La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
venerdì 6 novembre 2015
Euro ed Unione Europea -A.Bagnai-V.Giacché-G.Cremaschi-M.Santopadre-A.Stirati-B.Steri-L.Marino-E.Brancaccio-U.Borghetta-
https://www.youtube.com/watch?v=V7TF1OV-yCk&index=1&list=PLxes4MRgbD6HoAR77Slh2qHnoScYPUUhE
giovedì 5 novembre 2015
IL CAPITALE DI MARX (14) - Riccardo Bellofiore
Video degli incontri del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).
Lezioni precedenti: https://www.youtube.com/playlist?list=PL5P5MP2SvtGh94C81IekSb83uO7nLgHmL
Dalla crisi capitalistica alla guerra delle valute: il contesto globale conferma la necessità del socialismo* - Bruno Steri
*Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″
Negli ultimi decenni dello scorso secolo - per rispondere ad
una persistente e globale crisi di accumulazione, certificata dai dati sulla
caduta tendenziale del saggio di profitto - l’Occidente capitalistico ha
infilato la via della speculazione finanziaria alla ricerca di un surplus che
l’economia reale non garantiva più. Proprio la disponibilità di “denaro facile”
ha avviato negli Usa la corsa all’indebitamento di imprese e famiglie,
protrattasi finché il castello di carta (la cosiddetta “economia da casinò”)
non è crollato sotto il peso delle sue contraddizioni. Ovviamente le famiglie
si indebitano perché non hanno un reddito sufficiente a sopravvivere: è qui,
nell’impennarsi della disuguaglianza caratterizzante la società e l’economia
reale, che va individuata la contraddizione essenziale. Ed è qui che una
società capitalistica non riesce a intervenire per disinnescare il dispositivo
che in profondità genera la crisi. Questo intendeva Marx quando scriveva:
“La causa ultima di tutte le crisi effettive
è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse, in contrasto
con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive
ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo della
società”.
Per far fronte al tracollo strutturale del 2007, gli
establishment di Usa, Ue e Giappone hanno per un verso realizzato una colossale
socializzazione delle perdite convertendo in debito pubblico i debiti privati
e, per altro verso, hanno fatto ricorso a massicce immissioni di liquidità nel
sistema attraverso politiche monetarie espansive (bassi tassi e Quantitative
Easing). Sul primo fronte, la medicina non è nuova: dopo aver lautamente
soccorso le banche a suon di centinaia di miliardi, si è passati a smantellare
il welfare per mettere sotto controllo il debito pubblico, scaricando i costi
della crisi sul salario indiretto e su quello differito. Contemporaneamente,
per dare fiato alle imprese, si è dato luogo ad un colossale processo di
precarizzazione del mercato del lavoro, nel tentativo di diminuire la
disoccupazione: quella da insufficienza di domanda effettiva (disoccupazione
“keynesiana”) e quella determinata dalla “sostituzione di macchine a lavoro”
(disoccupazione “tecnologica” o “ricardiana”). Inducendo le imprese ad assumere
lavoratori “usa e getta”, ammesso e non concesso che ciò si verifichi, si
ottiene comunque l’effetto indesiderato di un calo della produttività del
lavoro: si possono infatti costringere i precari a lavorare di più, ma non a
lavorare meglio. E’ quel che è avvenuto in Italia – e in generale nei Paesi
deboli dell’Ue – sulla scia delle politiche imposte da Bruxelles e Berlino,
senza che - con ciò - si sia registrata un’apprezzabile inversione di tendenza
rispetto al dramma della disoccupazione.
All’opposto di quanto
fatto dai fondamentalisti del mercato, la Cina ha risposto alla crisi
propagatasi dall’epicentro occidentale riorientando lo sviluppo verso i consumi
interni e con un poderoso programma di stimoli pubblici: investimenti
infrastrutturali, aumento dei salari, prezzi amministrati per i beni di prima
necessità, nuova fase di urbanizzazione, estensione del permesso di residenza
ai lavoratori migranti (hukou). Tali interventi si sono realizzati in un Paese
in cui, essendo riconosciuta e tutelata l’economia non statale, permane
comunque il monopolio pubblico dei settori strategici (settore
militar-industriale, spaziale e delle telecomunicazioni, ricerca scientifica e
high-tech, risorse naturali) e in cui vige il controllo pubblico del settore
finanziario e bancario. Le Nazioni Unite avevano già riconosciuto ad un Paese
che conta oggi un miliardo e 357 milioni di abitanti (dati del 2013) meriti
indiscutibili sul terreno del progresso sociale e umanitario: tra il 1978 e il
2004, il “socialismo con caratteristiche cinesi” ha ridotto il numero dei
poveri assoluti da 250 a 25 milioni, cioè a meno del 2% della popolazione; ha
innalzato la vita media a 71 anni (nel 1949 era di 40 anni). Il costante
aumento dei salari è andato di pari passo con il progredire della
sindacalizzazione, cui ha dato nuovo slancio la legge entrata in vigore dal 1
gennaio 2008 che prevede tutele più efficaci nei luoghi di lavoro.
lunedì 2 novembre 2015
ESTIRPATORI DI OGGI, ESTIRPATORI DI IERI - Alessandra Ciattini
Premessa
Grande scandalo e turbamento ha suscitato nella grande
stampa e nei canali televisivi internazionali la devastazione e distruzione
portata avanti dai tanto vituperati terroristi dell'Isis o Daesch, che
dir si voglia. Esecrazione ovviamente del tutto condivisibile, giacché comporta
la distruzione di monumenti che costituiscono un patrimonio di valore
inestimabile, che documenta il lato migliore della purtroppo drammatica storia
dell'umanità, e che ci consente di ricostruire criticamente fasi storiche ormai
appartenenti al passato, anche se, in molti casi, la loro influenza è ancora
operante nel presente.
