giovedì 30 ottobre 2014

RICERCHE MARXISTE - L’ambivalenza di Lenin - Stefano Garroni


 Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.


In una lettera a M. Gorki del 13 novembre 1908, così Lenin si esprime: “La Neue Zeit (il giornale ufficiale del partito socialdemocratico tedesco, SPD) … è indifferente alla filosofia, ( il giornale) non è mai stato un accanito sostenitore del materialismo filosofico, e negli ultimi tempi ha pubblicato, senza fare alcuna riserva, gli empiriocriticisti … Tutte le correnti piccolo-borghesi della socialdemocrazia combattono soprattutto il materialismo filosofico, tendono a Kant, al neokantismo, alla filosofia critica. No, la piccola borghesia non ammette neppure sulla soglia di casa sua la filosofia di cui Engels ha gettato le basi nel suo Antidϋhring[-1] .
In una lettera, di poco precedente e sempre indirizzata a Gorki, si legge: “Il terzo argomento (di grande interesse per il giornale bolscevico Proletari) è la filosofia. So bene che la mia impreparazione in questo campo non mi permette di intervenire pubblicamente. Ma come semplice marxista leggo attentamente l’empiriomonista Bogdanov e gli empiriocritici Bazarov, Lunaciarski, ecc., ed essi spingono tutte le mie simpatie verso Plechanov! … In filosofia egli sostiene una causa giusta. Io sono per il materialismo, contro l’<empirio- …> ecc[-2] .”
Dunque, al termine del 1908 Lenin riconosceva l’improponibilità di un suo pubblico intervento in ambito filosofico a causa della sua impreparazione in materia; tuttavia –e con ‘apparente’ contraddizione- poco dopo lo stesso Lenin pubblicava Materialismo ed empiriocriticismo, dunque, non solo un testo dalle pretese filosofiche, ma addirittura con intenti di messa a punto in ambito di filosofia della scienza !

