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sabato 22 ottobre 2022

L'Olocausto "dimenticato" di Salonicco - Alberto Negri

Da Bazar Mediterraneo - https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) - “Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017) - “Bazar Mediterraneo” (GOG edizioni, Dicembre 2021) 

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Silenzio su Gaza e su noi stessi - Alberto Negri


Gli ebrei erano quasi la metà della popolazione di Salonicco: dai campi di sterminio ne tornarono poche centinaia e altri scamparono con carte di identità rilasciate dal console italiano. 

La fine di ogni illusione a Salonicco avvenne di colpo, in un calda giornata d’estate. Fu uno shock quando, senza alcun preavviso, l’8 luglio 1942 il comandante della Wermacht ordinò a tutti i maschi ebrei tra i 18 e i 45 anni di venirsi a registrare. “Chiunque appartenga alla razza ebraica è considerato ebreo, indipendentemente dalla religione che professa oggi”. In piazza Eleftheria, piazza della Libertà, vennero radunati tutti gli uomini ebrei della città per portarli nei campi di lavoro forzato. Quello che colpì gli osservatori furono le umiliazioni e le sevizie imposte pubblicamente agli ebrei. 

Una crudeltà che aveva impressionato il console italiano Guelfo Zamboni: “Finora _ scriveva nei suoi rapporti a Roma _ non erano stati emanati chiari ordini antisemiti. Adesso all’improvviso, dopo alcuni segnali premonitori passati quasi inosservati, la questione è stata sollevata in tutta la sua pienezza”. Zamboni non riuscì a evitare la tragedia, però fece quanto si poteva per salvare gli ebrei italiani. Riuscì anche a estendere la cittadinanza italiana provvisoria a 280 ebrei greci. I certificati di nazionalità italiana, con l'aggiunta a mano “provvisorio”, furono concessi a persone che non conoscevano una parola di italiano, ricorrendo allo stratagemma dei lontani parenti. Il loro numero si accrebbe fino a toccare le 350 unità. Zamboni li salvò dalla deportazione. Lasciò Salonicco il 18 giugno 1943 per tornare a Roma. La protezione degli ebrei venne proseguita dal successore Giuseppe Castruccio che organizzò il “treno della salvezza”, il convoglio che trasportò gli ebrei con passaporto italiano ad Atene, situata nella zona d’occupazione italiana. Zamboni rimase un perfetto sconosciuto in patria fino alla soglia dei 95 anni (nel 1992), quando concesse la prima intervista dopo una lettera inviatagli dall'istituto ebraico Yad Vashem. 

Sephiha, capo negli anni Novanta della residua comunità ebraica di Salonicco, mi accolse parlando il judezmo, la lingua ladina conservata per secoli degli ebrei sefarditi della città e mi confermò tutto: “Ecco vede _ disse estraendo un documento dal portafoglio _ questa è la carta di identità italiana che mi ha consentito di fuggire da qui durante i rastrellamenti nazisti”. Sephiha la portava sempre con sé, come un salvacondotto irrinunciabile. Il console italiano continuava a vivere nella memoria degli ebrei sopravvissuti. 

Le proprietà degli ebrei cominciarono a essere espropriate, accompagnate da una campagna di propaganda di agenti collaborazionisti greci e poco tempo dopo, su richiesta della stessa municipalità di Salonicco, cominciò anche la distruzione del cimitero ebraico con 500 operai che distrussero migliaia di tombe, alcune delle quali risalenti al 15° secolo: il cimitero era assai vasto, 35 ettari, e ospitava centinaia di migliaia di tombe. Dopo qualche settimana di sbancamenti la necropoli sembrava fosse stata bombardata o colpita da un’eruzione vulcanica. Dopo la guerra le autorità greche decisero che quella zona era stata definitivamente espropriata e oggi vi sorge il campus dell’università Aristotele. 

Stava cominciando la soluzione finale anche per gli ebrei di Salonicco. Gli italiani se ne accorsero e informarono gli ebrei con cittadinanza italiana che sarebbero stati protetti se fossero state introdotte le politiche razziali tedesche. Le SS protestarono con Roma mentre Adolf Eichmann, responsabile della logistica, mordeva il freno e nel gennaio 1943 inviò due esperti aguzzini tra cui il suo braccio destro Alois Brunner e Dieter Wisliceny per avviare le deportazioni e mandare gli ebrei nelle camere a gas. La faccenda doveva risolversi in due tre-mesi, questo era l’ordine del “contabile” di Hitler che finì poi impiccato in Israele mentre Wisliceny venne giustiziato in Cecoslovacchia nel 1948. Brunner invece camperà a lungo e, come vedremo, la sua sorte sarà assai diversa e per certi versi sorprendente. 