Per esempio, La
Stampa del 5 ottobre 2015 descrive, anche con l'ausilio di un
video, la distruzione dell'arco di trionfo a Palmira [1], costruito circa 2.000
anni fa e letteralmente polverizzato con l'esplosivo.
Ma come spiegare tanta ferocia iconoclasta e tale carica di
assurda distruttività, in un mondo che, almeno a parole, predica il valore
della differenza e la necessità di rispettarne le manifestazioni? Ci viene in
soccorso Il
Fatto quotidiano del 23 giugno 2015, il quale sottolinea che, in
realtà, i jihadisti non abbattono con la loro furia devastatrice tutti i
monumenti del passato, ma scelgono solo i simboli legati a figure divine o
sacre considerate in contraddizione con la loro fede, come per esempio due
mausolei islamici, situati sempre nel sito di Palmira, o le statue dei due
Budda di Bamiyan, distrutte nel 2001 in Afghanistan dai Taliban. A tale
osservazione Il Fatto quotidiano aggiunge che tale “modus
operandi nasce da una degenerazione delwahabismo, corrente
islamica di origine saudita che predica un ritorno alla “purezza” e al rigore
originale riguardo ai testi sacri, in opposizione alla “cultura corrotta”
contemporanea, e che ha ispirato la distruzione di simboli di culto da parte di
gruppi fondamentalisti”.
domenica 1 novembre 2015
"Dopo la Grande Recessione". 30 tesi* - Vladimiro Giacché
*Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2
ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″
Dopo la Grande
Recessione i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire
dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel
2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della
finanza.
Si tratta di un
modello che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con
un'insostenibile crescita di debito e asset finanziari ("financial
depth") che in poco meno di 30 anni sono passati dal 119% del pil mondiale
(1980) al 356% (2007).
Tra le controtendenze alla caduta del saggio di profitto,
nel periodo 1980-2007 un ruolo preminente (anche se non esclusivo) ha quindi
giocato la finanziarizzazione, ossia il "capitale produttivo
d’interesse" (Marx, Capitale, L. III sez 3).
Esso ha consentito:
a) il mantenimento di
una buona propensione al consumo da parte della classe lavoratrice in USA, UE e
Giappone, nonostante salari reali calanti dall'inizio degli anni Settanta:
questo grazie alla speculazione di borsa e allo sviluppo del credito al
consumo;
b) il sostegno ad industrie
di settori maturi, che hanno potuto sopravvivere nonostante un'evidente
sovrapproduzione (cfr. settore automobilistico): questo grazie alle società
finanziarie collegate e al credito al consumo;
c) la
possibilità, per le stesse industrie del settore manifatturiero, di fare
profitti attraverso la speculazione di borsa, attraverso la finanza
proprietaria, il trading, ecc.
sabato 31 ottobre 2015
Dialettica riproposta - Stefano Garroni - LA CITTA' DEL SOLE
Sono raccolti in questo libro gli scritti cui Stefano Garroni stava lavorando prima della sua scomparsa avvenuta nell’aprile del 2014. In essi sono presenti i temi principali del suo lungo e intenso percorso di ricerca, nel corso del quale ha sempre cercato di coniugare con grande sensibilità teoria e prassi, filosofia e politica, etica e scienza. Tra questi temi ricordiamo la tesi dell’inscindibile legame tra Hegel e Marx, il quale – secondo l’autore – si sarebbe sempre mosso nel quadro della filosofia del suo grande predecessore, non attuando quel semplicistico “rovesciamento” della dialettica, su cui ha tanto insistito il materialismo scolastico e dogmatico e che scaturisce dall’interpretazione della “sinistra hegeliana”. L’altro tema, che ci preme mettere in risalto, è rappresentato dall’individuazione nel pensiero di Marx di un forte impegno etico, che si concreta nel Principio Morale di Base così definibile “la vita deve produrre vita”, che questo autore seminale impiega per indagare la società capitalistica e per delineare al contempo i tratti della futura società comunista.
Nato a Roma nel 1939 e laureatosi in Filosofia alla Sapienza della stessa città, Stefano Garroni è stato un brillante animatore del dibattito marxista sia italiano che internazionale. Ha lavorato per alcuni anni in qualità di assistente per la cattedra di Filosofia teoretica sempre alla Sapienza, per poi diventare ricercatore nel 1973 del Consiglio nazionale delle ricerche. Collaboratore della prestigiosa rivista cubana “Marx ahora”, diretta da Isabel Monal, è autore di numerose opere, in cui ha cercato di coniugare con grande rigore filosofia, etica e politica. Ricordiamo in particolare quegli scritti che ha dedicato all'approfondimento del pensiero di Freud come “Su Freud e la morale” (Roma 1983), “Sul perturbante” (Roma 1984), “Quaderni freudiani” (Napoli 1988).
