il manifesto, 28 luglio 1991
Ho incontrato György Lukács a Budapest nel 1965. In quegli anni il Partito comunista ungherese era ancora sotto lo choc del ’56 e si presentava come molto più aperto di altri partiti dell’Europa dell’Est. Potei incontrare Lukács senza grandi difficoltà, ma forse perché ero un membro «autorevole» di un partito fratello. Viveva da solo in un appartamentino a un piano elevato davanti all’hotel Gellert, perché la moglie era morta da poco ed egli si apprestava a pubblicare la sua opera completa e una fondamentale «ontologia».
Lukács Ho per lui la più grande stima, è una vecchia amicizia, ma non mi persuadono le sue ricerche, né quelle di Garaudy. Essi sono troppo indulgenti verso l’arte «moderna», verso i vari Ionesco o Musil o Beckett. Ben poco dell’arte moderna è destinato a restare. Io mi avvicino ormai agli ottantanni, divento sempre più «antimodernista» e vedo la storia della letteratura come un gran cimitero: migliaia di pietre tombali e ben poche voci capaci di parlare ancora oggi. Fra trentanni, nessuno parlerà di questi personaggi.
Rossanda Esiste una possibile scelta di nomi fra gli scrittori del nostro secolo? E quale può essere, a suo parere?
Lukács Thomas Mann. E Brecht, ma soltanto il Brecht lirico e il drammaturgo della seconda fase, dall’Anima buona di Sezuan alla morte. Nella produzione precedente egli non si libera della schematicità: ha momenti di poesia, ma non riesce a creare personaggi viventi – della grandezza, per esempio, shakespeariana, del finale di Madre Coraggio. E giacché abbiamo ricordato Shakespeare, chi parla oggi – se non gli specialisti – del teatro elisabettiano? La grande arte è rarissima.
Rossanda Si potrebbe osservare, però, che l’esperienza o la ricerca dell’arte debbano essere seguite nel loro manifestarsi.
Lukács Ma che cosa è l’arte se non è grande arte? Quando ero giovane, si andava pazzi per Maeterlinck: chi parla di lui oggi? Eppure è più interessante di Beckett. Abbiamo messo in scena, ricordo, La città morta di D’Annunzio. Ora nessuno si occupa più di lui, e giustamente. Naturalmente, attorno ai rari grandi artisti c’è tutta una molteplicità di tentativi, che ne costituiscono lo sfondo e la condizione. Occorre conoscerli e seguirli con attenzione. Ma il nostro compito vero resta quello di esprimere un giudizio di valore dal punto di vista della vera grande arte. E in questo giudizio il momento dell’invenzione tecnica, per quanto importante, non entra. Noi assistiamo oggi, nei nostri Paesi e partiti, a un’ondata di liberalismo culturale: io non sono affatto contrario a esso, badi. Se non altro per il suo valore pedagogico. Da noi, i giovani adorano tutto quello che viene dall’Occidente perché ha ancora il fascino delle cose proibite: e per questo prendono tutto per buono, da Beckett alla pop-art. Quando questa conoscenza sarà normalizzata, il giudizio non passerà più fra cultura dell’Est e cultura dell’Ovest, ma all’interno delle due culture. Per arrivare a questo giudizio, occorre uno sviluppo dell’estetica marxista. In tanta liberalizzazione, chiedo il diritto di parola anche per il marxismo. In verità, questo è il problema centrale. Abbiamo perduto il marxismo: bisogna ritrovarlo. Dopo la morte di Marx nessuno, salvo Lenin, ha dato un contributo teorico ai problemi dello sviluppo capitalistico. Bisogna tornare a Lenin e a Marx, insomma, come si usa dire, fare qualche passo indietro per saltare meglio.
Rossanda Si può già individuare un punto centrale da cui ripartire?