Brunner e Dieter Wisliceny arrivarono il 6 febbraio 1943 e fecero applicare le leggi di Norimberga in tutto il loro rigore, imponendo l'uso della stella gialla e restringendo drasticamente la libertà di circolazione degli ebrei. Questi furono radunati alla fine di febbraio 1943 in tre ghetti, poi trasferiti in un campo di transito nel quartiere del barone Hirsch in prossimità della stazione, dove li attendevano i treni della morte. Per facilitare l’operazione i nazisti si appoggiarono sul rabbino Zwi Koretz (che morì tre mesi dopo la liberazione dei russi di Bergen-Belsen), che pretendeva la totale obbedienza agli ordini dei nazisti, e su una polizia ebraica diretta da Vital Hasson che percorreva a cavallo mulinando il frustino i quartieri ebraici abbandonandosi al saccheggio e ad atti di inaudita violenza contro il resto della comunità. 

Il primo convoglio partì il 15 marzo. Ogni treno trasportava da 1000 a 4000 ebrei, attraversando tutta l’Europa centrale principalmente verso Birkenau, un convoglio partì per Treblinka ed è possibile che siano avvenute deportazioni verso Sobibor, poiché vi si ritrovarono alcuni ebrei di Salonicco. La popolazione ebrea di Salonicco era talmente numerosa che la deportazione si protrasse per alcuni mesi fino al 7 agosto. 

54000 sefarditi di Salonicco furono spediti nei campi sterminio. Circa il 98% della popolazione ebraica della città fu eliminata durante la guerra. 

venerdì 22 ottobre 2021

Una Libia sparita e spartita - Alberto Negri

Da: https://ilmanifesto.it - https://www.facebook.com - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017).

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Medio Oriente* - Alberto Negri, Marco Santopadre


Nel nulla di fatto la Libia è sparita e spartita. Nel decennale dell’uccisione di Gheddafi alla Sirte della Libia importa poco. Se non per elevare appelli più o meno credibili alla “stabilità”, di cui si è parlato anche ieri alla conferenza internazionale di Tripoli. 



Nel nulla di fatto la Libia è sparita e spartita. Nel decennale dell’uccisione di Gheddafi alla Sirte della Libia importa poco. Se non per elevare appelli più o meno credibili alla “stabilità”, di cui si è parlato anche ieri alla conferenza internazionale di Tripoli, la prima del genere tenuta in Libia, unica nota positiva dell’evento. Stabilità e sicurezza della Libia hanno in realtà per noi un significato assai limitato: prima di tutto bloccare le ondate migratorie, il resto viene tutto dopo, dalle elezioni al ritiro delle truppe mercenarie la cui presenza il premier Dabaiba ha definito ieri “inquietante”. Ma a Tripoli non si è giunti a nessuna conclusione né sui soldati e i mercenari turchi e russi né sulle elezioni presidenziali e legislative. 

Neppure una parola è stata spesa per le migliaia di esseri umani schiavizzati nei campi libici. Eppure i giudici di Agrigento che hanno archiviato le accuse alla nave della Ong Mediterranea _ che si rifiutò di consegnare i migranti ai libici _ sono stati espliciti: non solo è giusto non comunicare con la “guardia costiera libica” ma dalle conclusioni della magistratura emerge una stridente contraddizione. Chi finanzia e addestra la “guardia costiera libica”, ovvero l’Italia, è contro il diritto internazionale ed è complice di condotte criminali. 

venerdì 28 maggio 2021

Silenzio su Gaza e su noi stessi - Alberto Negri

Da: https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017)

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I morti palestinesi, la censura di Facebook e l'ipocrisia di tutti - Alberto Negri


Informazione italiana. L’atteggiamento nostrano è questo: “Se ne riparlerà alla prossima eruzione”, come se Gaza e la Palestina fossero un fenomeno naturale, come Stromboli. Eppure anche lì il vulcano non dorme mai. E tutti hanno paura di morire, gli stessi che pubblicano i miei articoli.