E questo non è il solo punto che desta sorpresa: dacché va sottolineata, anche, l’aperta professione di materialismo, che fa Lenin, sulla scia di un personaggio (Plechanov) da lui stesso più volte aspramente criticato e proprio per la prospettiva filosofica (meccanicistica, positivistica), in cui interpretava l’opera di Marx[-3] .
Ho usato prima l’espressione ‘apparente contraddizione’ a proposito della pubblicazione, da parte di Lenin, di un libro dedicato ad un  argomento, di cui egli stesso si dichiara sostanzialmente incompetente; ma l’apparente contraddizione continua nella aperta professione di identità di vedute (filosofiche) con un personaggio (Plechanov) molto puntualmente ed ampiamente dallo stesso Lenin criticato con asprezza. Come si spiega tale ‘apparente’ contraddizione?
In realtà, in Lenin esiste –non sempre,  ma a volte- la propensione a render conto del rapporto fra dimensione ideale (e, dunque, anche filosofica e scientifica) e dimensione politico-sociale, senza l’adeguata consapevolezza di come quel rapporto possa essere complesso, intricato, indiretto.
Giusta questa propensione, l’‘apparente’ contraddizione è tolta ed, anche, risulta facile intendere come il ‘partito’ filosofico, cui si aderisce, abbia una immediata significazione politico-sociale e, dunque, corrisponda ad una e non ad un’altra presa di posizione dal punto di vista delle classi sociali in lotta. E la tesi di Lenin è questa, esattamente, che la scelta filosofica materialistica, politicamente corrisponda ad una scelta eversiva nei confronti dell’ordine sociale imperante. E’ corretta tale convinzione?
Non è possibile una risposta univoca, dacché – e lo si ricava dallo studio di H. J. Sandkühler[-4] - ‘materialismo’ è termine di una coppia di opposti (l’altro, ovviamente, è ‘idealismo’), che interagiscono l’un sull’altro, nel senso che modificandosi il senso dell’uno, si modifica anche il senso dell’altro.
In altre parole si tratta di un’endiadi mutevole, dinamica, proprio perché la modifica del senso dell’un termine implica la modifica del senso dell’altro termine: l’endiadi ha, dunque, la forma e la dinamica di una totalità dialettica, hegeliana, con la conseguenza che nessuno dei termini che la costituiscono, se preso isolatamente, è definibile nella sua Bedeutung, ma sempre rimanda all’altro ed al senso dell’altro. Il che vale a dire che non è possibile dare una definizione, che pretenda valere una volta per tutte, né dell’un termine, né dell’altro.
Certo, si potrebbe seguire la codificata procedura empiristica ed intendere per definizione, poniamo di materialismo, ciò che accomuna tutte le situazioni storiche, in cui di materialismo si è fatta professione; ma sappiamo bene quale sia il limite di questa tradizionale procedura, quale sia la contraddizione in cui incorre: mentre ciò che esiste, di fatto, è questo o quest’altro materialismo e, quindi, mentre ciò che si colloca nel Dasein è un determinato intreccio di note comuni e note particolari, l’essenza della cosa, paradossalmente, risulterebbe, invece, dalla trascuratezza della sua specificità, ovvero dal metter tra parentesi quel certo determinato intreccio di note comuni e note specifiche. L’essenza, in altre parole, ‘ucciderebbe’ la cosa.
La procedura tradizionale è, dunque, un Holzweg, una strada senza sbocco e chi volesse determinare il senso (o Bedeutung) di materialismo, dovrebbe procedere ad una analisi concreta di situazioni determinate, ma conservate nella loro specificità[-5] . A questo punto cerchiamo di approfondire le questione.
Nell’insieme della storia della filosofia, leggiamo nel citato Sandkühler, il materialismo è forma, ben nota, di una dottrina filosofica monistica intorno ai rapporti della materia con lo spirito, del materiale con l’ideale; il materialismo si contrappone all’idealismo per la fondazione, diversa dal punto di vista ontologico, della materia e perché riconosce al materiale un primato logico e genetico; tuttavia –sottolinea l’A. tedesco- non c’è una definizione univoca e unitaria del materialismo.
E’ quanto dicevamo: se pur è vero che parlando di materialismo si implica di necessità codesta contrapposizione con l’idealismo, tuttavia in contesti storici determinati, diverso è il senso suo e, per questo, non possiamo usarla –la contrapposizione- a mo’ di definizione di materialismo. (Va precisato, per altro, che contrariamene a quanto comunemente si crede -e a ciò che lo stesso Lenin credeva, come sembra-, la concezione dello svolgersi della filosofia quale contrapposizione continua di idealismo e materialismo, non rappresenta un tratto originale del pensiero di Engels, ma è tesi formulata dal leibniziano Ch. Wolff nel Settecento).
Ci sono contesti storici, ad es., in cui ‘materialismo’ ha il significato peggiorativo di una concezione e di una forma di vita, mancanti di ‘idealismo morale’ e, in questo senso, del tutto prive di ‘religiosità’, dacché son caratterizzate da spinte egoistiche volte alla conquista, unicamente, di beni materiali.
Nel Philosophischen Lexikon di J. G. Walchs (1726), il materialismo viene identificato con la negazione delle ‘sostanze spirituali’ e, ad un tempo, col meccanicismo, che cerca di dedurre ogni dato ed ogni effetto dei corpi naturali dalla strutture della materia. Come scrive Walchs, i materialisti sono, tra i filosofi, una <pessima setta>: il loro rifiuto della differenza di anima e corpo comporta la perdita della libertà, che consegue alla negazione dell’immortalità dell’anima – l’intero pensiero dei materialisti è pregiudizievole rispetto alla religione ed alla virtù. 