Negli anni ’90 ha collaborato con l’Istituto italiano di Studi filosofici di Napoli e con la Casa Editrice Kappa, con cui ha pubblicato “Tra Cartesio e Hume” (1991) e “Tracciati dialettici: note di politica e di cultura” (1994). Ha tradotto alcune opere del filosofo marxista tedesco Hans Heinz Holz e ha curato sia la pubblicazione di alcuni classici della filosofia e del marxismo, come il “Manifesto del partito comunista” di Marx e Engels (Laboratorio politico, Napoli 1994). La sua collaborazione con le Edizioni La Città del Sole inizia con la cura dell’opera collettanea “Engels cento anni dopo” (1995) e prosegue fino alla sua scomparsa. A questi anni appartengono anche “Su marxismo e stagnazione” (1994) e “Dialettica e differenza” (1997). L’ultima opera filosofica pubblicata da Stefano Garroni è “Letture marxiste di Hegel” (2013), in cui ripropone la cruciale riflessione sulla dialettica, tema al centro del suo interesse sia teorico che morale. Infine, tra le sue ultime attività ricordiamo il lavoro del Collettivo di formazione marxista, con cui ha curato la pubblicazione di libri di informazione politica e di divulgazione culturale, come per esempio “Finché c’è guerra c’è speranza” (2001), “Riproposte dialettiche” (2009), “Ricerche marxiste” (2012) e “Ripensare Marx” (2014).
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NOTA DELL’EDITORE
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Indice
Nota dell’editore
Stefano aveva voluto affidarmi questo testo, pur se, trattandosi di una prima stesura, ancora bisognosa di cure. Ne parlammo più volte, ma volle ugualmente che io lo custodissi.
Non so – e non ha senso parlarne – se in questa inusitata e ostinata decisione di affidarmi queste sue più recenti riflessioni ci fosse un qualche sentore o presagio del peggio. Sta di fatto che la sua scomparsa ha fatto di questo affidamento una sorta di legato testamentario al compagno ed amico editore per la pubblicazione.
Grazie all’impegno sollecito e discreto della sua compagna e moglie, Alessandra Ciattini, che ha curato il testo, oggi questo ultimo lavoro di Stefano va in stampa.
Esso conclude un sodalizio e una collaborazione – non soltanto editoriali – di molti anni nel comune percorso.
Affidiamo questo libro agli estimatori di Stefano e a tutti i lettori ancora o nuovamente interessati agli arricchimenti del pensiero critico materialistico e dialettico, soprattutto ai più giovani alla cui formazione Stefano fu sempre attento.
Non soltanto, dunque, un affettuoso ricordo del compagno e amico, ma un “testimone” che induca altri a proseguire quello stesso percorso, con altrettanto coerente impegno scientifico e politico.
Ciao, Stefano. Grazie.
Sergio Manes
Sergio Manes
Indice
Nota dell’editore
giovedì 29 ottobre 2015
La nostra forma di vita - Italo Testa
La teoria del riconoscimento è una particolare ricostruzione e variazione
moderna della tesi dell'uomo come animale naturalmente sociale (Aristotele,
Hegel, Marx). Il riconoscimento reciproco è qui inteso come il meccanismo
attraverso il quale si costituisce la natura sociale dell'uomo sia come individuo sia
come specie.
La teoria del riconoscimento è un bipode, che
poggia da un lato su una ricostruzione fenomenologica e da un lato su
una descrizione funzionale, in sospeso tra fenomenologia e biologia della
forma di vita dell'essere umano. Riconoscere, già al mero livello biologico,
non è solo identificare, ma anche attribuire un valore (ad esempio, attribuire
ad un oggetto il valore di essere appetibile o meno...). Nessuno dei due lati
del bipode sta al di fuori di un senso della naturalità (da un lato stanno le
funzioni attraverso cui si riproduce la nostra natura biologica; dall'altro il
modo in cui appare a noi stessi la nostra natura umana).
Il riconoscimento è in qualche modo legato alla nostra
prima natura (si noti che la nozione di prima natura può essere diversamente
caratterizzata: natura originaria, natura con cui siamo creati, natura con cui
veniamo al mondo, natura innata, natura fisico-biologica. Per essa si intende
in ogni caso qualcosa di dato e non acquisito). Secondo una caratterizzazione fisico-biologica
del riconoscimento naturale, la prima natura riconoscitiva andrà allora intesa
come quell'insieme di funzioni che supponiamo essere la base biologica dei meccanismi di
riconoscimento che coordinano l'interazione tra gli animali umani.
La tesi per cui la struttura della
personhood (dell'essere persona) è costituita
riconoscitivamente - la tesi, propria del modello hegeliano della teoria del
riconoscimento, per cui l'autocoscienza personale teorica e pratica si
costituirebbero tramite il meccanismo del riconoscimento reciproco - significa
non solo che la personhood presuppone concettualmente il riconoscimento, ma anche che i meccanismi riconoscitivi sono all'opera prima e
indipendentemente della costituzione della personhood.
La dimensione
subpersonale del riconoscimento naturale può essere descritta anche da altre
prospettive e non dipende unicamente da una caratterizzazione biologico-funzionale
della prima natura. (Una di tal prospettive, come vedremo, è la teoria dell'abitudine:
un'altra è la teoria del background;
un'altra ancora è la teoria dell'io fungente e anonimo; un'altra ancora
è la teoria del riconoscimento come potere anonimo e diffuso).