Lukács Marx ha cominciato dall’analisi della struttura, e anche noi dobbiamo ripartire da qui. Nelle economie socialiste c’è, dappertutto, una grande crisi di produzione. Non se ne è fatta una analisi critica di fondo. Perché? Per una insufficienza teorica. Per fondare una politica di piano occorre una teoria valida della riproduzione in un sistema socialista. Senza questo, ogni riforma non può essere che pragmatica, empirismo puro, o tentativo di accomodare la nostra economia a quella capitalista. Le ricerche di Liebermann o di Nemčinov non vanno in fondo al problema. Le nostre pianificazioni falliscono perché nel periodo staliniano è stata cancellata dalla teoria la dialettica tra valore di scambio e valore d’uso, annullando con ciò di fatto la possibilità stessa di una teoria della riproduzione. Un capitalista può farne anche a meno: per il fatto stesso che se non vende i suoi prodotti, egli si scontra con il valore d’uso nel corso di tutta la sua attività. In una economia socialista questo non si verifica spontaneamente, e pertanto è necessario dare una fondazione teorica alla questione. Si tenga presente che in Marx, nel quadro della riproduzione, il valore d’uso non si presenta soltanto nella fase finale, quando il prodotto è pronto per essere venduto, ma all’inizio del processo quando il capitalista acquista i mezzi di produzione appunto secondo il loro valore di uso. La ricostituzione di una teoria scientifica della riproduzione, insomma, può solo rappresentare il «tertium datur» che nel campo dell’economia ci protegge, assieme, da una pratica settaria e da scivolate liberali. Si tratta, in altre parole, di fondare una economia socialista di cui, nel periodo di Lenin, è esistito soltanto l’inizio. Questo ristabilimento teorico esige, nello stesso tempo, un ristabilimento di quella democrazia proletaria che Lenin accompagnava sempre al concetto di dittatura del proletariato. Al congresso del 1921, è sulla base di questo principio che Lenin si batté contro Trotsky: e a questo Lenin occorre tornare. Una ripresa teorica è necessaria ugualmente per l’analisi del capitalismo, che ha subito profonde modificazioni, e per l’analisi delle situazioni dei cosiddetti Paesi del Terzo mondo. Il valore delle tesi cinesi in proposito è minimo, perché esse considerano in blocco situazioni affatto diverse. Nessuno ci ha dato finora una analisi scientifica della dialettica sociale dei Paesi sottosviluppati.
Rossanda A quali cause lei attribuisce insufficienza teorica?
Lukács Evidentemente allo stalinismo, la cui caratteristica è stata quella di dedurre da alcune scelte pratiche, talvolta necessarie, determinate leggi di validità generale. Certo il politico non può rinviare la sua azione per il solo fatto di non possedere ancora una teoria adeguata: certe scelte non possono essere rimandate. Ma altra cosa è sapere che si compie una scelta contingente, conoscendone i limiti, e altra cosa è teorizzarne la validità generale. Un marxista può benissimo rispondere: «Non so, non perché sia impossibile sapere, ma perché non so ancora». E frattanto agire, sapendo che si muove all’interno di un limite teorico, che dovrà superare. Nel periodo del comunismo di guerra, Lenin ha adottato soluzioni che non considerava affatto tipiche e obbligatorie per il passaggio al socialismo, ma scelte transitorie, dettate da necessità contingenti. Stalin, al contrario, quando è stato costretto a una scelta tatticamente giusta, il patto russo-tedesco, ne ha derivato una teoria generale, che ha reso insostenibile, per esempio, la posizione dei comunisti in Paesi come la Francia. Nei confronti della Cina, egli ha sostenuto la sua posizione negando che le forme della rivoluzione in Cina dovessero caratterizzarsi con la presenza del «modo di produzione asiatico», e inventando un inesistente «feudalesimo» dal quale la Cina sarebbe dovuta passare alla «rivoluzione democratica». Il male viene dunque quando a certi mezzi di accelerazione politica – che possono momentaneamente imporsi – si vuol dare il carattere di legge teorica. Di qui quella corruzione del senso teorico, sulla quale è cresciuta una intera generazione.
