I reduci dal Vietnam (non tutti, però) si svegliavano la notte con la sensazione precisa di essere diventati qualcun altro. Capitava soprattutto ai più giovani. Si mettevano a urlare e cercavano uno specchio per guardarsi, ma ecco, anche così non si capacitavano di essere ancora se stessi.
I genitori o le mogli si alzavano, gli stavano attorno per rincuorarli.
“Sono i nervi” dicevano “solo i nervi, tesoro, ora finisce”, e in effetti quella sofferenza terribile si calmava presto, come se non fosse che un brutto sogno, ma poi, durante un’altra notte, ricompariva nello stesso modo e con la stessa forza.
I medici non ci capivano molto, gli psichiatri sparavano diagnosi fantasiose, e forse il solo che aveva le idee chiare in proposito era l’anziano barman di Whish, il quale sosteneva che l’omicidio è una malattia grave che colpisce prima la vittima e poi l’uccisore.
“Quei ragazzi” diceva “ hanno ammazzato un sacco di gente, laggiù. E’ per questo che ora stanno male.”
La maggior parte di quelli che andavano a bere da Whish sentivano fastidio per l’opinione del barman. La giudicavano sciocca e offensiva. Alcuni reduci, di quelli che non avevano disturbi né angosce, una sera gli misero quasi le mani addosso.
“Come ti permetti, stronzo” gli urlarono sul viso “quelli erano lì a difendere il paese, che cazzo c’entra l’omicidio, ringrazia che sei vecchio.”
Il signor Martini, padre di uno dei ragazzi che si svegliavano la notte, la pensava diversamente, anche se non sapeva chiarire nemmeno a se stesso cosa pensasse davvero.
“Willi, secondo me non hai tutti i torti” gli disse una sera “ma stai attento. Fare certe affermazioni è pericoloso. C’è brutta gente qui in giro.”
Willi lo ringraziò e gli disse che ormai era troppo vecchio per essere prudente.
“L’unica libertà dei vecchi, signor Martini, è che non devono più avere paura. Purtroppo non tutti i vecchi lo sanno.”
Quella notte il figlio del signor Martini ebbe un’altra delle sue crisi, ma il padre, a differenza del solito, non fece nulla per confortarlo.
Invece: “Quanta gente hai ammazzato, Corman?” gli chiese “ Quanti ne hai ammazzati, laggiù?” e sua moglie si mise a piangere.
Corman si bloccò, smise di urlare e rispose “Ventinove, papà. Ventinove, credo. La nostra casa è piena di morti.”
Da Whish, qualche giorno dopo, di sabato, il maggiore dei marines a riposo Henry Colombo (uno di quelli che avevano aggredito Willi) proclamò che nessun soldato poteva tenere il conto dei nemici uccisi in combattimento.
“Tutte sciocchezze. Non è come nei film. Nella maggior parte dei casi, il nemico nemmeno lo vedi in faccia. Spari nel mucchio. Oppure verso le ombre. Non lo puoi sapere se hai beccato qualcuno o no.”
Gli altri gli davano ragione. Willi, a comando, servì un secondo giro di liquori. Il maggiore prese il bicchiere e gli disse che era colpa sua se adesso il povero signor Martini e suo figlio stavano peggio di prima.
“Sei una testa di cazzo, Willi. Tu e i tuoi discorsi sull’omicidio. Quando imparerai ad avere rispetto?”
Gli altri si misero subito a fare chiasso, proprio così, dicevano, rispetto, bravo maggiore, rispetto è la parola giusta, siamo stufi di essere presi a pesci in faccia da questo qua, diamogli una lezione come si deve, che impari come si trattano quelli che hanno combattuto per il paese.
E sarebbe successo il peggio se Willi non avesse spezzato una bottiglia di wisky contro il bancone e, impugnando il moncone aguzzo, non li avesse invitati a farsi pure avanti, che tanto lui era vecchio e non aveva paura.
Allora se ne andarono, con il maggiore che li spingeva dicendo “un’altra volta ragazzi, non conviene mettersi nei guai per uno stronzo vigliacco qualsiasi, basta adesso, un’altra volta” e prima di uscire si voltò verso Willi e gli mostrò il dito medio aprendo la bocca a pronunciare una parola sconcia.
Willi asciugò il visky dal pavimento, spazzò i frammenti di vetro e sparecchiò il bancone. Le altre persone che stavano nel bar non dissero nulla. Avevano assistito a tutta la scena senza muoversi e dopo ricominciarono a chiacchierare lanciando solo furtive occhiate a Willi che lavorava.
