa e non vuole risolvere sono due: la questione
del proletariato e la questione coloniale.
In un certo senso, queste due questioni riassumono
i problemi su indicati, in quanto si riferiscono alla forte polarizzazione tra
gli strati sociali e tra paesi ricchi e paesi poveri, aumentata negli ultimi
decenni grazie al cosiddetto neoliberismo, la cui soluzione sembra non essere
possibile nel quadro della società capitalistica, che d'altra parte mostra
evidenti segni di crisi e di declino. Declino e decadenza in molteplici sensi e
che toccano profondamente anche gli
Stati Uniti, la cui supremazia è certamente salvaguardata soprattutto dal loro
sofisticatissimo apparato militare.
Possiamo osservare, dunque, che già nel 1955
l'intellettuale caraibico gettava luce sulla decadenza della civiltà europea e
considerava sintomo ed espressione di questo processo la colonizzazione, nella
quale proprio i suoi valori fondanti erano stati e sono costantemente derisi e
violati. Processo di decadenza che negli ultimi decenni si è fatto più acuto e
nel quale la società contemporanea sta sempre più sprofondando, lacerata da una
crisi economico-sociale, che è anche e soprattutto una crisi di civiltà. Ossia
una crisi esplosiva che delinea un periodo di transizione, anche se non è
chiaro verso cosa ci stiamo dirigendo angustiati dalla forte sensazione che la
nostra meta sia la fine.
Scrive Max Weber che in generale coloro che godono
in questo mondo di vantaggi e privilegi come
l'onore, il potere, il possesso, il piacere e quindi sono in un certo
senso “felici”, desiderano anche che la loro “felicità” sia legittimata. E in
ciò sono soccorsi da forme di teodicea religiosa, che considerano legittima la
loro felice sorte, ribadendo che essi l'hanno pienamente meritata, come gli
“infelici” invece hanno meritato la loro miserevole condizione (1997: 12).
A questo proposito potrei illustrare le concezioni
negative degli amerindiani, che hanno costituito il quadro ideologico nel quale
è stata portata avanti la colonizzazione nelle sue varie tappe.
Mi soffermerò brevemente solo sull'indigenismo,
ideologia che secondo Herbert appartiene alla fase in cui il colonizzatore non
è più nelle condizioni politico-sociali di essere apertamente razzista e
paternalista e il colonizzato comincia a comprendere che il suo destino sta
nelle sue mani. L'indigenismo è un'ideologia che oscilla tra l'assimilazionismo
e il riconoscimento formale delle differenze culturali, occultando il legame
tra queste ultime e le condizioni politico-sociali. Esso getta così una spessa
coltre sull'antagonismo che oppone l'”indigeno” alle classi dominanti, le quali
per la loro consolidata posizione sociale non hanno più bisogno di ribadire
costantemente la loro superiorità, che resta un fatto obiettivo (1972a: cap.
VIII).
L'occultamento di questa contraddizione consente
alla società ormai neocoloniale di non mettersi in discussione e quindi – come
aveva osservato Césaire - di non porsi il problema della soluzione dei problemi
da lei stessa creati, salvaguardando al contempo lo status quo. Ma è
proprio la mancata soluzione dei problemi politici e sociali che attiva
il processo di declino e di decadenza, il quale tuttavia può prolungarsi per
molto tempo, avvolgendo di angoscia la vita sociale ed individuale.
Un altro elemento dialettico proprio della società
coloniale e ben illustrato dall'intellettuale caraibico consiste nel modo di
concepire gli amerindiani: essi sono animali, contrapposti agli europei che
soli sono pienamente umani[4]. Ma – come si è visto – tale
concezione, che si concreta in pratiche brutali, ha conseguenze sui suoi stessi
autori, i quali trattando gli altri come bestie diventano bestie essi stessi,
dandosi a comportamenti inconcepibili per gli esseri umani anche ai tempi della
conquista, come del resto si può ricavare da scrittori di quel periodo, come
per esempio Michel de Montaigne e Bartolomé de Las Casas[5].
L'analisi di Césaire giunge alla conclusione
sconcertante, secondo cui il carattere barbarico della civiltà europea sarebbe profondamente radicato nella sua anima umanista e cristiana.
Infatti, egli afferma che il borghese umanista e cristiano del XX secolo
<<...porta dentro di sé un Hitler, nascosto, rimosso>>, al quale
non perdona <<...il crimine in sé, il crimine contro l'uomo, ma il
crimine contro l'uomo bianco, e il fatto di aver applicato all'Europa quei
procedimenti colonialisti che sino ad allora erano riservati esclusivamente
agli Arabi di Algeria, ai coolie dell'India e ai neri dell'Africa>>
(2010: 49).
