giovedì 19 giugno 2025

“Sono ebrea” - Natalia Ginzburg

Da: https://abianchi.altervista.org/gli-ebrei/- Natalia Ginzburg, Gli ebrei, La Stampa del 14 settembre 1972. - Natalia Ginzburg è stata una scrittrice, drammaturga, traduttrice e politica italiana, figura di primo piano della letteratura italiana del Novecento

Vedi anche: Mixer - Faccia a faccia - Intervista a Netanyahu (1986) - https://www.raiplay.it/video/2025/05/Mixer-Intervista-a-Benjamin-Netanyahu-


Questo è il link all’archivio de La Stampa con la scansione dell’originale.


II giorno successivo ai fatti di Monaco, l’Associazione della stampa cattolica mi ha telefonato dicendo che faceva un’inchiesta a proposito della strage e mi chiedeva di esprimere un’opinione. Ho rifiutato di rispondere. Ho detto che non rispondo mai alle inchieste. Pronunciare al telefono quattro frasi mi sembrava stupido e inutile. Ma in seguito, mi è venuto il desiderio di rispondere ai Giornalisti cattolici a lungo e per disteso. Non avevo una sola opinione da esprimere, ne avevo molte, e soprattutto volevo radunare alcuni pensieri che trovavo dentro di me sparpagliati. Rispondo qui. Quando avviene una disgrazia nel mondo, ci accade di pensare, come avremmo agito noi stessi se ne fossimo stati i protagonisti o se avessimo avuto il potere di agire. Essendo il potere lontanissimo dalle nostre mani, questi pensieri sono solo vacue fantasie. Però anche se si tratta di vacue fantasie, dirò lo stesso come avrei agito nei fatti di Monaco se avessi avuto il potere di agire.

Se fossi stata Golda Meir, avrei liberato i duecento prigionieri, come i guerriglieri chiedevano. Dicono che non si deve, mai sottostare ai ricatti. A me sembra che anche i ricatti si devono accettare, nel caso di una grande disgrazia comune. Dicono che i duecento prigionieri, una volta liberi, avrebbero ancora catturalo innocenti e disseminalo stragi. Ma il mondo oggi è costruito in una forma così disastrosa che è necessario decidere di minuto in minuto come difendersi e chi difendere. Penso che quei nove ostaggi andavano salvati e ogni altra considerazione lasciala in disparte. Penso che se Golda Meir avesse liberato i duecento prigionieri, avrebbe dato al mondo una lezione, non di debolezza, ma di forza. O almeno dell’unica forza in cui è legittimo credere, la forza che se ne infischia di vincere ed è pronta a perdere, la forza che non risiede nelle armi, nel petrolio o nell’orgoglio ma nello spirito.

Se fossi stata il capo della polizia tedesca, avrei lasciato che i guerriglieri andassero via illesi e portassero i nove ostaggi dove essi credevano. Se esisteva anche solo un atomo di possibilità che uno fra i nove ostaggi riuscisse a salvarsi, questo atomo doveva da tutti essere contemplato come essenziale.

Se fossi stata il capo delle Olimpiadi, avrei sospeso le Olimpiadi perché evidentemente dopo non avevano più nessun senso.

Se infine fossi un capo di Stato, chiederei all’America di ritirare le truppe dal Vietnam. Naturalmente glielo avrei già chiesto, ma glielo chiederei ancora di più in questo momento. Non credo che i bambini vietnamiti siano diversi dai nove ostaggi israeliani. L’unica differenza è questa, che tutti ci siamo assuefatti a sapere che i bambini vietnamiti muoiono, e ci siamo assuefatti perfino a guardale come muoiono, avendoli osservali senza battere ciglio al cinema e alla televisione. Si tratta però di una orribile assuefazione. Il fatto che nel Vietnam ci sia la guerra e invece lo stadio olimpico volesse essere una cosiddetta isola di pace, non mi sembra una differenza determinante. Falso è credere che possano ancora esistere isole di pace in un mondo quale è il nostro. E i destini degli uomini sono oggi così avviluppali e aggrovigliali insieme, che una guerra in un punto del mondo propaga quotidianamente indifferenza, assuefazione e familiarità alle stragi. Se l’America ora a un tratto portasse via le truppe dal Vietnam i nove ostaggi israeliani non sarebbero morti inutilmente.

