Pubblichiamo i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.
In una
lettera a M. Gorki del 13 novembre 1908, così Lenin si esprime: “La Neue Zeit (il giornale ufficiale del
partito socialdemocratico tedesco, SPD) … è indifferente alla filosofia, ( il
giornale) non è mai stato un accanito sostenitore del materialismo filosofico,
e negli ultimi tempi ha pubblicato, senza fare alcuna riserva, gli
empiriocriticisti … Tutte le correnti piccolo-borghesi della socialdemocrazia
combattono soprattutto il materialismo filosofico, tendono a Kant, al
neokantismo, alla filosofia critica. No, la piccola borghesia non ammette
neppure sulla soglia di casa sua la filosofia di cui Engels ha gettato le basi
nel suo Antidϋhring[-1] .”
In una
lettera, di poco precedente e sempre indirizzata a Gorki, si legge: “Il terzo
argomento (di grande interesse per il giornale bolscevico Proletari) è la filosofia. So bene che la mia impreparazione in
questo campo non mi permette di intervenire pubblicamente. Ma come semplice
marxista leggo attentamente l’empiriomonista Bogdanov e gli empiriocritici
Bazarov, Lunaciarski, ecc., ed essi spingono tutte le mie simpatie verso Plechanov! … In filosofia egli sostiene una causa giusta. Io sono
per il materialismo, contro l’<empirio- …> ecc[-2] .”
Dunque, al
termine del 1908 Lenin riconosceva l’improponibilità di un suo pubblico
intervento in ambito filosofico a causa della sua impreparazione in materia;
tuttavia –e con ‘apparente’ contraddizione- poco dopo lo stesso Lenin
pubblicava Materialismo ed empiriocriticismo, dunque, non solo un
testo dalle pretese filosofiche, ma addirittura con intenti di messa a punto in
ambito di filosofia della scienza !
E questo non
è il solo punto che desta sorpresa: dacché va sottolineata, anche, l’aperta
professione di materialismo, che fa Lenin, sulla scia di un personaggio
(Plechanov) da lui stesso più volte aspramente criticato e proprio per la
prospettiva filosofica (meccanicistica, positivistica), in cui interpretava
l’opera di Marx[-3] .
Ho usato
prima l’espressione ‘apparente contraddizione’ a proposito della pubblicazione,
da parte di Lenin, di un libro dedicato ad un
argomento, di cui egli stesso si dichiara sostanzialmente incompetente;
ma l’apparente contraddizione continua nella aperta professione di identità di
vedute (filosofiche) con un personaggio (Plechanov) molto puntualmente ed
ampiamente dallo stesso Lenin criticato con asprezza. Come si spiega tale
‘apparente’ contraddizione?
In realtà,
in Lenin esiste –non sempre, ma a volte-
la propensione a render conto del rapporto fra dimensione ideale (e, dunque,
anche filosofica e scientifica) e dimensione politico-sociale, senza l’adeguata
consapevolezza di come quel rapporto possa essere complesso, intricato,
indiretto.
Giusta
questa propensione, l’‘apparente’ contraddizione è tolta ed, anche, risulta
facile intendere come il ‘partito’ filosofico, cui si aderisce, abbia una
immediata significazione politico-sociale e, dunque, corrisponda ad una e non
ad un’altra presa di posizione dal punto di vista delle classi sociali in
lotta. E la tesi di Lenin è questa, esattamente, che la scelta filosofica materialistica, politicamente corrisponda ad una scelta
eversiva nei confronti dell’ordine sociale imperante. E’ corretta tale
convinzione?
Non è
possibile una risposta univoca, dacché – e lo si ricava dallo studio di H. J. Sandkühler[-4] -
‘materialismo’ è termine di una coppia di opposti (l’altro, ovviamente, è
‘idealismo’), che interagiscono l’un sull’altro, nel senso che modificandosi il
senso dell’uno, si modifica anche il senso dell’altro.
In altre
parole si tratta di un’endiadi mutevole, dinamica, proprio perché la modifica
del senso dell’un termine implica la modifica del senso dell’altro termine:
l’endiadi ha, dunque, la forma e la dinamica di una totalità dialettica,
hegeliana, con la conseguenza che nessuno dei termini che la costituiscono, se
preso isolatamente, è definibile nella sua Bedeutung,
ma sempre rimanda all’altro ed al senso
dell’altro. Il che vale a dire che non
è possibile dare una definizione, che pretenda valere una volta per tutte, né
dell’un termine, né dell’altro.
Certo, si
potrebbe seguire la codificata procedura empiristica ed intendere per
definizione, poniamo di materialismo, ciò che accomuna tutte le situazioni storiche, in cui di materialismo si è
fatta professione; ma sappiamo bene quale sia il limite di questa tradizionale
procedura, quale sia la contraddizione in cui incorre: mentre ciò che esiste,
di fatto, è questo o quest’altro materialismo e, quindi,
mentre ciò che si colloca nel Dasein
è un determinato intreccio di note
comuni e note particolari, l’essenza della cosa, paradossalmente, risulterebbe,
invece, dalla trascuratezza della sua specificità, ovvero dal metter tra
parentesi quel certo determinato
intreccio di note comuni e note specifiche. L’essenza, in altre parole, ‘ucciderebbe’ la cosa.
