giovedì 5 novembre 2015

IL CAPITALE DI MARX (14) - Riccardo Bellofiore



Video degli incontri del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).


https://www.facebook.com/noirestiamo.torino/?fref=ts                                                                                                                                                                                                   httpw.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-148198901904582/?fref=tss://ww

Dalla crisi capitalistica alla guerra delle valute: il contesto globale conferma la necessità del socialismo* - Bruno Steri

*Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″  

 Negli ultimi decenni dello scorso secolo - per rispondere ad una persistente e globale crisi di accumulazione, certificata dai dati sulla caduta tendenziale del saggio di profitto - l’Occidente capitalistico ha infilato la via della speculazione finanziaria alla ricerca di un surplus che l’economia reale non garantiva più. Proprio la disponibilità di “denaro facile” ha avviato negli Usa la corsa all’indebitamento di imprese e famiglie, protrattasi finché il castello di carta (la cosiddetta “economia da casinò”) non è crollato sotto il peso delle sue contraddizioni. Ovviamente le famiglie si indebitano perché non hanno un reddito sufficiente a sopravvivere: è qui, nell’impennarsi della disuguaglianza caratterizzante la società e l’economia reale, che va individuata la contraddizione essenziale. Ed è qui che una società capitalistica non riesce a intervenire per disinnescare il dispositivo che in profondità genera la crisi. Questo intendeva Marx quando scriveva: 

 “La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse, in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo della società”.

 Per far fronte al tracollo strutturale del 2007, gli establishment di Usa, Ue e Giappone hanno per un verso realizzato una colossale socializzazione delle perdite convertendo in debito pubblico i debiti privati e, per altro verso, hanno fatto ricorso a massicce immissioni di liquidità nel sistema attraverso politiche monetarie espansive (bassi tassi e Quantitative Easing). Sul primo fronte, la medicina non è nuova: dopo aver lautamente soccorso le banche a suon di centinaia di miliardi, si è passati a smantellare il welfare per mettere sotto controllo il debito pubblico, scaricando i costi della crisi sul salario indiretto e su quello differito. Contemporaneamente, per dare fiato alle imprese, si è dato luogo ad un colossale processo di precarizzazione del mercato del lavoro, nel tentativo di diminuire la disoccupazione: quella da insufficienza di domanda effettiva (disoccupazione “keynesiana”) e quella determinata dalla “sostituzione di macchine a lavoro” (disoccupazione “tecnologica” o “ricardiana”). Inducendo le imprese ad assumere lavoratori “usa e getta”, ammesso e non concesso che ciò si verifichi, si ottiene comunque l’effetto indesiderato di un calo della produttività del lavoro: si possono infatti costringere i precari a lavorare di più, ma non a lavorare meglio. E’ quel che è avvenuto in Italia – e in generale nei Paesi deboli dell’Ue – sulla scia delle politiche imposte da Bruxelles e Berlino, senza che - con ciò - si sia registrata un’apprezzabile inversione di tendenza rispetto al dramma della disoccupazione.

 All’opposto di quanto fatto dai fondamentalisti del mercato, la Cina ha risposto alla crisi propagatasi dall’epicentro occidentale riorientando lo sviluppo verso i consumi interni e con un poderoso programma di stimoli pubblici: investimenti infrastrutturali, aumento dei salari, prezzi amministrati per i beni di prima necessità, nuova fase di urbanizzazione, estensione del permesso di residenza ai lavoratori migranti (hukou). Tali interventi si sono realizzati in un Paese in cui, essendo riconosciuta e tutelata l’economia non statale, permane comunque il monopolio pubblico dei settori strategici (settore militar-industriale, spaziale e delle telecomunicazioni, ricerca scientifica e high-tech, risorse naturali) e in cui vige il controllo pubblico del settore finanziario e bancario. Le Nazioni Unite avevano già riconosciuto ad un Paese che conta oggi un miliardo e 357 milioni di abitanti (dati del 2013) meriti indiscutibili sul terreno del progresso sociale e umanitario: tra il 1978 e il 2004, il “socialismo con caratteristiche cinesi” ha ridotto il numero dei poveri assoluti da 250 a 25 milioni, cioè a meno del 2% della popolazione; ha innalzato la vita media a 71 anni (nel 1949 era di 40 anni). Il costante aumento dei salari è andato di pari passo con il progredire della sindacalizzazione, cui ha dato nuovo slancio la legge entrata in vigore dal 1 gennaio 2008 che prevede tutele più efficaci nei luoghi di lavoro. 