Per insistere sulla questione della definibilità di ‘materialismo’, vale sottolineare che la coscienza filosofica sorge storicamente dalla convergenza di fattori diversi: motivazioni propriamente filosofiche, ma anche derivanti dallo sviluppo delle scienze ed, infine, dall’operare di fattori politici e sociali. In questo quadro, i sistemi di conoscenza e le visioni del mondo si relazionano alla realtà, nel suo modo obiettivo di esistere, secondo le più diverse finalità e, dunque, orientandosi alle più diverse funzionalità.
La storia della filosofia non ci mostra, però, solo opposizione tra materialismo ed idealismo, sì anche momenti, in cui i due orientamenti presentano importanti tratti comuni – e ciò per l’operare congiunto di motivazioni scientifiche e storico-sociali.
Ad es., con le opere di F. Bacon Magna instauratio imperii umani in naturam e Novum Organum, ovvero con le opere di una filosofia intesa come scienza, il problema di una sicura conoscenza e il tema dell’obiettività entrano concretamente al centro della teoria filosofica; la meccanica classica, la geometria, la matematica e la scienza della natura offrono modelli per comprendere la dinamica di sviluppo del modo di produzione capitalistico, in quanto sistema di regole, nel quale, mediante conoscenza e dominio dell’insieme delle leggi fondamentali, i fenomeni si mostrano influenzabili.
La filosofia materialistica, ma anche quella idealistica, non per ultimo, ricorre, allo scopo di spiegare la realtà e per guidarne lo sviluppo attraverso un cambiamento cosciente, allo strumento metodologico dell’analogia tra materia e coscienza, natura e processo conoscitivo, legge naturale e storica, ed al superamento dei limiti empirici di un’esperienza assolutizzata e di una astrazione razionalistica.
Come si vede proprio il fatto che materialismo ed idealismo siano gli opposti di una stessa totalità, fa sì che tra i due possano esservi anche convergenze. Ad es., nell’ambito della filosofia borghese classica, materialismo e idealismo sono, entrambi, fondamentalmente, orientati sull’interesse, ovvero puntano entrambi a fondare un piano storico e la regolamentazione delle esigenze borghesi alla libertà.
Concetti come quello dell’unità di natura e storia, cioè della totalità di tutto il reale, della regolarità del progresso, della necessità di raggiungere degli scopi razionali, sono, anch’essi, comuni al programma filosofico sia idealista, che materialista.
La forma di universale, in cui si mostra il sapere filosofico, garantisce la sua possibilità di incorporare le conoscenze di formazioni precedenti, e la capacità d’astrazione gli consente di ricavare ‘utopia’ e anticipazioni da ciò che è immediatamente dato.
In tutta la sua storia, il materialismo si relaziona non solo alla realtà che va spiegata, ma sì, anche, all’impiego di strumenti conoscitivi, conquistati nel confronto critico con teorie non materialistiche.
L’interesse ad una teoria realistica della conoscenza della natura e della storia, come la funzione di modello, che la costruzione della teoria e la metodologia delle scienze esatte si son conquistate nei riguardi della filosofia, conducono al fatto che, all’interno dell’idealismo, esistano momenti materialistici. Materialismo e idealismo esistono nella classica filosofia borghese, solo come elementi di un sistema dialettico di relazioni.
A differenza dell’immodificato importante ruolo socialmente produttivo della scienza naturale e della tecnica, la funzione del sapere filosofico è oggetto di discussione, anche all’interno del movimento dei lavoratori, ove si scontrano posizioni filosoficamente formate con altre di fonte positivistico-scientifica. 
Se il socialismo scientifico costruisce un insieme delle rappresentazioni degli interessi economici, politici, sociali e ideologici di portatori individuali della politica di classe; e se è il risultato di un sapere scientifico, trasformato in visione del mondo, e di elementi di visione del mondo riformulati in teorie -, tuttavia il legame tra immagine scientifica del mondo e movimento sociale, ancora con il programma di Gotha, non costituisce ciò che il marxismo indicava, ovvero l’interna consistenza e l’aperto orientamento progressivo proprio della dialettica, che da Hegel porta a Marx.
Torniamo ora ad un tema, già precedentemente accennato –intendo quello della ‘irreligiosità’ del materialismo, del suo essere una minaccia per qualunque sistema etico (e politico!).
Nella seconda parte dell’Ottocento, ad es., il francese E. Caro, nel suo Le matérialisme et la science, contesta il diritto sia del materialismo che della scienza a combattere –e scalzare dal suo ruolo- la metafisica; l’A. qualifica anche il materialismo come ateismo privo di fondamento scientifico.
Da parte sua, il teologo tedesco Stöckl sostiene in un testo del 1875 (Lehrbuch der Geschichte der Philosophie) che il fallimento della filosofia precristiana è dimostrato dai suoi esiti scettico-materialistici.
Per chiudere su questa rapida carrellata circa il senso di ‘materialismo’, nello sviluppo della storia filosofica, mi limito a citare l’esempio dell’epistemologo francese Gaston Bachelard, che tornò ad avere –nei secondi anni 60- una non immeritata fortuna.