L'incontro / scontro tra civiltà
Un altro importante aspetto della figura di
Césaire è rappresentato dall'adesione al movimento surrealista, che si sviluppa
in Francia fra le due guerre mondiali. Ovviamente tale adesione non è casuale e
non è in contraddizione con i contenuti del Discorso sul colonialismo
analizzati parzialmente nelle pagine precedenti.
Anche se non è semplice definire il surrealismo
per la sua complessità, si può dire con Franco Fortini che <<esso fu un
movimento di idee, il quale volle estendersi a più campi del pensiero e
dell'attività umana>>. Esso sorge e cresce a Parigi negli anni successivi
alla prima guerra mondiale, città nella quale erano fiorite varie correnti
artistiche e letterarie e nella quale alcuni giovani <<accumunati dal
disgusto per il recente conflitto e per la società che lo aveva provocato e
subito>> dettero vita appunto al surrealismo (1959: 7).
André Breton, il maggior teorico del movimento,
sostiene che: <<Dettato dal pensiero, fuor di ogni controllo esercitato
dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale...il
surrealismo si fonda sulla credenza nella realtà superiore di certe forme di
associazione fino ad oggi trascurate, nella onnipotenza del sogno, nel giuoco
disinteressato del pensiero. Tende a distruggere definitivamente tutti gli
altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei
principali problemi della vita...>> (cit. da Fortini, 1959: 9).
Il richiamo alla surrealtà, identificata in questo
caso con meccanismi ritenuti irrazionali ed inconsci, ma anche con la
dimensione energetica sovrannaturale espressa per esempio dalla cosiddetta arte
primitiva, manifesta l'intima lacerazione dell'individuo tra la dimensione del
desiderio e del sogno e quella della razionalità e della moralità plasmate
dalla società borghese del tempo. Lacerazione che taluni surrealisti vorrebbero
ricomporre, operando nella loro stessa esperienza esistenziale una saldatura
tra la parte diurna e la parte notturna dell'individuo, tra ragione e
desiderio, tra piacere e lavoro
(Fortini, 1959: 11).
A parere dei surrealisti tale saldatura può essere
realizzata solo mediante la rivolta contro la società borghese del tempo e
contro i suoi fondamenti come la famiglia, la religione, lo Stato. Da tale
atteggiamento scaturisce l'avvicinamento al movimento comunista internazionale,
con il quale i surrealisti intrattennero rapporti variegati ed anche
conflittuali, al cui centro sta il grave problema dell'autonomia della cultura
e della sua relazione con la prassi politica.
Si può dunque affermare che molti surrealisti
prefigurarono la loro attività, che si concreta in opere letterarie ed
artistiche, come uno strumento, che dovrebbe contribuire alla piena conoscenza
di noi stessi ed alla nostra emancipazione intellettuale e sociale; bisogna
tuttavia aggiungere che taluni, in nome di una rivolta assoluta e perciò
indeterminata, per la loro visione disperata e disperante, finiscono nel
disfattismo e nel suicidio, come per esempio Jacques Vaché (1896-1919). Per
questa ragione sono stati accusati di proporre strumenti di rivolta del tutto
inadeguati alla realizzazione di un effettivo cambiamento, finendo col
diventare essi stessi complici dell'ordine che avrebbero voluto rovesciare, il
quale è stato capace addirittura di appropriarsi di una serie dei loro temi
utilizzandoli nella pubblicità, nei film dell'orrore e nella letteratura
fantascientifica, smorzandone la carica scandalosa e ribelle (Fortini, 1959:
46).
Da questa breve analisi del movimento surrealista,
cui Césaire aderisce scrivendo straordinarie opere poetiche, mi pare si possa
ricavare che esso pone al centro della sua riflessione e della sua attività la
lacerazione dell'uomo moderno, la quale deriva a sua volta dalla complessità
dialettica della società borghese, in cui ad esempio è possibile scoprire la
dimensione più recondita dell'individuo, ponendo l'accento sull'”uomo totale”,
per negarne e violarne poi le più elementari esigenze. Naturalmente la
coscienza di tale lacerazione è resa più disperante dallo sconvolgimento
prodotto dalla prima guerra mondiale, che costò all'Europa 16 milioni di morti.
Per questa ragione tale consapevolezza assume talvolta i toni della sfiducia
totale nel progresso e nell'emancipazione umana, caratterizzanti il pensiero
positivista ed evoluzionista;
atteggiamento questo che sembra essere oggi dominante nel ceto intellettuale,
convinto della fine delle “grandi narrazioni” e che pure condivide con la
classi dominanti una serie di privilegi.