lunedì 2 novembre 2015

ESTIRPATORI DI OGGI, ESTIRPATORI DI IERI - Alessandra Ciattini

             Premessa

Grande scandalo e turbamento ha suscitato nella grande stampa e nei canali televisivi internazionali la devastazione e distruzione portata avanti dai tanto vituperati terroristi dell'Isis o Daesch, che dir si voglia. Esecrazione ovviamente del tutto condivisibile, giacché comporta la distruzione di monumenti che costituiscono un patrimonio di valore inestimabile, che documenta il lato migliore della purtroppo drammatica storia dell'umanità, e che ci consente di ricostruire criticamente fasi storiche ormai appartenenti al passato, anche se, in molti casi, la loro influenza è ancora operante nel presente. 
Per esempio, La Stampa del 5 ottobre 2015 descrive, anche con l'ausilio di un video, la distruzione dell'arco di trionfo a Palmira [1], costruito circa 2.000 anni fa e letteralmente polverizzato con l'esplosivo.
Ma come spiegare tanta ferocia iconoclasta e tale carica di assurda distruttività, in un mondo che, almeno a parole, predica il valore della differenza e la necessità di rispettarne le manifestazioni? Ci viene in soccorso Il Fatto quotidiano del 23 giugno 2015, il quale sottolinea che, in realtà, i jihadisti non abbattono con la loro furia devastatrice tutti i monumenti del passato, ma scelgono solo i simboli legati a figure divine o sacre considerate in contraddizione con la loro fede, come per esempio due mausolei islamici, situati sempre nel sito di Palmira, o le statue dei due Budda di Bamiyan, distrutte nel 2001 in Afghanistan dai Taliban. A tale osservazione Il Fatto quotidiano aggiunge che tale “modus operandi nasce da una degenerazione delwahabismo, corrente islamica di origine saudita che predica un ritorno alla “purezza” e al rigore originale riguardo ai testi sacri, in opposizione alla “cultura corrotta” contemporanea, e che ha ispirato la distruzione di simboli di culto da parte di gruppi fondamentalisti”. 

domenica 1 novembre 2015

"Dopo la Grande Recessione". 30 tesi* - Vladimiro Giacché

*Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″  

 Dopo la Grande Recessione i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza.

 Si tratta di un modello che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un'insostenibile crescita di debito e asset finanziari ("financial depth") che in poco meno di 30 anni sono passati dal 119% del pil mondiale (1980) al 356% (2007).

 Tra le controtendenze alla caduta del saggio di profitto, nel periodo 1980-2007 un ruolo preminente (anche se non esclusivo) ha quindi giocato la finanziarizzazione, ossia il "capitale produttivo d’interesse" (Marx, Capitale, L. III sez 3).
 Esso ha consentito:

 a) il mantenimento di una buona propensione al consumo da parte della classe lavoratrice in USA, UE e Giappone, nonostante salari reali calanti dall'inizio degli anni Settanta: questo grazie alla speculazione di borsa e allo sviluppo del credito al consumo;

 b) il sostegno ad industrie di settori maturi, che hanno potuto sopravvivere nonostante un'evidente sovrapproduzione (cfr. settore automobilistico): questo grazie alle società finanziarie collegate e al credito al consumo;

 c) la possibilità, per le stesse industrie del settore manifatturiero, di fare profitti attraverso la speculazione di borsa, attraverso la finanza proprietaria, il trading, ecc. 

sabato 31 ottobre 2015

Dialettica riproposta - Stefano Garroni - LA CITTA' DEL SOLE



Sono raccolti in questo libro gli scritti cui Stefano Garroni stava lavorando prima della sua scomparsa avvenuta nell’aprile del 2014. In essi sono presenti i temi principali del suo lungo e intenso percorso di ricerca, nel corso del quale ha sempre cercato di coniugare con grande sensibilità teoria e prassi, filosofia e politica, etica e scienza. Tra questi temi ricordiamo la tesi dell’inscindibile legame tra Hegel e Marx, il quale – secondo l’autore – si sarebbe sempre mosso nel quadro della filosofia del suo grande predecessore, non attuando quel semplicistico “rovesciamento” della dialettica, su cui ha tanto insistito il materialismo scolastico e dogmatico e che scaturisce dall’interpretazione della “sinistra hegeliana”. L’altro tema, che ci preme mettere in risalto, è rappresentato dall’individuazione nel pensiero di Marx di un forte impegno etico, che si concreta nel Principio Morale di Base così definibile “la vita deve produrre vita”, che questo autore seminale impiega per indagare la società capitalistica e per delineare al contempo i tratti della futura società comunista. 