VIAGGIO NELLA CRISI - Rita Bedon
Iniziamo con questo articolo un serie dedicata alla crisi,
al suo sviluppo, e ai suoi aspetti concreti. La fase attuale del capitalismo,
quella che chiamiamo fase dell’imperialismo transnazionale, nome complicato ma
che spiega bene il concetto di una produzione che ormai avviene mediante
filiere che attraversano gli stati, è il prodotto (dialettico) del tentativo da
parte del capitale di superare la sua ultima crisi da eccesso di
sovrapproduzione iniziata negli ’60. Il capitale nel cercare di superare la sua
crisi si è concentrato e centralizzato (ha fatto anche tante altre belle
cosette) creando veri e propri giganti che si contendono il mercato mondiale,
guerreggiando sia per la ripartirsi le risorse del pianeta che per spartirsi i
profitti dello sfruttamento - sempre più intensivo - dei lavoratori. Il viaggio
che faremo partirà dunque proprio dalla crisi cercando di coglierne in maniera
sintetica le sue caratteristiche principali da un punto di vista si teorico che
concreto per poi arrivare a definire gli elementi cruciali della fase attuale.
In questo primo breve scritto svolgeremo una introduzione
teorica all'interpretazione delle crisi che si manifestano nel modo
capitalistico di produzione.
domenica 25 ottobre 2015
LENIN: LA RIFLESSIONE SUL PARTITO. UN USO DELLA DIALETTICA* - Stefano Garroni
*Da DIALETTICA E SOCIALITA', Stefano Garroni, BULZONI Ed.
E' probabilmente vero che l'esperienza storica, a partire se
non altro dalla prima guerra mondiale, ci ha costretti a rinunciare ad una
rappresentazione troppo semplice della dinamica di sviluppo della coscienza
umana.
Non solo sollecitandoci a veder meglio le differenze tra i
suoi livelli (teorico, culturale e ideologico); ma anche - riguardo al suo
livello più largamente diffuso (cioè l'ideologico) - mettendone in evidenza una
dinamica del tutto particolare.
La coscienza ideologica, infatti, sembra disponibile a
compiere improvvisi, rapidi balzi "in avanti" (verso l'acquisizione
di una consapevolezza realistica ed oggettiva) ma, anche, ad arresti inerziali
e perfino a "ritorni indietro", almeno tanto profondi quanto possono
esserlo stati i precedenti balzi in avanti. Ed è anche notevole che questo
tormentato dinamismo sembra accompagnarsi ad una staticità fondamentale, nel
senso che tutti i movimenti indicati sembrano svolgersi, comunque, all'interno
di certi schemi fondamentali, costantemente riproposti. Un ulteriore paradosso
(che può indurre, finalmente, a qualche ottimismo) è che nonostante una
sostanziale ripetitività, sembra possibile affermare che, in qualche modo,
l'ideologia non resta immune dall'esperienza storica: si direbbe, insomma, che
le grandi svolte storiche riescano, comunque, a lasciar tracce anche sulla
coscienza ideologica.
Come dicevo è probabile che ad una rappresentazione così complessa
della coscienza e dell'ideologia in particolare, si sia giunti per tappe,
ovviamente drammaticissime - le guerre mondiali, il nazi-fascismo, le contraddizioni
drammatiche ed il crollo, in fine, del mondo socialista.
Naturalmente ciò non significa che tale processo di
assunzione di consapevolezza si sia svolto linearmente
- passando ordinatamente, questo voglio dire, da una tappa a quella
successiva, e così via; né significa che il problema si sia posto sempre con la
stessa intensità.
Sembra vero, però, che nella riflessione sul Partito, di cui
abbiamo tentato un disegno, esplicitamente o implicitamente, un ruolo di grosso
rilievo lo giochi proprio il modo, in cui ci si rappresenta la dinamica della
coscienza e della coscienza ideologica particolarmente. Già quel poco che
sappiamo a proposito della riflessione di Lenin e della Luxemburg (ma anche dei
comunisti di "sinistra") ci fa comprendere facilmente che, al
contrario di Lenin, nella Luxemburg e negli altri l'evoluzionismo
secondo-internazionalista si mantiene, forse, proprio nell'ottimistica
convinzione che sulla base dell'esperienza politica e sociale - per quanto a
tentoni e per prove ed errori - tuttavia la coscienza proletaria conosca un
sostanzialmente continuo ritmo progrediente.
Lenin appare, invece, assai meno convinto di questa "necessità"
ed anche a tale scetticismo sembra legittimo ricondurre la sua enfatizzazione
del ruolo del Partito.
D'altronde, il marxista
Lenin non poteva che esser consapevole del necessario protagonismo delle
masse, se l'obiettivo era l'abbattimento del capitalismo e la costruzione del
socialismo. Di qui, un problema, a cui abbiamo accennato in precedenza
lasciandolo, però, senza ulteriore analisi: quali possono essere veramente e come possono sul serio funzionare organi di
mediazione fra il Partito (ovvero il livello più elevato di coscienza) e le masse (necessariamente egemonizzate
dal livello ideologico della
coscienza)?
E' anche qui che si pone la questione dei soviet...
venerdì 23 ottobre 2015
Salario sociale reale - Gianfranco Pala
"Il salario non è una partecipazione dell'operaio alla merce da lui prodotta"
osservò senza esitazioni Marx; precisando che ciò che caratterizza il salario è dunque questo: quello che il lavoratore produce per sé non è la seta, l'oro, i palazzi, o le macchine, risultato del suo processo di lavoro, ma è il salario.
