martedì 18 maggio 2021

Cade la maschera di Israele e anche la nostra - Alberto Negri

Da: https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Articolo apparso su "Il Manifesto", 15/05/2021. - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017)

Leggi anche: PALESTINA. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi. - Francesca Merz 

Chiarezza - Shlomo Sand 

Israele/Palestina. Alle radici del conflitto - Joseph Halevi 

Antisemitismo e antisionismo sono collegati tra loro? - Alessandra Ciattini 

https://invictapalestina.wordpress.com/2016/07/12/stato-attuale-ed-origine-del-conflitto-tra-israele-e-la-palestina-breve-riassunto-per-le-scuole-medie/ 

Quattro ore a Chatila - Jean Genet

Vedi anche: La Nakba - Joseph Halevi


Le proteste degli arabi minacciati di espulsione dal quartiere di Sheik Jarrah vengono viste come il casus belli di questa guerra. In realtà prima del 1948, della sconfitta araba e della Nakba ricordata ieri, il 77% delle proprietà nel lato Ovest di Gerusalemme appartenevano ai palestinesi, sia cristiani che musulmani. 

Difendiamo con la stessa maschera dei governi israeliani la nostra insostenibile ipocrisia e disonestà intellettuale. 


La rivolta arabo-palestinese è quella di tutti noi, per la giustizia e la vera pace, contro ogni doppio standard che da decenni avvelena Gerusalemme, la Palestina e tutto il Medio Oriente. Israele vive, da noi pienamente tollerato, nella condizione di uno Stato fuorilegge, i palestinesi, a causa anche della sua dirigenza e di Hamas, sono perpetuamente nella lista nera dei popoli criminali, non degli stati criminali semplicemente perché i palestinesi hanno diritto a uno Stato solo nella retorica occidentale che si lava le mani della questione. 

La posizione mediana assunta dai politici e dalla maggior parte dei media occidentali in realtà è la più ipocrita di tutte le sanzioni architettate in Medio Oriente. Quella che pagheremo forse in un prossimo futuro: le guerre altrui entreranno in casa nostra, come è già accaduto un decennio fa quando le primavere arabe si trasformarono, come in Siria, in guerre per procura e nel jihadismo. Finora Israele, nelle mente degli europei, ha fatto da antemurale alle rivolte e alla diffusione del estremismo islamico: in realtà ha alimentato l’incendio – Hamas sin dalla sua fondazione negli anni Ottanta serviva a mettere sotto scacco Al Fatah e i laici – e incoraggiato ogni degenerazione perché lo stato di guerra perpetuo giustifica la sua impunità e il non rispetto assoluto dei diritti degli arabi, delle leggi internazionali e delle Risoluzioni delle Nazioni unite. 

Ma la maschera israeliana, come pure la nostra, sta per cadere. È scattata la sirena d’allarme, non soltanto quella per i razzi di Hamas, ma dei linciaggi e delle rivolte nelle città israeliane abitate «anche» dagli arabi. Il venti per cento della popolazione di un Paese che si dichiara lo Stato degli ebrei ignorando tutti gli altri. 

Come scriveva questa settimana su il manifesto Tommaso Di Francesco non basta dire che entrambi i popoli hanno diritto a vivere in pace, di questa frasette inutili ne abbiamo piene le tasche e molto più di noi i palestinesi. E persino una parte consistente dell’opinione pubblica arabo-musulmana, anche di quei Paesi entrati nel Patto di Abramo, nella sostanza un’intesa che non è un accordo di pace, come è stato venduto dalla propaganda, ma di fatto un via libera a Israele per fare quello che vuole.
Come fai a vivere in pace quando confiscano le tue terre, la tua casa viene demolita, i coloni moltiplicano gli insediamenti e ogni giorno viene eretto, oltre al Muro, un reticolato di divieti di cemento difesi con il mitra spianato? La terra viene divorata, i monumenti della tua cultura sono vietati e si cambia la faccia del mondo che conoscevi: tutto questo avviene sotto occupazione militare, cioè contro il diritto internazionale. E noi qui vorremmo che gli arabi rispettassero leggi di cui noi stessi ci facciamo beffe? 

Gerusalemme è diventato il simbolo di tutte queste ingiustizie, di tutte le violazioni del diritto internazionale. Questa storica e magica città non è per niente la capitale delle tre religioni monoteiste come viene ripetuto fino alla noia: è la capitale soltanto dello Stato di Israele, come ha sancito Trump nel 2018 trasferendo l’ambasciata americana da Tel Aviv. In questa città Israele decide quello che vuole non solo per gli ebrei ma anche per musulmani e cristiani. Anche questa è una violazione del diritto internazionale, delle Risoluzioni Onu e degli Accordi di Oslo: non solo non abbiamo fatto niente per evitarlo ma lo abbiamo accettato senza reagire. Tollerando che avvenga pure senza testimoni con il bombardamento del centro stampa internazionale di Gaza e l’uccisione di una collega palestinese Reema Saad, incinta al quarto mese, polverizzata da una bomba insieme alla sua famiglia. 