Nato a Roma nel 1939 e laureatosi in Filosofia alla Sapien­za della stessa città, Stefano Garroni è stato un brillante anima­tore del dibattito marxista sia italiano che internazionale. Ha lavorato per alcuni anni in qualità di assistente per la cattedra di Filosofia teoretica sempre alla Sapienza, per poi diventare ricercatore nel 1973 del Consiglio nazionale delle ricerche. Collaboratore della prestigiosa rivista cubana “Marx ahora”, diretta da Isabel Monal, è autore di numerose opere, in cui ha cercato di coniu­gare con grande rigore filosofia, etica e politica. Ricordiamo in particolare quegli scritti che ha dedicato all'approfondimento del pensiero di Freud come “Su Freud e la morale” (Roma 1983), “Sul perturbante” (Roma 1984), “Quaderni freudiani” (Napoli 1988).
Negli anni ’90 ha collaborato con l’Istituto italiano di Studi filosofici di Napoli e con la Casa Editrice Kappa, con cui ha pubblicato “Tra Cartesio e Hume” (1991) e “Tracciati dialettici: note di politica e di cultura” (1994). Ha tradotto alcune opere del filosofo marxista tedesco Hans Heinz Holz e ha curato sia la pubblicazione di alcuni classici della filosofia e del marxismo, come il “Manifesto del partito comunista” di Marx e Engels (Laboratorio politico, Napoli 1994). La sua collaborazione con le Edizioni La Città del Sole inizia con la cura dell’opera collettanea “Engels cento anni dopo” (1995) e prosegue fino alla sua scomparsa. A questi anni appartengono anche “Su marxismo e stagnazione” (1994) e “Dialettica e differenza” (1997). L’ultima opera filosofica pubblicata da Stefano Garroni è “Letture marxiste di Hegel” (2013), in cui ripropone la cruciale riflessione sulla dialettica, tema al centro del suo interesse sia teorico che morale. Infine, tra le sue ultime attività ricordiamo il lavoro del Collettivo di formazione marxista, con cui ha curato la pubblicazione di libri di informazione politica e di divulgazione culturale, come per esempio “Finché c’è guerra c’è speranza” (2001), “Riproposte dialettiche” (2009), “Ricerche marxiste” (2012) e “Ripensare Marx” (2014). 
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       NOTA DELL’EDITORE

Stefano aveva voluto affidarmi questo testo, pur se, trattandosi di una prima stesura, ancora bisognosa di cure. Ne parlammo più volte, ma volle ugualmente che io lo custodissi.
Non so – e non ha senso parlarne – se in questa inusitata e ostinata decisione di affidarmi queste sue più recenti riflessioni ci fosse un qualche sentore o presagio del peggio. Sta di fatto che la sua scomparsa ha fatto di questo affidamento una sorta di legato testamentario al compagno ed amico editore per la pubblicazione.
Grazie all’impegno sollecito e discreto della sua compagna e moglie, Alessandra Ciattini, che ha curato il testo, oggi questo ultimo lavoro di Stefano va in stampa.
Esso conclude un sodalizio e una collaborazione – non soltanto editoriali – di molti anni nel comune percorso.
Affidiamo questo libro agli estimatori di Stefano e a tutti i lettori ancora o nuovamente interessati agli arricchimenti del pensiero critico materialistico e dialettico, soprattutto ai più giovani alla cui formazione Stefano fu sempre attento.
Non soltanto, dunque, un affettuoso ricordo del compagno e amico, ma un “testimone” che induca altri a proseguire quello stesso percorso, con altrettanto coerente impegno scientifico e politico.

             Ciao, Stefano. Grazie.
                                                 Sergio Manes 

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Indice 


Nota dell’editore
                                                                                                                                             













giovedì 29 ottobre 2015

La nostra forma di vita - Italo Testa

 La teoria del riconoscimento è  una particolare ricostruzione e variazione moderna della tesi dell'uomo come animale naturalmente sociale (Aristotele, Hegel, Marx). Il riconoscimento reciproco è qui inteso come il meccanismo attraverso il quale si costituisce la natura sociale dell'uomo sia come individuo sia come specie.

La teoria del riconoscimento è un bipode, che poggia da un lato su una ricostruzione fenomenologica e da un lato su una descrizione funzionale, in sospeso tra fenomenologia e biologia della forma di vita dell'essere umano. Riconoscere, già al mero livello biologico, non è solo identificare, ma anche attribuire un valore (ad esempio, attribuire ad un oggetto il valore di essere appetibile o meno...). Nessuno dei due lati del bipode sta al di fuori di un senso della naturalità (da un lato stanno le funzioni attraverso cui si riproduce la nostra natura biologica; dall'altro il modo in cui appare a noi stessi la nostra natura umana).

Il riconoscimento è in qualche modo legato alla nostra prima natura (si noti che la nozione di prima natura può essere diversamente caratterizzata: natura originaria, natura con cui siamo creati, natura con cui veniamo al mondo, natura innata, natura fisico-biologica. Per essa si intende in ogni caso qualcosa di dato e non acquisito). Secondo una caratterizzazione fisico-biologica del riconoscimento naturale, la prima natura riconoscitiva andrà allora intesa come quell'insieme di funzioni che supponiamo essere  la base biologica dei meccanismi di riconoscimento che coordinano l'interazione tra gli animali umani.

La tesi per cui la struttura della personhood (dell'essere persona) è costituita riconoscitivamente - la tesi, propria del modello hegeliano della teoria del riconoscimento, per cui l'autocoscienza personale teorica e pratica si costituirebbero tramite il meccanismo del riconoscimento reciproco - significa non solo che la personhood presuppone concettualmente il riconoscimento, ma anche che i meccanismi riconoscitivi sono all'opera prima e indipendentemente della costituzione della personhood.