“Bachelard aveva dimostrato nei suoi lavori sulla storia delle scienze fisiche e chimiche l'assurdità della classica opposizione gnoseologica di empirismo e razionalismo: gli oggetti della moderna microfisica sono costruzioni della ragione scientifica, come pure prodotti di un’opera sperimentale di ordinamento materiale. Se però il criterio di una filosofia scientifica deve essere il processo di conoscenza reale delle scienze, debbono essere rigettate in blocco le classiche opposizioni filosofiche: razionalismo/empirismo; apriori/aposteriori; soggetto/oggetto; idea/materia[-6]  …”
Si vede bene che, giusta la valutazione di Bachelard (e naturalmente non solo dell’epistemologo francese, come il panorama del pensiero scientifico e filosofico dimostra empiamente), lo svolgersi stesso dell’attività scientifica comporta il superamento di una serie tradizionale di antinomie, tra cui quella di idea e/o materia, ovvero di materialismo e/o idealismo. Possiamo dire addirittura che in questa consapevolezza il pensiero filosofico anticipa forse la coscienza scientifica e ciò spiega ad es. il ruolo grande giocato dal pensiero scettico nell’evoluzione delle scienze.
Ed è proprio a riprova della capacità della riflessione filosofica di anticipare motivi teorici e metodologici della scienza moderna, che volgeremo ora la nostra attenzione al capitolo Hegel und der Empirismus, compreso nel volume di E. Bloch “Subjekt-Objekt. Erläuterungen zu Hegel”, pubblicato in Frankfurt/Main nel 1971.
Naturalmente Hegel –osserva Bloch- parla male del sano intelletto umano, che a lui non appare ‘sano’, ma sì pigro e privo di vita, pesante. Neanche una volta esso gli è apparso come intelletto, tranne che, nel più povero senso del termine, come qualcosa di schematico, di pietrificato. Di qui il fatto che il sano intelletto umano si caccia senza sosta in contraddizioni, ma mai contraddizioni percepite in sé e nel mondo. Questo modo di pensare è portato dagli ambienti piccolo-borghesi, col risultato per lo più di smorzare tutte le contraddizioni, dacché esse son considerate piuttosto come fraintendimenti, che vanno eliminati con buona volontà e, più ancora, con un melange di pensieri.
Dunque, Hegel versus il sano intelletto umano, considerato caratteristico del comune hombre de la calle (il piccolo-borghese), - il quale orientamento è una sorta di inconsapevole mescolanza di materialismo –o accettazione delle cose, così come si danno- e di idealismo – nel senso che non le cose sono contraddittorie, ma sì lo è il loro fraintendimento, per cui ogni giustapposizione scompare, cambiando il modo di pensarle le cose, anche scontando una mancanza di rigore logico-sistematico (il melange di cui si dice nel testo).
Dunque, esiste un materialismo della gemeine Leute, della gente comune, il quale consiste nel considerar le cose come stati di fatto (Tatsache), del tutto indipendenti dal soggetto che li percepisce, dal pensiero che così e così –e non in altro modo- li ordina, li relaziona, insomma li rende, appunto, oggetti di un certo pensiero, storicamente determinato, contenuti del sapere per esso possibile[-7] .
Qualsiasi concetto, all’interno di tale prospetti, va respinto come privo di senso, per quanto possa essere corretto formalmente e di fatto vero.
Merita, anche, sottolineare – rimarca E. Bloch- che una tale <adorazione> dei fatti, molto spesso esprime una credulità priva di concetto nei confronti di ‘principi’, in realtà non obbliganti: poiché non vi è cultura in forma concettuale, i concetti universali, gli indistinti concetti universali possono imperversare, nonostante ogni empirismo e contro se stessi. La prospettiva, quale che sia il modo in cui si mostra la sua universalità, non permette di conoscere che tale tipo di ‘principi’ si limita ad ideologizzare interessi, che ancora sono particolari.
Insomma, quel materialismo da uomo della strada se da un lato si identifica col senso comune, dall’altro, mancando una cultura in forma concettuale (Begriff), permette ad indistinti concetti universali di imperversare, nonostante ogni empirismo e contro se stessi[-8] .
Tornando al testo di Bloch, leggiamo che, al posto del formalismo, per Hegel, bisogna dar fiducia alla forza effettiva del pensiero ed alla sua facoltà di conoscere le reali connessioni.
Insomma, il materialismo di senso comune è radicalmente formalistico, perché si basa sul principio <sì/sì, no/no e il resto è del diavolo>, ovvero, per dir la cosa ricorrendo alla logica e non a Paolo di Tarso, perché si basa sull’identitario principio A = A.
Il pensiero e la sua dialettica –al contrario di quanto concepisca il comune materialismo- è la massima forza produttiva umana; una così debole esattezza, quale il positivismo vuol portare in filosofia, mediante Hegel può apprendere cosa sia la volontà di una reale esattezza, - un’esattezza concreta e legata alle cose.
Ancora Hegel, nella sua lezione inaugurale all’Università di Berlino, diceva che “il coraggio della verità, la convinzione circa il potere dello spirito, è la prima condizione dello studio della filosofia; l’uomo deve onorare se stesso, stimarsi come ciò che ha il più alto valore … La chiusa essenza dell’universo non ha in sé nessuna forza, che possa opporsi al coraggio del conoscere[-9] .”