Oggi le proteste della famiglie arabe minacciate di espulsione dal quartiere di Sheik Jarrah vengono viste come il casus belli di questa ultima guerra. In realtà prima del 1948, della sconfitta araba e della Nakba ricordata ieri, il 77% delle proprietà nel lato Ovest di Gerusalemme appartenevano ai palestinesi, sia cristiani che musulmani. Ma i loro beni, una volta cacciati via e i proprietari classificati come «assenti» sono stati espropriati e venduti allo Stato o al Fondo nazionale ebraico. Così si costruisce con l’ordine «liberale» del «diritto di proprietà» ogni ingiustizia. Non solo: gli ebrei possono reclamare le case che possedevano a Gerusalemme prima del 1948 ma questo diritto non è previsto per i palestinesi. Una beffa. Queste le chiamate leggi, questa la possiamo chiamare giustizia? Si tratta soltanto di un sopruso accompagnato quotidianamente dall’uso della forza militare. 

«Le vite palestinesi contano», ammonisce il leader democratico Bernie Sanders. Ma il presidente americano Biden che ieri ha mandato un inviato per verificare le possibilità di una tregua deve uscire dall’ambiguità: se concede a Israele di violare tutte le leggi e i principi più elementari di giustizia diventa complice di Trump e delle sue scellerate decisioni. In ballo non c’è soltanto un cessate il fuoco ma un’esecuzione mortale: quella che viene perpetrata ogni giorno al popolo palestinese messo al muro dalla nostra insipienza. E con le spalle al muro ci siamo pure noi che difendiamo con la stessa maschera dei governi israeliani la nostra insostenibile ipocrisia e disonestà intellettuale. 

lunedì 17 maggio 2021

La grande migrazione online: costi e opportunità - Juan Carlos De Martin

Da: Politecnico di Torino - Juan Carlos De Martin è professore ordinario di ingegneria informatica al Politecnico di Torino e Vice Rettore per la cultura e la comunicazione. È titolare del corso "Tecnologie digitali e società" e co-dirige, con Marco Ricolfi (Università di Torino), il Centro Nexa su Internet e Società. Dal 2011 è associato al Berkman Klein Center della Harvard University. E' membro del consiglio scientifico dell’Enciclopedia Treccani e del comitato d'indirizzo di Biennale Democrazia. Dal 2014 al 2018 è stato membro della Commissione per i diritti e i doveri in internet istituita dalla Presidente della Camera dei Deputati. E' membro dell'IEEE - Institute of Electrical and Electronic Engineers ed è autore di oltre 120 articoli scientifici, capitoli di libri e brevetti internazionali. De Martin è stato - insieme a Luca De Biase - il curatore scientifico del Festival della Tecnologia del 2019 e della prima edizione di Biennale Tecnologia (2020). E' autore del libro Università futura – tra democrazia e bit e ha curato, insieme a Dulong de Rosnay, il libro The Digital Public Domain: Foundations for an Open Culture



Da circa trent’anni molte attività di una parte considerevole dell’umanità hanno iniziato a migrare – in tutto o in parte – online. Altre attività sono rimaste inevitabilmente fisiche, ma sono state innervate, o sono addirittura governate, dal digitale. In altri casi ancora le attività sono rimaste fisiche, ma hanno acquisito un’estensione digitale, creando configurazioni ed esperienze inedite. Un processo graduale, come tutti i processi sociali, con grandi successi e con non trascurabili fallimenti, un processo che ha rivoluzionato non solo le nostre vite, ma anche l’assetto stesso del potere mondiale. Nel marzo 2020, col primo confinamento sanitario, però, è successo qualcosa senza precedenti: nel giro di pochissimo tempo, infatti, molti milioni di italiani hanno dovuto trasferire – in tutto o in parte – su Internet, attività, anche molto importanti per le loro vite, che fino a quel momento avevano svolto prevalentemente, o anche esclusivamente, nel mondo fisico. Che cosa è successo di preciso? Chi è riuscito ad andare online, e per fare cosa, e chi invece è rimasto nel mondo fisico, e perché? Quali sono state le conseguenze - e per chi? Che cosa abbiamo imparato? Guardando avanti: a distanza di 14 mesi dall’inizio della Grande Migrazione Online, che forma vogliamo dare al futuro?  
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

domenica 16 maggio 2021

Luciano Canfora, "Fermare l'odio"

Da: AccademiaIISF - Intervista di Alessia Araneo a Luciano Canfora, a proposito del volume "Fermare l'odio" (Laterza 2019) - 
Luciano Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano.
 

                                                                                       

sabato 15 maggio 2021

Liberismo xenofobo: la dottrina delle nuove alleanze politiche è priva di basi scientifiche.

Da: https://www.econopoly.ilsole24ore.com - Post di Emiliano Brancaccio, docente di politica economica presso l’Università del Sannio; Andrea Califano, ricercatore presso l’Università di Milano; Fabiana De Cristofaro, ricercatrice presso il Ministero dell’Economia –

Leggi anche: Movimenti di capitale https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro


Porto Empedocle, 
Luglio 2020, i migranti trasferiti da Lampedusa con le motovedette vengono spostati nella tensostruttura accanto al porto.  


