martedì 28 ottobre 2014

RICERCHE MARXISTE - Materialismo dialettico, materialismo non dialettico - Aristide Bellacicco


Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro


“Non abbiamo alcuna prova assolutamente conclusiva né della realtà del mondo esterno né dell’esistenza di noi stessi, ma abbiamo buone prove induttive per entrambe le  assunzioni” 
(Hans Reichenbach, La nascita delle filosofia scientifica)

“Lo spazio assoluto, vale a dire il paletto al quale sarebbe necessario che la terra faccia riferimento per sapere se si muove davvero, non ha esistenza oggettiva” (Henri Poincaré).

“L’unica proprietà della materia, il cui riconoscimento è alla base del materialismo filosofico, è la proprietà di essere una realtà obiettiva, di esistere fuori della nostra coscienza” (Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo.)


Ecco tre affermazioni fatte a varia distanza di tempo l’una dall’altra ma soprattutto, ciò che più ci interessa, a partire da visioni del mondo completamente diverse e forse opposte.
Le prime due sono da ricondursi al progressivo venire alla luce del punto di vista della scienza contemporanea, di cui Poincarè e Reichenbach – quest’ultimo, almeno per un certo periodo, vicino al neopositivismo e al Circolo di Vienna – costituiscono due importanti punti di riferimento; la terza, di Lenin, è contenuta in un suo famoso scritto filosofico: Materialismo ed empiriocriticismo, edito in Russia nel 1908.

Questo libro, scritto nel vivo di una polemica che opponeva Lenin ad importanti esponenti del Partito (in particolare Bogdanov e Lunatcharsky) acquistò nel tempo una decisiva importanza fino a rappresentare, nell’ambito della Terza Internazionale, la principale fonte di ortodossia ideologica, per i Partiti comunisti europei, riguardo al giudizio sulla scienza “borghese” che, in quegli anni, si apriva a teorie come quella della relatività di Einstein e alle nuove vedute sulle particelle atomiche e subatomiche. 

E’ necessario, a questo punto, esporre, sia pure per sommi capi, il contenuto della polemica cui si è fatto riferimento. Per farlo, ci serviamo delle parole di Anton Pannekoek tratte dal suo “Lenin filosofo” (1938): “Verso il 1904” scrive Pannekoek “alcuni intellettuali russi cominciarono a interessarsi alla filosofia della natura dell’Europa occidentale, e soprattutto alle idee sviluppate da Ernst Mach cercando di integrarle al marxismo… i principali porta voce (di questa tendenza) furono Bogdanov, uno dei più vicini collaboratori politici di Lenin, e Lunatcharsky…il conflitto…non era legato solamente a delle controversie astrattamente teoriche, ma a numerose divergenze pratiche e tattiche in seno al movimento socialista” Fu a questo punto che Lenin prese vigorosamente posizione contro queste deviazioni e con l’appoggio di Plechanov, il più eminente dei marxisti russi, riuscì ben presto a liquidare l’influenza del machismo all’interno del Partito”.

Ma chi era Ernst Mach e perché Lenin lo considerava tanto pericoloso? E che cos’è l’”empiriocriticismo”? Anche qui, cerchiamo di esporre in estrema sintesi un pensiero, peraltro complesso, che ha una collocazione senza dubbio strategica nello sviluppo della scienza del ventesimo secolo.
Mach (1838-1916), fisico ed epistemologo tedesco, fa parte di quel gruppo di scienziati – fra i quali Henri Poincarè in Francia e Karl Pearson in Inghilterra - che, sul finire del diciannovesimo secolo, cominciarono a svolgere una critica radicale delle principali teorie che, fino allora, avevano dominato il panorama scientifico europeo. Si tratta di quel fenomeno che verrà successivamente indicato come “crisi dei fondamenti”: in esso, le opere di Ernst Mach furono fra quelle che esercitarono la maggior influenza.