La procedura
tradizionale è, dunque, un Holzweg,
una strada senza sbocco e chi volesse determinare il senso (o Bedeutung) di materialismo, dovrebbe
procedere ad una analisi concreta di situazioni determinate, ma conservate nella loro specificità[-5] .
A questo punto cerchiamo di approfondire le questione.
Nell’insieme
della storia della filosofia, leggiamo nel citato Sandkühler, il materialismo è
forma, ben nota, di una dottrina filosofica monistica intorno ai rapporti della
materia con lo spirito, del materiale con l’ideale; il materialismo si
contrappone all’idealismo per la fondazione, diversa dal punto di vista
ontologico, della materia e perché riconosce al materiale un primato logico e
genetico; tuttavia –sottolinea l’A. tedesco- non c’è una definizione
univoca e unitaria del materialismo.
E’ quanto
dicevamo: se pur è vero che parlando di materialismo si implica di necessità
codesta contrapposizione con l’idealismo, tuttavia in contesti storici
determinati, diverso è il senso suo e, per questo, non possiamo usarla
–la contrapposizione- a mo’ di definizione di materialismo. (Va precisato, per
altro, che contrariamene a quanto comunemente si crede -e a ciò che lo stesso
Lenin credeva, come sembra-, la concezione dello svolgersi della filosofia
quale contrapposizione continua di idealismo e materialismo, non rappresenta un
tratto originale del pensiero di Engels, ma è tesi formulata dal leibniziano Ch.
Wolff nel Settecento).
Ci sono
contesti storici, ad es., in cui ‘materialismo’ ha il significato peggiorativo
di una concezione e di una forma di vita, mancanti di ‘idealismo morale’ e, in
questo senso, del tutto prive di ‘religiosità’, dacché son caratterizzate da
spinte egoistiche volte alla conquista, unicamente, di beni materiali.
Nel Philosophischen Lexikon di J. G. Walchs (1726), il materialismo viene identificato
con la negazione delle ‘sostanze spirituali’ e, ad un tempo, col meccanicismo, che cerca di dedurre ogni
dato ed ogni effetto dei corpi naturali dalla strutture della materia. Come
scrive Walchs, i materialisti sono, tra i filosofi, una <pessima setta>:
il loro rifiuto della differenza di anima e corpo comporta la perdita della
libertà, che consegue alla negazione dell’immortalità dell’anima – l’intero
pensiero dei materialisti è pregiudizievole rispetto alla religione ed alla
virtù.
Per
insistere sulla questione della definibilità di ‘materialismo’, vale
sottolineare che la coscienza filosofica sorge storicamente dalla convergenza
di fattori diversi: motivazioni propriamente filosofiche, ma anche derivanti
dallo sviluppo delle scienze ed, infine, dall’operare di fattori politici e
sociali. In questo quadro, i sistemi di conoscenza e le visioni del mondo si
relazionano alla realtà, nel suo modo obiettivo di esistere, secondo le più
diverse finalità e, dunque, orientandosi alle più diverse funzionalità.
La storia
della filosofia non ci mostra, però, solo opposizione tra materialismo ed
idealismo, sì anche momenti, in cui i due orientamenti presentano importanti
tratti comuni – e ciò per l’operare congiunto di motivazioni scientifiche e
storico-sociali.
Ad es., con
le opere di F. Bacon Magna instauratio
imperii umani in naturam e Novum Organum, ovvero con le opere di una filosofia intesa come scienza,
il problema di una sicura conoscenza e il tema dell’obiettività entrano
concretamente al centro della teoria filosofica; la meccanica classica, la
geometria, la matematica e la scienza della natura offrono modelli per
comprendere la dinamica di sviluppo del modo di produzione capitalistico, in
quanto sistema di regole, nel quale, mediante conoscenza e dominio dell’insieme
delle leggi fondamentali, i fenomeni si mostrano influenzabili.
La filosofia
materialistica, ma anche quella
idealistica, non per ultimo, ricorre, allo scopo di spiegare la realtà e
per guidarne lo sviluppo attraverso un cambiamento cosciente, allo strumento
metodologico dell’analogia tra materia e coscienza, natura e processo conoscitivo,
legge naturale e storica, ed al superamento dei limiti empirici di
un’esperienza assolutizzata e di una astrazione razionalistica.
Come si vede
proprio il fatto che materialismo ed idealismo siano gli opposti di una stessa
totalità, fa sì che tra i due possano esservi anche convergenze. Ad es.,
nell’ambito della filosofia borghese classica, materialismo e idealismo sono,
entrambi, fondamentalmente, orientati sull’interesse, ovvero puntano entrambi a
fondare un piano storico e la regolamentazione delle esigenze borghesi alla
libertà.
Concetti
come quello dell’unità di natura e storia, cioè della totalità di tutto il
reale, della regolarità del progresso, della necessità di raggiungere degli
scopi razionali, sono, anch’essi, comuni al programma filosofico sia idealista,
che materialista.
La forma di
universale, in cui si mostra il sapere filosofico, garantisce la sua
possibilità di incorporare le conoscenze di formazioni precedenti, e la
capacità d’astrazione gli consente di ricavare ‘utopia’ e anticipazioni da ciò
che è immediatamente dato.