Leggendo Materialismo ed empiriocriticismo, non è difficile comprendere che la polemica di Lenin contro Mach e gli empiriocriticisti non è che manifestazione di una critica più generale, che lo stesso Lenin muove ad ogni concezione sintetica dell’esperienza. Precisiamo che, pur sapendo che Materialismo ed empiriocriticismo fu scritto da Lenin per dare compattezza ideologica ad un movimento socialista, smarrito e ridotto allo sbando, in seguito alla reazione zarista, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905 -, la nostra analisi metterà tra parentesi la valenza politica del testo, per soffermarsi sui temi teorici, posti dal testo stesso. Per il Lenin politico e la dialetticità del suo pensiero, mi limito a rimandare al mio Dialettica e socialità, Roma 2000[-10] .
In altri termini, se è vero che “alcuni ritengono che i temi (di gnoseologia e in particolare di filosofia della scienza) … trattati (nel testo in questione) occupino una posizione centrale nel pensiero (di Lenin)”, vi sono altri, i quali ritengono, invece, che “la ‘vera’ filosofia di Lenin vada cercata altrove, cioè nei suoi scritti di argomento prevalentemente politico.” (L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico. Volume settimo. Il Novecento (1), Milano 1988: 92).
Da parte nostra, condividiamo la tesi, secondo cui la dialettica leniniana si esprime e realizza in ambito storico-politico, mentre in ambito filosofico Lenin si mostra legato a un materialismo di senso comune, che non ha nulla di dialettico.
Si può parlare, dunque, di ambivalenza di Lenin, - di una sua grande capacità dialettica (in sede storico-politica), ma anche di una sua arretratezza teorica, che finisce col contrapporre il marxismo agli sviluppi scientifici moderni.
Come è stato notato, “la scienza che Lenin trova innanzi a sé non è più la vecchia fisica meccanicistica …, ma una scienza fortemente antimeccanicistica, che è stata spinta verso il fenomenismo proprio dall’acquisita consapevolezza delle insufficienze delle teorie ‘classiche’ (v. Geymonat, op. cit.: 98). Nuova scienza che, in questo modo, ha finito con l’incamminarsi lungo una strada che, secondo Lenin, giunge di necessità a riproporre religione, fideismo e irrazionalismo. Di qui la necessità di sottoporre ad una critica marxista il nuovo universo scientifico, esemplificato dalla fisica in particolare.
Ma torniamo alla nostra analisi, iniziando da quello, che indicavo come concezione sintetica dell’esperienza, nel senso di ogni concezione che veda, nel soggetto, una presenza fondamentale per la costituzione stessa di un mondo dell’esperienza (in proposito è utile tener presente quanto leggiamo in Storia della filosofia, vol.11: 21s, Bompiani 2008, ovvero che “ l’empirismo tradizionale ha sostanzialmente e per lo più concepito la mente umana come passiva, ma noi oggi vediamo che la psicologia della forma, per es., mette in evidenza la spontaneità della mente nel pensiero produttivo.” ).
E’ chiaro come Kant sostenga una concezione sintetica dell’esperienza; il fatto è però che tale concezione la si ritrova anche in Hegel, nella misura in cui l’oggetto è, per lui, l’opposto correlato del soggetto (una sintetica trattazione di questo tema la troviamo nella Prefazione dell’hegeliana Fenomenologia).
Questa circostanza, questa possibilità di ritrovare una stessa (nel limite detto) concezione sintetica dell’esperienza in Kant e in Hegel, comporta una prima difficoltà per Lenin.
Com’è noto, nel testo in questione, egli dà notevole spazio alla critica del pensiero di Berkeley. Ora, non è chiaro se Lenin abbia mai letto l’opera di Berkeley, ciò che invece è assai probabile è che nel valutare quel pensatore Lenin si attenga pressocché alla lettera delle pagine, che, nella Storia della filosofia, Hegel dedica appunto a Berkeley. La difficoltà dove sta?
Mentre Hegel critica Berkeley, ma partendo da una concezione sintetica dell’esperienza (sempre nel senso sopra chiarito) e quindi può cogliere nell’autore irlandese il limite di un empirismo ed intellettualismo, che, in quanto concepiscono il fenomeno privo di regola o fondamento, debbono trovare in dio la garanzia d’ultima istanza (mentre, al contrario, Hegel nella sua Logica afferma che “la verità dell’essere non è di essere un primo immediato, ma sì di essere l’essenza che è uscita dalla sua immediatezza”); Lenin al contrario critica Berkeley dal punto di vista di un materialismo di senso comune, il quale si basa sull’affermazione (anti-dialettica !): qui c’è il mondo del soggetto, il mondo delle cose e tertium non datur.
E’ noto come Lenin sostenga il proprio punto di vista materialistico di senso comune, rifacendosi ad Engels. Ed in parte ha ragione a far così.
Ma c’è un limite in cui Lenin incorre, di dare, cioè, un’univoca interpretazione di un pensiero, quello di Engels, che conobbe oscillazioni, passaggi da tesi dialettiche ad altre, che lo accomunano invece al positivismo dell’epoca.
E c’è di più: come ha mostrato Kolakowski, in Engels si può trovare, anche (e per quanto sia in contraddizione con altre sue posizioni), una formulazione sintetica dell’esperienza. A queste osservazioni ne va aggiunta un’altra, particolarmente significativa dacché Lenin avrebbe potuto ricavarla da quel vivace e tormentato sorgere della scienza moderna, che interessa anche gli anni di composizione e pubblicazione di Materialismo ed empiriocriticismo.
Lenin sembra non comprendere che una qualunque proposizione p acquista senso, in base all’universo di discorso in cui è inserita.
Il che significa in altre parole che quell’oggetto consistente, rigido, stabile, di cui faccio esperienza nella vita quotidiana è effettivamente tale finché mi attengo al livello della every day life.
Ciò non impedisce che, entrando in un altro dominio e in un altro universo di discorso, quell’oggetto divenga un centro di particelle invisibili (forse semplicemente ipotizzate dalla scienza) e di cariche elettriche.
Ciò non comporta “la scomparsa della materia” –come più volte Lenin mostra di temere (i fisici sono giunti a negare la materia, cioè la realtà obiettiva del mondo fisico, leggiamo nel Lenin, che qui ci interessa), ma semplicemente che si è passati da un ambito (l’esperienza comune) ad un altro (l’esperienza scientifica).
Si badi, sarebbe scorretto denunciare, in Lenin, la totale mancanza di consapevolezza, che un cambiamento d’universo di discorso determini un mutamento di senso di un’espressione. No, in qualche misura questa consapevolezza la si può ricavare dal testo che stiamo valutando – ma va comunque sottolineato che Lenin  ha sempre il bisogno di puntualizzare ‘e questo è materialismo’, ogni volta che sia di fronte ad un enunciato vero, entro un determinato universo di discorso. Puntualizzazione, di cui –a ben vedere- non si comprende l’utilità –che cosa aggiungo effettivamente alla proposizione p, vera entro l’universo di linguaggio u, quando ne affermo il carattere materialistico?uestaQQQQ