La dimensione subpersonale del riconoscimento naturale può essere descritta anche da altre prospettive e non dipende unicamente da una caratterizzazione biologico-funzionale della prima natura. (Una di tal prospettive, come vedremo, è la teoria dell'abitudine: un'altra è la teoria del background;  un'altra ancora è la teoria dell'io fungente e anonimo; un'altra ancora è la teoria del riconoscimento come potere anonimo e diffuso). 

VIAGGIO NELLA CRISI - Rita Bedon


 Iniziamo con questo articolo un serie dedicata alla crisi, al suo sviluppo, e ai suoi aspetti concreti. La fase attuale del capitalismo, quella che chiamiamo fase dell’imperialismo transnazionale, nome complicato ma che spiega bene il concetto di una produzione che ormai avviene mediante filiere che attraversano gli stati, è il prodotto (dialettico) del tentativo da parte del capitale di superare la sua ultima crisi da eccesso di sovrapproduzione iniziata negli ’60. Il capitale nel cercare di superare la sua crisi si è concentrato e centralizzato (ha fatto anche tante altre belle cosette) creando veri e propri giganti che si contendono il mercato mondiale, guerreggiando sia per la ripartirsi le risorse del pianeta che per spartirsi i profitti dello sfruttamento - sempre più intensivo - dei lavoratori. Il viaggio che faremo partirà dunque proprio dalla crisi cercando di coglierne in maniera sintetica le sue caratteristiche principali da un punto di vista si teorico che concreto per poi arrivare a definire gli elementi cruciali della fase attuale.

 In questo primo breve scritto svolgeremo una introduzione teorica all'interpretazione delle crisi che si manifestano nel modo capitalistico di produzione. 

domenica 25 ottobre 2015

LENIN: LA RIFLESSIONE SUL PARTITO. UN USO DELLA DIALETTICA* - Stefano Garroni

*Da DIALETTICA E SOCIALITA', Stefano Garroni, BULZONI Ed. 

 E' probabilmente vero che l'esperienza storica, a partire se non altro dalla prima guerra mondiale, ci ha costretti a rinunciare ad una rappresentazione troppo semplice della dinamica di sviluppo della coscienza umana.

 Non solo sollecitandoci a veder meglio le differenze tra i suoi livelli (teorico, culturale e ideologico); ma anche - riguardo al suo livello più largamente diffuso (cioè l'ideologico) - mettendone in evidenza una dinamica del tutto particolare.

 La coscienza ideologica, infatti, sembra disponibile a compiere improvvisi, rapidi balzi "in avanti" (verso l'acquisizione di una consapevolezza realistica ed oggettiva) ma, anche, ad arresti inerziali e perfino a "ritorni indietro", almeno tanto profondi quanto possono esserlo stati i precedenti balzi in avanti. Ed è anche notevole che questo tormentato dinamismo sembra accompagnarsi ad una staticità fondamentale, nel senso che tutti i movimenti indicati sembrano svolgersi, comunque, all'interno di certi schemi fondamentali, costantemente riproposti. Un ulteriore paradosso (che può indurre, finalmente, a qualche ottimismo) è che nonostante una sostanziale ripetitività, sembra possibile affermare che, in qualche modo, l'ideologia non resta immune dall'esperienza storica: si direbbe, insomma, che le grandi svolte storiche riescano, comunque, a lasciar tracce anche sulla coscienza ideologica.

 Come dicevo è probabile che ad una rappresentazione così complessa della coscienza e dell'ideologia in particolare, si sia giunti per tappe, ovviamente drammaticissime - le guerre mondiali, il nazi-fascismo, le contraddizioni drammatiche ed il crollo, in fine, del mondo socialista.

 Naturalmente ciò non significa che tale processo di assunzione di consapevolezza si sia svolto linearmente - passando ordinatamente, questo voglio dire, da una tappa a quella successiva, e così via; né significa che il problema si sia posto sempre con la stessa intensità.

 Sembra vero, però, che nella riflessione sul Partito, di cui abbiamo tentato un disegno, esplicitamente o implicitamente, un ruolo di grosso rilievo lo giochi proprio il modo, in cui ci si rappresenta la dinamica della coscienza e della coscienza ideologica particolarmente. Già quel poco che sappiamo a proposito della riflessione di Lenin e della Luxemburg (ma anche dei comunisti di "sinistra") ci fa comprendere facilmente che, al contrario di Lenin, nella Luxemburg e negli altri l'evoluzionismo secondo-internazionalista si mantiene, forse, proprio nell'ottimistica convinzione che sulla base dell'esperienza politica e sociale - per quanto a tentoni e per prove ed errori - tuttavia la coscienza proletaria conosca un sostanzialmente continuo ritmo progrediente.

 Lenin appare, invece, assai meno convinto di questa "necessità" ed anche a tale scetticismo sembra legittimo ricondurre la sua enfatizzazione del ruolo del Partito.