Citiamo direttamente Mach dal suo testo “Analisi delle sensazioni (1903): "Non sono i corpi a produrre le sensazioni, ma i complessi di sensazioni a formare i corpi. E se il fisico pensa che i corpi siano una realtà permanente e i suoi “elementi” (un altro termine con cui Mach indica le sensazioni, ndr) un’apparenza passeggera ed effimera, è perché egli non si rende conto che tutti i corpi non sono altro che i simboli mentali di complessi di sensazioni”.
Non sfugge, anche da questa breve citazione, che ci si trova davanti a una concezione di carattere neo – empiristico. La conoscenza (scientifica) non può basarsi altro che sui dati dell’esperienza: questi ultimi sono tutto ciò che lo scienziato ha a disposizione per formulare teorie e per ricostruire i “fatti”del mondo esterno. Questo, in sostanza, è il senso del termine “empiriocriticismo” (in realtà, coniato dal filosofo di origine francese Richard  Avenarius): vale a dire una polemica diretta contro il realismo ingenuo del materialismo borghese che sosteneva l’esistenza “di per sé” di una realtà materiale esterna alla mente.
Non che Mach neghi aprioristicamente l’esistenza del mondo esterno: egli, piuttosto, considera tale questione “oziosa” e priva di importanza ai fini della conoscenza scientifica.

Scrive ancora Mach nell’opera citata (Analisi delle sensazioni): “Quando noi ci rappresentiamo dei fatti con il pensiero, noi non li riproduciamo mai come essi esattamente sono, ma ne conserviamo solo gli aspetti che sono importanti per noi…Le nostre rappresentazioni sono sempre delle astrazioni”.
In un testo successivo, Lo sviluppo della meccanica,(1908) troviamo ancora quanto segue: “La natura si compone di elementi forniti dai sensi….Le sensazioni non sono “simboli delle cose”. Al contrario le “cose” sono simboli mentali per un complesso di sensazioni che ha una relativa stabilità…Non sono le cose o i corpi, ma i colori, i suoni, la pressione, lo spazio e il tempo (vale a dire le sensazioni) i veri elementi del mondo…Descrivendo i fatti, noi cominciamo dai complessi più stabili, i più abituali e ordinari, e in seguito aggiungiamo, come correzione, ciò che è meno abituale.”

Al suo tempo, le concezioni di Mach, qui sommariamente esposte, non suscitarono che un’eco abbastanza esigua sul terreno delle applicazioni pratiche. Ma, come scrive Pannekoek (op. cit.): “Solo nel ventesimo secolo, quando la teoria atomica e quella dell’elettrone andarono incontro a un grande sviluppo e quando la teoria della relatività fece la sua comparsa, delle gravi contraddizioni interne si manifestarono nella fisica. I principi di Mach si rivelarono allora la strada migliore per vincere quelle difficoltà”.

Ma nella sua accesa polemica, Lenin sembra non prendere in alcuna considerazione tutto ciò. Certo, nel 1909 ci si trovava ancora all’inizio di quella che sarà la svolta storica della scienza nel corso del ventesimo secolo: però, va anche considerato che Materialismo ed empiriocriticismo venne ripubblicato e tradotto in varie lingue nel 1927 senza sostanziali diversità con l’edizione originaria.
Certo, Lenin non era uno scienziato e, propriamente, nemmeno un filosofo: ma è altrettanto vero che il suo testo ha chiarissime ambizioni filosofiche e che sceglie la filosofia e l’epistemologia come terreno di scontro.

Per dare un’idea dell’importanza che l’ortodossia marxista e leninista attribuiva a questo libro, è utile questa citazione di Abram Deborin (filosofo marxista russo, più noto con lo pseudonimo di Ioffe, e portavoce ufficiale della Terza internazionale) tratta dalla prefazione alla seconda edizione di Materialismo ed empiriocriticismo: “Il libro di Lenin rappresenta dunque, non soltanto un considerevole contributo alla filosofia, ma anche un documento di prim’ordine sulla storia del Partito, documento che ha assunto un’importanza straordinaria contribuendo a ristabilire i principi filosofici del marxismo e del leninismo, determinando così, in larga misura, l’ulteriore evoluzione del pensiero filosofico dei marxisti russi…Il marxismo uscì vittorioso da questa lotta. Il materialismo dialettico fu la sua bandiera”.
Una vera e propria battaglia, quindi, che aveva come obiettivo il ristabilimento dei “principi filosofici” del marxismo (e del leninismo), identificati da Deborin con il materialismo dialettico.