Però il signor Martini pensava che la cosa non doveva finire così. La domenica mattina andò alla polizia a raccontare quello che era successo da Whish.
“Io veramente non c’ero” disse “ma me l’ha raccontato Harold, che ha visto tutto. Bisogna fare qualcosa.”
L’agente di turno gli spiegò che senza un testimone oculare era impossibile sporgere una denuncia.
“Ho capito” disse il signor Martini. Prese il cappello e corse a casa di Harold.
Harold però non ne volle sapere, perchè aveva paura del maggiore e degli altri, che lo conoscevano bene e l’avevano visto nel bar la sera prima.
“Ma che mi vuoi mettere nei guai?” gli chiese di malo modo e chiuse la porta.
Il signor Martini pensò che l’unico sistema era convincere Willi a raccontare tutto alla polizia e andò da Wish.
“Ma è vero che Corman sta peggio?” gli chiese Willi. Stava asciugando delle tazzine.
“Corman? Ma no, al contrario. Però adesso non c’entra. Senti Willi, devi venire alla polizia. Non c’è altro da fare. Quelli finisce che ti ammazzano.”
Willi gli fece un caffè.
“Offre la ditta. Signor Martini, la polizia non mi piace. Mi piace ancora meno dei militari, se è possibile. Non mi va di parlarci. Piuttosto mi dica di Corman, che è più importante.”
“Corman” rispose il signor Martini “è cambiato. Ora dice che abbiamo la casa piena di morti. Pare che abbia ucciso ventinove persone, non so come faccia a saperlo ma dice così. Sostiene che quei morti adesso abitano da noi.”
“Li vede?” chiese Wlli.
“No. Non credo. Ma dice che i morti ci sono e che sopravvivono grazie al nome, perchè il nome non muore. Lo so che sembra pazzo. Invece no, sta meglio. Ha smesso di svegliarsi di notte e pare più tranquillo. Però è molto dispiaciuto per quello che ha fatto. Ieri è andato dal prete.”
Il signor Martini raccontò che Corman era tornato a casa tutto sottosopra, perché il prete non gli aveva nemmeno dato il tempo di finire la confessione. Anzi, mentre lui stava ancora parlando, si era alzato ed era uscito dal confessionale dicendogli a brutto muso che non si viene in chiesa a prendere in giro il Signore.
“Hai capito, papà? Alla fine se l’è presa con me. Ha detto che non si è mai visto che un soldato si confessi per quelli che ha ammazzato in guerra, perché quello è un dovere, non un peccato. Forse ha pensato che volessi scherzare, non lo so.”
Insomma, Corman ci era rimasto davvero male, ma poi aveva detto che avrebbe trovato un'altra soluzione per assumersi le proprie reponsabilità e consentire a quei ventinove morti di “andarsene da casa nostra”.
“E cosa pensa di fare?” chiese Willi.
“Non lo so.” Martini finì di bere il caffè. “ Insomma, proprio non ci vuoi venire dalla polizia? Willi, rischi grosso.”
“No, davvero. Non mi va. Ma secondo lei cosa vuole fare Corman?”
Il signor Martini si alzò, disse che proprio non ne aveva idea e tornò a casa, dove trovò sua moglie tutta agitata che andava su e giù per il soggiorno tormentandosi le mani.
Di là si sentiva la voce di Corman.
“E’ da due ore che telefona. Sta chiamando tutti. Ma come si fa? Io penso che sia veramente impazzito.”
Il signor Martini si tolse il soprabito e lo gettò sul divano.
“Ma no” disse “se tutti quelli che telefonano fossero pazzi staremmo freschi. Lascialo fare, che sarà mai.”.
“Tu non capisci” disse la moglie “Corman sta convocando tutti quelli che sono stati in Vietnam con lui. Sai, il figlio di Harold, come si chiama, poi Robert, Kevin, Oliver e gli altri. Li vuole convincere a costituirsi.”
“Per omicidio?” chiese il signor Martini.
La moglie spalancò gli occhi.
“E come fai a saperlo?”
“Ma niente” rispose il signor Martini “ è solo un’idea. Ha già provato con Dio, mi pare. Adesso tenta con gli uomini. Vedremo. Alla fine, per quei ventinove morti bisognerà pur fare qualcosa di sensato.”
