Pubblichiamo
i risultati del lavoro condotto negli ultimissimi anni dal Collettivo di
formazione marxista. Gli autori, di cui pubblichiamo gli scritti, non avrebbero
potuto farlo, se non supportati dalla ricerca e dalla discussione dell’intero
Collettivo, il quale –in questo senso- è l’autentico autore di questo lavoro.
“E’ il
peggio che possa capitare al capo di un partito il venir costretto ad assumere
il potere quando il movimento non è ancora maturo per il dominio della classe
che esso rappresenta…quel che esso può fare contrasta con tutta la sua condotta
precedente…ciò che esso deve fare non è attuabile.”
F.Engels, “La
guerra dei contadini”.
1.
“Con le sue
sole forze” scriveva Lenin nella “Lettera di commiato agli operai svizzeri” (26
marzo 1917) “ il proletariato russo non può condurre vittoriosamente a termine
la rivoluzione socialista”.
Poco prima,
nel medesimo testo, troviamo quest’altra affermazione: “un particolare concorso
di circostanze storiche ha fatto del proletariato russo per un certo tempo, forse brevissimo, il combattente d’avanguardia
del proletariato rivoluzionario di tutto il mondo…la Russia è un paese
contadino. Il socialismo non vi può vincere direttamente
ed immediatamente.”
Nonostante
questa acuta consapevolezza delle condizioni specifiche della Russia
all’indomani della caduta dello zarismo, non più di sei mesi dopo, nell’ottobre,
Lenin, in disaccordo con importanti dirigenti del Partito operaio
socialdemocratico russo (Kamenev e Zinoviev fra gli altri), spinse
risolutamente perché i bolscevichi prendessero senza indugio nelle loro mani il
potere statale.
Concentriamoci
su quel “per un certo tempo forse
brevissimo” che compare nel testo citato.
Risulta
evidente come Lenin – e ciò è testimoniato in innumerevoli suoi scritti –
considerasse la presa del potere politico in Russia da parte dell’avanguardia
operaia organizzata come un “primo passo” della rivoluzione proletaria
mondiale; i passi successivi, e decisivi, dovevano necessariamente essere
compiuti dalle classi operaie dei paesi europei più sviluppati, a cominciare
dalla Germania.
Senza il
concorso delle classi operaie europee, la rivoluzione Russa non poteva vincere: è fuor di dubbio che
Lenin si trovasse le mille miglia lontano da qualsiasi concezione assimilabile
a quella del “socialismo in un paese solo” che fu invece il leit-motiv
dell’epoca di Stalin.
Tutto ciò, per
quanto sufficientemente noto, è però utile per porre in luce un carattere
peculiare del modo di pensare di Lenin: la concezione del marxismo come guida
nell’azione e non come “ideologia” (nel senso deteriore e falsificante che a
questo termine dava lo stesso Marx) e, nello stesso tempo, la capacità di
valutare, in termini politici, la natura determinata della situazione con cui
il processo rivoluzionario russo doveva fare i conti.
E’ proprio in questo intreccio costante fra teoria generale e determinatezza della situazione storica che può essere rintracciata una possibile “attualità” di Lenin come politico.
Senza
pretendere di rifare in questa sede l’intera storia della Rivoluzione russa, è
significativo rilevare come, nei terribili anni successivi all’ottobre,
l’azione dei bolscevichi dovette costantemente confrontarsi col carattere
peculiare del pensiero di Lenin: ancora nel 1923, in “Meglio meno ma meglio”,
si ritrova lo stesso atteggiamento, disincantato fino alla brutalità, e perciò
capace di una visione senza veli dei reali problemi che affliggevano il primo
stato operaio.
“Nell’apparato
statale” scrive Lenin nel testo citato “ la situazione è a tal punto
deplorevole…che dobbiamo innanzitutto pensare al modo di correggerne i
difetti…Questo apparato (l’apparato statale sovietico, nota mia) da noi non
esiste, e persino gli elementi che abbiamo sono ridicolmente pochi…la cultura è
ciò che occorre” ecc.
Questo scritto, forse un po’ negletto dalla vulgata marxista, è uno degli ultimi interventi pubblici di Lenin: si colloca alla vigilia dell’aggravamento della sua malattia e della morte ma, soprattutto, nel periodo caratterizzato dalla progressiva ascesa di Stalin all’interno del Partito. E’ molto importante sottolineare la differenza fra l’impietosa analisi di Lenin e la retorica che, negli anni a venire, avrebbe avvolto la sua figura in un’aura di misticismo adorante, svuotandone via via la vitalità; la stessa retorica rintracciabile nella famosa commemorazione funebre di Stalin, che aveva lo scopo di imbalsamare il “grande capo” per dimenticarne meglio la lezione.