Ciononostante, dopo un secolo e mezzo si è costretti ancora ad assistere al trionfo dell'ideologia della partecipazione - in nome della cosiddetta qualità totale, della solidarietà, e di altre fandonie.
"Tutto questo ameno ragionamento - commenta Marx - si riduce a ciò: se i lavoratori possedessero a sufficienza lavoro accumulato, ossia il capitale per non essere costretti a vivere direttamente della vendita del loro lavoro, la forma del salario sparirebbe: cioè, se tutti i lavoratori divenissero capitalisti, ossia se anche il capitale potesse mantenersi senza il suo opposto, il lavoro salariato, senza il quale però esso non può esistere. Nondimeno, questa affermazione è da ricordare. Il salario non è una forma accidentale della produzione borghese, ma tutta la produzione borghese è una forma storica transitoria della produzione. Tutte le sue caratteristiche, il capitale come salario, la rendita, ecc., sono transitorie e suscettibili di essere soppresse a un certo punto dell'evoluzione".
Dunque, quella forma - in quanto "forma" - risponde adeguatamente al contenuto del rapporto di capitale. Facendo così giustizia dello pseudo-criterio della partecipazione del lavoratore al risultato dell'impresa, la forma di salario rimane il perno del rapporto di lavoro col capitale: ed è precisamente questo il concetto da chiarire.
osservò senza esitazioni Marx; precisando che ciò che caratterizza il salario è dunque questo: quello che il lavoratore produce per sé non è la seta, l'oro, i palazzi, o le macchine, risultato del suo processo di lavoro, ma è il salario.
Ciononostante, dopo un secolo e mezzo si è costretti ancora ad assistere al trionfo dell'ideologia della partecipazione - in nome della cosiddetta qualità totale, della solidarietà, e di altre fandonie.
"Tutto questo ameno ragionamento - commenta Marx - si riduce a ciò: se i lavoratori possedessero a sufficienza lavoro accumulato, ossia il capitale per non essere costretti a vivere direttamente della vendita del loro lavoro, la forma del salario sparirebbe: cioè, se tutti i lavoratori divenissero capitalisti, ossia se anche il capitale potesse mantenersi senza il suo opposto, il lavoro salariato, senza il quale però esso non può esistere. Nondimeno, questa affermazione è da ricordare. Il salario non è una forma accidentale della produzione borghese, ma tutta la produzione borghese è una forma storica transitoria della produzione. Tutte le sue caratteristiche, il capitale come salario, la rendita, ecc., sono transitorie e suscettibili di essere soppresse a un certo punto dell'evoluzione".
Dunque, quella forma - in quanto "forma" - risponde adeguatamente al contenuto del rapporto di capitale. Facendo così giustizia dello pseudo-criterio della partecipazione del lavoratore al risultato dell'impresa, la forma di salario rimane il perno del rapporto di lavoro col capitale: ed è precisamente questo il concetto da chiarire.
Prigionieri in un triangolo delle competenze* - Jacques Bidet
*manifesto 22.10.2015
I grandi dibattiti sulla società hanno sempre posto al centro la relazione tra mercato e organizzazione, fra questi due modi di coordinazione razionale dell’azione sociale. Marx indaga il capitalismo in termini di struttura, come strumentalizzazione del mercato, della razionalità mercantile, avvenuta attraverso la mercificazione della forza-lavoro. Ma è in termini di tendenza storica di questa struttura concorrenziale che egli giunge all’organizzazione, trattata a partire dallo sviluppo della grande impresa. Egli interpreta l’organizzazione come un altro tipo di razionalità, oggi nelle mani dei capitalisti, ma che finirà per sfuggire loro e che fornirà, quando la proprietà privata e il mercato saranno aboliti, il tessuto stesso del socialismo. È questo il nucleo duro del grande mito emancipatore del XX secolo.
I grandi dibattiti sulla società hanno sempre posto al centro la relazione tra mercato e organizzazione, fra questi due modi di coordinazione razionale dell’azione sociale. Marx indaga il capitalismo in termini di struttura, come strumentalizzazione del mercato, della razionalità mercantile, avvenuta attraverso la mercificazione della forza-lavoro. Ma è in termini di tendenza storica di questa struttura concorrenziale che egli giunge all’organizzazione, trattata a partire dallo sviluppo della grande impresa. Egli interpreta l’organizzazione come un altro tipo di razionalità, oggi nelle mani dei capitalisti, ma che finirà per sfuggire loro e che fornirà, quando la proprietà privata e il mercato saranno aboliti, il tessuto stesso del socialismo. È questo il nucleo duro del grande mito emancipatore del XX secolo.
Oggi ne misuriamo i limiti. La riflessione critica ha del
resto preso molteplici forme. Per parte mia, io propongo di riprendere, di
correggere e di allargare il procedimento di Marx a partire dal suo
«cominciamento». La società moderna si caratterizza per il suo riferimento
alla ragione. Ma questa non è che la sua metastruttura, che non è posta,
come pretesa presuntamente condivisa di libertà-eguaglianza-razionalità,
che nelle condizioni della struttura di classe, che a sua volta la
presuppone.
giovedì 22 ottobre 2015
IL CAPITALE DI MARX (13) - Riccardo Bellofiore
Video degli incontri del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).