Dopodiché spostò il soprabito, sedette sul divano e per qualche minuto, con doloroso orgoglio, contemplò la soddisfazione di aver messo al mondo un ragazzo come si deve e non un qualsiasi fantoccio.
In realtà, le persone a cui Corman stava telefonando non erano “tutti” i suoi ex commilitoni, che naturalmente si trovavano sparpagliati da un capo all’altro degli Sati Uniti, ma quei ragazzi della sua città che conosceva bene e che continuavano a svegliarsi di notte con la feroce certezza di non essere più nessuno e con un certo numero di morti che gli abitavano dentro casa.
Alla fine ne mise insieme solo quattro (Kevin, Oliver, Malone e un altro) ma pensò che comunque era qualcosa, perché fra tutti e cinque facevano almeno settanta morti.
Con loro, nel pomeriggio della domenica, andò a presentarsi all’ufficio dello sceriffo.
Prima di uscire guardò il padre.
“Che dici?” gli chiese.
“Non so” rispose il signor Martini “Come vuoi tu.”
“Allora forse è meglio di no.”
Il signor Martini annuì con calma.
“D’accordo, Corman. Forse è meglio che andiate da soli.”
Alle quattro entrarono nell’ufficio dello sceriffo, che li ricevette con molta cordialità, “come state, ragazzi, Corman, che piacere”, disse loro di accomodarsi e fece portare del caffè. Ma cambiò subito faccia quando Corman disse che doveva confessare di aver ucciso ventinove persone.
“Corman , che diavolo dici. Se è uno scherzo, è di pessimo gusto. Io sono un vecchio amico di tuo padre, ma…”
“Nessuno scherzo, sceriffo. Ho ucciso ventinove persone in Vietnam, durante i combattimenti. E voglio costituirmi.”
“Io ne ho uccise diciotto” disse Kevin” e voglio costituirmi anch’io.”
“E io sei” disse Oliver.
Malone e quell’altro ammisero dieci omicidi per uno.
Poi spiegarono che tutti quei morti, o meglio i nomi di quei morti, vivevano ora nelle loro case e che bisognava fare qualcosa perché se ne andassero.
“E’ suo dovere, sceriffo” disse Corman “deve arrestarci. Abbiamo ammazzato un sacco di gente. E con premeditazione, perché siamo partiti in guerra proprio allo scopo di ammazzarli.”
Lo sceriffo li guardò a lungo in silenzio.
“Va bene” disse alla fine “d’accordo. Adesso però ditemi i nomi di quelli che avete ucciso. Lo sapete che senza corpo del reato non si può procedere. Avanti, fuori questi nomi.”
“Nguyen” disse Corman “almeno dodici dei miei si chiamano così. Poi ci sono alcuni Huang e quattro Dinh.”
“Anche i miei si chiamano soprattutto Nguyen” disse Kevin “altri Phan e gli altri sono Trao e Le”.
Oliver e quell’altro fecero gli stessi nomi, benchè in proporzioni diverse. Solo Malone citò un paio di Ngo e tre Dao.
Lo sceriffo ascoltò fino in fondo e stava per chiedere come potevano mai conoscere tutti quei nomi, poi si ricordò che vivevano in casa insieme ai ragazzi, si allarmò moltissimo per aver fatto questa considerazione e lasciò perdere.
“E poi?” chiese Willi.
“Niente” rispose il signor Martini “lo sceriffo li ha lasciati andare e non ha fatto nulla. C’era da aspettarselo, Willi.”
“Il fatto è, signor Martini, che la polizia non serve. Ne abbiamo già parlato. E’ meglio farne a meno. E’ meglio fare da soli. Ma i morti ci sono ancora?”
“Sì. No. Cioè, Corman dice che vanno e vengono, ma sono meno tristi, perché i loro nomi sono stati nominati nella verità. Non so bene cosa significhi.”
Bevve un sorso di caffè e poi disse:
“Hai più avuto fastidi?”
“Qualcosa, ma niente di grave. Comunque sto attento.”
La sera il signor Martini fece a Corman una domanda che gli girava in testa da molto tempo.
Voleva sapere se anche i morti americani occupavano le case dei vietnamiti che li avevano uccisi o se era una cosa unilaterale, “insomma, è un fatto, che riguarda soltanto noi perché siamo noi o coinvolge anche gli altri, che ne pensi?”
Corman ammise che la domanda era giusta ma che era difficile trovare una risposta.
“Però una volta ne possiamo parlare con Willi” disse.
Nessun commento:
Posta un commento