Ma che cos’è il materialismo dialettico?
Bisogna, come prima cosa, chiarire che i principi fondamentali di questa corrente di pensiero risalgono a Engels, che li espose in opere come l’“Anti- Duhring” e “La dialettica nella natura”, benché quest’ultima, mai completata per la morte dell’autore, ci sia giunta solo in forma di appunti e frammenti.
L’obiettivo di Engels era duplice: sotto la forma di una critica del materialismo volgare e sulla base dei risultati più attuali della scienza del suo tempo, mostrare, in primo luogo, la contraddizione fra la maniera metafisica di pensare e il modo di pensare dialettico e, in secondo luogo, la contraddizione fra la dialettica mistificata e idealistica di Hegel e la “dialettica razionale” del materialismo filosofico.
Non si tratta, quindi, di una semplice trasposizione dei principi del materialismo storico alle scienze della natura (perché, hegelianamente, non si dà storia nella natura): piuttosto, di un complessivo ripensamento della relazione intercorrente fra pensiero e natura (tra soggetto e oggetto) che superasse la rozzezza e lo schematismo del materialismo di origine borghese, quello che Engels indica come “materialismo volgare”.

In questa sede, non è possibile né necessario approfondire nel dettaglio la visione engelsiana, peraltro molto ricca anche se frammentaria. Ci serva, come sintesi efficace, questa citazione tratta dalla prefazione all’”Anti-Duhring”:
“ Per il metafisico” scrive Engels, le cose e le loro immagini riflesse nel pensiero, i concetti, sono oggetti isolati di indagine, da considerarsi successivamente e indipendentemente l'uno dall'altro, fissi, rigidi, dati una volta per sempre... Per lui una cosa esiste o non esiste; ugualmente è impossibile che una cosa sia nello stesso tempo se stessa ed un'altra. Positivo e negativo si escludono reciprocamente in modo assoluto; causa ed effetto stanno dal pari in rigida opposizione reciproca. Questa maniera di pensare ci appare a prima vista estremamente plausibile per il fatto che essa è proprio quella del cosiddetto senso comune.”
A questa concezione, Engels contrappone la dinamicità dell’approccio dialettico, che tenta di cogliere l’”oggetto” nel suo inarrestabile divenire e trasformarsi: nello stesso tempo, anche il “soggetto” – l’uomo e la sua coscienza – escono a loro volta dalla fissità di una posizione univocamente “esterna” e vengono coinvolti, trascinati quasi, nel medesimo divenire.

Dal punto di vista dialettico, dunque, l’uomo, attraverso la prassi conoscitiva trasforma il mondo e ne viene a sua volta trasformato. E’ appena il caso di sottolineare quanto sia forte, in tale visione, l’eco delle prime due tesi su Feuerbach di Marx: laddove l’oggetto non viene più assunto come un “qualcosa” che di per sé abita il mondo, dove il soggetto lo incontra e lo percepisce in virtù di un atto intuitivo, ma come il corrispettivo della stessa azione umana che trasforma il mondo per i suoi propri fini. Ciò non significa che la materia assuma un carattere, per così dire, metaforico: piuttosto, non si dà “materia” al di fuori dell’agire umano; la materia, cioè, è “ciò su cui” si esercita la forza e il potere dell’uomo che la trasforma e della stessa scienza come attività pratica e teorica.