 D'altronde, il marxista Lenin non poteva che esser consapevole del necessario protagonismo delle masse, se l'obiettivo era l'abbattimento del capitalismo e la costruzione del socialismo. Di qui, un problema, a cui abbiamo accennato in precedenza lasciandolo, però, senza ulteriore analisi: quali possono essere veramente e come possono sul serio funzionare organi di mediazione fra il Partito (ovvero il livello più elevato di coscienza) e le masse (necessariamente egemonizzate dal livello ideologico della coscienza)?

 E' anche qui che si pone la questione dei soviet...  

venerdì 23 ottobre 2015

Salario sociale reale - Gianfranco Pala

"Il salario non è una partecipazione dell'operaio alla merce da lui prodotta"

osservò senza esitazioni Marx; precisando che ciò che caratterizza il salario è dunque questo: quello che il lavoratore produce per sé non è la seta, l'oro, i palazzi, o le macchine, risultato del suo processo di lavoro, ma è il salario.

Ciononostante, dopo un secolo e mezzo si è costretti ancora ad assistere al trionfo dell'ideologia della partecipazione - in nome della cosiddetta qualità totale, della solidarietà, e di altre fandonie.

"Tutto questo ameno ragionamento - commenta Marx - si riduce a ciò: se i lavoratori possedessero a sufficienza lavoro accumulato, ossia il capitale per non essere costretti a vivere direttamente della vendita del loro lavoro, la forma del salario sparirebbe: cioè, se tutti i lavoratori divenissero capitalisti, ossia se anche il capitale potesse mantenersi senza il suo opposto, il lavoro salariato, senza il quale però esso non può esistere. Nondimeno, questa affermazione è da ricordare. Il salario non è una forma accidentale della produzione borghese, ma tutta la produzione borghese è una forma storica transitoria della produzione. Tutte le sue caratteristiche, il capitale come salario, la rendita, ecc., sono transitorie e suscettibili di essere soppresse a un certo punto dell'evoluzione". 

Dunque, quella forma - in quanto "forma" - risponde adeguatamente al contenuto del rapporto di capitale. Facendo così giustizia dello pseudo-criterio della partecipazione del lavoratore al risultato dell'impresa, la forma di salario rimane il perno del rapporto di lavoro col capitale: ed è precisamente questo il concetto da chiarire.

Prigionieri in un triangolo delle competenze* - Jacques Bidet

*manifesto 22.10.2015 


I grandi dibat­titi sulla società hanno sem­pre posto al cen­tro la rela­zione tra mer­cato e orga­niz­za­zione, fra que­sti due modi di coor­di­na­zione razio­nale dell’azione sociale. Marx indaga il capi­ta­li­smo in ter­mini di strut­tura, come stru­men­ta­liz­za­zione del mer­cato, della razio­na­lità mer­can­tile, avve­nuta attra­verso la mer­ci­fi­ca­zione della forza-lavoro. Ma è in ter­mini di ten­denza sto­rica di que­sta strut­tura con­cor­ren­ziale che egli giunge all’organizzazione, trat­tata a par­tire dallo svi­luppo della grande impresa. Egli inter­preta l’organizzazione come un altro tipo di razio­na­lità, oggi nelle mani dei capi­ta­li­sti, ma che finirà per sfug­gire loro e che for­nirà, quando la pro­prietà pri­vata e il mer­cato saranno abo­liti, il tes­suto stesso del socia­li­smo. È que­sto il nucleo duro del grande mito eman­ci­pa­tore del XX secolo.

Oggi ne misu­riamo i limiti. La rifles­sione cri­tica ha del resto preso mol­te­plici forme. Per parte mia, io pro­pongo di ripren­dere, di cor­reg­gere e di allar­gare il pro­ce­di­mento di Marx a par­tire dal suo «comin­cia­mento». La società moderna si carat­te­rizza per il suo rife­ri­mento alla ragione. Ma que­sta non è che la sua meta­strut­tura, che non è posta, come pre­tesa pre­sun­ta­mente con­di­visa di libertà-eguaglianza-razionalità, che nelle con­di­zioni della strut­tura di classe, che a sua volta la presuppone. 

mercoledì 21 ottobre 2015

Il salario nelle crisi: Modigliani e l’inizio della fine del Pci*



 Il dibattito economico odierno sulle possibili soluzioni per uscire dalla crisi si concentra sull’utilità o meno di una riduzione dei salari. Sebbene si citi spesso la frase di Marx (per cui la storia si ripete come farsa), in questo caso la farsa è che questo dibattito si ripeta ancora nel nostro paese. Infatti, durante la crisi degli anni ’70, lo stesso dibattito ebbe luogo proprio in Italia, e vide confrontarsi il futuro premio Nobel Franco Modigliani ed economisti eterodossi, molti vicini al Partito Comunista Italiano. Proprio il dibattito sul livello del salario nella crisi è un indicatore importante per misurare l’orientamento delle varie posizioni politiche e il loro cambiamento reale.