Lezioni precedenti:
https://www.youtube.com/playlist?list=PL5P5MP2SvtGh94C81IekSb83uO7nLgHmL
K. Marx, Il Capitale, Cap. 21, 22, 23:
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_21.htm
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_22.htm
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_23.htm
K. Marx, Il Capitale, Cap. 21, 22, 23:
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_21.htm
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_22.htm
http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_1/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_I_-_23.htm
mercoledì 21 ottobre 2015
Il salario nelle crisi: Modigliani e l’inizio della fine del Pci*
Il dibattito economico odierno sulle possibili soluzioni per
uscire dalla crisi si concentra sull’utilità o meno di una riduzione dei
salari. Sebbene si citi spesso la frase di Marx (per cui la storia si ripete
come farsa), in questo caso la farsa è che questo dibattito si ripeta ancora
nel nostro paese. Infatti, durante la crisi degli anni ’70, lo stesso dibattito
ebbe luogo proprio in Italia, e vide confrontarsi il futuro premio Nobel Franco
Modigliani ed economisti eterodossi, molti vicini al Partito Comunista
Italiano. Proprio il dibattito sul livello del salario nella crisi è un
indicatore importante per misurare l’orientamento delle varie posizioni
politiche e il loro cambiamento reale.
Modigliani: la riduzione del salario
reale e il compito dei sindacati
Gli anni ’70 furono attraversati da diversi fenomeni
economici. Da una parte si concluse il ciclo di lotte cominciano nei decenni
precedenti, con la conquista di molti diritti, tra cui lo Statuto dei
Lavoratori e la scala mobile per i salari. Dall’altro l’Italia, come le altre
economie capitaliste fu colpita da una crisi di stagflazione, che univa quindi
alla crisi della produzione un’impennata dell’inflazione.
Per uscire dalla crisi era necessario, secondo Modigliani,
una riduzione del salario reale, che sarebbe dovuta passare attraverso la modifica
o la cancellazione del meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione
(conosciuto appunto come scala mobile). La tesi di Modigliani era che questo
meccanismo, di cui a prima vista beneficiavano i lavoratori, andava in realtà
contro i loro stessi interessi collettivi. La scala mobile infatti conduceva, a
suo dire, a un aumento del salario reale ( a causa dell’impossibilità per gli
imprenditori di scaricare tutto l’aumento salariale sui prezzi) determinando
così un peggioramento della bilancia commerciale italiana (le importazioni
sarebbero aumentate, mentre le esportazioni sarebbero diminuite). Inoltre
l’occupazione sarebbe calata. In definitiva, secondo Modigliani, il meccanismo
della scala mobile tutelava i lavoratori attivi a discapito dei disoccupati.
Era quindi nell’interesse dei lavoratori stessi, e compito dei loro sindacati,
cancellare la scala mobile e accettare un livello salariale più basso, che
fosse compatibile con la piena occupazione. Inoltre la riduzione del costo del
lavoro avrebbe fermato l’inflazione.
In sostanza i lavoratori ci avrebbero guadagnato rispetto
alla situazione che stavano vivendo: mentre la scala mobile generava inflazione
e disoccupazione (tutelando solo una parte della forza lavoro), con le sue
proposte si sarebbe sconfitta l’inflazione e si sarebbe ottenuta la piena
occupazione. A fronte di un sacrificio momentaneo, si sarebbero quindi potuti
ottenere benefici successivi.
martedì 20 ottobre 2015
FILOSOFIA O IDEOLOGIA? - Renato Caputo
La filosofia,
favorendo lo sviluppo di un sapere critico e di una visione del mondo
scientifica, è stata sempre considerata con sospetto dai ceti sociali
dominanti. Inoltre, ponendo la questione della verità come un compito
collettivo, da realizzare attraverso un costante dialogo fra diversi, essa non
può che essere avversata da chi auspica soluzioni autoritarie fondate sul
diritto del più forte, la legge di natura quale legge della giungla. Un modo di
pensare che parte dal sapere di non sapere non può che essere combattuto da
ogni forma di fondamentalismo, di totalitarismo, di fanatismo.
D’altra parte, essendo fondata sull’amore per la verità, la
filosofia non può che, ancora, essere avversata da chi, per mantenere i propri
privilegi, deve mantenerla celata, dal momento che la verità è rivoluzionaria.
Il pensiero filosofico, come riconosceva lo stesso Benedetto Croce, è un sapere
in sé e per sé democratico, in quanto si fonda sulla ragione quale
caratteristica peculiare del genere umano, di cui ogni uomo è almeno
potenzialmente portatore. Quindi non solo essa offre a ognuno la possibilità di
uscire dallo stato di minorità, quale “incapacità di servirsi del proprio
intelletto senza la guida di un altro”, per dirla con Kant, ma è presente in sé
in ogni uomo, in quanto tale potenzialmente filosofo. In tal modo essa è
animata da uno spirito radicalmente egualitario, tanto che i suoi più acerrimi
nemici - quali Nietzsche - imputano al suo fondatore, Socrate, di essere il
primo responsabile della rivolta degli schiavi e accusano il fondatore della
filosofia moderna, Cartesio, di essere il nonno della rivoluzione.
lunedì 19 ottobre 2015
Immanuel Kant "La conoscenza" - Brandt, Düsing, Henrich, Hösle
Immanuel Kant - La conoscenza. prima parte: https://www.youtube.com/watch?v=X-Dl-6CVaLc
regia di Maria Teresa de Vito.