Così scrive Lenin in apertura del suo Materialismo ed empiriocriticismo: - Chi ha una certa famigliarità con la letteratura filosofica, non può non sapere che, oggi, difficilmente si trova un professore di filosofia (come anche di teologia), che non sia impegnato, direttamente o indirettamente, nella polemica contro il materialismo.
I nostri revisionisti polemizzano contro il materialismo, ma negano di voler criticare Engels, Plechanov, Dietzgen e pretendono di condurre la loro critica dal punto di vista del moderno positivismo della scienza della natura[-11] .
I materialisti –questa è la critica, che essi muovono- conoscono qualcosa di inconoscibile, perché è al di fuori della nostra esperienza, la ‘’cosa in sé’; si dice che i materialisti cadono nel misticismo, proprio perché assumendo qualcosa di inconoscibile, che sta fuori dei confini della nostra esperienza, cadono nel kantismo, raddoppiano il mondo e conservano un elemento chiave della religione, ovvero, un feticcio, la cosiddetta cosa in sé. Per valutare storicamente gli argomenti machisti contro il materialismo, andiamo a Berkeley.
L’orizzonte della riflessione di Berkeley -sottolinea Lenin- è circoscritto dalla tesi fondamentale, secondo cui ciò che esiste è ciò che è percepito; non è dunque lecito parlare di <oggetti>, ma sì, di <fasci di percezioni>: conoscere è, dunque, lo stesso che percepire; ed esistere si identifica con l’esser percepito.
Come dice esplicitamente lo stesso Berkeley, oggetto e sensazione sono una stessa cosa, per questo non si può astrarre l’una dall’altro: una sensazione può essere simile solo ad un’altra sensazione, non dunque a qualcosa che non sia percepibile: di qui la critica al materialismo, che mira a conoscere una realtà (l’oggetto in sé), che per definizione è inconoscibile, data la sua pretesa di porsi al di là del campo delle sensazioni.
Posta questa ricostruzione leniniana del pensiero di Berkeley, non solo risulta chiara, di primo acchito, la convergenza del pensiero del filosofo irlandese con quello dei ‘machisti’; ma risulta anche la difficoltà, per questa ricostruzione, di cogliere aspetti significativi del pensiero di Berkeley ed in particolare un suo importante contributo alla critica di una teoria dell’astrazione, che già Marx, sulla scia di Hegel, aveva esaminato, riconoscendole solo un limitato spazio di validità: intendo quella procedura empiristica classica, che concepisce il concetto (o universale) come risultato di un processo di spoliazione dalle qualità particolari, che caratterizzano un ‘oggetto’. Per chiarire questo punto, torniamo direttamente a Berkeley.
Poniamo che le parole siano segni – tra gli altri possibili - per indicare esperienze determinate, fatte o attuali.
Una prima conseguenza di tale assunto sarà che quando dico <uomo> non per indicare questo o quell’altro uomo, ma sì l’uomo in generale, a ben vedere -di fatto- non dirò nulla, ma userò solamente una determinata parola, nel senso di un suono particolare
Infatti, dell’uomo in generale non esiste esperienza: nessuno potrà mai affermare di aver visto, sentito, toccato, ecc. l‘uomo in generale.
Dunque, al suono <uomo>, all’universale <uomo in generale> non corrisponde alcuna sensazione: il suono in questione è vuoto, dacché –sappiamo- non esiste alcuna percezione al posto della quale esso stia o che esso possa richiamare.
Ma esempio di cosa è <l’uomo in generale>? Rispondere alla domanda ci darà la possibilità di indicare tutta una serie di parole possibili, che si riducono ad essere puri suoni.
<Uomo in generale> pretende essere il nome, -ricavato per astrazione-, di un insieme di ‘oggetti’, uguali in quanto tutti esempi dell’<uomo in generale >, ovvero, si potrebbe dire -con linguaggio certo non berkleiano, in quanto tutti esempi del loro nome di classe. <Uomo in generale> è, dunque, un universale.
Ho sottolineato <ricavato per astrazione>, nel senso che il nome di classe o caratteristica comune sarebbe il risultato dello scartare tutto ciò che fa di un certo oggetto, proprio quell’oggetto e non un altro.
Ma cosa resta in realtà dell’‘oggetto’ se prescindo da tutto ciò che lo rende un determinato singolare?
Nulla, non resta nulla; di conseguenza il suono, che pretende indicare ciò che risulta dall’astrarre le note caratteristiche di un qualcosa, non fa che indicare il nulla –appunto, è un mero nome, sottoposto, però, ad un processo di entificazione. Ecco a cosa si riduce <uomo in generale’, come qualunque altro concetto o universale, risultato di un processo astrattivo.
Bisogna, dunque asserire che in nessun senso accettabile si possono usare universali (o concetti)? No, le cose non stanno così.
L’universale è dotato di senso ed ha nella realtà qualcosa che lo giustifica, se rinuncio a considerarlo frutto dell’astrarre.
In realtà, quando uso un universale ciò che faccio è considerare gli oggetti determinati, che posso avere in mente, per indicare appunto non quegli oggetti in particolare, ma per evocare tutta la serie possibile di oggetti, ordinabili in una certa classe; in altre parole, quando uso un termine generale non faccio che riferirmi ad una serie di esperienze (attuali o possibili), indicandole con un nome, nel momento stesso in cui nella mia mente più di un oggetto determinato si presenta (può essere utile, qui, riandare al concetto aristotelico di <esempio>, per come risulta dai Topici e dalla Retorica).
Questa maniera di vedere il singolare, come esempio di una intera classe di oggetti, è frutto di una particolare proprietà dell’uomo, ovvero l’immaginazione. E’ ricorrendo ad essa che posso usare una serie di esempi dell’esperienza come se valessero unicamente per le note comuni, che quelle stesse esperienze possono evocare –insomma posso usarli, appunto, come esempi.
Questo è l’elemento, che mi interessava sottolineare (e di cui Lenin sembra non avvedersi): la critica di Berkeley ad una concezione, che fa del concetto o universale il frutto di una procedura astrattiva, e lo lega invece all’attività della fantasia (preparando, forse, in questo modo la più tarda critica al così detto collettivismo metodologico).