Il saggio di James Clifford intitolato “Modellamento
etnografico dell'io” (cap. 3), contenuto in I frutti puri
impazziscono (1993), benché sostanzialmente psicologistico, riprende queste
tematiche e le applica allo sviluppo novecentesco della ricerca etnografica. Se
mai ce ne fosse stato bisogno, egli cerca di mostrare che l'individualità è un
prodotto artificiale, che scaturisce dalla trama della vita sociale e culturale
e che quindi è in definitiva opera di una costruzione; cerca anche di
illustrare che è indispensabile darsi una forma di identità per controllare se
stessi e gli altri, attribuendosi così
un'autorità, la quale dà fondamento alla capacità di descrivere,
interpretare e rappresentare universi culturali diversi. Anche se – sottolinea
Clifford – ciò viene fatto con una certa dose di ironia (1993: 117), perché chiaramente chi scopre di avere
un'identità artificiale non può aver fino in fondo fede in se stesso e nella
sua opera.
Clifford sceglie come esempi paradigmatici di
questo processo, attraverso il quale l'autore tenta di costruirsi un'identità
in un mondo caratterizzato dalla multiculturalità e dalla pluralità dei
linguaggi, ossia da quella che Michail Bachtin chiama “eteroglossia”,
due personaggi per certi versi assimilabili come Joseph Conrad e Bronislaw
Malinowski. Come è noto, entrambi erano di origine polacca e si integrarono
pienamente nella cultura anglosassone ma non senza sforzi, pur maneggiando
diverse lingue e culture, come quella francese e quelle proprie delle isole
melanesiane dove Malinowski intraprese la sua ricerca sul campo con conflitti e
contraddizioni personali, documentate dal suo famoso Diario.
A parere di Clifford, questi due autori, proprio
per la loro collocazione in una zona di frontiera e per la loro condizione di
sradicamento, sembrano vivere una profonda crisi di identità, accompagnata da
un profondo senso di <<dissoluzione morale>> (1993: 122). Processo
al quale entrambi reagirebbero, non ricadendo nel nichilismo, costruendo
<<una posizione soggettiva e un luogo storico di autorità narrativa che
veridicamente contrappone verità
diverse>> (1993: 123).
Nonostante Clifford associ tali dolorosi processi
psicologici alla crisi generale diagnosticata da studiosi che analizzano i
decenni di transizione tra XIX e XX secolo, in definitiva egli li considera effetti
della scoperta che la cultura è una finzione collettiva, la quale resta
tuttavia il fondamento dell'identità e della libertà individuale (1993: 131).
In tale nuovo contesto semantico, in cui non si parla più in senso
evoluzionistico di cultura ma di culture, il modellamento dell'identità
personale, senza il quale è inimmaginabile ogni relazione costruttiva tra l'io
e il mondo, è sì un processo artificiale, ma terribilmente serio (Ibidem), il
quale costituisce l'unica risposta alla disgregazione e alla dissoluzione di
una soggettività già frammentata ed ha pertanto una funzione salvifica. Da esso
scaturisce <<la costruzione di una nuova figura pubblica, quella
dell'antropologo come ricercatore sul campo>> (1993: 136), che gli
antropologi interpretativi e postmoderni hanno cercato di sostituire negli
ultimi decenni con studiosi sempre più aperti a modalità di ricerca più
dialogiche e sensibili allo stile narrativo (1993: 138).
Il presupposto di fondo su cui si basa la
riflessione dell'antropologo americano è racchiuso nel titolo dell'opera, che
tanto successo ha avuto anche in Italia, I frutti puri impazziscono, con
il quale egli vuole lanciare una battaglia contro l'essenzialismo
antropologico, il quale ha concepite come essenze coerenti e fondate le culture
descritte e le identità degli autori che le descrivevano.
Non posso fare a meno di osservare, avendo
dedicato un lavoro alla religione considerata da E. B. Tylor un errore proprio
per le sue pretese essenzialistiche, che sono parecchi secoli che l'essenzialismo
acritico è considerato un errore filosofico. Ho scritto essenzialismo acritico,
perché è risultato ragionevole a molti che, senza la costruzione di categorie
dotate di una certa dose di stabilità, anche se criticamente vagliate, è del
tutto impossibile portare avanti un qualsiasi lavoro di ricerca scientifica, la
quale in ambito umanistico non deve necessariamente identificarsi con il
modello di scientificità proprio delle scienze naturali. Né ha senso riproporre
forme di contrapposizione tra comprendere e spiegare, richiamandosi ad autori
come Wilhem Dilthey strettamente legato ad un certo contesto storico-culturale,
per dar conto della vita sociale che invece ha bisogno di queste due
prospettive metodologiche, se ne vogliamo cogliere la complessità e
variabilità. Ovviamente ciò a una condizione, la quale si fonda su una scelta
non solo conoscitiva ma anche e soprattutto etico-politica: mantenere la
ricerca umanistica nell'ambito dell'attività scientifica così come si è
sviluppata nella nostra tradizione storico-culturale e non trasferirla nella
dimensione letteraria. Come mostrano molte monografie, in quest'ultima il
protagonista non è più rappresentato dalla grandi questioni teoriche, ma dallo
stesso ricercatore con le sue problematiche psicologiche attanagliato dal
desiderio di cogliere lo sfuggevole e soggettivo vissuto nella sua
immediatezza.