Tutti riconoscono che una crisi della globalizzazione è in atto, ma quasi nessuno nota che questa crisi è marcatamente asimmetrica. Le restrizioni alla libertà di movimento internazionale, attuate in questi anni da moltissimi paesi, hanno infatti riguardato le merci e soprattutto le persone mentre non hanno quasi mai toccato gli spostamenti di capitali. 

Con il nuovo secolo, soprattutto dopo lo scoppio della grande recessione del 2008, sempre più voci si sono unite al medesimo grido d’allarme: un’emergenza migratoria è in atto. Nel vasto arcipelago delle destre nazionaliste, il monito si tinge spesso di espliciti connotati razzisti. Ma in generale, il convincimento che il fenomeno sia di enorme portata e dalle conseguenze economiche negative, sembra ormai largamente diffuso in quasi tutto lo spettro politico dei paesi occidentali, anche tra partiti di orientamento moderato e liberale. 

L’implicazione politica di questo sentimento generale è sotto i nostri occhi: tra alti e bassi temporanei, c’è una tendenza di fondo ad adottare misure sempre più stringenti per bloccare i flussi migratori. L’indice DEMIG, a cura dell’International Migration Institute di Amsterdam, segnala in tal senso brusche oscillazioni delle politiche migratorie, con sempre più ricorrenti misure restrittive attuate da ben 32 dei 36 paesi OCSE dal 2008 ad oggi. Al contrario, nulla di tutto questo è avvenuto dal lato dei flussi finanziari. Nonostante le frequenti turbolenze nei movimenti internazionali di capitali e le crisi economiche concomitanti, rarissimi e solo contingenti sono stati gli interventi volti a ripristinare controlli sulla libera circolazione dei capitali. Lo testimonia l’indice KAOPEN, che misura le restrizioni nella circolazione globale dei capitali calcolate su dati del Fondo Monetario Internazionale: a partire dalla metà degli anni duemila questo indicatore si è stabilmente situato intorno allo zero, a denotare una sostanziale piena mobilità internazionale dei flussi finanziari. Un dato confermato dal fatto che dal 2008, su 36 paesi OCSE soltanto due hanno adottato rilevanti restrizioni sui capitali, peraltro temporanee. 

venerdì 14 maggio 2021

Perché la mente non coincide con il cervello - Felice Cimatti

Da: Festa Scienza Filosofia - Felice Cimatti è un filosofo italiano. Insegna Filosofia del Linguaggio e Filosofia italiana contemporanea all'Università della Calabria ad Arcavacata di Rende. Ha condotto e conduce, per Rai Radio 3[2], i programmi radiofonici Fahrenheit, dedicato ai libri e alle idee, e Uomini e Profeti (https://www.raiplayradio.it/programmi/uominieprofeti).
                                                                             


giovedì 13 maggio 2021

"Jürgen Habermas" - Antonio Gargano

Da: AccademiaIISF - Antonio Gargano è un filosofo italiano. Docente presso l'Università degli studi "Suor Orsola Benincasa", Scienze della Formazione.

                                                                               

                                                                                  A seguire la seconda parte: https://www.youtube.com/watch?v=rhpIn67YTTs 

mercoledì 12 maggio 2021

I morti palestinesi, la censura di Facebook e l'ipocrisia di tutti - Alberto Negri

Da: https://www.lantidiplomatico.it - Articolo apparso su "Il Manifesto", 11 maggio 2021

Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017)


Immagini forti e violente: la censura di Facebook è l'ipocrisia di tutti


Posto un video in cui si vedono i morti in Palestina e Facebook censura il video. Per 40 anni ho fatto l'inviato di guerra cercando come tanti altri giornalisti di raccontare la violenza della guerra, in ogni parte del mondo. Le immagini forti infastidiscono, lo posso capire. Ma l'ipocrisia della censura credo che sia vera pornografia. 

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Sì, la storia siamo noi. Come questa nuova Intifada. Ci eravamo dimenticati dei palestinesi? Eccoli, con le braccia al cielo davanti alla polizia. Il nostro corrispondente Michele Giorgio riferisce di 20 morti. Tra cui 9 bambini, nei raid israeliani seguiti al lancio di razzi verso Gerusalemme. Non abbiamo paura di morire, dicono, perché siamo morti e risorti mille volte. Il messaggio è duro, tragico vista la disparità delle forze, ma inequivocabile: non ci arrendiamo. Viene dai tempi dei tempi che vi piaccia o no, noi non alziamo le braccia verso questo mondo iniquo e ingiusto. Siamo masse e individui che non si arrendono…

Gli scontri nel «miglio sacro» di Gerusalemme, dove già iniziarono negli anni Ottanta e Duemila la prima e la seconda Intifada, rilanciano una terza rivolta innescata dagli sfratti nel quartiere arabo di Sheikh Jarrah.