Certo, la lezione di Lenin non era facile.
“Bisogna
imporsi la regola: meglio pochi ma buoni…so che sarà difficile attenersi a
questa regola…(e) che la regola opposta si farà strada attraverso migliaia di
fessure. So che sarà necessario resistere energicamente” (op. citata).
Si è vista
in queste parole, e con ragione, una delle principali testimonianze di quella
che Moshe Lewin chiama appunto “L’ultima battaglia di Lenin”, intitolando così
uno dei suoi libri più noti: vale a dire la battaglia contro la “degenerazione
burocratica” dello stato sovietico e, con ancor maggior vigore nel famoso
“Testamento”, contro Stalin.
Non è inutile, pero, sottolineare come Lenin non si battesse contro “la” burocrazia in generale - che è, in un certo grado, elemento indispensabile al governo e all’amministrazione di qualsiasi stato -
ma contro
“una”particolare burocrazia: quella delle “millanterie”, quella che non voleva
“studiare” e “imparare” dai paesi economicamente più avanzati, quella, insomma,
che già si orientava alla “rivoluzione dall’alto” e che stabilizzava nel paese
il proprio ruolo privilegiato e dominante, con forti spinte nazionalistiche,
gettando i presupposti di quello che Trockij chiamerà in seguito il “Termidoro”
sovietico.
E’ questa la burocrazia contro la quale Lenin prevede che si dovrà “resistere energicamente”: e, come ultimo atto della sua vita politica, egli propone di ricominciare da capo, per dotare lo Stato sovietico di un apparato statale agile e competente, in grado di affrontare gli innumerevoli problemi che ancora mantenevano l’Unione sovietica ben lontana dal pieno raggiungimento degli obiettivi socialisti.
Scrive lo storico inglese E. H. Carr nella sua “Storia della Russia sovietica”: “Il principale difetto di Lenin come statista era stato quello di non aver mai affrontato veramente il problema dell’amministrazione in una società moderna. Quando dopo…l’introduzione della NEP, cominciò a preoccuparsi di questi problemi…l’unica cosa che seppe fare fu rivolgere…ammonimenti contro i mali della burocrazia statale e…di partito”.
Pur tenendo conto di questo giudizio, si potrebbe
aggiungere che negli anni della guerra civile, della carestia e dell’esordio
della NEP, tutte le energie degli uomini al potere in Russia furono rivolte ad
evitare la pura e semplice morte per
fame della gran parte della popolazione sovietica; e, insieme, ad evitare che
la caduta del potere comunista abbandonasse il paese ad una selvaggia e
sanguinosa restaurazione capitalistica.
E’ evidente che le iniziali formulazioni teoriche sulla “transitorietà” della dittatura del proletariato, sulla semplificazione delle funzioni amministrative accompagnata da un innalzamento del livello culturale dei lavoratori e sulla progressiva estinzione dello stato, che avevano in Marx i loro presupposti, furono spinte sullo sfondo dalle specifiche circostanze storiche della Rivoluzione: l’arretratezza economica, l’esiguità e il basso livello culturale della classe operaia, la sua stessa quasi estinzione, la preponderanza assoluta del mondo contadino e dell’elemento piccolo-borghese, zoccolo duro del regime zarista, insieme alla mancata estensione del processo rivoluzionario all’Europa più avanzata, furono alla base della progressiva decadenza dei Soviet e della concentrazione del potere nell’unico organismo capace, bene o male, di dirigere il paese, vale a dire il Partito comunista.
E’ assai significativo che Lenin, prima di morire, dia di tutto questo una lettura molto diversa da quella che diventerà poi l’ideologia ufficiale dello stalinismo: Lenin sa che, per molto tempo ancora, non sarà possibile rinunciare alla dittatura di partito, e non può fare altro che cercare le soluzioni possibili all’interno di una situazione, non modificabile nell’immediato, della quale prende atto col realismo che gli è proprio e senza fare sconti.
Ma questa consapevolezza non diventa mai giustificatoria:
la teoria non viene piegata alle esigenze della pratica, non diventa ideologia.
Al contrario: Lenin dice con chiarezza che ancora molta strada rimane da fare
per rendere l’Unione sovietica un paese autenticamente socialista, e mai, fra
l’altro, compare l’idea che il paese dei soviet ce la possa fare da solo.