In tutta la
sua storia, il materialismo si relaziona non solo alla realtà che va spiegata,
ma sì, anche, all’impiego di strumenti conoscitivi, conquistati nel confronto
critico con teorie non materialistiche.
L’interesse
ad una teoria realistica della conoscenza della natura e della storia, come la
funzione di modello, che la costruzione della teoria e la metodologia delle
scienze esatte si son conquistate nei riguardi della filosofia, conducono al
fatto che, all’interno dell’idealismo, esistano momenti materialistici.
Materialismo e idealismo esistono nella classica filosofia borghese, solo come elementi di un sistema dialettico di
relazioni.
A differenza
dell’immodificato importante ruolo socialmente produttivo della scienza
naturale e della tecnica, la funzione del sapere filosofico è oggetto di
discussione, anche all’interno del movimento dei lavoratori, ove si scontrano
posizioni filosoficamente formate con altre di fonte positivistico-scientifica.
Se il socialismo
scientifico costruisce un insieme delle rappresentazioni degli interessi
economici, politici, sociali e ideologici di portatori individuali della
politica di classe; e se è il risultato di un sapere scientifico, trasformato
in visione del mondo, e di elementi di visione del mondo riformulati in teorie
-, tuttavia il legame tra immagine scientifica del mondo e movimento sociale,
ancora con il programma di Gotha, non costituisce ciò che il marxismo indicava,
ovvero l’interna consistenza e l’aperto orientamento progressivo proprio della
dialettica, che da Hegel porta a Marx.
Torniamo ora
ad un tema, già precedentemente accennato –intendo quello della ‘irreligiosità’
del materialismo, del suo essere una minaccia per qualunque sistema etico (e
politico!).
Nella
seconda parte dell’Ottocento, ad es., il francese E. Caro, nel suo Le matérialisme et la science, contesta il diritto sia del
materialismo che della scienza a combattere –e scalzare dal suo ruolo- la
metafisica; l’A. qualifica anche il materialismo come ateismo privo di
fondamento scientifico.
Da parte
sua, il teologo tedesco Stöckl sostiene in un testo del 1875 (Lehrbuch der Geschichte der Philosophie) che il fallimento della filosofia
precristiana è dimostrato dai suoi esiti scettico-materialistici.
Per chiudere
su questa rapida carrellata circa il senso di ‘materialismo’, nello sviluppo
della storia filosofica, mi limito a citare l’esempio dell’epistemologo
francese Gaston Bachelard, che tornò ad avere –nei secondi anni 60- una non
immeritata fortuna.
“Bachelard
aveva dimostrato nei suoi lavori sulla storia delle scienze fisiche e chimiche
l'assurdità della classica opposizione gnoseologica di empirismo e
razionalismo: gli oggetti della moderna microfisica sono costruzioni della
ragione scientifica, come pure prodotti di un’opera sperimentale di ordinamento
materiale. Se però il criterio di una filosofia scientifica deve essere il
processo di conoscenza reale delle scienze, debbono essere rigettate in blocco
le classiche opposizioni filosofiche: razionalismo/empirismo; apriori/aposteriori;
soggetto/oggetto; idea/materia[-6]
…”
Si vede bene
che, giusta la valutazione di Bachelard (e naturalmente non solo
dell’epistemologo francese, come il panorama del pensiero scientifico e
filosofico dimostra empiamente), lo svolgersi stesso dell’attività scientifica
comporta il superamento di una serie tradizionale di antinomie, tra cui quella
di idea e/o materia, ovvero di materialismo e/o idealismo. Possiamo dire
addirittura che in questa consapevolezza il pensiero filosofico anticipa forse
la coscienza scientifica e ciò spiega ad es. il ruolo grande giocato dal
pensiero scettico nell’evoluzione delle scienze.
Ed è proprio
a riprova della capacità della riflessione filosofica di anticipare motivi
teorici e metodologici della scienza moderna, che volgeremo ora la nostra
attenzione al capitolo Hegel und der Empirismus,
compreso nel volume di E. Bloch “Subjekt-Objekt. Erläuterungen zu Hegel”,
pubblicato in Frankfurt/Main nel 1971.
Naturalmente
Hegel –osserva Bloch- parla male del sano intelletto umano, che a lui non
appare ‘sano’, ma sì pigro e privo di vita, pesante. Neanche una volta esso gli
è apparso come intelletto, tranne che, nel più povero senso del termine, come
qualcosa di schematico, di pietrificato. Di qui il fatto che il sano intelletto
umano si caccia senza sosta in contraddizioni, ma mai contraddizioni percepite in sé e nel mondo. Questo modo di pensare è portato dagli ambienti
piccolo-borghesi, col risultato per lo più di smorzare tutte le contraddizioni,
dacché esse son considerate piuttosto come fraintendimenti, che vanno eliminati
con buona volontà e, più ancora, con un melange
di pensieri.
Dunque,
Hegel versus il sano intelletto umano, considerato caratteristico del comune hombre de la calle (il piccolo-borghese),
- il quale orientamento è una sorta di inconsapevole mescolanza di materialismo –o accettazione delle cose,
così come si danno- e di idealismo – nel senso che non le cose sono contraddittorie, ma sì
lo è il loro fraintendimento, per cui
ogni giustapposizione scompare, cambiando
il modo di pensarle le cose, anche scontando una mancanza di rigore
logico-sistematico (il melange di
cui si dice nel testo).