Ci sono le coincidenze e anche alcuni elementi di fondo per andare in questa direzione. Nelle prime rientrano le proteste cominciate mentre gli israeliani celebravano l’annessione di Gerusalemme nel 1967 e gli arabi si preparavano alla fine del Ramadan. Ma anche il quadro politico è agitato, da una parte e dell’altra. In Israele è in corso il tentativo di Lapid di formare un nuovo governo che significherebbe la fine dell’attuale premier Netanyahu, un evento che scuote la destra israeliana e anche il movimento dei coloni, più agguerrito che mai. Nel campo arabo c’è stata la decisione di del presidente dell’Anp Abu Mazen di rinviare le elezioni palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme, esacerbando così gli animi dei palestinesi, inferociti con una leadership accusata di essere sempre più succube di Israele.

Davanti all’esplosione degli scontri sulla spianata delle Moschee, vicino al Muro del Pianto e non lontano dal Santo Sepolcro – luoghi sacri a musulmani, ebrei e cristiani – le autorità israeliane hanno preferito rinviare ogni decisione sugli sfratti. La Corte Suprema israeliana ieri avrebbe dovuto emettere il suo verdetto in merito a un tentativo di espulsione di tredici famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, ma la decisione è stata rinviata a causa delle violenze degli ultimi giorni.

Questa non è l’unica causa delle tensioni ma ne è il detonatore. Gli argomenti di scontro sono tanti. In pieno Ramadan c’è prima di tutto l’accesso alla moschea Al Aqsa e alla Cupola della roccia, luoghi sacri dell’islam dove il 7 maggio ci sono stati violenti incidenti. Poi c’è la pressione costante delle autorità israeliane per separare il problema di Gerusalemme dal resto della questione palestinese.

In Israele operano forze politiche di estrema destra legate a Netanyahu e decise a espellere i palestinesi da Gerusalemme. Il mese scorso abbiamo assistito a una serie di cacce all’uomo condotte da estremisti religiosi israeliani al grido di “morte agli arabi” nella più totale impunità.

Questi incidenti mettono in luce che lo status quo è fragile mentre sbaglia chi ritiene ineluttabile la perdita di «centralità» della questione palestinese nei rapporti tra Israele e il mondo arabo. E forse si sbaglia ancora di più se pensa che il problema svanirà da sé. In più adesso c’è il fattore Biden. Il nuovo presidente non ha messo in discussione la decisione di Trump di riconoscere nel 2018 Gerusalemme capitale di Israele e di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv, ma l’amministrazione democratica ha qualche idea diversa sul Medio Oriente rispetto a quella repubblicana.

C’è voluto un po’ di tempo prima che le cancellerie internazionali si accorgessero che a Gerusalemme stava accadendo qualcosa. Una realtà che, agli occhi esterni, appare congelata, è invece in involuzione ed evoluzione.

Invece no: Gerusalemme è il cuore del conflitto internazionale, non solo mediorientale. Quella che sembrava una confisca come un’altra – le case palestinesi di Sheikh Jarrah a favore del movimento dei coloni – è diventata adesso un fattore assai preoccupante. L’espansione della protesta palestinese al cuore della città santa e ad altre città, sta svegliando dal torpore i governi arabi. A interessare di più però non è soltanto la reazione giordana, iraniana o tunisina ma quella che arriva dagli Usa. Mentre l’I’talia e l’Ue o tacciono o raccontano il mantra bugiardo del «no alla violenza da una parte e dall’altra», dimenticando che lì c’è una occupazione militare, quella d’Israele sui Territori palestinesi.

Biden finora non ha preso una posizione precisa e non ha messo in discussione nessuna delle decisioni incendiarie del predecessore Trump (da Gerusalemme capitale israeliana alla sovranità sul Golan siriano occupato) ma ha cominciato ad agitare il premier Netanyahu iniziando il dialogo con l’Iran per il rientro degli Usa nell’accordo sul nucleare.

Ma sugli scontri di Gerusalemme si è fatto sentire il Dipartimento di Stato che ha usato parole, come sottolinea Chiara Cruciati sul manifesto, che di solito l’amministrazione americana non utilizza. Nessun comunicato ufficiale ma la portavoce del segretario di Stato Blinken ha espresso «grande preoccupazione» per le azioni israeliane e per «l’eventuale sgombero di famiglie palestinesi dai quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah, molte delle quali vivono in quelle case da generazioni». Mentre una lettera di deputati indirizzata a Blinken ha chiesto di esercitare pressione diplomatiche per impedire gli sgomberi e ribadire quello che il diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu già prevedono: «Gerusalemme est è parte della Cisgiordania ed è sotto occupazione militare israeliana», realtà che rende «illegale la sua annessione da parte di Tel Aviv». Un linguaggio esplicito e diretto come forse non era mai venuto dai deputati americani. E noi? 

domenica 9 maggio 2021

Scienza, salute e crisi pandemica: il contributo degli scienziati marxisti - Juan Duarte

Da: https://www.lavocedellelotte.it - Juan Duarte, Professore all’Università di Buenos Aires e curatore, per La Izquierda Diario e Ediciones IPS, di importanti lavori su scienza, salute e crisi pandemica.