Marx e la critica del liberalismo - Stefano Petrucciani
Il vero punto cieco
del liberalismo, il suo presupposto apparentemente ovvio ma in realtà
questionabile, è l’idea che le regole sociali, i principi regolativi di base
della convivenza civile, debbano avere come loro obiettivo primario se non
unico quello di assicurare interazioni ordinate tra estranei potenzialmente
nocivi l’uno all’altro. E che invece non debbano avere come loro scopo primario
quello di garantire nel modo migliore la soddisfazione dei bisogni vitali e
l’acquisizione del maggior benessere possibile per tutti. Il vero punto di
fondo, che Marx non riesce a cogliere in modo esplicito, ma che la sua critica
in qualche modo illumina, è che il pensiero liberale occulta quello che, anche per la filosofia politica antica, è
sempre stato l’aspetto fondamentale della relazione sociale, e cioè che gli
uomini stanno insieme per godere di una vita migliore e più agiata.
Il punto
fondamentale, a mio avviso, sta esattamente qui: il liberalismo politico
borghese-moderno, rompendo con una tradizione bimillenaria, non pensa più la
società come una cooperazione lavorativa per la migliore soddisfazione di
ciascuno, ma, al contrario, la tematizza come una relazione tra estranei
potenzialmente nocivi, che non nasce dal problema di soddisfare le necessità
vitali di ciascuno, ma da quello di garantirgli l’ordinato godimento dei suoi
beni dopo che egli ha provveduto da solo a procurarseli. Per questo aspetto, il
nocciolo razionale non immediatamente visibile della critica marxiana può
essere così riassunto: il pensiero liberale e neoliberale non è in grado di
esibire nessuna buona ragione a sostegno del suo assunto fondamentale, e cioè
che lo Stato e la politica abbiano come primo compito quello di garantire la
sicurezza, la proprietà e le transazioni di mercato, e non invece quello di
operare per assicurare a ciascun individuo condizioni di benessere e di
sviluppo umano.
Marx riflette sulle
modalità della cooperazione sociale e, a partire da lì, sulla questione del
feticismo delle merci. Nella società mercantile la dipendenza di ciascuno dalla
cooperazione lavorativa con tutti gli altri viene occultata dal fatto che gli
attori economici agiscono ognuno per conto proprio e senza un piano. La
dipendenza reciproca si occulta dietro l’indipendenza apparente, che in realtà
non è indipendenza ma dipendenza in una forma non consapevole, non programmata
e mediata dal denaro. Ma questa è esattamente la prospettiva nella quale si
colloca il liberalismo, quando considera l’associazione politica come un rapporto
che nasce da individui originariamente indipendenti, e il cui bisogno di
legarsi reciprocamente sotto norme comuni è motivato solo dalla necessità di
conseguire la sicurezza fisica (Hobbes) o la tutela della propria persona e dei
propri averi (Locke).
perché chi ragiona in
termini di società mercantile vede solo ciò che accade nella sfera della
circolazione (dove regnano “Libertà, Eguaglianza,
Proprietà e Bentham”) e non vede ciò che accade nel regno della produzione,
dove vige invece il dominio del capitale sul lavoro.
L’idea della società
di mercato, che caratterizza la tradizione liberale e che rappresenta oggi il
sogno o l’utopia del neoliberismo, è una rappresentazione immaginaria (e
naturalmente anche apologetica) perché le relazioni di mercato non sono
autosussistenti, non bastano a se stesse, ma possono sussistere solo in quanto
si inscrivono e sono supportate a monte e a valle da forme di coordinazione
sociale non mercantile, come ad
esempio la fornitura di beni pubblici (quali ad esempio strade, infrastrutture,
mantenimento di un ambiente salubre) da parte dello Stato o lo scambio di
“servizi” alle persone nell’ambito delle relazioni familiari, amicali e
affettive.
la società di mercato
che il (neo)liberalismo vagheggia è, oltre che indesiderabile, illusoria, perché – e questo è un punto
che neppure Marx vede adeguatamente – la soddisfazione dei bisogni sociali,
anche e soprattutto nella tarda modernità, passa in larghissima parte per ciò
che mercato non è, ovvero da un lato per lo Stato e dall’altro per i legami
familiari o di solidarietà. Perciò la pretesa della mercatizzazione integrale
distrugge (paradossalmente) le basi sociali che rendono possibile il mercato
stesso.
domenica 18 ottobre 2015
Psicologia delle Folle (1895, terza parte, conclusione) - Gustav Le Bon
PARTE TERZA
CAPITOLO I
Classificazione delle folle.
1.° Le folle eterogenee - Come si differenziano - Influenza della razza --- L'anima delle folle 'é
tanto più debole quanto é più forte l'anima della razza - L'anima della razza rappresenta lo
stato di civiltà e, l'anima della folla lo stato di barbarie - 2.° Le folle omogenee - Divisione
delle folle omogenee - Le sette, le caste, le classi.
Abbiamo veduto quali sono i caratteri generali comuni alle folle. Ci resta da studiare i
caratteri particolari sovrapposti a questi caratteri generali, secondo le diverse categorie delle
collettività. Anzitutto facciamo una breve classificazione delle folle.
Il nostro punto di partenza sarà la semplice moltitudine. Essa raggiunge la sua forma più
bassa quando è composta da individui appartenenti a razze diverse. Il suo unico legame è la
volontà, più o meno forte, del capo. Come esempio di tali moltitudini, si possono dare i
barbari di origini diverse, che per parecchi secoli invasero l'impero romano.