Dunque,
esiste un materialismo della gemeine
Leute, della gente comune, il quale consiste nel considerar le cose come
stati di fatto (Tatsache), del tutto indipendenti dal soggetto che
li percepisce, dal pensiero che così e
così –e non in altro modo- li ordina, li relaziona, insomma li rende,
appunto, oggetti di un certo pensiero,
storicamente determinato, contenuti del sapere per esso possibile[-7] .
Qualsiasi
concetto, all’interno di tale prospetti, va respinto come privo di senso, per
quanto possa essere corretto formalmente e di fatto vero.
Merita,
anche, sottolineare – rimarca E. Bloch- che una tale <adorazione> dei
fatti, molto spesso esprime una credulità priva di concetto nei confronti di
‘principi’, in realtà non obbliganti: poiché non vi è cultura in forma
concettuale, i concetti universali, gli indistinti concetti universali possono
imperversare, nonostante ogni empirismo e contro se stessi. La prospettiva,
quale che sia il modo in cui si mostra la sua universalità, non permette di
conoscere che tale tipo di ‘principi’ si limita ad ideologizzare interessi, che
ancora sono particolari.
Insomma,
quel materialismo da uomo della strada se da un lato si identifica col senso
comune, dall’altro, mancando una cultura in forma concettuale (Begriff), permette ad indistinti
concetti universali di imperversare, nonostante ogni empirismo e contro se stessi[-8] .
Tornando al
testo di Bloch, leggiamo che, al posto del formalismo, per Hegel, bisogna dar
fiducia alla forza effettiva del pensiero ed alla sua facoltà di conoscere le
reali connessioni.
Insomma, il
materialismo di senso comune è radicalmente formalistico, perché si basa sul
principio <sì/sì, no/no e il resto è del diavolo>, ovvero, per dir la
cosa ricorrendo alla logica e non a Paolo di Tarso, perché si basa
sull’identitario principio A = A.
Il pensiero
e la sua dialettica –al contrario di quanto concepisca il comune materialismo-
è la massima forza produttiva umana; una così debole esattezza, quale il
positivismo vuol portare in filosofia, mediante Hegel può apprendere cosa sia
la volontà di una reale esattezza, - un’esattezza concreta e legata alle cose.
Ancora
Hegel, nella sua lezione inaugurale all’Università di Berlino, diceva che “il
coraggio della verità, la convinzione circa il potere dello spirito, è la prima
condizione dello studio della filosofia; l’uomo deve onorare se stesso,
stimarsi come ciò che ha il più alto valore … La chiusa essenza dell’universo
non ha in sé nessuna forza, che possa opporsi al coraggio del conoscere[-9] .”
Leggendo Materialismo ed empiriocriticismo, non è
difficile comprendere che la polemica di Lenin contro Mach e gli empiriocriticisti
non è che manifestazione di una critica più generale, che lo stesso Lenin muove
ad ogni concezione sintetica dell’esperienza. Precisiamo che, pur sapendo che Materialismo ed empiriocriticismo fu scritto da Lenin per dare compattezza
ideologica ad un movimento socialista, smarrito e ridotto allo sbando, in
seguito alla reazione zarista, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905 -,
la nostra analisi metterà tra parentesi la valenza politica del testo, per
soffermarsi sui temi teorici, posti dal testo stesso. Per il Lenin politico e
la dialetticità del suo pensiero, mi limito a rimandare al mio Dialettica e socialità, Roma 2000[-10] .
In altri
termini, se è vero che “alcuni ritengono che i temi (di gnoseologia e in
particolare di filosofia della scienza) … trattati (nel testo in questione)
occupino una posizione centrale nel pensiero (di Lenin)”, vi sono altri, i
quali ritengono, invece, che “la ‘vera’ filosofia di Lenin vada cercata
altrove, cioè nei suoi scritti di argomento prevalentemente politico.” (L.
Geymonat, Storia del pensiero filosofico
e scientifico. Volume settimo. Il Novecento (1), Milano 1988: 92).
Da parte
nostra, condividiamo la tesi, secondo cui la dialettica leniniana si esprime e
realizza in ambito storico-politico, mentre in ambito filosofico Lenin si
mostra legato a un materialismo di senso comune, che non ha nulla di
dialettico.
Si può
parlare, dunque, di ambivalenza di
Lenin, - di una sua grande capacità dialettica (in sede storico-politica), ma
anche di una sua arretratezza teorica, che finisce col contrapporre il marxismo agli sviluppi scientifici moderni.
Come è stato
notato, “la scienza che Lenin trova innanzi a sé non è più la vecchia fisica
meccanicistica …, ma una scienza fortemente antimeccanicistica, che è stata
spinta verso il fenomenismo proprio dall’acquisita consapevolezza delle
insufficienze delle teorie ‘classiche’ (v. Geymonat, op. cit.: 98). Nuova scienza che, in questo modo, ha finito con
l’incamminarsi lungo una strada che, secondo Lenin, giunge di necessità a riproporre
religione, fideismo e irrazionalismo. Di qui la necessità di sottoporre ad una
critica marxista il nuovo universo scientifico, esemplificato dalla fisica in
particolare.
