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L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore
SOMMARIO:
1. Premessa. - 2. Richiami a una indagine americana del 1955 sul
funzionamento del mercato di borsa. - 3. Il caso dell’IOS, a
distanza di un quindicennio, e i suoi aspetti più clamorosi. - 4. La
“sovranità” del risparmiatore e la sua manipolazione da parte
dell’intermediazione specializzata. - 5. Mercato azionario e
efficienza economica nel periodo breve. - 6. L’efficienza
allocativa dei mercati finanziari nel periodo lungo. - 7. Se la borsa
sia un efficace guardiano dell’efficienza dell’impiego delle
risorse allocate per suo tramite. - 8. Una proposta recente di
centralizzazione nazionale delle operazioni di borsa. - 9.
Possibilità di soluzioni che portino a un rigetto della borsa e del
suo folklore.
1.
Premessa
Se
l’occasione immediata per le considerazioni contenute in questo
scritto è stata fornita da talune recenti manifestazioni aberranti
del modo di operare dei mercati finanziari, nel nostro come in altri
paesi, l’interesse per i problemi di cui lo scritto si occupa è
ben più remoto.
Nei
primissimi anni del dopoguerra mi capitò di leggere un articolo,
come sempre limpidissimo e suadente, di Luigi Einaudi che illustrava
con piena adesione le idee espresse a suo tempo da Eugenio Rignano
nel volume Per una riforma socialista del diritto
successorio (1920).
Nell’articolo
einaudiano l’accento veniva posto non sul carattere socialista
della riforma successoria, ma sulla compatibilità della economia di
mercato con un trattamento fiscale delle successioni che fosse
ispirato ad avanzate ideali sociali.
A
mia volta, più che dal problema specifico, fui interessato dalla
tesi generale che esso implicava.
La
tesi, cioè, della compatibilità della economia di mercato con
riforme le quali incidano profondamente in strutture e istituzioni
che storicamente sono venute a coesistere con l’economia di mercato
stessa, ma non sono essenziali al suo funzionamento.
Ed
è precisamente in questa tesi l’origine remota delle presenti
note.
Da
tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica, con
le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente
avanzati, favorisca non già il vigore competitivo, ma un gioco
spregiudicato di tipo predatorio che opera sistematicamente a danno
di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori, in un
quadro istituzionale che, di fatto, consente e legittima la
ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi.
Esiste
una evidente incoerenza tra i condizionamenti di ogni genere -
legislativi, sindacali, sociali - che vincolano l’attività
produttiva “reale” nei vari settori agricolo, industriale, di
intermediazione commerciale e la concreta “licenza di espropriare
l’altrui risparmio” che esiste sui mercati finanziari.
Un
rilievo del genere non trae motivo da fatti episodici o da
insufficienze istituzionali attribuibili a carenze legislative.
Si
tratta di una costatazione originata dalla persistenza evidente,
nell’ambito delle strutture finanziarie-borsistiche, di un
capitalismo aggressivo e violento, che non sembra aver nulla in
comune con lo “spirito di responsabilità pubblica” rilevabile
come componente di una moderna strategia oligopolistica nell’ambito
dell’attività produttiva industriale.
Oggi,
come è ben noto, non soltanto il creatore d’industria rozzo e
brutale, ma persino il creatore d’industria provvidenziale e
paternalistico risultano incompatibili con concezioni non obsolete
della vita industriale.
Al
contrario, esercita tuttora un anacronistico fascino (ed ha,
soprattutto, deleterie possibilità di azione) il manipolatore
spregiudicato di titoli di varia specie sui mercati finanziari
interni e internazionali.
Si
tratta di una smagliatura logica il cui esame presenta un interesse
non minore delle raffinate analisi intorno alla composizione ottimale
del portafoglio in condizioni varie di incertezza.
Indubbiamente
il campo di indagine non si presta a ricerche che portino a risultati
formalmente eleganti e precisi.
Ma
occorre confortarsi ricordando che può essere preferibile “aver
ragione in termini vaghi, anziché sbagliare con tutta precisione”
(1).