Tra il 2007 e il 2013, i disoccupati (in Italia) sono più
che raddoppiati, passando da 1.529.000 a tre milioni e mezzo, il 13,8% della
forza lavoro e, per i giovani tra i 15-24 anni, si arriva a toccare il 46%
(primo trimestre 2014). L’area della “sofferenza e del disagio occupazionale”,
che comprende disoccupati, scoraggiati, cassaintegrati e part-time
involontario, tocca oltre nove milioni di persone, ma «probabilmente sono di
più»; rispetto al 2012 c’è stato un aumento del 10,1% e rispetto al 2007 del
60,9%, equivalente a oltre tre milioni di individui. Il calo della massa
salariale che ne deriva si riflette, ovviamente, sui consumi, diminuiti in
percentuali significative, anche e non da ultimo per il settore primario,
quello alimentare. Uno studio della CGIL del settembre scorso diceva che
c’erano 3 milioni di famiglie (12,3%
della popolazione) [che] non riescono a permettersi un pasto proteico ogni due
giorni. (il manifesto, 06/09/’13)
Un rapporto
della Coldiretti rileva, per il 2013, un aumento del 10% – rispetto al 2012 –
di coloro che hanno dovuto far ricorso alle mense pubbliche o ai pacchi
alimentari, vale a dire 400.000 persone in più, il che porta la cifra complessiva
al numero di 4.068.250 (il manifesto, 29/05/’14). Ultima annotazione, giusto per sottolineare, oltre che l’infamia,
l’assurdità di una formazione sociale in cui il giovanilismo esteriore
imperversa nella rappresentazione ideologica del mondo. I giovani sono sempre
meno presenti nel mercato del lavoro, come testimoniano immancabilmente i
rapporti periodici dell’Istat, mentre è in costante aumento l’occupazione nella
fascia d’età tra i 55 – 64 anni, visto che in Italia, come in tanti altri
paesi, è stata innalzata la soglia dell’età pensionabile. E’ evidente che un
lavoratore anziano non avrà mai l’energia fisica e “morale” di uno giovane, con
le ovvie ricadute sulla famigerata produttività, il che conferma, una volta
ancora, che, oggi, l’estorsione del plusvalore è perseguita più attraverso
l’aumento della torchiatura della forza-lavoro, prevalentemente sotto la forma
del plusvalore assoluto, che dell’investimento e della razionalizzazione dei
processi produttivi (prevalentemente plusvalore relativo), che comunque non
vengono mai meno in assoluto. L’allungamento della “pena del lavoro” riduce la
quota di salario differito (la pensione), anche perché accelera il logoramento
delle persone e, forse, la loro “dipartita” da questo mondo o dalla “vita
attiva”, a costo di subire riduzioni notevoli dell’assegno pensionistico. Anche
questo aspetto rientra nell’abbassamento tendenziale del salario al di sotto
del valore della forza-lavoro che caratterizza la fase odierna del capitale.
"tra il 1998 […] e il 2004 […] non sono stati meno di
trenta milioni i lavoratori che contro la loro volontà hanno perso il lavoro a
tempo pieno e il reddito conseguente. Altri milioni sono stati spinti al
prepensionamento o hanno subito forme mascherate di licenziamento […]:
probabilmente in media il 7-8 per cento dei lavoratori a tempo pieno ha perso
il lavoro ogni anno. Con ciò dando quasi sempre l'addio alla propria
appartenenza ai ranghi della middle class. Non è stata una catastrofe repentina
e di massa, come era successo con la Grande depressione degli anni Trenta. Uno
shock che allora sollecitò risposte collettive e altrettanto di massa"(
Bruno Cartosio, La grande frattura. Concentrazione della ricchezza e
disuguaglianze negli Stati Uniti, Ombre corte, 2013, pag. 58.)
Nessun commento:
Posta un commento