Nel suo “L’ultima battaglia di Lenin” Moshe Lewin, analizzando il periodo in questione, scrive: “Questo non è che il risultato della situazione del potere sovietico all’inizio del 1923, dal momento che…il potere politico restava praticamente il solo strumento d’azione nelle mani dei bolscevichi.”
Questo “potere politico”, va notato, è però qualcosa di
molto diverso dal potere politico in una società borghese, ed anche da quello
in una società retta da una dittatura del proletariato: perché non è, in
realtà, un potere di classe (nessuna “classe” era realmente al potere in Unione
sovietica). Si tratta di un fenomeno nuovo, che Lenin forse non analizza
compiutamente nei suoi ultimi scritti, perché è troppo interno alla situazione
per poterlo fare, ma anche perché l’aveva già fatto in precedenza. O meglio,
aveva fornito degli elementi di metodo che, ancora, rendono conto del suo
particolare modo di affrontare i problemi.
Commentando una frase di Marx, Lenin aveva scritto (quando?dove?): “Sembra che il diritto borghese sopravviva durante un certo tempo nel seno del comunismo, e anche che sopravviva lo stato borghese senza borghesia.”
Cosa voleva dire Lenin? E’ probabile che, sulla falsariga
di Marx, egli intendesse rimarcare che non esiste alcun automatismo nella
storia, nessuna corrispondenza univoca e meccanica fra “struttura” e
“sovrastruttura” e che quello che appare un paradosso sul piano teorico, possa
avverarsi nella realtà.
Nella Russia del 1923 la borghesia non esisteva più: ma è innegabile che i caratteri sempre più autoritari dello stato sovietico e la totale subordinazione politica della classe operaia al Partito negassero, nei fatti, i presupposti dell’ottobre, restaurando qualcosa che, se stato borghese non era né poteva essere, non si poteva nemmeno definire stato operaio in senso pieno.
Era un’altra cosa: e proprio “quest’altra cosa”, di cui
successivamente Trockij avrebbe fornito analisi illuminanti, Lenin si accinse a
combattere sul finire della sua vita.
Con discutibile successo, è vero: ma sarebbe sbagliato
trarre da questa malinconica considerazione un giudizio liquidatorio sull’uomo
e sul suo valore storico e politico, facendone o un’icona da venerare (magari
accanto a Stalin!) o un glorioso arnese del passato.
Lenin si batteva per uno stato moderno e socialista, ben consapevole che i due termini non sono separabili. Nel pieno della reazione capitalistica alla quale ci troviamo davanti, e che spaccia per “libertà” un sistema di sopraffazione le cui radici risalgono per lo meno al diciannovesimo secolo, e per “modernità” la piena subordinazione dei lavoratori al capitale, dovrebbe toccare proprio ai comunisti rimettere in gioco una cultura e una prassi capaci di criticare efficacemente lo statu quo.
Lenin non può insegnarci “che fare”: ma può suggerirci
che rimetterci al lavoro, studiare, riprendere la riflessione teorica in
stretto contatto con la scienza moderna, ricostruire nel qui e ora le ragioni
di una centralità operaia, e soprattutto non mollare, sono le uniche armi di
cui possono disporre coloro che non ci stanno a considerare il capitalismo come
il migliore dei mondi possibili.
2.
Nella sua “Storia della Rivoluzione russa” Trockij
scrive: “Per la prima volta nella storia mondiale il contadino doveva trovare
una guida nella persona dell’operaio. In questo è la differenza fondamentale e,
si può dire, assoluta della rivoluzione russa da tutte le precedenti.”
Più avanti, nello stesso capitolo, l’autore precisa ancor
meglio, affermando che il 1917 - la rivoluzione - fu reso possibile dalla
“compenetrazione reciproca di due fattori di natura storica interamente
diversa: della guerra dei contadini, cioè di un movimento caratteristico
dell’aurora dello sviluppo borghese, con la rivolta proletaria, cioè di un
movimento che indica il tramonto della società borghese.”
Nella visione di Trockij, dunque, la rivoluzione sovietica si presenta come un animale storico del tutto originale, frutto di un’inedita confluenza di elementi contraddittori: come se due fasi diverse e lontane dello sviluppo di una società si fossero date appuntamento in una determinata “ora” storica.