Ma torniamo
alla nostra analisi, iniziando da quello, che indicavo come concezione sintetica dell’esperienza, nel senso di ogni
concezione che veda, nel soggetto, una
presenza fondamentale per la
costituzione stessa di un mondo dell’esperienza (in proposito è utile tener
presente quanto leggiamo in Storia della filosofia, vol.11: 21s, Bompiani
2008, ovvero che “ l’empirismo
tradizionale ha sostanzialmente e per lo più concepito la mente umana come
passiva, ma noi oggi vediamo che la psicologia della forma, per es., mette in
evidenza la spontaneità della mente nel pensiero produttivo.” ).
E’ chiaro
come Kant sostenga una concezione sintetica dell’esperienza; il fatto è però
che tale concezione la si ritrova anche in Hegel, nella misura in cui l’oggetto
è, per lui, l’opposto correlato del soggetto (una sintetica trattazione di
questo tema la troviamo nella Prefazione dell’hegeliana
Fenomenologia).
Questa
circostanza, questa possibilità di ritrovare una stessa (nel limite detto)
concezione sintetica dell’esperienza in Kant e in Hegel, comporta una prima
difficoltà per Lenin.
Com’è noto,
nel testo in questione, egli dà notevole spazio alla critica del pensiero di
Berkeley. Ora, non è chiaro se Lenin abbia mai letto l’opera di Berkeley, ciò
che invece è assai probabile è che nel valutare quel pensatore Lenin si attenga
pressocché alla lettera delle pagine,
che, nella Storia della filosofia,
Hegel dedica appunto a Berkeley. La difficoltà dove sta?
Mentre Hegel
critica Berkeley, ma partendo da una concezione sintetica dell’esperienza
(sempre nel senso sopra chiarito) e quindi può cogliere nell’autore irlandese
il limite di un empirismo ed intellettualismo, che, in quanto concepiscono il
fenomeno privo di regola o fondamento, debbono trovare in dio la garanzia
d’ultima istanza (mentre, al contrario, Hegel nella sua Logica afferma che “la verità dell’essere non è di essere un primo
immediato, ma sì di essere l’essenza che è uscita dalla sua immediatezza”);
Lenin al contrario critica Berkeley dal punto di vista di un materialismo di
senso comune, il quale si basa sull’affermazione (anti-dialettica !): qui c’è il mondo del soggetto, lì il mondo delle cose e tertium non datur.
E’ noto come
Lenin sostenga il proprio punto di vista materialistico di senso comune,
rifacendosi ad Engels. Ed in parte ha ragione a far così.
Ma c’è un
limite in cui Lenin incorre, di dare, cioè, un’univoca interpretazione di un
pensiero, quello di Engels, che conobbe oscillazioni, passaggi da tesi
dialettiche ad altre, che lo accomunano invece al positivismo dell’epoca.
E c’è di
più: come ha mostrato Kolakowski, in Engels si può trovare, anche (e per quanto
sia in contraddizione con altre sue posizioni), una formulazione sintetica
dell’esperienza. A queste osservazioni ne va aggiunta un’altra, particolarmente
significativa dacché Lenin avrebbe potuto ricavarla da quel vivace e tormentato
sorgere della scienza moderna, che interessa anche gli anni di composizione e
pubblicazione di Materialismo ed
empiriocriticismo.
Lenin sembra
non comprendere che una qualunque proposizione p acquista senso, in base
all’universo di discorso in cui è inserita.
Il che
significa in altre parole che quell’oggetto consistente,
rigido, stabile, di cui faccio esperienza nella vita quotidiana è
effettivamente tale finché mi attengo al livello della every day life.
Ciò non
impedisce che, entrando in un altro
dominio e in un altro universo di
discorso, quell’oggetto divenga un centro di particelle invisibili (forse
semplicemente ipotizzate dalla scienza) e di cariche elettriche.
Ciò non
comporta “la scomparsa della materia” –come più volte Lenin mostra di temere (i
fisici sono giunti a negare la materia, cioè la realtà obiettiva del mondo
fisico, leggiamo nel Lenin, che qui ci interessa), ma semplicemente che si è
passati da un ambito (l’esperienza comune) ad un altro (l’esperienza
scientifica).
Si badi, sarebbe
scorretto denunciare, in Lenin, la totale mancanza di consapevolezza, che un
cambiamento d’universo di discorso determini un mutamento di senso di
un’espressione. No, in qualche misura questa consapevolezza la si può ricavare
dal testo che stiamo valutando – ma va comunque sottolineato che Lenin ha sempre il bisogno di puntualizzare ‘e
questo è materialismo’, ogni volta che sia di fronte ad un enunciato vero,
entro un determinato universo di discorso. Puntualizzazione, di cui –a ben vedere-
non si comprende l’utilità –che cosa aggiungo effettivamente alla proposizione p, vera entro l’universo di linguaggio u, quando ne affermo il carattere
materialistico?
Così scrive Lenin in apertura del suo Materialismo ed empiriocriticismo: - Chi
ha una certa famigliarità con la letteratura filosofica, non può non sapere che,
oggi, difficilmente si trova un professore di filosofia (come anche di
teologia), che non sia impegnato, direttamente o indirettamente, nella polemica
contro il materialismo.