 Modigliani: la riduzione del salario reale e il compito dei sindacati

 Gli anni ’70 furono attraversati da diversi fenomeni economici. Da una parte si concluse il ciclo di lotte cominciano nei decenni precedenti, con la conquista di molti diritti, tra cui lo Statuto dei Lavoratori e la scala mobile per i salari. Dall’altro l’Italia, come le altre economie capitaliste fu colpita da una crisi di stagflazione, che univa quindi alla crisi della produzione un’impennata dell’inflazione.

 Per uscire dalla crisi era necessario, secondo Modigliani, una riduzione del salario reale, che sarebbe dovuta passare attraverso la modifica o la cancellazione del meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione (conosciuto appunto come scala mobile). La tesi di Modigliani era che questo meccanismo, di cui a prima vista beneficiavano i lavoratori, andava in realtà contro i loro stessi interessi collettivi. La scala mobile infatti conduceva, a suo dire, a un aumento del salario reale ( a causa dell’impossibilità per gli imprenditori di scaricare tutto l’aumento salariale sui prezzi) determinando così un peggioramento della bilancia commerciale italiana (le importazioni sarebbero aumentate, mentre le esportazioni sarebbero diminuite). Inoltre l’occupazione sarebbe calata. In definitiva, secondo Modigliani, il meccanismo della scala mobile tutelava i lavoratori attivi a discapito dei disoccupati. Era quindi nell’interesse dei lavoratori stessi, e compito dei loro sindacati, cancellare la scala mobile e accettare un livello salariale più basso, che fosse compatibile con la piena occupazione. Inoltre la riduzione del costo del lavoro avrebbe fermato l’inflazione.

 In sostanza i lavoratori ci avrebbero guadagnato rispetto alla situazione che stavano vivendo: mentre la scala mobile generava inflazione e disoccupazione (tutelando solo una parte della forza lavoro), con le sue proposte si sarebbe sconfitta l’inflazione e si sarebbe ottenuta la piena occupazione. A fronte di un sacrificio momentaneo, si sarebbero quindi potuti ottenere benefici successivi.

martedì 20 ottobre 2015

La difficile unificazione politica del Mediterraneo dall'età classica ai nostri giorni - Luciano Canfora

FILOSOFIA O IDEOLOGIA? - Renato Caputo

 La filosofia, favorendo lo sviluppo di un sapere critico e di una visione del mondo scientifica, è stata sempre considerata con sospetto dai ceti sociali dominanti. Inoltre, ponendo la questione della verità come un compito collettivo, da realizzare attraverso un costante dialogo fra diversi, essa non può che essere avversata da chi auspica soluzioni autoritarie fondate sul diritto del più forte, la legge di natura quale legge della giungla. Un modo di pensare che parte dal sapere di non sapere non può che essere combattuto da ogni forma di fondamentalismo, di totalitarismo, di fanatismo.

 D’altra parte, essendo fondata sull’amore per la verità, la filosofia non può che, ancora, essere avversata da chi, per mantenere i propri privilegi, deve mantenerla celata, dal momento che la verità è rivoluzionaria. Il pensiero filosofico, come riconosceva lo stesso Benedetto Croce, è un sapere in sé e per sé democratico, in quanto si fonda sulla ragione quale caratteristica peculiare del genere umano, di cui ogni uomo è almeno potenzialmente portatore. Quindi non solo essa offre a ognuno la possibilità di uscire dallo stato di minorità, quale “incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”, per dirla con Kant, ma è presente in sé in ogni uomo, in quanto tale potenzialmente filosofo. In tal modo essa è animata da uno spirito radicalmente egualitario, tanto che i suoi più acerrimi nemici - quali Nietzsche - imputano al suo fondatore, Socrate, di essere il primo responsabile della rivolta degli schiavi e accusano il fondatore della filosofia moderna, Cartesio, di essere il nonno della rivoluzione.

lunedì 19 ottobre 2015

Immanuel Kant "La conoscenza" - Brandt, Düsing, Henrich, Hösle







Immanuel Kant - La conoscenza. prima parte: https://www.youtube.com/watch?v=X-Dl-6CVaLc 




Immanuel Kant - La conoscenza. seconda parte: https://www.youtube.com/watch?v=ExjTTwOFEuA 




regia di Maria Teresa de Vito.

Marx e la critica del liberalismo - Stefano Petrucciani

 Il vero punto cieco del liberalismo, il suo presupposto apparentemente ovvio ma in realtà questionabile, è l’idea che le regole sociali, i principi regolativi di base della convivenza civile, debbano avere come loro obiettivo primario se non unico quello di assicurare interazioni ordinate tra estranei potenzialmente nocivi l’uno all’altro. E che invece non debbano avere come loro scopo primario quello di garantire nel modo migliore la soddisfazione dei bisogni vitali e l’acquisizione del maggior benessere possibile per tutti. Il vero punto di fondo, che Marx non riesce a cogliere in modo esplicito, ma che la sua critica in qualche modo illumina, è che il pensiero liberale occulta quello che, anche per la filosofia politica antica, è sempre stato l’aspetto fondamentale della relazione sociale, e cioè che gli uomini stanno insieme per godere di una vita migliore e più agiata.