Detto ciò, non si può evitare di prendere atto che in Engels, tuttavia, sopravvive un tratto del vecchio materialismo borghese: vale a dire, l’idea che la natura, la “materia”, sia pure colte dinamicamente nel loro continuo divenire e mutarsi, e quindi dialetticamente, esistano di per sé al di fuori della coscienza umana. Di conseguenza, Engels non può fare a meno di cadere a sua volta in una sorta di dualismo, mediato dal concetto di “rispecchiamento”. La natura, dice Engels, si “rispecchia” nel pensiero umano: quest’ultimo riesce a conoscerla perché ne costituisce una parte, perché è a sua volta un prodotto della stessa natura. E proprio questa comune origine garantisce che i concetti che si formano nella mente non differiscano qualitativamente dai corrispondenti elementi naturali: e che i principi che la scienza ricava dall’osservazione siano “oggettivamente” veri in quanto presenti nella natura stessa e da essa ricavati. In tal modo, la conoscenza si presenta sì come un fenomeno potenzialmente infinito e costantemente incrementabile, ma la cui sostanza – il suo oggetto – è già compiutamente reale di per sé e precedentemente all’azione umana e alla prassi scientifica.
Su questa base Engels, nel “Ludwig Feuerbach” arriverà a dividere l’intera filosofia, anche nel suo sviluppo storico, in due campi nettamente contrapposti:
- l’idealismo, il quale sostiene che il pensiero precede l’essere – il quale, quindi, ne dipende;
- e il materialismo, il quale sostiene che l’essere (la natura) precede il pensiero – e, di conseguenza, è indipendente da esso.

Ora, notare questo particolare aspetto del pensiero di Engels, è particolarmente importante quando ci si voglia accostare criticamente a “Materialismo ed empiriocriticismo” che ad Engels fa costantemente riferimento.

Ma, prima di affrontare il libro di Lenin, può essere utile fare un salto avanti nel tempo per leggere qualche passo da un breve corso sulla storia del Partito Comunista tenuto da Stalin all’università di Sverdlov nel 1938 e intitolato, appunto “Del materialismo dialettico”.  Questa digressione può forse aiutare a meglio comprendere il senso dell’affermazione di Deborin, sopra riportata, relativa al “ristabilimento” dei “principi filosofici” marxisti e leninisti. Si tenga presente che, nel 1938, la battaglia cui parla Deborin, quella che aveva appunto preso come vessillo il materialismo dialettico, poteva ormai considerarsi del tutto vittoriosa in Unione Sovietica.
Il materialismo dialettico” scrive, infatti, Stalin” è la concezione del mondo del partito marxista - leninista…Il materialismo storico estende i principi del materialismo dialettico allo studio della vita sociale, li applica ai fenomeni della vita sociale, allo studio della società, allo studio della storia della società.”

Dunque, nella versione di Stalin, il materialismo dialettico si presenta come un concetto più ampio di quello di materialismo storico, talmente più ampio da fare di quest’ultimo una sua derivazione, mentre è storicamente affermabile che le cose sono andate esattamente al contrario. Ma, anche di là da ciò, emerge chiaramente l’idea che i principi di una scienza della natura possono e devono essere legittimamente applicati a una scienza umana e sociale come è, appunto, il materialismo storico: cosa, questa, che lo stesso Engels mai si sarebbe sognato di affermare.

La concezione meccanicistica e finalistica della storia e dello stesso processo rivoluzionario implicita in questo modo di pensare viene più avanti testimoniata dallo stesso Stalin:
“Se è vero che il mondo è in perpetuo movimento e sviluppo” scrive Stalin “se è vero che la scomparsa di ciò che è vecchio e la nascita di ciò ch’è nuovo sono una legge dello sviluppo, è chiaro che non esistono più regimi sociali immutabili”: il che, come affermazione a sé stante, sembrerebbe persino ovvia se non fosse evidente, da tutto il suo argomentare, che l’intera vicenda storica è intesa come regolata da nessi necessari, allo stesso modo di un qualsiasi fenomeno naturale secondo una visione tipica della scienza e dell’evoluzionismo ottocenteschi.
Infatti, Stalin non sembra affatto disposto ad ammettere che il socialismo – o comunque si voglia chiamare la formazione politico-sociale affermatasi in Russia dopo la Rivoluzione d’Ottobre – debba soggiacere alla stessa legge e quindi, sul piano teorico e pratico, essere riconosciuta come transitoria e suscettibile di superamento.
Ma, e questo è assai significativo, Stalin, a sostegno delle sue tesi, si rifà, come a una fonte di indiscutibile autorevolezza, proprio a “Materialismo ed empiriocriticismo” nel quale, effettivamente, trova adeguato sostegno teorico.