A mio parere i risultati di questa scelta
interpretativa sono quelli di proporsi un obiettivo irraggiungibile e di
produrre un ripiegamento narcisistico sulla figura dell'etnografo divenuto
l'eroe di un'attività che trasforma i cosiddetti oggetti della ricerca in
coautori.
Dicevo che l'adesione dell'autore del Discorso
sul colonialismo al surrealismo non è casuale e – aggiungo – non
contraddittoria. Infatti, quest'ultimo, richiamandosi ad una surrealtà onirica,
mitologica, immaginativa e considerandola la vera realtà, fa apparire del tutto
assurda la società contemporanea, mettendone in luce le profonde
contraddizioni, che la grande guerra e l'impresa coloniale divenuta
imperialistica avevano messo a fuoco. Come si è visto, questa è la prospettiva
di Césaire che lancia la sua accusa contro la contraddittorietà e
l'irrazionalità della società coloniale europea.
Secondo Clifford (1993: 144) da tale atteggiamento,
che <<valorizza il frammento, le collezioni bizzarre, le giustapposizioni
sorprendenti, che cerca di provocare la manifestazione di realtà straordinarie
tratte dai domini dell'erotico, dell'esotico e dell'inconscio>>, sarebbe
scaturita anche l'etnografia. Quest'ultima deve essere intesa come il tentavo
di comprensione di universi culturali alternativi, che se giustapposti e
accostati come in un collage al nostro mondo mostrano l'assurdità del
nostro senso comune, della consueta realtà nella quale viviamo quotidianamente.
La scoperta dell'assurdità di quanto ci è familiare provoca una forte
sensazione di sradicamento e estraniamento,
che fa apparire ostile quanto avrebbe avuto la funzione di rassicurarci.
Come si è visto, a ciò gli antropologi reagiscono creando la figura del
ricercatore del campo che assume un atteggiamento relativistico e che fonda la
sua autorità-identità sulla stessa attività di ricerca.
Tuttavia, la sensazione di spaesamento può
attenuarsi nel momento in cui scopriamo che le forme di vita extra-occidentali divengono ben presto
articolazioni della società globale e che l'assurdità del nostro vivere
quotidiano è essa stessa frutto delle dinamica sociale, nella quale svolge una
precisa funzione. Insomma, la sensazione di vivere in un mondo fatto di
frammenti irrelati si attutisce, se scopriamo che tra questi ultimi ci sono
relazioni e legami, anche se possono essere profondamente contraddittori.
Molto si è scritto e con maggiore competenza della
mia sull'influenza dei manufatti artistici esotici sulla cultura e sull'arte
europea, evidenziando come la relazione con prodotti di orizzonti culturali
diversi spinga da un lato alla
relativizzazione del proprio punto di vista, dall'altro alla scoperta della
problematicità e irragionevolezza di ciò che ci appariva a tutta prima naturale
e familiare e che consideravamo un aspetto scontato della nostra vita
quotidiana.
Come è noto tale acquisizione di consapevolezza
caratterizza l'opera di Montaigne che, comparando i costumi dei cannibali americani
con quelli dell'Europa dilaniata dalle guerre di religione, non li trova tanto
criticabili se giudicati alla luce della ragione e non da una prospettiva
etnocentrica.
Il ricorso alla ragione getta una luce sinistra
sulle nostre abitudini e sui nostri costumi, sanciti dalla nostra tradizione intellettuale e culturale,
i quali in questa prospettiva possono generare in noi un senso di drammatico
estraniamento, tanto più drammatico in quanto in virtù di questo processo –
come si è visto - il familiare ci appare sempre più estraneo ed assurdo,
distante ed addirittura innaturale[6].