Rossanda Come si spiega che questa difficoltà sussiste dopo il XX Congresso?
Lukács Anzitutto c’è una resistenza delle forze staliniste. È difficile fare un’autocritica fino in fondo. Difficile anche perché la corruzione intellettuale di cui parlavo ha prodotto una generazione tentata dall’empirismo. Sono ben pochi i teorici fra gli attuali dirigenti del movimento operaio. Siamo all’inizio di un lungo periodo di transizione.
Rossanda Come considera lei sotto il profilo teorico il dissenso russo-cinese?
Lukács Vorrei dire che l’Urss ha ragione, ma non possiede la coscienza teorica della sua ragione storica. La Cina – spinta a ciò dalla politica occidentale – pretende di elevare a generalizzazione teorica una sorta di comunismo di guerra, di politica del tanto peggio tanto meglio. Nei confronti dell’Urss i cinesi hanno torto, il loro è un cieco radicalismo, ed è pericoloso. Il settarismo può fare danni limitati in un piccolo partito europeo; altra cosa è quando agisce una grande potenza. D’altra parte la posizione di Stalin nel ’24 concernente il socialismo in un Paese solo, era giusta: ma nel 1945, la situazione era affatto differente. L’incapacità di adeguarsi ha provocato il conflitto con la Jugoslavia, e le difficoltà successive del campo socialista. Nello stesso tempo, rispetto alle dimensioni attuali della guerra, non c’è dubbio che la tesi sovietica della coesistenza è giusta, e le decisioni – per esempio concernenti Cuba – sono state sagge. Naturalmente la storia presenta sempre nuovi problemi: l’affare del Vietnam ripropone, verosimilmente, una collaborazione russo-cinese. Tra gli anni Venti e Trenta la politica sovietica ha avuto un grande fascino per tutto il movimento socialista nel mondo. Con lo svilupparsi dello stalinismo, questo fascino, questo modello, si è andato spegnendo. Finché non si sarà fatta una riforma interna dell’economia e dell’ideologia, questo ascendente non si riavrà. Si deve allo stalinismo se oggi la rivoluzione in Occidente non è all’ordine del giorno. Occorre riconoscere che questi guasti vanno riparati con un lungo processo, che la rivoluzione in Occidente non si farà domani. Anche saper attendere esige forza, io aspetto questa profonda riforma che ci restituirà tutta la nostra attrattiva ideale. E nel caso dei popoli sottosviluppati? La rivoluzione mondiale sarà più lenta. Nel 1905, Lenin sosteneva contro Trotsky che la rivoluzione mondiale non era all’ordine del giorno. Il problema dei popoli sottosviluppati è soprattutto quello della elaborazione di forme di transizione verso il socialismo.
Rossanda In che modo concepisce lei il rapporto fra il marxismo e altre culture? Vorrei ricordarle, ad esempio, la posizione di Sartre sul rapporto fra psicoanalisi e marxismo.