“Di immutabile vi è, secondo il punto di vista di Engels, soltanto una cosa: il riflesso, nella coscienza umana (quando esiste una coscienza umana), del mondo esterno, che esiste e si sviluppa indipendentemente da essa.” (Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo)
Questa perentoria affermazione di Lenin, ripresa molte volte con differenti parole, ma identica nella sostanza, costituisce, da sola, il fondamento dell’intero impianto polemico del suo testo.
Qualsiasi visione del mondo che si discosti dalla dicotomia materia/coscienza viene senza indugio classificata come “idealismo”. Idealismo è quello di Mach e Avenarius, idealismo quello di Bogdanov e degli altri marxisti russi che si erano avvicinati al pensiero empiriocriticista; ed idealismo, o una sua variante, anche le posizioni più avanzate della scienza dell’epoca, non esclusa quella di Poincarè. Lenin, come risulta dal testo, poggia la sua argomentazione sulla netta contrapposizione idealismo/materialismo operata da Engels nel “Ludwig Feuerbach” e citata nel precedente paragrafo: ma del pensiero di Engels sembra prendere quest’unico elemento tralasciando del tutto il tema della dialettica.

Certo, trova un terreno fertile in quella sopravvivenza di materialismo vecchia maniera che portava lo stesso Engels a insistere sull’esistenza di una “materia” (cioè di un mondo) esterna ed indipendente dalla coscienza umana; ma porta questa idea alle estreme conseguenze, facendone l’unico discrimine fra veri e falsi marxisti, fra fautori del progresso ed oscurantisti e, in maniera determinata, fra autentici scienziati e “fideisti”.
E’ singolare, riguardo quest’ultimo punto, come Lenin assuma e avvalori, del tutto acriticamente, il punto di vista del “senso comune”, del “realismo ingenuo”, come quello che è condiviso “istintivamente” dagli scienziati non influenzati dal “fideismo” (cioè dalla religione) e, insieme, dall’uomo della strada. Scrive infatti:
“Il realismo ingenuo di ogni persona sana di mente, che non è mai stata in manicomio o a scuola dai filosofi idealisti, consiste nel riconoscere l’esistenza delle cose...indipendentemente dalla nostra sensazione…e dal nostro io…Il materialismo mette consapevolmente alla base della sua teoria della conoscenza la convinzione “ingenua” dell’umanità”.
Insomma, si tratta del comune atteggiamento umano, quello in base al quale chiunque di noi, per praticità, manipola e usa gli “oggetti” del mondo nella sua vita quotidiana “considerandoli” come esterni a se stesso, o meglio, senza porsi affatto il problema.

E’ ovvio che, come conseguenza, la teoria engelsiana del “rispecchiamento”- isolata dall’insieme del pensiero di Engels - venga considerata come l’unica in grado di spiegare il fenomeno della conoscenza: la natura, la “materia in movimento” modifica i nostri organi dei sensi producendo in noi un’immagine somigliante, anche se mai del tutto identica, alla realtà esterna. Il compito della scienza – un compito infinito – consiste allora nel progressivo adeguamento del conoscere umano alla forma di un mondo “materiale” esistente di per sé, dove tutti i contenuti della conoscenza sono già presenti.

Dunque la verità assoluta esiste: essa è collocata alla fine dell’infinito processo della conoscenza e, di conseguenza, possiede una compiutezza, anche se solo potenziale (o formale). Essa esiste all’infinito. Tale affermazione è, come abbiamo visto, basata sul punto di vista del senso comune: l’esistenza del mondo fuori di noi. In questo mondo, in questa “materia” che si riflette in noi, la verità già risiede: a noi il compito di indagarla e conoscerla sempre meglio.