Tale sconvolgimento – come del resto è avvenuto –
può riguardare la stessa ragione, la quale, se identificata tout court con
un certo sistema storico-sociale finisce con l'essere rigettata con
quest'ultimo, quando ad esso ci si vuole ribellare per la sua disumanità ed
assurdità. In questo caso, si dimentica che solo la ragione, pur prodotto della
vita sociale e culturale, ha la capacità di criticare lo stesso sistema, in cui
sorge e si sviluppa, prefigurandone l'alternativa.
Tutti questi temi, nutriti dalla seria crisi dei
primi decenni del Novecento, stanno – mi pare - alla base della scelta
anticoloniale e surrealista di Césaire, il quale costruendo il concetto di négritude
mostra sostanzialmente la totale alterità della società europea rispetto una
serie di valori che essa stessa ha la pretesa di incarnare.
La negritudine
Si tratta di un concetto fondamentale, che ha lo
scopo di valorizzare una serie di caratteristiche etniche e culturali dei
popoli neri contrapponendole a quelle dei membri degli altri gruppi. Pur
riconoscendosi come l'inventore di questo concetto, Césaire afferma di non
amare sempre questo termine, riferendosi ai diversi modi in cui viene usato e
sottolineando che non ha non significato biologico. Specifica che con questa
parola intende riferirsi a <<una somma di esperienze storicamente
vissute, che sono giunte a definire e a caratterizzare il destino di una forma
di vita umana>>. In particolare, tali esperienze vissute scaturiscono dal
fatto che i portatori della negritudine sono stati <<vittime delle
peggiori violenze conosciute nella storia...[e] sono stati e sono ancora oggi
rigettati ai margini e oggetto di diverse forme di oppressione>> (2010:
91-92).
A questo crudele trattamento essi hanno opposto
una resistenza continua, una lotta irriducibile
ed un'inesauribile speranza; atteggiamenti questi che fanno parte dunque
del bagaglio morale e culturale dei popoli neri.
In questa prospettiva, la negritudine non è né una
filosofia né una metafisica, ma un modo di <<vivere la storia nella
storia>>, che è depositato nella memoria e nell'inconscio collettivo dei
neri, frutto delle terribili esperienze vissute e recepite. Fondandosi su tale
vissuto storicamente determinato il nero prende coscienza della propria
differenza, opera per resistere ed affermarsi, per stabilire legami di
solidarietà e di fedeltà con i suoi simili (2010: 92-93).
In definitiva, la negritudine è un soprassalto di
dignità, è rifiuto dell'oppressione, è rivolta e battaglia contro l'oppressione
(2010: 94). Sono questi tratti che ci fanno pensare ai cimarrones, i
quali fuggivano dai loro padroni, si nascondevano in luoghi inaccessibili,
pronti a difendersi e ad attaccare se necessario. Ma al contempo essa
costituisce la messa in questione di quello che Césaire chiama il riduzionismo
europeo, che concepisce l'universale a
partire dai suoi propri principi e postulati, i quali ucciderebbero la stessa
umanità dell'uomo.
Dunque, per mezzo della negritudine il nero si
riappropria di se stesso, ma non per tornare al passato, che taluni fautori di
essa descrivono in termini idealizzati, ma per superare quel passato fatto
rivivere e riattivato (2010: 94-95).
Tale processo è colto da Jean-Paul Sartre, il
quale dedica un denso saggio alla poesia nera e malgascia di lingua francese,
che fa da introduzione ad un'antologia curata da Senghor pubblicata nel 1948.
Egli scrive che si tratta di una poesia “orfica”, giacché è caratterizzata da
una una ricerca incessante che costituisce una sorta di <<ridiscesa agli
Inferi splendenti dell'anima nera>> (160: 248). Ma a suo parere tale
<<razzismo antirazzista>>, espresso dal concetto di négritude,
che è un modo di essere nel mondo, deve essere dialetticamente superato a
vantaggio degli stessi africani per costruire una società in cui non ci siano
disuguaglianza e oppressione. Per questa ragione, a suo parere l'africano, che
ha riscoperto la sua anima nera, <<cammina su una cresta tra
particolarismo passato, che ha già scalato, e l'universalismo futuro, che
sarà il crepuscolo della sua
“negritudine”; [egli] è colui che ha vissuto sino in fondo il particolarismo
per scoprirvi l'aurora dell'universale>> (1960: 273).