Lukács Marx ha perfezionato la dialettica hegeliana. Ha capito che il mondo non è composto da elementi separati, ma che l’elemento primo è un complesso dinamico concreto, del quale è possibile esaminare gli elementi riferendosi alla totalità. La dialettica materialistica è dunque il solo metodo che permetta di comprendere i complessi in quanto tali, e di comprendere anche le categorie che esistono soltanto in quanto reciproche («Reflexionsbestimmungen»). Ho per Sartre, come pensatore e come uomo, una stima assoluta: egli ha compreso di non poter lavorare se non con il marxismo. Marx ha anche operato grandi integrazioni culturali. Ma Sartre si sbaglia nel non comprendere la dialettica, nel non vedere che l’ontologia dell’esistenzialismo è incompatibile col materialismo. Ne deriva la contraddittorietà dei suoi risultati. A proposito di Freud, la posizione di Sartre viene dal fatto che egli concepisce la relazione fra uomo e categorie sociali come una relazione a posteriori: in questo non ha abbandonato la vecchia concezione di Heidegger, secondo cui l’uomo è gettato nella realtà sociale. In verità l’uomo e l’essere sociale sono tutt’uno. Una psicologia, come quella di Freud, che ipotizza l’uomo come isolato, non ha nulla a che fare col marxismo. Personalmente io non credo in una psicologia, ma in un’antropologia, nel senso che per Marx ogni uomo ha una determinazione fisiologica e una determinazione sociale. Del resto l’etnografia moderna sembra dar ragione a Marx: essa ha scoperto che perfino le funzioni elementari – l’alimentarsi e i rapporti sessuali – sono determinati socialmente, nel senso dunque che non esiste una sessualità, che si presenta di volta in volta con variazioni storiche, ma esiste un processo della sessualità. Il limite di Sartre è quello di accettare il materialismo storico e non quello dialettico.
Rossanda Come interpretare oggi la questione del materialismo dialettico? Riferendoci a Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin?
Lukács Io difendo quello studio di Lenin. Egli ha scritto, nel ’19, cose profetiche: per esempio, che l’eccessiva applicazione delle matematiche sarebbe stata un aiuto all’idealismo. Era giusto. Non escludo che la logica neopositivistica abbia un valore, ma essa considera a torto l’ontologia come un problema esoterico. Non è possibile addentrarmi qui nella questione, e non vorrei che il mio pensiero in proposito fosse giudicato dalle definizioni sommarie di questa conversazione: è questione che va affrontata nel modo dovuto, in altra sede. Grosso modo, secondo me la logica neopositivista crede che una cosa sia risolta quando è stata determinata matematicamente. Ora resta irrisolto il problema della corrispondenza con la realtà. L’astronomia di Tolomeo era matematicamente possibile, consentiva la navigazione e nondimeno non corrispondeva alla realtà. Che cosa è la realtà? Questo è il problema centrale. Nella vita sociale soggettività e oggettività sono legate: nella natura, un mondo oggettivo può esistere senza soggetto, ma la società non può esistere senza soggetto. Occorre uscire assieme dalla falsa oggettività del neopositivismo e dalla falsa soggettività dell’esistenzialismo: ambedue non riescono a cogliere la realtà. Che è perduta egualmente nell’arte moderna, o nello stalinismo. Io parlo di rinascita del marxismo come rinascita del senso della realtà! Ma – ripeto – sono questioni sulle quali non vorrei essere frainteso per la forma approssimativa di queste affermazioni. La questione va affrontata a fondo. Sto scrivendo un’etica: e l’introduzione a questo studio è ormai diventata un libro a sé, che pubblicherò col titolo di Ontologia dell’essere sociale.
Rossanda Veniamo alla questione del realismo, e se esso debba presentarsi o no come posizione di un partito in sede estetica.
Lukács Io non credo che il partito debba avere una sua posizione estetica. I casi in cui i comitati centrali si sono espressi in tema di musica, o di cinema, sono casi ridicoli, e non solo perché le posizioni là sostenute erano infondate. Il partito è più importante, la sua leadership può e deve esprimersi senza entrare nel merito delle opere o indicare una poetica. Tanto, in ogni caso, il corso dell’arte segue la sua strada… Altra cosa è che il partito aiuti l’evoluzione di una estetica marxista. L’arte è un modo di verificarsi della realtà e per questo a un partito giova sempre prenderne conoscenza. Lenin lo sapeva bene. Naturalmente, questa verifica può avvenire come confronto o come fuga: come comunista sono per il confronto e contro la fuga – ma questo non implica un giudizio di valore estetico. Vediamo una questione attuale come quella dell’alienazione: essa può essere considerata come un fatto sociale, seguendo Marx, o come una eterna condizione umana. Questo secondo modo è una fuga e, come marxista, sono contro. E tuttavia, su questa base si possono scrivere poesie ottime. Sotto il profilo di una politica culturale, peraltro, essendo assai difficile definire una verità artistica, il metodo della libera discussione mi sembra il più proficuo.