Ma è proprio questo concetto di “materialismo” uno dei punti deboli dell’impianto filosofico ed epistemologico di Lenin. Ciò può essere messo meglio in evidenza nel confronto con la famosa critica, che Engels, nel Ludwig Feuerbach, aveva rivolto al materialismo del XVIII secolo, e a cui lo stesso Lenin fa esplicito riferimento.
Engels ravvisa tre importanti limiti nella visione materialistica tipica dell’illuminismo:
1. la concezione meccanicistica (vale a dire, l’applicazione esclusiva dei criteri della meccanica a processi che sono di natura chimica o organica).
2. il modo antidialettico di filosofare
3. la conservazione dell’idealismo “in alto”, nel campo della scienza sociale: l’incomprensione del materialismo storico (critica, quest’ultima, che egli rivolge allo stesso Feuerbach, come aveva già fatto Marx nelle note tesi).
Ebbene, è legittimo affermare che il libro di Lenin offre il fianco alle medesime obiezioni, benché l’autore sembri esserne del tutto inconsapevole.

In particolare, concentriamoci sulla terza critica: l’incomprensione del materialismo storico.
Ora, può apparire paradossale addossare a Lenin una sorta di “dimenticanza” dell’approccio materialistico alla storia umana: e ciò, soprattutto, considerando la ben diversa lucidità e pregnanza degli scritti del Lenin “politico” che mai dimentica quale sia l’intimo rapporto fra un determinato sviluppo delle forze produttive e le relative formazioni culturali, politiche ed ideologiche dominanti e, ancora di più, la sua capacità di legare strettamente teoria e prassi al di fuori di qualsiasi schematismo. Valga un esempio per tutti: la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet” viene affermata nelle Tesi d’aprile, abbandonata nel corso della crisi di luglio, quando i soviet cadono sotto l’egemonia menscevica e socialista-rivoluzionaria, ma successivamente ripresa dopo la sconfitta di Kornilov e la conquista bolscevica della maggioranza nei soviet di Mosca e Pietrogrado.

Sarebbe troppo sbrigativo classificare questo comportamento come opportunistico: infatti,  l’obiettivo politico di Lenin – la rivoluzione proletaria – non muta a seconda delle circostanze o delle convenienze; esso rimane stabile sullo sfondo.  E’ invece evidente l’acuta coscienza che Lenin ha, in forma autenticamente dialettica, del costante divenire e mutarsi delle condizioni materiali e politiche nelle quali il progetto rivoluzionario può e deve proseguire e, di conseguenza, la sua prontezza e la sua duttilità- davvero anti-dogmatica – nell’adeguare le scelte del Partito alle situazioni determinate, senza mai ancorarle a una presa di posizione di carattere puramente ideologico.

Si deve purtroppo riconoscere come questa lezione leniniana sia andata in gran parte perduta negli anni della Terza internazionale successivi all’avvento di Stalin: quando, appunto, la battaglia sui “principi filosofici” marxisti e leninisti (vedi Deborin) si era definitivamente conclusa a favore di un dirigismo burocratico e repressivo che aveva espropriato la classe operaia sovietica – ma anche quella europea e mondiale – di qualsiasi autonomia di pensiero e d’azione.
E’ proprio sotto questa prospettiva, però, che è possibile rintracciare in “Materialismo ed empiriocriticismo” una delle radici della rapida involuzione in senso anti-dialettico del successivo sviluppo dell’esperienza comunista.

In effetti Lenin, nella sua polemica contro il “machismo” e le sue conseguenze ideologiche, sembra dimenticare, o volutamente tralasciare, uno degli assunti fondamentali della concezione storico-materialistica: vale a dire, il nesso che lega il pensiero alle condizioni materiali di esistenza delle classi e al loro conflitto.