Vedi anche: Ernesto Burgio: La prima pandemia dell’Antropocene - Terza Lez. Pandemia e Capitalismo del XXI secolo 

Leggi anche: Un anno di covid - Marco Bersani  

Il cosiddetto problema ambientale - Carla Filosa 

L’ecomarxismo di James O’Connor - Riccardo Bellofiore 

Natura, lavoro e ascesa del capitalismo*- Martin Empson  

Cinque risposte su marxismo ed ecologia*- John Bellamy Foster 


Qui il video della lezione: https://www.youtube.com/watch?v=I4Rux1a2fAQ


Riproduciamo di seguito una versione scritta dell’intervento di Juan Duarte, professore all’Università di Buenos Aires e curatore, per La Izquierda Diario e Ediciones IPS, di importanti lavori su scienza, salute e crisi pandemica, 

nell’ultimo appuntamento del seminario virtuale su “Pandemia e capitalismo nel XXI secolo curato dai compagni dell’Università Popolare Antonio Gramsci. 



In questa breve presentazione cercherò di mostrare alcuni possibili contributi da un punto di vista dialettico marxista per comprendere la complessità che mette in gioco la pandemia del covid-19 e per elaborare aspetti programmatici per affrontarla da una prospettiva anticapitalista e socialista. Per questo, illustrerò il lavoro di recupero e ricreazione della tradizione marxista nella scienza, ecologia e salute che abbiamo fatto come Ediciones IPS e La Izquierda Diario, concentrandoci sui contributi dei biologi marxisti Richard Lewontin e Richard Levins, e dell’equipe di Rob Wallace.

L’emergere e lo sviluppo della pandemia di coronavirus non solo ha dato origine a una crisi sanitaria, economica e sociale globale, nel contesto di una precedente crisi ecologica e climatica, ma ha anche messo in discussione le opinioni scientifiche predominanti nel campo della salute. Come sottolineano Richard Lewontin e Richard Levins, possiamo dire che la scienza ha un doppio carattere: da un lato è lo sviluppo generico della conoscenza umana, ma dall’altro è un prodotto specifico, sempre più mercificato, dell’industria capitalista della conoscenza.

sabato 8 maggio 2021

"Da Smith a John Stuart Mill: la missione civilizzatrice del capitale." - Riccardo Bellofiore

Da: Casa della Cultura Via Borgogna 3 Milano - Riccardo Bellofiore, Docente di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo, i suoi interessi sono la teoria marxiana, l’approccio macromonetario in termini circuitisti e minskyani, la filosofia economica, e lo sviluppo e la crisi del capitalismo. (Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - https://www.riccardobellofiore.info)


1° incontro del ciclo di lezioni aperte al pubblico IL LAVORO NELLA RIFLESSIONE ECONOMICO-POLITICA del Corso di perfezionamento in Teoria critica della società. promosso da Casa della cultura e Università degli Studi Milano-Bicocca Intervengono anche Ferruccio Capelli e Vittorio Morfino

                                                                           

venerdì 7 maggio 2021

Covid19: ecco i brillanti risultati dei fanatici del Pil - Marco Bersani

Da: https://www.attac-italia.org - marco bersani, filosofo, dirigente pubblico e fondatore di Attac (https://www.attac-italia.org

Leggi anche: Un anno di covid - Marco Bersani 

La prima pandemia dell’Antropocene - Ernesto Burgio

Riflessioni comparative sulla pandemia - Alessandra Ciattini

Corpo biologico e corpo politico sono diventati la stessa cosa - Francesco Fistetti

Vedi anche: PERCHÉ NON TI FANNO RIPAGARE IL DEBITO - Marco Bersani 

Ernesto Burgio: La prima pandemia dell’Antropocene - Terza Lez. Pandemia e Capitalismo del XXI secolo 



Quindici mesi di pandemia dovrebbero essere sufficienti per fare un bilancio ragionato e intellettualmente onesto sull’efficacia delle misure messe in campo per affrontarla e sulla visione di società che le ha determinate.

Se non per altre ragioni, almeno per dare un significato agli oltre 120.000 morti (ad oggi) che nel nostro Paese si sono verificati.

Come è chiaro a tutt* l’impostazione che ha guidato la strategia per affrontare la crisi pandemica nel nostro Paese – e in gran parte dei molti altri – è stata quella della “mitigazione”, oggi ribattezzata da Draghi del “rischio calcolato”.