I nostri revisionisti polemizzano contro il materialismo,
ma negano di voler criticare Engels, Plechanov, Dietzgen e pretendono di
condurre la loro critica dal punto di vista del moderno positivismo della
scienza della natura[-11] .
I materialisti –questa è la critica, che essi muovono-
conoscono qualcosa di inconoscibile, perché è al di fuori della nostra
esperienza, la ‘’cosa in sé’; si dice che i materialisti cadono nel misticismo,
proprio perché assumendo qualcosa di inconoscibile, che sta fuori dei confini
della nostra esperienza, cadono nel kantismo, raddoppiano il mondo e conservano
un elemento chiave della religione, ovvero, un feticcio, la cosiddetta cosa in
sé. Per valutare storicamente gli argomenti machisti contro il materialismo,
andiamo a Berkeley.
L’orizzonte della riflessione di Berkeley -sottolinea
Lenin- è circoscritto dalla tesi fondamentale, secondo cui ciò che esiste è ciò che è
percepito; non è dunque lecito parlare di <oggetti>, ma sì, di
<fasci di percezioni>: conoscere è,
dunque, lo stesso che percepire; ed esistere si identifica con l’esser
percepito.
Come dice esplicitamente lo stesso Berkeley, oggetto e
sensazione sono una stessa cosa, per questo non si può astrarre l’una
dall’altro: una sensazione può essere simile solo ad un’altra sensazione, non
dunque a qualcosa che non sia percepibile: di qui la critica al materialismo,
che mira a conoscere una realtà (l’oggetto in sé), che per definizione è
inconoscibile, data la sua pretesa di porsi al di là del campo delle
sensazioni.
Posta questa ricostruzione leniniana del pensiero di
Berkeley, non solo risulta chiara, di primo acchito, la convergenza del
pensiero del filosofo irlandese con quello dei ‘machisti’; ma risulta anche la
difficoltà, per questa ricostruzione, di cogliere aspetti significativi del
pensiero di Berkeley ed in particolare un suo importante contributo alla
critica di una teoria dell’astrazione, che già Marx, sulla scia di Hegel, aveva
esaminato, riconoscendole solo un limitato spazio di validità: intendo quella
procedura empiristica classica, che concepisce il concetto (o universale) come
risultato di un processo di spoliazione dalle qualità particolari, che
caratterizzano un ‘oggetto’. Per chiarire questo punto, torniamo direttamente a
Berkeley.
Poniamo che
le parole siano segni – tra gli altri
possibili - per indicare esperienze determinate,
fatte o attuali.
Una prima
conseguenza di tale assunto sarà che quando dico <uomo> non per indicare
questo o quell’altro uomo, ma sì l’uomo in
generale, a ben vedere -di fatto- non dirò nulla, ma userò solamente una determinata parola, nel senso di un suono particolare.
Infatti,
dell’uomo in generale non esiste esperienza: nessuno potrà mai affermare di
aver visto, sentito, toccato, ecc. l‘uomo in
generale.
Dunque, al
suono <uomo>, all’universale <uomo in generale> non corrisponde
alcuna sensazione: il suono in questione è vuoto, dacché –sappiamo- non esiste
alcuna percezione al posto della quale esso stia o che esso possa richiamare.
Ma esempio
di cosa è <l’uomo in generale>? Rispondere alla domanda ci darà la
possibilità di indicare tutta una serie di parole possibili, che si riducono ad
essere puri suoni.
<Uomo in
generale> pretende essere il nome, -ricavato
per astrazione-, di un insieme di ‘oggetti’, uguali in quanto tutti esempi
dell’<uomo in generale >, ovvero, si potrebbe dire -con linguaggio certo
non berkleiano, in quanto tutti esempi del loro nome di classe. <Uomo in
generale> è, dunque, un universale.
Ho
sottolineato <ricavato per astrazione>, nel senso che il nome di classe o
caratteristica comune sarebbe il risultato dello scartare tutto ciò che fa di
un certo oggetto, proprio quell’oggetto e non un altro.
Ma cosa
resta in realtà dell’‘oggetto’ se prescindo da tutto ciò che lo rende un determinato singolare?
Nulla, non
resta nulla; di conseguenza il suono, che pretende indicare ciò che risulta dall’astrarre le note caratteristiche di un
qualcosa, non fa che indicare il nulla –appunto, è un mero nome,
sottoposto, però, ad un processo di entificazione. Ecco a cosa si riduce
<uomo in generale’, come qualunque altro concetto o universale, risultato di
un processo astrattivo.
Bisogna,
dunque asserire che in nessun senso accettabile si possono usare universali (o
concetti)? No, le cose non stanno così.
L’universale è dotato di senso ed ha nella realtà
qualcosa che lo giustifica, se rinuncio a considerarlo frutto dell’astrarre.
In realtà,
quando uso un universale ciò che faccio è considerare gli oggetti determinati,
che posso avere in mente, per indicare
appunto non quegli oggetti in particolare, ma per evocare tutta la serie
possibile di oggetti, ordinabili in una certa classe; in altre parole,
quando uso un termine generale non faccio che riferirmi ad una serie di
esperienze (attuali o possibili), indicandole con un nome, nel momento stesso
in cui nella mia mente più di un oggetto determinato
si presenta (può essere utile, qui, riandare al concetto aristotelico di
<esempio>, per come risulta dai Topici
e dalla Retorica).