Sarebbe stato abbastanza semplice, o almeno possibile, mostrare come la forte suggestione che l’empiriocriticismo esercitava su una parte dell’intellighenzia marxista derivasse dalle particolari condizioni di arretratezza sociale e culturale della Russia pre-rivoluzionaria: si cercava, nelle frontiere più avanzate del pensiero borghese, un’occasione di modernizzazione intellettuale che era impossibile trovare in patria. In altri termini, la polemica contro l’”idealismo” di Mach e Avenarius, ammesso che fosse tale, avrebbe trovato miglior terreno in un’analisi di classe.

Al contrario, Lenin sceglie una linea secondo cui sembra che le idee piovano sul mondo direttamente dalla testa degli uomini senza alcun rapporto col loro essere sociale. Dunque, si apre il campo ai temi del tradimento ideologico, al “deviazionismo”, all’abbandono dei principi, come se tutto ciò configurasse il campo di una “colpa” morale radicata in una sorta di autonomia assoluta della cultura e del pensiero. Ed è proprio qui che il Lenin dialettico cede il passo al Lenin anti-dialettico, e che la sua battaglia assume i toni di una sorta di crociata ideologica.

Le armi che egli sceglie per combatterla non sono quelle del marxismo e del materialismo storico. Egli, piuttosto, si ancora alle concezioni del materialismo borghese di origine settecentesca, per il quale non nasconde la propria simpatia, perché questo, col suo carattere ateo e meccanicistico, gli appare come l’argomento più efficace da mettere in campo contro la nuova metafisica che egli teme possa affermarsi sulla scia dell’empiriocriticismo e delle vedute più avanzate della scienza a lui contemporanea, che egli, almeno in parte, travisa (vedi i giudizi su Poincarè).

Nota a questo proposito Pannekoek nell’opera citata:
“… il materialismo storico vede nei risultati della scienza …delle creazioni del lavoro dello spirito umano. All’opposto, il materialismo borghese, adottando il punto di vista degli scienziati, vede (nei risultati della scienza) una parte della natura stessa, scoperta e portata alla luce dall’attività scientifica. Gli scienziati considerano le entità…come la materia, l’energia, l’elettricità, il peso, la legge di gravità ecc. come altrettanti elementi fondamentali del mondo…Dal punto di vista del materialismo storico, questi sono invece prodotti dell’attività creatrice dell’uomo, formati a partire dalla materia prima dei fenomeni naturali. E’ questa la differenza fondamentale tra gli atteggiamenti di pensiero dei due materialismi.”
Quindi, secondo questa interpretazione, la linea di demarcazione non passa genericamente fra “idealismo” e “materialismo” intesi in senso assoluto- come è appunto nella versione di Lenin e, parte, di Engels - ma fra materialismo meccanicistico e approccio dialettico alla storia umana nel suo complesso.
Ma a cosa far risalire la sorprendente, e in un certo modo isolata, scelta di campo di Lenin, il suo ricorrere ad argomenti e a punti di riferimento culturali che abbandonano la visione dialettica per appoggiarsi a una fede – posta come discrimine ideologico – che richiede, appunto come atto di fede, la dichiarazione di assoluta certezza sull’esistenza “di per sé” della “materia”?

Senza avere la pretesa di arrivare a conclusioni definitive, si possono formulare alcune ipotesi.

1) Lenin “vede”, nel fondo dell’empiriocriticismo e della scienza contemporanea, la tendenza a portarsi su un piano che toglie ogni valore di certezza assoluta alla conoscenza. Quest’ultima, cioè, si presenta non come un appropriarsi da parte del pensiero di un “qualcos’altro” (la materia, la natura) dato una volta per tutte, ma come un continuo costruirsi del sapere attraverso la formulazione di teorie nessuna delle quali è immune da revisioni e critiche. E’ implicito, in una tale visione, un carattere relativistico e “laico” che, affermandosi, porterebbe nella stessa scienza marxista (e dunque nel Partito) l’aprirsi di una molteplicità di punti di vista che solo una prassi dialettica ed autenticamente democratica potrebbe mediare. Ma, nel momento in cui scrive, Lenin sta combattendo per un Partito ideologicamente compatto e non intende cambiare strada.