Di fatto, una visione della società fanaticamente orientata sul PIL, che ha comportato misure di forti restrizioni delle libertà personali, di compressione dei diritti delle fasce non produttive della popolazione (la chiusura delle scuole) e di tutte le attività economiche in qualche modo legate al tempo libero delle persone, allo scopo di tenere continuativamente aperte tutte le attività industriali e commerciali (mai chiuse anche durante il primo lockdown) per cercare di attenuare il crollo del Pil, da decenni assurto a simbolo divino del benessere sociale.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la generazione anziana è stata falcidiata, l’infanzia e l’adolescenza sono state sottoposte a traumi i cui effetti si misureranno solo nei prossimi anni, la povertà e la precarietà sono aumentate esponenzialmente, mentre la pandemia è ben lungi dall’essere sotto controllo.

Almeno questo incommensurabile disastro sanitario e sociale è riuscito a raggiungere l’obiettivo desiderato da Confindustria e dai suoi alfieri governativi? Nient’affatto, l’economia è a rotoli e il crollo del Pil sfiora il 9%.

Si poteva fare altrimenti? C’è chi lo ha fatto e i risultati sono inequivocabili.

Non parliamo qui -anche se prima o poi andrà pure fatto- di paesi dove lo Stato, invece di porsi unicamente al servizio dell’economia di mercato, ha deciso di esercitare un ruolo diretto nel contrasto alla pandemia, con risultati fondamentali dal punto di vista del contenimento della stessa e della tutela della salute dei propri abitanti: da Cuba, con 675 decessi su 11 milioni di abitanti, a Taiwan, con 12 morti su 23 milioni di persone, dal Vietnam con 35 decessi su 96 milioni di abitanti alla stessa Cina, con 4846 morti su una popolazione di 1,4 miliardi.

Perché rispetto a queste realtà la discussione si arenerebbe subito sul tema dell’autoritarismo o meno di questi paesi.

E allora proviamo a confrontare la strategia scelta dall’Italia e da molti altri con quella di quei Paesi che, in contesti economici e politici simili, hanno invece scelto l’opzione “Covid free” senza badare agli immediati interessi delle imprese e delle lobby finanziarie.

La rivista Lancet ha appena pubblicato uno studio[1] che ha messo a confronto i paesi OCSE, all’interno dei quali Australia, Corea del Sud, Islanda, Giappone e Nuova Zelanda hanno adottato la strategia “Covid free” rispetto a tutti gli altri che hanno preferito la cosiddetta strategia di mitigazione.

Dal confronto emergono tre dati molto interessanti e, per certi versi, anche sorprendenti:

* il primo dato riguarda la salute pubblica, da cui emerge che i decessi per milione di abitante nei paesi che hanno scelto l’opzione “Covid free” sono stati di 25 volte inferiori a quelli registrati nel gruppo degli altri Paesi;

* il secondo dato riguarda l’economia, e qui “casca l’asino”, perché nel gruppo dei paesi “Covid free” la crescita del Pil è tornata ai livelli pre-pandemia già nel gennaio 2021, mentre permane negativa per il gruppo degli altri Paesi;

* il terzo dato riguarda le restrizioni alle libertà personali e sociali, ed è ancora più sorprendente, essendo l’argomento spesso utilizzato per giustificare le aperture delle attività produttive: le misure di blocco rapide, utilizzate dai gruppo di Paesi “Covid free” sono state molto più brevi di quelle adottate dal gruppo degli altri paesi.

La conclusione è evidente: i Paesi che hanno messo al primo posto la tutela della salute e, su questo obiettivo, hanno costruito una sorta di patto sociale con i propri cittadini, sono riusciti a tutelare la vita dei propri abitanti e, contemporaneamente, hanno evitato il crollo del sistema economico e l’adozione di una prolungata restrizione delle libertà personali e sociali, mentre i Paesi che hanno orientato le loro scelte sulle immediate esigenze dettate dal mercato e dai grandi interessi economici non possono che constatare il proprio fallimento su tutti e tre i versanti.

Continuiamo ad essere certi di essere nelle mani del “governo dei migliori”?

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giovedì 6 maggio 2021

Stefano G. Azzarà: "IL VIRUS DELL'OCCIDENTE" - a cura di Elena Fabrizio

Stefano G. Azzarà insegna Storia della filosofia politica all’Università di Urbino. È segretario alla presidenza dell’Internationale Gesellschaft Hegel-Marx. Dirige la rivista “Materialismo Storico”(materialismostorico - http://materialismostorico.blogspot.com). È impegnato in un confronto tra le grandi tradizioni filosofico-politiche della contemporaneità: liberalismo, conservatorismo, marxismo.




                                                                                           

Leggi anche la recenzione al libro di Stefano Azzarà "Il virus dell’Occidente. Universalismo astratto e sovranismo particolarista di fronte allo stato d’eccezione" a cura di Elena Fabrizio (http://www.dialetticaefilosofia.it/public/pdf/71recensione_azzar_.pdf).

martedì 4 maggio 2021

- PRIMO MAGGIO: CONTRO IL LAVORO (Genealogia di una festa) -

 Da: https://www.facebook.com/riccardo.bellofiore.3 - ***Editoriale del "Il Manifesto", primo maggio 1971. 