Al di sopra di queste moltitudini senza coesione, stanno quelle che, sotto l'azione di certi
fattori hanno acquistato caratteri comuni e hanno finito col formare una razza. Esse
presentano le caratteristiche speciali delle folle, ma sempre insieme a quelle della razza. Le
diverse categorie delle folle che si possono osservare in ogni popolo possono dividersi così
A. - FOLLE ETEROGENEE
1° Anonime (Folle delle vie, per esempio).
2° Non anonime (Giurie, assemblee parlamentari, ecc.).
B.- FOLLE OMOGENEE
1° Sette (Sette politiche, sette religiose, ecc.). B. –
2° Caste (Casta militare, casta sacerdotale, casta operaia, ecc.).
3° Classi (Classe borghese, classe contadina, classe operaia, ecc.).
Ora indicheremo con poche parole i caratteri che differenziano le diverse categorie delle folle.
FREUD TRA SCIENZA ED ETICA* - Stefano Garroni
*Da QUADERNO
FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS
"Ogni virtù, secondo Aristotele, è posta tra due vizi, uno dei quali è la mancanza, e l'altro l'eccesso; essa non è, in un certo modo, se non una delle nostre inclinazioni naturali, alla quale la nostra ragione ci proibisce e di resistere troppo e di obbedire troppo" (Condorcet)
L'Io punta a conquistarsi il dominio sulle spinte pulsionali, avocando a sé la decisione di soddisfarle, subito o nel tempo, orientandosi in base alla valutazione delle circostanze obiettive ma, anche, ispirandosi alla regola di evitar dolore e ricercar piacere - laddove, più è alto il livello di spinta pulsionale, meno è piacevole la sensazione.
L'Io, come sappiamo, è sottoposto a sollecitazioni, che sono contrastanti - quando non addirittura contraddittorie - in diversi sensi: perché le spinte pulsionali, che vengono dall'Es né si curano di definirsi, né di rendersi reciprocamente compatibili; perché, parzialmente, costituiscono gli imperativi e i divieti del Super-io ed, infine, perché vi sono sollecitazioni, che provengono da tutt'altro "luogo", dalla realtà esterna. L'Io è chiamato ad orientarsi in questo insieme intricato, a manipolarlo per poterlo controllare ed, infine, a (realisticamente) conciliarlo (versohnen, appunto). Se vi riesce, la sua azione è corretta.
L'ottica di Freud può comprendere concetti quale "equilibrio", "misura", "conciliazione" ed il loro opposto (l'Es, la spinta pulsionale, ecc.), perché è costruita sulla giustapposizione, sullo scontro fra ordine e disordine, organizzazione e mancanza d'organizzazione. E ciò nel senso che lo spazio ritagliatosi dalla psicoanalisi è quello di una problematica centralissima per l'etica (almeno per una certa tradizione etica), che viene ri-presentata, ma su un altro terreno: quello delle istanze psichiche e dei loro drammatici rapporti.
venerdì 16 ottobre 2015
Orario e condizioni di lavoro: due facce della stessa medaglia - Riccardo Bellofiore
Da: Liberazione,
2 aprile 1997
- Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova
Riccardo
Bellofiore è professore
ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di
Bergamo.
Recentemente, su queste colonne ha avuto luogo una
discussione tra Giovanni Mazzetti e Ernesto Screpanti in merito alla
possibilità, alle forme e alle prospettive di una riduzione dell'orario di
lavoro a parità di salario. La questione andrebbe affrontata,certamente,
attraverso il vaglio di una indagine disincantata della natura attuale del
processo di accumulazione capitalistico; come anche attraverso una valutazione
realistica dei limiti della politica economica nell'intervenire dall'alto sui
termini del conflitto di classe. Spero di poterlo fare in futuro,se me ne sarà
data l'opportunità. Adesso, preferisco invece prenderla per così dire più alla
lontana, trattando l'argomento della riduzione dell'orario di lavoro sul
terreno apparentemente più generico, ma forse ricco di qualche insegnamento,
delle fondazioni concettuali, con l'aiuto di due testi che mi è capitato di
(ri)leggere in questi giorni, uno di Guido Calogero, l'altro di Claudio
Napoleoni: grandi maestri, l'uno filosofo l'altro economista, che ci propongono
due modi di affrontare il tema non poco diversi, e però entrambi attuali.
Lo scritto di
Calogero è il testo di una conferenza tenuta nel 1955 intitolata"Lavoro e giuoco nella civiltà di domani"
(la si può leggere in Scuola sotto inchiesta, Einaudi).Calogero definisce
lavoro "ogni attività che svolgo per
ritrarne una remunerazione, e che cesserei di svolgere se tale remunerazione
non mi fosse più corrisposta ... l'attività produttiva di beni economici, i
quali quando vengono scambiati diventano merci". Il lavoro salariato,
insomma, come paradigma del lavoro in generale. Giuoco è invece "ogni altra attività,non determinata
dall'intento di un vantaggio economico perché o la svolgo senza ritrarne alcun
guadagno, o la svolgerei egualmente anche se guadagno non ne ritraessi":
una definizione che ha una qualche parentela, per esempio, coni 'lavori
concreti' di cui parla Giorgio Lunghini, o l' 'economia sociale' (il'terzo
settore') di cui parla Marco Revelli.
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