Da: https://altreconomia.it - Alessandro Volpi docente di Storia contemporanea, di Storia del movimento operaio e sindacale e di Storia sociale presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il segretario generale della Nato, Mark Rutte, all'avvio del vertice dell'Alleanza atlantica a L'Aia il 24 giugno 2025 © Shutterstock Editorial / IPA
Di fronte allo sgretolamento dei beni rifugio simbolo degli Stati Uniti, ovvero il dollaro e il debito, il presidente, mettendosi un cappellino rosso in testa e creando una war room da film di quart’ordine, ha pensato di persuadere il mondo del “Primato” statunitense, schierando la potenza militare, ormai l’unico vero elemento di forza degli Usa. Che però sanno, a queste condizioni, di potersi permettere ancora per poco. L’analisi di Alessandro Volpi
Uno dei motivi principali dell’attacco degli Stati Uniti all’Iran è stato probabilmente la volontà di Donald Trump di dimostrare la propria forza militare nel tentativo di riconquistare la “fiducia” del mondo, o di una parte di esso, nei confronti dei simboli dell’economia statunitense, costituiti dal dollaro e dai titoli del debito pubblico.
In realtà non si tratta solo di simboli perché il dollaro sta perdendo sempre più rapidamente la condizione di valuta di riserva e di scambio internazionale; una condizione che permetteva alla Federal reserve (Fed) di stampare dollari a suo piacimento per finanziare la spesa federale americana, dunque per coprire gli investimenti militari, per fare giganteschi salvataggi come nel caso delle banche dopo la crisi economica del 2007-2008, per stimolare i consumi interni con continui incentivi e per evitare di aumentare le imposte.
Oggi questa prerogativa, di fatto, non esiste più: solo nei confronti dell’euro il dollaro è ormai ben sotto la parità, con un cambio sceso da 0,95 a 0,86 in pochissimo tempo e non si tratta solo di una manovra di voluta svalutazione ma di vera perdita di credibilità, ancora più marcata verso altre monete mondiali. In queste condizioni se gli Stati Uniti emettessero carta moneta per affrontare la crisi -cosa che non fanno peraltro dal 2020- è molto probabile che il dollaro vedrebbe ulteriormente ridotto il proprio valore.
Nel caso del debito, la situazione statunitense è ancora più critica. Oggi per collocare un titolo a dieci anni il Tesoro degli Stati Uniti deve pagare il 4,38% contro il 2,53% della Germania, l’1,69% della Cina e l’1% del Giappone. Nel giro di un anno, per effetto di tutto ciò, il costo degli interessi è passato da 753 miliardi a 1.235 miliardi di dollari, superando la spesa militare.
Dunque Trump di fronte alla fine della capacità di essere considerati beni rifugio da parte dei simboli degli Stati Uniti, dollaro e debito, ha pensato, mettendosi un cappellino rosso in testa e creando una war room da b-movie, di persuadere il mondo del “Primato” statunitense, schierando la potenza militare, ormai l’unico vero elemento di forza degli Usa, che però sanno, a queste condizioni, di potersi permettere ancora per poco.
Il guaio vero è che questa soluzione non sembra funzionare e, molto probabilmente, non funzionerà più perché nella percezione globale, al di là della sudditanza europea, Trump non guida più una nazione in grado di fornire beni rifugio.
E allora, uno che si è messo in testa quel cappellino, che è attaccato dai grandi fondi finanziari, spaventati dalla crisi del capitalismo; dal presidente della Fed, terrorizzato dai conti federali; e che non dispone di ricette credibili come dimostra la vicenda dei dazi, c’è il rischio vero che tenti ogni volta un rialzo, da vero giocatore d’azzardo qual è, aumentando la dose di utilizzo della forza militare.
In questo senso può essere utile tracciare, a caldo, una breve sintesi della recente crisi. Israele, con la scusa della propria sicurezza interna, compie un genocidio a Gaza e attacca l’Iran, per prevenire, dice, una minaccia nucleare, dopo aver attaccato Siria e Yemen. Gli Stati Uniti intervengono al fianco di Israele contro Teheran per accelerare i tempi dello smantellamento della “minaccia nucleare”. Al di là della reale efficacia di queste azioni militari, due realtà dell’Occidente, che attraversano, entrambe, una profonda crisi economica hanno deciso che lo strumento militare è il solo mezzo di cui ormai dispongono per provare a fermare il proprio declino.
Si tratta tuttavia, come accennato, di una tragica scommessa non in grado di modificare lo stato reale delle cose caratterizzato dall’avanzata, inesorabile, della Cina che sembra essere stata la grande regista anche di questa crisi.
Le speculazioni sul prezzo del petrolio non sono partite per due ragioni. La prima è rappresentata dal fatto che proprio la Cina può aver fatto pressioni sull’Iran perché non chiudesse in alcun modo lo Stretto di Hormuz da cui passano i suoi rifornimenti di greggio. La seconda è rintracciabile nel fatto che le stesse “petromonarchie” del Golfo non hanno alcun interesse a un’impennata del prezzo del petrolio perché stanno puntando da tempo a una diversificazione delle loro economie e quindi hanno fatto capire che avrebbero aumentato la produzione per battere le eventuali speculazioni, naturalmente confidando sul fatto che l’Iran, su pressione appunto della Cina, non avrebbe mai chiuso Hormuz. In questo senso Cina e “petromonarchie” hanno condizionato profondamente i fondi speculativi, dissuadendoli da qualsiasi iniziativa in questo senso.
La domanda, dunque, è fino a che punto due realtà in crisi economica come Stati Uniti e Israele continueranno nel ricorso allo strumento bellico nel tentativo di recuperare forza economica? Certo la sudditanza europea è risultata ancora una volta evidente e l’incapacità dell’Unione di incidere è stata sconcertante. I governi europei hanno di fatto plaudito all’attacco di Israele e Stati Uniti all’Iran (si vedano le dichiarazioni del cancelliere tedesco, Friedrich Merz), non hanno limitato in alcun modo gli scambi con Tel Aviv e si sono spinti a dichiarare legittima in termini di diritto internazionale l’aggressione all’Iran. È davvero difficile che in queste condizioni l’Europa, “armata” o meno, possa avere uno spazio nel quadro internazionale.
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