Editoriale non firmato del manifesto quotidiano del 1 maggio 1971, redatto da Lucio Magri. Mi permetto di evidenziare con l’asterisco alcune parti, visto che è facile scivolare nella non comprensione di un testo esemplare nella sua costruzione. Che i riformisti non possano intenderlo lo si capisce bene. Il problema oggi è che non lo intendono gli “alternativi”. Per questo ci vorrebbe una sinistra *di classe*, contro il lavoro *salariato*. (R. Bellofiore) 

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Il primo maggio non è la festa del lavoro, come dice e vuole la liturgia del movimento operaio riformista o clericale. È la festa contro il lavoro: contro il lavoro *per ciò che esso è e sarà sempre in una società capitalistica*, in una società divisa in classi, in una società mercantile. 

Questo i proletari non ci mettono molto a capirlo. E infatti, il solo modo che hanno di celebrare la loro giornata è quello di non lavorare. Il primo maggio è nato ed è vissuto per lunghi anni come uno sciopero, come uno scontro. 

Non è una distinzione formale, una sottigliezza ideologica. Il problema del lavoro e dell’atteggiamento verso di esso è sempre stato il nodo profondo del marxismo: la vera discriminazione tra marxismo rivoluzionario e revisionismo. 

Qual è il problema per i revisionisti? Quello di dare al lavoro la giusta remunerazione e di fondare una nuova civiltà del lavoro: chi non lavora non mangia. Qual è il problema per i rivoluzionari? Quello di *abolire* il lavoro *salariato*, cioè, *oggi*, il lavoro stesso, per costruire una civiltà fondata sulla libera e collettiva attività creatrice e su rapporti non mercificati fra gli uomini: a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità. Qui sta tutta la differenza tra socialismo come società capitalistica meno diseguale e più opulenta, e socialismo come *rovesciamento del capitalismo dalle fondamenta*. 

Non si tratta, per il marxismo, di una ingenuità anarchica, del mito del buon selvaggio. Nessuno più di Marx ha fatto del lavoro il centro motore della storia, l’uomo stesso è il prodotto del suo lavoro. Ma proprio col suo lavoro l’uomo ha dominato la natura, ne ha decifrato le leggi, ha trasformato se stesso fino al punto in cui può rovesciare la storia e liberarsi dal lavoro *come prima e ultima schiavitù, come qualcosa di estraneo a lui, di accettato per la necessità della sopravvivenza*. 

Il capitalismo è il momento storico in cui questa contraddizione e la possibilità di superarla maturano insieme. Da un lato il lavoro diventa, come lavoro salariato, fino in fondo e per tutti una realtà *esterna*, senza senso e contenuti, una alienazione insopportabile; dall’altro esso ha ormai prodotto un livello di forze produttive, prima fra tutte la capacità razionale dell’uomo, che consente il salto ad un ordine sociale in cui il lavoro, *per ciò che è stato fin qui*, sia soppresso. Soppresso *non* per lasciar posto ad un ozio stupido e al faticoso `tempo libero’ — che è solo *l’altra faccia del lavoro alienato* — ma ad un complesso di libera attività collettiva e di riposo creativo di una nuova capacità. Di tale attività, la produzione materiale dei mezzi di sussistenza può diventare un sottoprodotto naturale, progressivamente affidato alle macchine, che non giustifica assolutamente più né lo sfruttamento economico né la dominazione politica. Questa è l’essenza della rivoluzione comunista, della soppressione della proprietà privata, delle classi e dello stato. *Ribellione alla condanna biblica: tu lavorerai con fatica*. 

Non è un caso che questo nucleo radicale del marxismo sia stato dimenticato o sia rimasto minoritario nel movimento operaio. Gli operai, come tutti gli uomini, possono porsi solo i problemi che sono effettivamente in grado di risolvere. Solo nella nostra epoca, della piena maturità del capitalismo e della sua degenerazione imperialistica, le grandi masse dell’occidente che hanno avuto dallo sviluppo capitalistico tutto ciò che potevano avere pagandolo con lo sfruttamento, e le grandi masse dell’oriente che dal capitalismo potrebbero avere solo fame e guerra, possono porsi realmente il problema del comunismo. Cioè il problema non solo di maggiore consumo e di lavoro sicuro, ma di *un diverso significato del lavoro e del consumo*. 

Qual è, se non questo, il senso profondo delle lotte di massa di operai, studenti, intellettuali degli ultimi anni? Qual è, se non questo, il significato universale della rivoluzione culturale cinese? 

Certo, tutto ciò può anche alimentare spinte ingenuamente neoanarchiche, l’illusione che si possa abolire il capitalismo d’un colpo; *ribellarsi alla logica della produzione e `rifiutare il lavoro' con un atto di ribellione soggettivistica e distruttiva*; o usare delle macchine e degli uomini *così come sono* per una organizzazione comunista della società, *senza una lunga e faticosa trasformazione delle une e degli altri, senza una società di transizione, e dunque senza organizzazione, violenza, sacrificio, invenzione, educazione*. 