2)  Lenin teme che in quello che egli chiama “idealismo” si annidi il rischio di una ricomparsa della metafisica e di idee variamente legate alla religione: è questo il senso della polemica, presente quasi in ogni pagina di Materialismo ed empiriocritismo, contro il fideismo (parola che, per motivi di censura, era stata preferita a quella di “pretismo” che compare nella prima stesura).
A tal proposito, è importante sottolineare come, pur avendo a disposizione la critica marxiana alla religiosità, Lenin scelga una linea in realtà molto più prossima a quella dell’ateismo razionalista borghese.

Dunque, il fenomeno religioso – anche se, per i motivi di censura suddetti, tale questione viene solo sfiorata – non è ricondotto da Lenin, in senso storico-materialistico, e quindi dialettico, a particolari stati di sviluppo delle società; e dunque, il suo superamento non appare legato alla progressiva crescita dell’autocoscienza e al venir meno, nello sviluppo storico e culturale della classe operaia e della società in generale, degli elementi di alienazione messi in luce da Marx (ad es. nella Questione ebraica) dei quali la stessa religiosità fa parte.

La metafisica, la religione, Dio, sono visti semplicemente come errori del pensiero, come credenze, superstizioni, che non reggono all’analisi della ragione: Lenin, così sembra, adotta il punto di vista che era stato patrimonio della borghesia durante la sua fase rivoluzionaria (pensiamo alla Rivoluzione Francese) e la rimette in auge proprio quando la stessa borghesia, nel suo periodo di decadenza, si rifugia in filosofie (Schopenauer, Bergson, in parte lo stesso Hegel) nettamente marcate da elementi di metafisica e di irrazionalismo.

3) Lenin intende creare – ben al di là di contingenti necessità politiche – un’ortodossia di pensiero che egli, per varie ragioni, ritiene la più adeguata per una società, come quella russa, che si avviava ad una fase convulsa di lotte di classe che sarebbe culminata con la presa del potere nell’Ottobre: e questo anche prescindendo da valutazioni di merito sulle affermazioni degli empiriocriticisti le quali, in più luoghi del testo leniniano, vengono di fatto piegate a un teorema interpretativo precostituito.
Questa terza ipotesi permetterebbe di liberare Lenin dall’accusa di “non aver compreso” l’incipiente rivoluzione scientifica del ventesimo secolo (che, peraltro, si radica nello sviluppo scientifico del secolo precedente): egli, al contrario, avrebbe perfettamente capito quello che si preparava e si sarebbe risolto ad opporvisi in nome di una “verità” a suo giudizio più utile allo sviluppo rivoluzionario russo – ma non per questo “più vera”. Lenin, semplicemente, non voleva che si pensasse in modo diverso da quello che, nel suo testo, viene presentata come l’unica versione possibile del materialismo dialettico: vale a dire, un materialismo non dialettico.

In questa luce, il successivo sviluppo stalinista del “Diamat” apparirebbe come fatale conseguenza dell’impostazione di Lenin; e si comprenderebbero meglio le ragioni che portarono, in quegli anni, ad epiloghi tragicomici come quello della biologia di Lysenko e ad altre paradossali prese di posizione quali, ad esempio, il rigetto della teoria einsteiniana della relatività in quanto controrivoluzionaria e contraria ai principi del materialismo dialettico.
Avvenne allora – o forse era già avvenuto - quel divorzio fra marxismo e scienza di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze?

Torna alla mente la vicenda di Galileo e il suo terribile scontro con la chiesa cattolica, sul cui sfondo si intravede la grande questione filosofica fra “la” verità e “le” verità: questione tutt’altro che superata ai nostri tempi ma pericolosamente in bilico fra vecchie fedi di una borghesia allo stremo e abbandono delle masse ad ogni sorta di vecchie e nuove – moderne o post-moderne – “religiosità”. 


Nessun commento:

Posta un commento