Questa
maniera di vedere il singolare, come esempio di una intera classe di oggetti, è
frutto di una particolare proprietà dell’uomo, ovvero l’immaginazione. E’ ricorrendo ad essa che posso usare una serie di
esempi dell’esperienza come se valessero unicamente per le note comuni, che
quelle stesse esperienze possono evocare –insomma posso usarli, appunto, come
esempi.
Questo è
l’elemento, che mi interessava sottolineare (e di cui Lenin sembra non
avvedersi): la critica di Berkeley ad una concezione, che fa del concetto o
universale il frutto di una procedura astrattiva, e lo lega invece all’attività
della fantasia (preparando, forse, in questo modo la più tarda critica al così
detto collettivismo metodologico).
Anche da
ciò, da questa inavvertenza, sembra potersi ricavare che Lenin non lesse se non
le pagine hegeliane su Berkeley, ma non l’autore direttamente. Come vedremo
ancora, in particolare rispetto alla riflessione di Poincaré, più di una volta
Lenin dà l’impressione di parlare di argomenti e di autori, di cui ha
conoscenza solo indiretta e approssimativa.
Ma torniamo
senz’altro al testo d Lenin con alcune osservazioni generali, che ci servono ad
introdurre il tema, che ci interessa particolarmente: intendo il confronto tra
il pensiero di Poincaré e la lettura, che Lenin ne fa.
Prendendo
spunto da Mach, Lenin sottolinea l’ “idealismo” della nuova fisica, secondo la
quale compito della scienza può essere solo a) rilevare le leggi della
connessione delle rappresentazioni; b) scoprire le leggi della connessione
delle percezioni e, infine, c) chiarire le leggi della connessione e della
rappresentazione.
Oggetto
della fisica, osserva Lenin, sarebbe dunque la connessione delle
rappresentazioni, non le leggi della connessione delle cose o corpi, di cui le
nostre sensazioni non sono altro che
costrutti immaginativi (Abbild).
Questo è il
materialismo di Lenin, che viene da lui ulteriormente ribadito e precisato: -
le percezioni come simbolo delle cose: questo è il materialismo anche di Marx,
e che troviamo nell’Antiduhring di Engels[-12] , dove si legge che i principi sono
corretti solo nella misura, in cui concordano con la natura e la storia.
L’ambiguità,
che la scienza deve sciogliere –sostiene Lenin- è questa: dovremmo andare dalle
cose alle sensazioni e ai pensieri o, invece, dalle sensazioni alle cose [si noti come ancora una volta Lenin usi il termine <cosa> senza ulteriori
specificazioni]. La prima strada è la materialistica, la seconda la
idealistica, il cui inevitabile destino è sboccare nel solipsismo.
Insomma,
materialismo e idealismo differiscono per le diverse soluzioni che essi danno
al problema dell’origine della nostra conoscenza, dei rapporti tra la
conoscenza (ovvero lo psichico in generale) e il mondo fisico.
La teoria
materialistica della conoscenza, ammessa istintivamente dalla vecchia fisica, è
stata sostituita dalla teoria agnostica e idealistica della conoscenza, e il
fideismo ne ha approfittato a dispetto degli idealisti e degli agnostici.
Nel contesto
della problematica così descritta da Lenin, si colloca Poincaré o, meglio, l’idealismo di Poincaré. In effetti, sostiene
Lenin, di idealismo di Poincaré si deve parlare,
anche se il fisico e matematico francese non si cura adeguatamente dello
spessore filosofico delle sue teorie. Resta comunque il fatto che la fisica
moderna è caduta nell’idealismo, perché i fisici (compreso Poincaré,
evidentemente) non conoscevano la dialettica e, su questa strada, son giunti a
negare la materia o la realtà obiettiva del mondo fisico, nel senso di realtà
esistente fuori di noi ed indipendente da noi.
Quanto
scritto fin qui ci serve per richiamare alcuni punti della riflessione di
Poincaré, allo scopo di accertare la consistenza o meno della critica, che
Lenin ne fa. Per questo scopo ci serviremo di due scritti del fisico francese,
citati dallo stesso Lenin, ovvero La
science et l’hypothèse (Paris 1968) e La valeur de la science (Paris 1970).
Come precisa
J. Vuillemin, introducendo La valeur de
la science, colto il frequente nesso tra convenzionalismo e concezione
pragmatica della scienza, Poincaré rifiuta senz’altro quest’ultima e precisa,
limitandolo, il suo convenzionalismo.
Passando
dalla geometria alla meccanica e da quest’ultima alla fisica, egli afferma,
diminuisce il ruolo giocato dalla convenzione nella costruzione della
conoscenza scientifica, nel senso che se la geometria non è che un linguaggio,
la fisica invece offre un’immagine dell’universo e, contrariamente a quanto
vien detto da certa filosofia (Le Roy), non si può parlare di convenzioni, a
proposito delle leggi scientifiche, se non precisando certi limiti.
L’ambito
della geometria è quello, in cui il convenzionalismo raggiunge –per un
Poincaré, fortemente segnato dall’esperienza delle nuove geometrie- il suo
vertice.