Anche da ciò, da questa inavvertenza, sembra potersi ricavare che Lenin non lesse se non le pagine hegeliane su Berkeley, ma non l’autore direttamente. Come vedremo ancora, in particolare rispetto alla riflessione di Poincaré, più di una volta Lenin dà l’impressione di parlare di argomenti e di autori, di cui ha conoscenza solo indiretta e approssimativa.
Ma torniamo senz’altro al testo d Lenin con alcune osservazioni generali, che ci servono ad introdurre il tema, che ci interessa particolarmente: intendo il confronto tra il pensiero di Poincaré e la lettura, che Lenin ne fa.
Prendendo spunto da Mach, Lenin sottolinea l’ “idealismo” della nuova fisica, secondo la quale compito della scienza può essere solo a) rilevare le leggi della connessione delle rappresentazioni; b) scoprire le leggi della connessione delle percezioni e, infine, c) chiarire le leggi della connessione e della rappresentazione.
Oggetto della fisica, osserva Lenin, sarebbe dunque la connessione delle rappresentazioni, non le leggi della connessione delle cose o corpi, di cui le nostre sensazioni non  sono altro che costrutti immaginativi (Abbild).
Questo è il materialismo di Lenin, che viene da lui ulteriormente ribadito e precisato: - le percezioni come simbolo delle cose: questo è il materialismo anche di Marx, e che troviamo nell’Antiduhring di Engels[-12] , dove si legge che i principi sono corretti solo nella misura, in cui concordano con la natura e la storia.
L’ambiguità, che la scienza deve sciogliere –sostiene Lenin- è questa: dovremmo andare dalle cose alle sensazioni e ai pensieri o, invece, dalle sensazioni alle cose [si noti come ancora una volta Lenin usi il termine <cosa> senza ulteriori specificazioni]. La prima strada è la materialistica, la seconda la idealistica, il cui inevitabile destino è sboccare nel solipsismo.
Insomma, materialismo e idealismo differiscono per le diverse soluzioni che essi danno al problema dell’origine della nostra conoscenza, dei rapporti tra la conoscenza (ovvero lo psichico in generale) e il mondo fisico.
La teoria materialistica della conoscenza, ammessa istintivamente dalla vecchia fisica, è stata sostituita dalla teoria agnostica e idealistica della conoscenza, e il fideismo ne ha approfittato a dispetto degli idealisti e degli agnostici.
Nel contesto della problematica così descritta da Lenin, si colloca Poincaré o, meglio, l’idealismo di Poincaré. In effetti, sostiene Lenin, di idealismo di Poincaré si deve parlare, anche se il fisico e matematico francese non si cura adeguatamente dello spessore filosofico delle sue teorie. Resta comunque il fatto che la fisica moderna è caduta nell’idealismo, perché i fisici (compreso Poincaré, evidentemente) non conoscevano la dialettica e, su questa strada, son giunti a negare la materia o la realtà obiettiva del mondo fisico, nel senso di realtà esistente fuori di noi ed indipendente da noi.
Quanto scritto fin qui ci serve per richiamare alcuni punti della riflessione di Poincaré, allo scopo di accertare la consistenza o meno della critica, che Lenin ne fa. Per questo scopo ci serviremo di due scritti del fisico francese, citati dallo stesso Lenin, ovvero La science et l’hypothèse (Paris 1968) e La valeur de la science (Paris 1970).
Come precisa J. Vuillemin, introducendo La valeur de la science, colto il frequente nesso tra convenzionalismo e concezione pragmatica della scienza, Poincaré rifiuta senz’altro quest’ultima e precisa, limitandolo, il suo convenzionalismo.
Passando dalla geometria alla meccanica e da quest’ultima alla fisica, egli afferma, diminuisce il ruolo giocato dalla convenzione nella costruzione della conoscenza scientifica, nel senso che se la geometria non è che un linguaggio, la fisica invece offre un’immagine dell’universo e, contrariamente a quanto vien detto da certa filosofia (Le Roy), non si può parlare di convenzioni, a proposito delle leggi scientifiche, se non precisando certi limiti.
L’ambito della geometria è quello, in cui il convenzionalismo raggiunge –per un Poincaré, fortemente segnato dall’esperienza delle nuove geometrie- il suo vertice.
La riduzione, però, della scienza in generale a convenzionalismo è ingiustificata e manifesta le conseguenze di un errore, che consiste nel considerare leggi e fatti scientifici come mere costruzioni operate dalla scienza.
In altri termini l’errore consiste nel non distinguere tra <fatto bruto> (fait brut) e <fatto scientifico> (fait scientifique): il primo si identifica con sensazioni e ricordi, in somma, con i sense data; l’altro è la sua traduzione in un linguaggio più comodo, che è quello della scienza. La creazione dello scienziato, dunque, conclude Poincaré- si limita alla formulazione di un linguaggio –più comodo rispetto a quello quotidiano-, nel quale enunciare i fatti bruti.
Come è stato scritto (cf. <Poincaré> in Enciclopedia filosofica, vol.9, Milano 2006), l’idea di convenzione, benché legata a quella di arbitrarietà, non si coniuga necessariamente, precisa Poincaré, con soggettivismo e strumentalità del sapere scientifico; l’idea di convenzionalità è segno piuttosto –e nell’ambito di una sicura eredità kantiana- dell’attività e creatività del soggetto, il cui riferimento essenziale rimane la realtà empirica, ovvero, l’universo dei <fatti bruti>.
Non possiamo in questa sede, approfondire l’esposizione del punto di vista di Poincaré –così importante, tra l’altro, per la riflessione del Wienerkreis, cioè di un evento, che certamente ha segnato lo sviluppo della filosofia contemporanea e, particolarmente, della filosofia della scienza.
Tuttavia, anche il rapido profilo, che ho tracciato del pensiero di Poincaré, mostra la rigidità ed approssimazione di Lenin, quando lo definisce semplicemente idealistico e machiano, nonché corresponsabile di quella scomparsa della materia, di cui, secondo Lenin, la nuova scienza è colpevole.
Concludiamo con un’ultima considerazione: è facile comprendere che Poincaré vale, per Lenin, come un ulteriore esempio di kantismo, ovvero di concezione sintetica dell’esperienza, - concezione, che si conferma come il vero obiettivo polemico, della ‘epistemologia’ (se così si può dire), contenuta in Materialismo ed empiriocriticismo.