Nel pensare ai guerriglieri, ho la sensazione di provare per loro una sorta di orrore disumano. Un simile orrore disumano, può ispirarlo soltanto la presenza di una disumana disperazione. Quando riconosciamo i natii della disumana disperazione, sentiamo scomparire dal nostro spirito i nostri sentimenti consueti, non sentiamo più odio, né sdegno, né pietà. Il nostro spirito diventa di pietra. Ci sembra di avere incontrato sui nostri passi un deserto di pietra, dove non cresce odio né sdegno né pietà come non crescono alberi. Nel pensare ai guerriglieri con un simile orrore disumano, noi diventiamo per qualche attimo simili a loro o all’idea che ci siamo fatti di loro, diventiamo di pietra e perdiamo il respiro dello spirito. Da un simile orrore disumano, noi dovremmo difenderci perché esso è un’aberrazione. I guerriglieri sono forse il limite estremo della nostra stessa disperazione, non ancora disumana e stillante di pietà e di sdegno, non ancora disumana e con la quale da tempo ci siamo abituali a convivere. Le chiavi per capire i guerriglieri forse risiedono nella nostra stessa disperazione. Essi ti sembrano venuti da un mondo che non è il nostro. Ma le strade che hanno seguito per arrivare, a una simile, disumana disperazione, a noi sembrano indecifrabili e disumane forse soltanto perché non ci è mai accaduto né di conoscerle, né di chiederci quanto fossero diverse e remote o quanto fossero vicine e simili alle strade che noi medesimi abbiamo percorso. Dei guerriglieri, sappiamo pochissime cose, ma sappiamo che sono disposti a buttare via la loro vita in ogni istante così come quella degli altri. Quando buttano via la loro vita, non si pensa al coraggio, e quando buttano via la vita degli altri, non si pensa alla crudeltà. Per questo, essi ci sembrano dotati di una forza che ci è impossibile raggiungere con la voce. Impossibile chiedergli che risparmino degli innocenti. Ci sembra che nei luoghi disumani e disperati in cui essi abitano, i colpevoli e gli innocenti non esistano più, perché il mondo non ha più i colori della colpa e dell’innocenza, il mondo è inanimato e disabitato e di un solo colore. Entro di esso esiste solo la morte, e una vita ridotta a un cencio che si butta via con un rapido gesto trovandola non migliore della morte e comunque dello stesso colore.

lo sono ebrea. Tutto quello che riguarda gli ebrei, mi sembra sempre che mi coinvolga direttamente. Sono ebrea solo per parte di padre, ma ho pensato sempre che la mia parte ebraica doveva essere in me più pesante e ingombrante dell’altra parte. Se mi succede di incontrare in qualche luogo una persona che scopro essere ebrea, istintivamente ho la sensazione di avere con essa qualche affinità. Dopo un minuto magari la trovo odiosa, ma permane in me un senso di segreta complicità. Questo è un aspetto della mia natura che trovo strano e che non mi piace affatto, perché è in aperto contrasto con tutto quello che ho sempre pensato nel corso della mia vita, perché ritengo che non esistano fra gli ebrei delle affinità se non estremamente superficiali, perché penso che gli uomini debbano oltrepassare i confini delle loro origini. Questo è ciò che penso, ma quando incontro un ebreo non riesco a reprimere una strana e buia sensazione di connivenza. Quando ho saputo della strage di Monaco, ho pensato che avevano ammazzato ancora una volta quelli del mio sangue. L’ho pensato in mezzo a un mare di altri pensieri, ma l’ho pensato. Nel pensarlo, ho provato disprezzo per me stessa perché era un pensiero da disprezzare. Non credo affatto che gli ebrei abbiano un sangue diverso da quello degli altri. Non credo che esistano divisioni di sangue. Sono ebrea e ho avuto una educazione borghese. Questa educazione borghese mi ha insidiato alcune idee false. Devo avere in qualche modo respirato, nell’infanzia, l’idea che gli ebrei e i borghesi avevano diritti e superiorità sugli altri. Non mi è stato detto certo mai nulla di simile, in casa mia, e anzi mi è stata insegnala la parità di diritti fra gli uomini. Ma nelle strutture della mia educazione doveva essere presente un’idea di superiorità. Noi lottiamo tutta la vita per liberarci dei vizi della nostra educazione, ma i vizi dell’educazione ci restano stampati sullo spirito come dei tatuaggi. Nella nostra vila adulta, si passa il tempo a lavare questi tatuaggi dal nostro spirito. Nei confronti degli ebrei di Israele, credo di aver pensato che essi avevano diritti e superiorità sugli arabi. A un certo momento questa mi è sembrata un’idea mostruosa. L’ho strappata e calpestala con furia. Però mi sono accorta che una simile idea mostruosa l’avevo coltivala in me per molti anni come una pianta sul davanzale. Pur avendola strappata e calpestata, non sono perfettamente sicura che non ne restino in me dei brandelli sparsi. Le nostre idee mostruose hanno la virtù di farci capire come è fatto il nostro paesaggio interiore. Una idea mostruosa vi cresce e prolifera quietamente senza far sparire nulla intorno a sé. Cresce e prolifera accanto ai nostri impulsi migliori e alla nostra sete di giustizia e di uguaglianza, senza farli sparire ma trasformandoli a poco a poco in un mucchio di paglia fradicia.