La
riduzione, però, della scienza in generale a convenzionalismo è ingiustificata
e manifesta le conseguenze di un errore, che consiste nel considerare leggi e
fatti scientifici come mere costruzioni operate dalla scienza.
In altri
termini l’errore consiste nel non distinguere tra <fatto bruto> (fait brut)
e <fatto scientifico> (fait scientifique):
il primo si identifica con sensazioni e ricordi, in somma, con i sense data; l’altro è la sua traduzione
in un linguaggio più comodo, che è quello della scienza. La creazione dello
scienziato, dunque, conclude Poincaré- si limita alla formulazione di un
linguaggio –più comodo rispetto a quello quotidiano-, nel quale enunciare i
fatti bruti.
Come è stato
scritto (cf. <Poincaré> in Enciclopedia
filosofica, vol.9, Milano 2006), l’idea di convenzione, benché legata a
quella di arbitrarietà, non si coniuga necessariamente, precisa Poincaré, con
soggettivismo e strumentalità del sapere scientifico; l’idea di convenzionalità
è segno piuttosto –e nell’ambito di una sicura eredità kantiana- dell’attività
e creatività del soggetto, il cui riferimento
essenziale rimane la realtà empirica,
ovvero, l’universo dei <fatti bruti>.
Non possiamo
in questa sede, approfondire l’esposizione del punto di vista di Poincaré –così
importante, tra l’altro, per la riflessione del Wienerkreis, cioè di un evento,
che certamente ha segnato lo sviluppo della filosofia contemporanea e,
particolarmente, della filosofia della scienza.
Tuttavia,
anche il rapido profilo, che ho tracciato del pensiero di Poincaré, mostra la
rigidità ed approssimazione di Lenin, quando lo definisce semplicemente
idealistico e machiano, nonché corresponsabile di quella scomparsa della
materia, di cui, secondo Lenin, la nuova scienza è colpevole.
Concludiamo
con un’ultima considerazione: è facile comprendere che Poincaré vale, per
Lenin, come un ulteriore esempio di kantismo, ovvero di concezione sintetica
dell’esperienza, - concezione, che si conferma come il vero obiettivo polemico,
della ‘epistemologia’ (se così si può dire), contenuta in Materialismo ed empiriocriticismo.
[-3]Va fatta, però, anche un’osservazione, che va a
tutto merito di Lenin: è Engels (dunque, non anche Marx) il teorico del materialismo, che Lenin accoglie con
piena convinzione.
[-4]Mi riferisco alle pagine, che l’A. dedica al tema
‘materialismo’, in Europäsche Enzyklopädie zu
Philosophie und Wissenschaften, Band
3, Hamburg 1990.
[-6] Cito dal vol. 11 della Storia della filosofia, a cura di G. Reale e D. Antiseri, Milano
1997: 446.
[-7]Si faccia attenzione a certe conclusioni, a cui è
giunto il marxismo del secondo Novecento e che si pongono nella prospettiva,
esemplificata da Bachelard. Leggiamo in M. Rossi, Cultura e rivoluzione, (Roma 1974: 161): “ … Il pensiero che voglia
considerarsi funzionale alla realtà invero non può farlo se non secondo i
propri procedimenti: procedimenti che la stessa storia della filosofia ha sempre più allontanato
dall’illusione della ‘adaequatio’
realistica, ed ha sempre maggiormente
ricondotto ad una riduzione della realtà ai procedimenti del pensiero.”
[-8]Qui Hegel sta esprimendo un principio metodologico
di grande importanza, nell’economia del suo pensiero, vale a dire che ogni volta
si pretenda costruire l’universale, a prescindere dall’empirico,
trascendendolo, lasciandolo così come immediatamente si offre, si finisce col
costruire in realtà universali indistinti ed applicabili, indifferentemente, in
contesti diversi. Il risultato è che quell’empirico verso cui si è mostrata
indifferenza, riceve dall’indistinto universale una sua sanzione. Si noti che
lo studioso italiano Galvano Della Volpe si è servito di questo principio, ma per
… criticare Hegel!
[-10]Si badi, la tesi che qui si vuol sostenere non
implicita la radicale e completa separabilità del Lenin teorico dal Lenin
politico, nel senso che le rigidezze teoriche, che si ritrovano nel testo che qui
interessa, sono espressione anche di un orientamento politico, il cui accento
batte piuttosto sull’unità e la disciplina, che
sul confronto e la critica. E questa è probabilmente una delle anime politiche di Lenin, che
consentirà, poi, rigidità e chiusure , in prospettiva dannosissime per il
movimento comunista.
[-12]L’opposizione materiaismo/idealismo appare nel 700, con
Ch. Wolff, e serve ad indicare i corni di un’alternativa. Il termine idealismo
vien coniato per opposizione a materialismo. -da qui si potrebbe ricavare l’ipotesi che, anche nella tradizione
marxista, l’opposizione idealismo/materialismo non vada presa
‘metafisicamente’, ma sì nel senso del
richiamo allo scontro fra un pensiero,
volto al mantenimento dell’ordine sociale e culturale dato, ed un altro che,
invece, lo minaccia; l’errore, dunque, che l’antitesi potrebbe generare,
sarebbe nel cercar di dare all’endiadi materialismo/idealismo un preciso
significato teoretico.
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