Ma ciò che oggi importa, come importava per Lenin, è cogliere in queste spinte `ingenue’ il nucleo di verità che oggi è maggiore di ieri, e senza del quale non è più possibile sfuggire all’egemonia ideale del capitalismo. 

Questo vogliamo ricordare il primo maggio: per riscoprirne fino in fondo il significato di festa politica, di festa rivoluzionaria. 

domenica 2 maggio 2021

Essere, pensiero e linguaggio - Felice Cimatti

Da: Filosofia Roccella Scholé - Felice Cimatti è un filosofo italiano. Laureato in filosofia alla Sapienza, con una tesi sui linguaggi animali, relatore Tullio De Mauro, correlatore Alberto Oliverio, insegna Filosofia del Linguaggio e Filosofia italiana contemporanea all'Università della Calabria ad Arcavacata di Rende. Ha condotto e conduce, per Rai Radio 3[2], i programmi radiofonici Fahrenheit, dedicato ai libri e alle idee, e Uomini e Profeti (https://www.raiplayradio.it/programmi/uominieprofeti).

                                                                             

“Elogio degli uccelli”

Amelio filosofo solitario, stando una mattina di primavera, co’ suoi libri, seduto all’ombra di una sua casa in villa, e leggendo; scosso dal cantare degli uccelli per la campagna, a poco a poco datosi ad ascoltare e pensare, e lasciato il leggere; all’ultimo pose mano alla penna, e in quel medesimo luogo scrisse le cose che seguono. 

sabato 1 maggio 2021

Epidemie, storia, capitalismo. Passi indietro e passi avanti. - Roberto Fineschi

https://www.sinistrainrete.info - Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0 (http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico) -  Roberto Fineschi è un filosofo italiano. Ha studiato filosofia a Siena, Berlino e Palermo. Membro del comitato scientifico dell’edizione italiana delle Opere di Marx ed Engels (Marx. Dialectical Studies). 


 1. Pare che le epidemie siano un qualcosa di tipicamente umano, un tutt’uno con la vita associata. Quando nell’antica Mesopotamia sono nate le prime civiltà si è creato il contesto ideale perché esse prosperassero e si diffondessero. La vita comune di ingenti masse di individui che mangiano, bevono, espletano le proprie necessità fisiologiche, producono nello stesso luogo creò presupposti mai esistiti in precedenza per cui condizioni igieniche estreme e contiguità massiccia favorirono malattie e contagi; a ciò va aggiunta la convivenza promiscua con animali di vario tipo dai quali e ai quali trasmettere germi, bacilli ed ogni altra forma di vita potenzialmente nociva. La domesticazione umana, animale e ambientale va all’unisono con infezioni e malattie. Si calcola che, anche al tasso naturale di crescita, la popolazione mondiale dal 10.000 a.C al 5.000 a.C avrebbe dovuto almeno raddoppiare, invece, alla fine del periodo, essa era aumentata di appena un 25%, passando da 4 a 5 milioni, nonostante condizioni che in teoria avrebbero dovuto implicare anche più di una duplicazione (rivoluzione neolitica). Nei cinquemila anni successivi aumentò invece di una ventina di volte. Si ipotizza che, proprio a causa di epidemie e di un plurimillenario processo di adattamento della specie alle nuove condizioni di vita, l’espansione della popolazione sia stata drasticamente rallentata. Epidemiologicamente, si trattò con tutta probabilità del periodo più mortifero della storia umana. Sembra che le popolazioni mesopotamiche avessero già l’idea del contagio per trasmissione e che adottassero misure analoghe a quella della quarantena. 

Con la vita urbana, l’aumento di densità abitativa fu dalle dieci alle venti volte superiore a quanto mai fosse stato sperimentato dall’homo sapiens. Le malattie storicamente nuove, conseguenza della nuova pratica sociale, furono: colera, vaiolo, orecchioni, morbillo, influenza, varicella e, forse, malaria. Sono tutte collegate all’urbanizzazione e all’agricoltura. Dei millequattrocento agenti patogeni umani conosciuti, ottocento-novecento circa hanno avuto origine in organismi non umani ed hanno visto nell’essere umano l’ospite finale. La lista di malattie che condividiamo con vari animali, da polli a maiali, da cani a pecore è impressionante. Alcune delle trasformazioni biologiche furono conseguenza di trasformazioni intenzionali, come la coltivazione, ma altre semplicemente frutto dell’istituzione della domus e della vita associata1.

venerdì 30 aprile 2021

Ernesto Burgio: La prima pandemia dell’Antropocene - Terza Lez. Pandemia e Capitalismo del XXI secolo

Da: Università Popolare Antonio Gramsci  - Ernesto Burgio, pediatra e ricercatore, esperto di epigenetica e biologia molecolare. Presidente del comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale e membro del consiglio scientifico dell’Istituto di Ricerca sul Cancro e Ambiente di Bruxelles. Author profile


                                                                            

                                                         Le lezioni precedenti: Pandemia e Capitalismo del XXI secolo -Alessandra Ciattini e Beniamino Caputo 


giovedì 29 aprile 2021