Il concetto di negritudine si
coniuga con quello di identità, che come si è visto è trattato da Clifford e
che costituisce uno dei temi principali della ricerca antropologica
contemporanea, la quale tuttavia, adottando un approccio essenzialmente
culturalista, non riesce a collegare adeguatamente la dimensione soggettiva della
coscienza agli altri livelli della vita sociale; a mio parere non riesce
nemmeno a vedere che la lacerazione interiore è al contempo sintomo e prodotto
di una complessa e articolata dinamica sociale. Inoltre, riflettendo il processo di disgregazione psicologica, sociale e
culturale prodotto dal capitalismo flessibile, immagina le identità (ossia la
coscienza di sé e del proprio ruolo sociale) come aggregati mutevoli di
elementi, che si scompongono e ricompongono. Non coglie così che tutte le forme
di coscienza pur cangianti sono caratterizzate da quello che Césaire chiama
<<il nocciolo duro e irriducibile>> (2010: 96), ossia la struttura
di fondo che anch'essa può trasformarsi, anche se questo è un processo assai
complesso e di lunga durata.
Per esempio, ho cercato di mostrare che alla base
dell'ideologia politica dello Stato cubano e delle religioni di origine
africana praticate nell'isola caraibica vi è lo stesso atteggiamento
immanentistico verso il reale, il quale a mio parere costituisce la struttura
di fondo che rende compatibili queste due diverse concezioni del mondo
(Ciattini 2011), spiegandone la convivenza. Intendevo indicare con il termine
immanentismo l'atteggiamento di chi opera affinché il bene e il giusto si
realizzino in questo mondo e pertanto non crede nel possibile compenso celeste
di quanto ha sofferto in terra. Nella logica immanentistica la salvezza deve
ottenersi qui ed ora con gli strumenti che abbiamo a disposizione: nel caso
delle religioni afrocubane ovviamente si tratta di mezzi rituali, nel caso
dell'ideologia rivoluzionaria ci si
avvale di strumenti politici.
Come si vede, si tratta di visioni del mondo
diverse, ma accomunate da una stessa prospettiva, secondo la quale il destino
dell'uomo si compie tutto nella vita terrena.
Il concetto di négritude è stato ripreso da
altri autori ed ha influenzato profondamente gli studi sul tema della diversità
culturale. In questa sede mi limiterò a citare l'opera di Léopold Sédar
Senghor, il quale se ne avvale sia per illustrare la specificità della civiltà
africana sia per prefigurare una forma di associazione tra quest'ultima e
l'antica civiltà francese. Ci sembra interessante questo riferimento perché
Senghor ipotizza la conciliazione e l'armonia tra entità che Césaire aveva
considerato dialetticamente opposte nel processo di colonizzazione.
Senghor rivendica l'antichità e l'originalità
della civiltà nero-africana, che ha costituito organizzazioni politiche
complesse come l'Impero del Ghana prima dell'introduzione dell'Islam e ha dato vita
a nazioni, nel senso di comunità caratterizzate da una stessa razza, lingua,
religione, stesse tradizioni (1964: 46). Tali comunità conoscevano la proprietà
privata (ammesso che questo termine si possa usare in un contesto tanto
diverso) degli oggetti di uso individuale, mentre tutti gli altri beni (i
fiumi, i laghi, la terra etc.) erano inalienabili ed appartenevano agli
spiriti, anche se di fatto erano amministrati dai capi. Per questa loro
funzione era loro attribuito il titolo di padroni della Terra (1964: 49-50).
Egli si sofferma in particolare sulla società dei
Serere (Senegal), sottolineandone il carattere armonico, il quale scaturirebbe
dalla relazione gerarchica ma equilibrata tra le caste, tra i sessi e tra le
generazioni (1964: 53). Si tratta ovviamente di una visione idealizzata di una
società in cui inevitabilmente era presente il conflitto e la contraddizione,
basti pensare alla partecipazione degli africani alla tratta degli schiavi. Ma
per Senghor il magico equilibrio
africano è sconvolto solo dall'intervento europeo, che distrugge l'etica
comunitaria sostituendola con la morale del denaro (1964: 100).
I tratti della psicofisiologia dell'africano,
delineata da Senghor, si ispirano chiaramente a Lucien Lévy-Bruhl, il quale –
come è noto – aveva fatto un quadro della mentalità primitiva e mistica
contrapposta a quella logica e razionale. A parere dello scrittore africano il
nero non è privo di ragione, ma la sua ragione ha un carattere sintetico e non
discorsivo, essa è simpatetica e non antagonista. Non impoverisce le cose, non
le inserisce in schemi rigidi, eliminando la linfa vitale. Essa entra
direttamente nel cuore palpitante della realtà (1964: 202-203).
In definitiva, Senghor identifica la scienza con
lo scientismo e le contrappone la visione mistica, al cui centro stanno la
nozione di forza vitale e l'idea che quest'ultima sia presente in tutte le
manifestazioni del cosmo (1964: 203-204). Contrapposizione questa che
caratterizza una ben precisa tendenza che sin dalla fine dell'Ottocento,
criticando aspramente il positivismo, ha finito con il disconoscere la complessiva capacità conoscitiva del
pensiero scientifico.