Rossanda È al corrente delle critiche secondo cui la sua ricerca ha implicitamente favorito le posizioni dogmatiche?
Lukács La mia posizione è stata sempre contestata. Di qui a trentanni mi daranno ragione… Vede, la maggior parte dei critici di oggi si limita a una critica tecnica. Ma il marxista deve affrontare le grandi questioni estetiche. Io mi sento sempre più «antimodernista» perché l’arte moderna ha generalmente una sola dimensione. Non si confronta con la realtà. Confrontarsi con la realtà significa confrontarsi con la multidimensionalità del reale. Pensi a Cézanne, che indicando un suo quadro, afferma: «Questa parte non è buona, perché è solo colore e non espressione»; ecco un confronto in una questione estetica concreta. Matisse non si pone questo problema: il suo colore non è espressione, ma decorazione.
Rossanda Ma se all’esempio di Matisse sostituiamo quello di astratti? Essi – Mondrian, per esempio – si propongono una interpretazione, e non solo una decorazione.
Lukács Non voglio generalizzare. Ma gli astratti, e Mondrian, mi interessano ancora meno di Matisse. Non arrivano neanche alla decorazione… Torno a insistere che il problema dell’arte è diverso da quello della tecnica artistica. Il grande viaggio di Jorge Semprún è scritto secondo la tecnica del monologo interiore, secondo la scuola di Joyce: eppure va in direzione affatto opposta. Il valore di questo libro sta nel fatto che la forma più brutale dell’angoscia non è data come una condizione umana universale, ma come una condizione concreta dell’uomo. Quanto al realismo socialista, di cui Fischer e Garaudy non vogliono più sentire parlare, esso resta, secondo me. È l’arte in grado di esprimere una situazione sociale. Può essere buono, o no: può avere forme differenti, a seconda dell’evoluzione storica. Pensate al realismo di Defoe o di Fielding, e a quello di Thomas Mann. Certo, si è fatto tutto il possibile per compromettere il realismo socialista. Ma poi viene uno scrittore come Solženitsyn, lo ritrova, lo verifica, e gli dà una forma nuova.
Rossanda È stato osservato che lei indica in Solženitsyn e nella ricerca della condizione umana e sociale del periodo di Stalin il modello di un realismo attuale. È esatto?
Lukács Non lo addito a modello. È solo un inizio. Ma certo esso indica le forme recenti del conflitto sociale. Ai tempi di Sholokhov questi conflitti erano diversi. Si dice che la storia ha già superato questa fase, ma come può uno scrittore costruire un personaggio se non nello sfondo dell’intera esperienza che lo ha formato? E Balzac senza il riferimento al periodo napoleonico? Tutti noi, salvo coloro che oggi hanno vent’anni, siamo dei sopravvissuti all’età di Stalin, ed è impossibile avere oggi un confronto con la realtà, senza porci questa questione. E del resto, il nostro grande compito di oggi è quello di superare questo periodo.
Rossanda Un’ultima domanda. Qual è la sua attuale posizione nei confronti della sua opera giovanile Storia e coscienza di classe?
Lukács Questa opera ha il merito di avere affrontato per la prima volta il problema dell’alienazione. Ma quando l’ho scritta non conoscevo il giovane Marx. Quando nel 1930 andai nell’Urss e lessi i Manoscritti, mi resi conto che avevo interpretato l’alienazione in una maniera hegeliana, e che tutta la critica che Marx faceva di Hegel valeva anche per Geschichte und Klassenbewusstsein che, perciò, non può che considerarsi sorpassata.
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