Le nostre idee mostruose dovrebbero anche avere la virtù di farci capire come sono fatti i nostri nemici, o quelli che usiamo chiamare i nostri nemici. Esse dovrebbero insegnarci a posare gli occhi sugli altri con tolleranza e con estrema attenzione. Dopo che le abbiamo strappate e calpestate, noi dovremmo serbarne memoria e smetterla di pensare a noi stessi come ai figli del bene universale. A volte ho pensalo che gli ebrei di Israele avevano diritti e superiorità sugli altri essendo sopravvissuti a uno sterminio. Questa non era un’idea mostruosa, ma era un errore.

Il dolore e le stragi di innocenti che abbiamo contemplato e patito nella nostra vita, non ci danno nessun diritto sugli altri e nessuna specie di superiorità. Coloro che hanno conosciuto sulle proprie spalle il peso degli spaventi, non hanno il diritto di opprimere i propri simili con denaro o armi, semplicemente perché questo diritto non lo ha al mondo anima vivente. Riguardo agli ebrei di Israele, mi succede questo. Se qualcuno parla contro di loro provo un senso di rivolta e di oscura offesa. Mi sembra che venga offesa la mia stessa famiglia. Se però qualcuno ne parla con ammirazione e devozione, ho la sensazione subitanea di non condividere questi sentimenti e di trovarmi sull’altra sponda. Dopo la guerra, abbiamo amato e commiserato gli ebrei che andavano a Israele pensando che erano sopravvissuti a uno sterminio, che erano senza casa e non sapevano dove andare. Abbiamo amato in loro le memorie del dolore, la fragilità, il passo randagio e le spalle oppresse dagli spaventi. Questi sono i tratti che noi amiamo oggi nell’uomo. Non eravamo affatto preparati a vederli diventare una nazione potente, aggressiva e vendicativa. Speravamo che sarebbero stati un piccolo paese inerme, raccolto, che ciascuno di loro conservasse la ‘propria fisionomia gracile, amara, riflessiva e solitaria, forse non era possibile. Ma questa trasformazione è stata una delle cose orribili che sono accadute. Quando qualcuno parla di Israele con ammirazione, io sento che sto dall’altra parte. Ho capito a un certo punto, forse lardi, che gli arabi citino poveri contadini e pastori. So pochissime cose di me stessa, ma so con assoluta certezza che non voglio stare dalla parte di quelli che usano armi, denaro e cultura per opprimere dei contadini e dei pastori. Il nostro istinto ci spinge a stare da una parte o dall’altra. Ma in verità è forse impossibile oggi stare da una parte o dall’altra. Gli uomini e i popoli subiscono trasformazioni strane, rapidissime e orribili. La sola scelta che a noi è possibile è di essere dalla parte di quelli che muoiono o patiscono ingiustamente. Si dirà che è una scelta facile, ma forse è l’unica scelta che oggi ci sia offerta. 

Natalia Ginzburg

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