Come si vede la cosmologia delineata da Senghor
coincide con quello che gli antropologi hanno chiamato animismo, concezione che
attribuisce all'uomo il compito di accrescere la forza vitale insita negli
esseri con l'ausilio dei poteri sovrannaturali e di difenderla dalle influenze
nefaste.
Pur riconoscendo la profonda differenza tra la
civiltà africana e quella francese, caratterizzata sostanzialmente dal
razionalismo cartesiano per sua natura assimilazionista, egli immagina la
possibilità di un'assimilazione reciproca, dalla quale scaturisca
l'associazione. A suo parere, infatti, la Metropoli deve comprendere lo spirito
dell'Africa, le cui civiltà a loro volta debbono assorbire in maniera attiva e
prudente lo spirito francese che permetterà loro di fuoriuscire dalla stagnazione
e risorgere dalla loro decadenza. Solo a queste condizioni le due civiltà, di
cui viene riconosciuta la diversità, avranno un ideale comune e una stessa
ragione di vivere, basi costitutive di una forma associativa all'interno
dell'Impero francese (Senghor, 1964: 40-45).
In definitiva, Senghor si colloca sul piano
puramente culturalista, immaginando che le differenze tra la civiltà africana e
quella francese sono puramente “spirituali” e non comprendendo che esse fanno
tutt'uno con la natura contraddittoria della società capitalistica, che ha
inglobato forme differenti di vita sociale dotate di finalità difformi sotto la
sua egemonia.
Il punto di raccordo
Mi pare che a questo punto possiamo tirare le
somme di quanto abbiamo esposto nelle pagine precedenti.
Abbiamo messo in evidenza che nel pensiero di
Césaire, di Clifford e di Senghor ha una grande importanza la differenza
culturale, intesa come specifica identità. In particolare, nella riflessione di
Clifford l'identità appare come prodotto di una costruzione a partire da uno
sforzo sintetico di una realtà fortemente frammentata e contraddittoria, in cui
somiglianza e differenza, familiare ed estraneo si contrappongono, benché
costituiscano aspetti della <<modernità mondiale>> (1993: 174).
Nonostante sia critico nei confronti dell'<<umanesimo occidentale>>
o almeno di certi suoi esiti, Clifford dichiara che bisogna essere cauti
dell'abbandonarlo, perché esso <<offre ancora le basi per la resistenza
all'oppressione e un necessario invito a tolleranza, comprensione e
pietà>> (Ibidem).
È interessante osservare che Clifford nonostante
nel suo scritto faccia in più occasione riferimento al potere, non spiega mai
né di cosa è fatto né in cosa consista. Ciò spiega il suo generico richiamo
all'umanesimo, alla tolleranza e alla pietà, ossia in sostanza alla buona
volontà degli individui che – come si è già visto nel caso di Senghor – lascia
intatte le strutture di potere in nome di una lodevole, ma inefficace
comprensione tra le culture.
Insomma, possiamo dire che gli autori esaminati si
pongono il problema della relazione tra universale e particolare, o meglio si
chiedono se è possibile dar vita a un universalismo che non uccida e neghi la
particolarità dei singoli contesti socio-culturali. Ossia, si pongono il
problema del punto di raccordo, anche se per l'impostazione adottata non
riescono a trovarlo in maniera convincente.
A mio parere Césaire sembra essere il più
consapevole che la differenza culturale non è una mera difformità di stili di
vita, ma è il frutto della contraddizione tra forme sociali coesistenti e di
quella tra il funzionamento effettivo della società capitalistica e la sua
ideologia apparentemente ugualitaria e democratica.
Come ha mostrato Césaire, si tratta di
contraddizioni inerenti alla società capitalistica, che il colonialismo non ha
fatto altro che inasprire. Ma Clifford non ha in mente solo il tradizionale
contrasto coloniale, si riferisce anche, senza nominarla esplicitamente, alla
frammentazione della società contemporanea in seguito alle politiche
neoliberali.
Su questo tema rimando ad uno scritto di Eric J.
Hobsbawm (1996), il quale osserva che il concetto di identità appare negli
studi sociologici e antropologici solo negli anni '60. A suo parere la sua
diffusione sarebbe il risultato dello straordinario e rapido sconvolgimento
avvenuto nel ultimi decenni del '900, che avrebbe messo in discussione
l'autorità e la funzione agglutinante della nazione e dei partiti politici
quali rappresentanti delle classi.