Il riferimento a Trockij non è casuale: è proprio nella
sua riflessione, infatti, che è possibile rintracciare apporti teorici che
illuminano nella sua specificità il processo rivoluzionario sovietico e i particolarissimi
problemi che tale processo si trovò di fronte: primo fra i quali la cosiddetta
“degenerazione burocratica”, ben presente, come abbiamo visto, alla coscienza
dello stesso Lenin.
Ma in Trockij troviamo un passaggio dialettico ulteriore che, si può dire, rappresenta il tentativo di applicare alla stessa Rivoluzione – mettendo in luce, altresì, un fenomeno di carattere generale - lo strumento del materialismo storico, allo scopo di chiarirne l’interna dinamica e, segnatamente, la necessarietà o l’inevitabilità di alcuni suoi aspetti particolarmente critici.
La nota
teoria dello sviluppo “diseguale e combinato” afferma, in una formulazione
sintetica, che i paesi meno progrediti, per mettersi al passo con quelli più
sviluppati, devono” balzare” alla fase più avanzata partendo dalla più
arretrata, saltando, cioè, a piè pari
alcune fasi e con una forte presenza
dello stato come fattore chiave.
E’ sufficientemente riconoscibile, in questo assunto, il tema che abbiamo già rintracciato nello scritto di Lenin preso in esame (“Meglio meno ma meglio”): vale a dire, l’indicazione che il progresso della Rivoluzione, e la sua stessa sopravvivenza, non erano possibili senza una radicale riforma dell’apparato statale che doveva per lo meno raggiungere il grado di sviluppo, tecnico e culturale, delle più avanzate società capitalistiche: e qui torna perfettamente la concordanza con Marx.
Con una
differenza sostanziale, ovviamente: che lo stato di cui si tratta non è più lo
stato dominato dalla borghesia capitalistica, ma da un partito della classe
operaia. Il quale, però, non può fare a meno di porsi come “altro” dalla classe
stessa a fronte delle condizioni oggettive di arretratezza, disgregazione ed
esiguità anche numerica del proletariato industriale.
Ecco, dunque, il nodo teorico fondamentale: lo stato sovietico, all’epoca in cui Lenin pubblica il suo scritto, non può più – o ancora - realisticamente basarsi sulla rete dei consigli (soviet) operai e contadini: la loro originaria funzione di organi della dittatura del proletariato – delineata sul piano teorico dallo stesso Lenin in “Stato e rivoluzione” – deve necessariamente essere vicariata da una burocrazia statale, sebbene culturalmente rinnovata e riqualificata.
Ciò
significa che l’apparato statale, lungi dall’estinguersi, deve bensì
rafforzarsi, al punto da costituire l’unica garanzia che la presa di potere
dell’ottobre non soccomba: un passo indietro da cui non è possibile esimersi,
una necessità che non si fa eludere da nessun volontarismo perché e dettata
dalla nuda verità dei fatti.
C’è qualcosa che sfugge alla limpida diagnosi leninista di “Meglio meno ma meglio? Forse: ma forse no. E questo “no” va riferito ad un’apertura- senz’altro nuova fino a quel momento – che Lenin manifesta quando afferma: “l’esito della lotta dipende, in ultima analisi, dal fatto che la Russia, l’India, la Cina ecc. costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione (mondiale n.d.r.)…maggioranza che in questi ultimi anni…è entrata in lotta per la propria liberazione…In questo senso non può sorgere ombra di dubbio sul risultato finale della lotta mondiale.”
Si tratta di
un notevole, e radicale, mutamento di prospettiva: l’avvenire della Rivoluzione
non è più affidato all’affermarsi del socialismo in Europa, ma all’esito delle
lotte dei paesi “sottosviluppati” che, sotto la sferza della guerra mondiale,
sono stati trascinati nella storia e ingaggiano battaglia contro
l’imperialismo. E’ da lì che Lenin, nel 1923, aspetta i rinforzi: e si
preoccupa soprattutto di far sì che lo stato sovietico resista, a qualsiasi
costo, fino a quando quei rinforzi non giungano. Non c’è nessuna speranza che
l’ottobre sopravviva contando sulle sue sole forze: non c’è nessuna illusione,
e ciò va riconosciuto senza equivoci, che sia possibile il “socialismo in un
paese solo”.