 Il punto fondamentale, a mio avviso, sta esattamente qui: il liberalismo politico borghese-moderno, rompendo con una tradizione bimillenaria, non pensa più la società come una cooperazione lavorativa per la migliore soddisfazione di ciascuno, ma, al contrario, la tematizza come una relazione tra estranei potenzialmente nocivi, che non nasce dal problema di soddisfare le necessità vitali di ciascuno, ma da quello di garantirgli l’ordinato godimento dei suoi beni dopo che egli ha provveduto da solo a procurarseli. Per questo aspetto, il nocciolo razionale non immediatamente visibile della critica marxiana può essere così riassunto: il pensiero liberale e neoliberale non è in grado di esibire nessuna buona ragione a sostegno del suo assunto fondamentale, e cioè che lo Stato e la politica abbiano come primo compito quello di garantire la sicurezza, la proprietà e le transazioni di mercato, e non invece quello di operare per assicurare a ciascun individuo condizioni di benessere e di sviluppo umano.

 Marx riflette sulle modalità della cooperazione sociale e, a partire da lì, sulla questione del feticismo delle merci. Nella società mercantile la dipendenza di ciascuno dalla cooperazione lavorativa con tutti gli altri viene occultata dal fatto che gli attori economici agiscono ognuno per conto proprio e senza un piano. La dipendenza reciproca si occulta dietro l’indipendenza apparente, che in realtà non è indipendenza ma dipendenza in una forma non consapevole, non programmata e mediata dal denaro. Ma questa è esattamente la prospettiva nella quale si colloca il liberalismo, quando considera l’associazione politica come un rapporto che nasce da individui originariamente indipendenti, e il cui bisogno di legarsi reciprocamente sotto norme comuni è motivato solo dalla necessità di conseguire la sicurezza fisica (Hobbes) o la tutela della propria persona e dei propri averi (Locke).

 perché chi ragiona in termini di società mercantile vede solo ciò che accade nella sfera della circolazione (dove regnano “Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham”) e non vede ciò che accade nel regno della produzione, dove vige invece il dominio del capitale sul lavoro.

 L’idea della società di mercato, che caratterizza la tradizione liberale e che rappresenta oggi il sogno o l’utopia del neoliberismo, è una rappresentazione immaginaria (e naturalmente anche apologetica) perché le relazioni di mercato non sono autosussistenti, non bastano a se stesse, ma possono sussistere solo in quanto si inscrivono e sono supportate a monte e a valle da forme di coordinazione sociale non mercantile, come ad esempio la fornitura di beni pubblici (quali ad esempio strade, infrastrutture, mantenimento di un ambiente salubre) da parte dello Stato o lo scambio di “servizi” alle persone nell’ambito delle relazioni familiari, amicali e affettive.

 la società di mercato che il (neo)liberalismo vagheggia è, oltre che indesiderabile, illusoria, perché – e questo è un punto che neppure Marx vede adeguatamente – la soddisfazione dei bisogni sociali, anche e soprattutto nella tarda modernità, passa in larghissima parte per ciò che mercato non è, ovvero da un lato per lo Stato e dall’altro per i legami familiari o di solidarietà. Perciò la pretesa della mercatizzazione integrale distrugge (paradossalmente) le basi sociali che rendono possibile il mercato stesso. 

domenica 18 ottobre 2015

Psicologia delle Folle (1895, terza parte, conclusione) - Gustav Le Bon


PARTE TERZA


CAPITOLO I
Classificazione delle folle.

1.° Le folle eterogenee - Come si differenziano - Influenza della razza --- L'anima delle folle 'é
tanto più debole quanto é più forte l'anima della razza - L'anima della razza rappresenta lo
stato di civiltà e, l'anima della folla lo stato di barbarie - 2.° Le folle omogenee - Divisione
delle folle omogenee - Le sette, le caste, le classi.

Abbiamo veduto quali sono i caratteri generali comuni alle folle. Ci resta da studiare i
caratteri particolari sovrapposti a questi caratteri generali, secondo le diverse categorie delle
collettività. Anzitutto facciamo una breve classificazione delle folle.
Il nostro punto di partenza sarà la semplice moltitudine. Essa raggiunge la sua forma più
bassa quando è composta da individui appartenenti a razze diverse. Il suo unico legame è la
volontà, più o meno forte, del capo. Come esempio di tali moltitudini, si possono dare i
barbari di origini diverse, che per parecchi secoli invasero l'impero romano.
Al di sopra di queste moltitudini senza coesione, stanno quelle che, sotto l'azione di certi
fattori hanno acquistato caratteri comuni e hanno finito col formare una razza. Esse
presentano le caratteristiche speciali delle folle, ma sempre insieme a quelle della razza. Le
diverse categorie delle folle che si possono osservare in ogni popolo possono dividersi così

A. - FOLLE ETEROGENEE
1° Anonime (Folle delle vie, per esempio).
2° Non anonime (Giurie, assemblee parlamentari, ecc.).

B.- FOLLE OMOGENEE
1° Sette (Sette politiche, sette religiose, ecc.). B. –
2° Caste (Casta militare, casta sacerdotale, casta operaia, ecc.).
3° Classi (Classe borghese, classe contadina, classe operaia, ecc.).