Tale perdita avrebbe spinto gli individui
contrapposti ad un potere sempre più transnazionale a ricercare stabilità e
certezza nell'identità del piccolo gruppo sia esso etnico, sessuale o
culturale. Il richiamo all'identità sembrerebbe dunque realizzarsi in un mondo
frammentato che ha spezzato le identità tradizionali e che è in grado di
produrne sempre nuove.
A mio parere tutti gli studi, che si fondano sul
concetto di identità e che in nome di questo rinnegano e condannano tutte le
forme di universalismo, rischiano di assumere come modello quanto è solo il
prodotto della frantumazione operata dal già menzionato capitalismo flessibile.
Ossia, scambiano per naturale e metafisica una condizione storicamente
determinata, dalla quale scaturisce una realtà divisa e frantumata, e per
questa via finiscono per ratificarla come immutabile.
Hobsbawm osserva che le identità collettive
presentano vari caratteri: sono definite per contrasto (es. palestinesi contro
israeliani), sono multiple, mutevoli, intercambiabili, contestuali.
Se lo storico inglese ha ragione, non ha senso
fissarsi su un'unica identità per contrapporre un non ben definito “altro” ad
un altrettanto misterioso “noi” secondo la retorica postmoderna. Infatti, se il
latinoamericano è diverso dall'europeo (usando queste generalizzazioni in senso
puramente indicativo), d'altra parte facciamo entrambi parte di una stessa
forma di vita sociale, che pur nella sua contraddittorietà presenta tratti
comuni nei due continenti. Per questa via, non si scopre un universale
astratto, ma il concreto punto di raccordo che unifica esperienze storiche
tanto diverse senza annullare i contrasti e le contraddizioni.
Insomma, voglio dire che individuare punti di
raccordo è possibile e che ciò non nega l'esistenza della diversità, che in un
contesto con una differente struttura di potere può essere anche valorizzata.
Scrive Césaire che egli non accetta la concezione
punitiva e carceraria dell'identità, secondo la quale essa è concepita come
prigione o ghetto nel quale siamo chiusi per difenderci e distinguerci dagli
altri. Egli pensa all'espansione e al superamento dell'identità riconquistata (la
négritude), per gettare le basi di nuova nuova fraternità (2010: 98).
Naturalmente essa potrà attuarsi non con l'impegno
volontaristico, ma con il superamento delle contraddizioni in cui versa la
società contemporanea; contraddizioni che non producono frammenti irrelati ma
pezzi di uno stesso meccanismo tra loro articolati ed operanti insieme sia pure
nello stridore prodotto dal loro contatto.
Note
[1] L'espressione “Occidente” è mistificante, in quanto occulta le differenze radicali presenti nei paesi che lo costituirebbero. Si pensi per esempio alla differenza tra l'Europa centrale e la penisola iberica. Inoltre, questo termine in realtà si riferisce surrettiziamente anche a paesi orientali, per esempio il Giappone, il quale può essere messo nello stesso insieme solo per l'adozione di una certa forma sociale di organizzazione: il capitalismo avanzato. Credo quindi che in generale gli antropologi, sottomessi al culturalismo statunitense, non abbiano il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e preferiscano trovare un termine ambiguo, che non sollevi preoccupanti antagonismi.
[2] Naturalmente non si intende qui sostenere la tesi che questa sia l'unica contraddizione delle società borghese.
[3] Come rimarca Jean-Loup Herbert il termine “indigeno” fa anch'esso parte dei rapporti coloniali, perché fu imposto dal colonizzatore che non voleva chiamare con i propri nomi le popolazioni autoctone (1972: 68, nota 1).
[4] L'Enciclica di Paolo III Sublimis Deus, emanata nel 1537, interviene su questo punto condannando la schiavitù degli indios e riconoscendo la loro piena umanità; fatto che giustifica dal punto di vista teologico la necessità di convertirli. Tuttavia, tale enciclica, in seguito alle pressioni esercitate sul papa da Carlo V, viene successivamente annullata nel Breve Non indecens videtur del 1538: l'abolizione della schiavitù avrebbe messo a rischio la società coloniale e i proventi che derivano dallo sfruttamento delle terre americane (Giammanco 2010).
[5] Bisogna osservare, tuttavia, che sia Montaigne che Las Casas giustificavano la conquista coloniale, benché auspicassero che fosse realizzata senza violenza.
[6] Naturalmente sarebbe ovvio qui fare riferimento al concetto freudiano di “perturbante” e ai racconti di Guy de Maupassant dedicati a “Le Horla” , che significherebbe qualcosa che è al di fuori, è estraneo e straniero (1995: 127).In questi racconti si descrive la sconcertante trasformazione di aspetti della nostra vita quotidiana in qualcosa di misteriosamente altro, che suscita una grande angoscia.
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