Ma è altrettanto vero che la Cina, l’India e, in generale, il sud del mondo, erano tutti segnati da un basso sviluppo delle forze produttive in senso capitalistico che, sul piano di classe, si rifletteva in una netta prevalenza della componente contadina, sia pure in forme diverse, su quella operaia e urbana. In particolare per la Cina, il processo rivoluzionario si caratterizzò, di fatto, nel senso già messo in luce da Trockij in relazione all’ottobre, vale a dire come una rivoluzione contadina guidata da un partito della classe operaia organizzato in stato: con una forte presenza, cioè, dello stato come fattore chiave.
E’ qui il caso di ribadire come la storia delle rivoluzioni socialiste effettivamente realizzate – bisogna pensare anche al secondo dopoguerra, a Cuba, alla formazione del campo socialista nell’est Europa, alla Corea, all’Indocina ecc. – faccia registrare, sebbene con differenze a volte notevoli, una netta preponderanza del modello statalista in ognuna di tali esperienze: mentre la primitiva ipotesi leninista dell’”estinzione dello stato” e della temporaneità della “dittatura del proletariato” scivolava sempre più sullo sfondo fino ad essere, nei fatti, negata.
E’ forse fin troppo facile attribuire questo carattere comune esclusivamente alla situazione internazionale, vale a dire alla funzione guida dell’URSS e, di conseguenza, alla riproposizione del regime burocratico – stalinista in essa vigente, anche se questo aspetto non è certo da sottovalutare: non va dimenticato, a questo riguardo, che anche paesi “non allineati” come la Jugoslavia di Tito, la stessa Cina o l’Albania, che rimarcavano la propria autonomia dall’Unione sovietica con accenti a volte vigorosamente critici, non si discostarono poi molto da quel modello.
Più cogente
in senso marxista appare, invece, la considerazione che sia proprio il
sottosviluppo economico - sociale ad aver impresso il suo marchio sul socialismo
realizzato nel ventesimo secolo: al punto che ognuna di tali società potrebbe
efficacemente essere interpretata, alla luce dell’analisi di Trockij, come una
fase di transizione dal capitalismo al socialismo, transizione dall’esito
incerto e che appare ancora oggi lungi dal concludersi.
Senza voler affrontare un dibattito che supera i limiti di questo breve contributo – sarebbe, ad esempio, importante un’analisi più approfondita di cosa sia effettivamente la Cina oggi - possiamo prendere per buona la definizione di “regimi progressisti dittatoriali”, proposta da Moshe Lewin nel testo citato, per trovare un minimo comun denominatore al modo in cui il socialismo si è concretamente presentato nel secolo passato. E fare nostra questa considerazione dello stesso Lewin, il quale scrive (nel 1969): “Questi cinquant'anni di esperienze socialiste potrebbero essere senza dubbio di estremo profitto per gli Stati nuovi venuti, se questi intendessero acquisirne una conoscenza approfondita e meditare le vicende della prima dittatura proletaria.”
Forse è questo il compito che Lenin ci ha lasciato in eredità: ma la riflessione, per essere efficace, dovrebbe coinvolgere, in modo determinato, il movimento comunista e le classi operaie dell’occidente e dei paesi capitalisticamente più avanzati, uscendo dalle secche dello scoraggiamento e del settarismo e, soprattutto, dall’attaccamento, talvolta quasi religioso, per i “gloriosi” miti del passato.
Tutti sappiamo che la riflessione in oggetto è già stata più volte svolta nel corso del novecento: con esiti, però, che hanno portato all’abbandono della prospettiva socialista in occidente piuttosto che al su rilancio su basi nuove e alla frantumazione e al ripiegamento minoritario del movimento comunista stesso.
Eppure il tema dello Stato e della burocrazia sono oggi estremamente attuali: non è forse dietro a una burocrazia di banchieri, economisti, agenzie di rating, “tecnici” ed “esperti” di vario genere, che il capitale si nasconde nella sua attuale e, per molti versi, ancora non ben comprensibile crisi? E non sono burocrazie politiche, amministrative, professionali, manageriali ecc. quelle che gestiscono, nei vari stati nazionali capitalistici, un potere che va via via impoverendosi davanti al predominio e ai diktat delle Banche centrali e degli istituti finanziari internazionali, che sono oggi il vero volto del capitale?
La democrazia borghese è agli sgoccioli: sempre meno essa può onorare le sue promesse storiche, sempre più appare come la semplice mascheratura di “Monsieur le capital”, come diceva Marx.
Può esser
questa la linea su cui riprendere l’iniziativa e rinnovare l’ispirazione
leninista, quella presente in “Stato e rivoluzione”, spingendola più avanti del
punto in cui, storicamente, essa è giunta?
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