Ora indicheremo con poche parole i caratteri che differenziano le diverse categorie delle folle.

FREUD TRA SCIENZA ED ETICA* - Stefano Garroni

*Da  QUADERNO FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS 

"Ogni virtù, secondo Aristotele, è posta tra due vizi, uno dei quali è la mancanza, e l'altro l'eccesso; essa non è, in un certo modo, se non una delle nostre inclinazioni naturali, alla quale la nostra ragione ci proibisce e di resistere troppo e di obbedire troppo" (Condorcet) 


 L'Es, tra le province o istanze psichiche, è la più primitiva. Il suo contenuto è dato da tutto ciò che è ereditario, che compare con la nascita stessa e che è fissato costituzionalmente. Insomma, prima di tutto, è circoscritto dalle pulsioni (Triebe), che derivano dalla costituzione somatica. Per tutta la vita, questo livello primitivo resta il più importante: è ad esso, quindi, che si volge in modo particolare la ricerca psicoanalitica.

 L'Io punta a conquistarsi il dominio sulle spinte pulsionali, avocando a sé la decisione di soddisfarle, subito o nel tempo, orientandosi in base alla valutazione delle circostanze obiettive ma, anche, ispirandosi alla regola di evitar dolore e ricercar piacere - laddove, più è alto il livello di spinta pulsionale, meno è piacevole la sensazione. 

 L'Io, come sappiamo, è sottoposto a sollecitazioni, che sono contrastanti - quando non addirittura contraddittorie - in diversi sensi: perché le spinte pulsionali, che vengono dall'Es né si curano di definirsi, né di rendersi reciprocamente compatibili; perché, parzialmente, costituiscono gli imperativi e i divieti del Super-io ed, infine, perché vi sono sollecitazioni, che provengono da tutt'altro "luogo", dalla realtà esterna. L'Io è chiamato ad orientarsi in questo insieme intricato, a manipolarlo per poterlo controllare ed, infine, a (realisticamente) conciliarlo (versohnen, appunto). Se vi riesce, la sua azione è corretta. 

 L'ottica di Freud può comprendere concetti quale "equilibrio", "misura", "conciliazione" ed il loro opposto (l'Es, la spinta pulsionale, ecc.), perché è costruita sulla giustapposizione, sullo scontro fra ordine e disordine, organizzazione e mancanza d'organizzazione. E ciò nel senso che lo spazio ritagliatosi dalla psicoanalisi è quello di una problematica centralissima per l'etica (almeno per una certa tradizione etica), che viene ri-presentata, ma su un altro terreno: quello delle istanze psichiche e dei loro drammatici rapporti. 

venerdì 16 ottobre 2015

Orario e condizioni di lavoro: due facce della stessa medaglia - Riccardo Bellofiore

Riccardo Bellofiore è professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo. 


 Recentemente, su queste colonne ha avuto luogo una discussione tra Giovanni Mazzetti e Ernesto Screpanti in merito alla possibilità, alle forme e alle prospettive di una riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. La questione andrebbe affrontata,certamente, attraverso il vaglio di una indagine disincantata della natura attuale del processo di accumulazione capitalistico; come anche attraverso una valutazione realistica dei limiti della politica economica nell'intervenire dall'alto sui termini del conflitto di classe. Spero di poterlo fare in futuro,se me ne sarà data l'opportunità. Adesso, preferisco invece prenderla per così dire più alla lontana, trattando l'argomento della riduzione dell'orario di lavoro sul terreno apparentemente più generico, ma forse ricco di qualche insegnamento, delle fondazioni concettuali, con l'aiuto di due testi che mi è capitato di (ri)leggere in questi giorni, uno di Guido Calogero, l'altro di Claudio Napoleoni: grandi maestri, l'uno filosofo l'altro economista, che ci propongono due modi di affrontare il tema non poco diversi, e però entrambi attuali.

 Lo scritto di Calogero è il testo di una conferenza tenuta nel 1955 intitolata"Lavoro e giuoco nella civiltà di domani" (la si può leggere in Scuola sotto inchiesta, Einaudi).Calogero definisce lavoro "ogni attività che svolgo per ritrarne una remunerazione, e che cesserei di svolgere se tale remunerazione non mi fosse più corrisposta ... l'attività produttiva di beni economici, i quali quando vengono scambiati diventano merci". Il lavoro salariato, insomma, come paradigma del lavoro in generale. Giuoco è invece "ogni altra attività,non determinata dall'intento di un vantaggio economico perché o la svolgo senza ritrarne alcun guadagno, o la svolgerei egualmente anche se guadagno non ne ritraessi": una definizione che ha una qualche parentela, per esempio, coni 'lavori concreti' di cui parla Giorgio Lunghini, o l' 'economia sociale' (il'terzo settore') di cui parla Marco Revelli.