 [-1]v. Lenin, Opere complete, vol. XXXIV, Roma 1955: 298


 [-2] v. Lenin, op. cit.: 294s).


 [-3]Va fatta, però, anche un’osservazione, che va a tutto merito di Lenin:  è Engels (dunque, non anche Marx) il teorico del materialismo, che Lenin accoglie con piena convinzione.


 [-4]Mi riferisco alle pagine, che l’A. dedica al tema ‘materialismo’, in Europäsche Enzyklopädie zu Philosophie und Wissenschaften, Band 3, Hamburg 1990.


 [-5]Ed è proprio questo che Lenin non fa in ambito filosofico.


 [-6] Cito dal vol. 11 della Storia della filosofia, a cura di G. Reale e D. Antiseri, Milano 1997: 446.


 [-7]Si faccia attenzione a certe conclusioni, a cui è giunto il marxismo del secondo Novecento e che si pongono nella prospettiva, esemplificata da Bachelard. Leggiamo in M. Rossi, Cultura e rivoluzione, (Roma 1974: 161): “ … Il pensiero che voglia considerarsi funzionale alla realtà invero non può farlo se non secondo i propri procedimenti: procedimenti che la stessa storia della  filosofia ha sempre più allontanato dall’illusione  della ‘adaequatio’ realistica, ed ha  sempre maggiormente ricondotto ad una riduzione della realtà ai procedimenti del pensiero.”


 [-8]Qui Hegel sta esprimendo un principio metodologico di grande importanza, nell’economia del suo pensiero, vale a dire che ogni  volta  si pretenda costruire l’universale, a prescindere dall’empirico, trascendendolo, lasciandolo così come immediatamente si offre, si finisce col costruire in realtà universali indistinti ed applicabili, indifferentemente, in contesti diversi. Il risultato è che quell’empirico verso cui si è mostrata indifferenza, riceve dall’indistinto universale una sua sanzione. Si noti che lo studioso italiano Galvano Della Volpe si è servito di questo principio, ma per … criticare Hegel!


 [-9]Vedilo in E. Bloch, op. cit.:111.


 [-10]Si badi, la tesi che qui si vuol sostenere non implicita la radicale e completa separabilità del Lenin teorico dal Lenin politico, nel senso che le rigidezze teoriche, che si ritrovano nel testo che qui interessa, sono espressione anche di un orientamento politico, il cui accento batte piuttosto sull’unità e la disciplina, che  sul confronto e la critica. E questa è probabilmente una delle anime politiche di Lenin, che consentirà, poi, rigidità e chiusure , in prospettiva dannosissime per il movimento comunista.


 [-11]Lenin pro Engels, Plechanov e Feuerbach


 [-12]L’opposizione materiaismo/idealismo appare nel 700, con Ch. Wolff, e serve ad indicare i corni di un’alternativa. Il termine idealismo vien coniato per opposizione a materialismo. -da qui si potrebbe ricavare l’ipotesi che, anche nella tradizione marxista, l’opposizione idealismo/materialismo non vada presa ‘metafisicamente’, ma sì  nel senso del richiamo allo scontro fra un  pensiero, volto al mantenimento dell’ordine sociale e culturale dato, ed un altro che, invece, lo minaccia; l’errore, dunque, che l’antitesi potrebbe generare, sarebbe nel cercar di dare all’endiadi materialismo/idealismo un preciso significato teoretico.

Nessun commento:

Posta un commento