Se non fosse per Michele Giorgio, inviato del manifesto a Gaza, sui media italiani sarebbe calato il silenzio più totale. L’atteggiamento nostrano è questo: “Se ne riparlerà alla prossima eruzione”, come se Gaza e la Palestina fossero un fenomeno naturale, come Stromboli. Eppure anche lì il vulcano non dorme mai. Ma le bombe e le loro vittime non sono fenomeni naturali: sono crimini di guerra. Ce lo dice Michelle Bachelet, alto commissario Onu per i diritti umani, secondo la quale i raid israeliani su Gaza possono costituire dei crimini di guerra e che pure Hamas ha violato le leggi umanitarie internazionali lanciando razzi su Israele.
Se c’è un inferno sulla terra è quello che ha investito le vite dei bambini palestinesi a Gaza, dice la signora Bachelet: i morti _ma il bilancio è ancora assai provvisorio _ sono stati 270 tra la Striscia, la Cisgiordania e Gerusalemme Est, di questi 68 sono bambini. Nonostante le dichiarazioni israeliane, non c’è nessuna prova che gli edifici sgretolati dai missili e delle bombe dello stato ebraico ospitassero gruppi armati o fossero usati per scopi militari. In poche parole, secondo l’Onu, il governo israeliano del premier Netanyahu ha giustificato con delle menzogne la morte di centinaia di civili che nulla avevano a che fare con il conflitto. Per questo al consiglio Onu dei diritti umani è partita una richiesta, appoggiata dagli stati musulmani, di insediare una commissione d’inchiesta per investigare su possibili crimini di guerra e stabilire le responsabilità.
Una cosa è certa: le bombe “intelligenti” israeliane non esistono, e tanto meno a Gaza. Ci sono certamente negli arsenali e si possono usare con estrema precisione ma non è questo il caso: missili e ordigni sono stati puntati e scaricati consapevolmente sui civili perché questa è la guerra che combatte oggi lo stato ebraico, un conflitto dai contorni terroristici, speculare a quello di Hamas. L’obiettivo è soltanto in parte colpire i bersagli pregiati, come i capi di Hamas o del Jihad, oppure i famosi tunnel. In realtà, come hanno ammesso le stesse fonti delle forze israeliane (Idf) riportate da Haaretz nei giorni scorsi, a un certo punto “i bersagli militari erano finiti”.
Questo significa che non restavano che i civili da colpire, indiscriminatamente. Ed è esattamente quello che ci racconta Michele Giorgio nei suoi reportage: altro che tunnel, sono stati rasi al suolo palazzi dove si stanno ancora tirando fuori le vittime dalle macerie e sono state colpite persino le librerie.
Lo scopo della guerra oggi non è neutralizzare degli eserciti, questo accade solo in parte: il vero obiettivo è terrorizzare la popolazione, spingerla a fuggire, a vivere in condizioni disumane. Una sorta di pulizia etnica dall’alto che a volte, come è accaduto anche a Gaza, non prevede un’operazione di terra, che viene evocata soltanto per intorbidare le acque della propaganda. La strategia di questi governi israeliani di destra non è soltanto quella di essere contrari alla formula “due popoli, due stati”. Va ben oltre. Non si nega soltanto uno stato agli arabi ma anche la loro stessa esistenza come popolo.
Israele di oggi è interessato soltanto ad avere tra gli arabi dei sudditi o cittadini di seconda classe: la prova lampante è che nel 2018 la Knesset ha approvato una legge che proclama Israele “stato nazionale del popolo ebraico”. Non una sola parola fa riferimento agli arabi israeliani. Semplicemente non esistono e questa situazione ora, nelle città miste, è diventata esplosiva.
La maschera di Israele, citato come unico stato democratico della regione, non regge più: si tratta di un’entità segregazionista che pretende di prendersi dai palestinesi tutte ciò che vuole, in violazione di ogni legge internazionale, da Gerusalemme Est a pezzi della Cisgiordania dove insediare i coloni, confiscando case e terreni. E se non ti va Israele entra a casa tua e ti spara una bomba, intelligente naturalmente.
Israele è uno stato fuori legge ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Tanto meno l’amministrazione Biden. Nella sua visita a Gerusalemme il segretario di stato Antony Blinken non ha messo in discussione nulla con Netanyahu, dagli aiuti militari, al “diritto di Israele a difendersi” e tanto meno l’annessione di Gerusalemme e del Golan regalata da Trump. L’unica differenza tra Tel Aviv e Washington sta nel negoziato con l’Iran. Nel 2003 Bush junior, attaccando l’Iraq, disse che l’avrebbe riportato al Medioevo. Israele fa il suo Medioevo radendo al suolo Gaza e attuando leggi feudali. Il resto sono chiacchiere oppure uno studiato silenzio per addormentare le coscienze.

giovedì 29 settembre 2022

La guerra del gas è l’antefatto del conflitto ucraìno - Alberto Negri

Da: https://ilmanifesto.it - https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq.

 Leggi anche: La battaglia del gas. Con la mossa russa in gioco la nostra sopravvivenza - Alberto Negri 

Le pipeline in Siria e Iraq: il vero motivo strategico della guerra* - Alberto Negri

Vedi anche: GLI USA ERANO OSSESSIONATI DAL NORTH STREAM 2: ADESSO ...È STATO DISTRUTTO! https://www.facebook.com/gianluca.marlettaII/videos/3190784584515607


ALTA TENSIONE. 
Usa e Russia si accusano di avere fatto saltare le pipeline NordStream 1 e 2. 
C’è un’unica certezza: il cordone ombelicale che legava Mosca all’Europa sul gas ora è un relitto


Sotto l’acqua ribollente di metano nel Baltico c’è uno dei motivi dell’escalation della guerra mossa da Putin all’Ucraina e ora al punto di non ritorno. Gli Usa e la Russia si accusano, più o meno a vicenda. 

L’accusa reciproca è di avere fatto saltare le due pipeline del Nord Stream 1 e 2 che collegano la Russia alla Germania. In realtà i due gasdotti (dei quali il secondo non è mai entrato in funzione) erano già da tempo al centro del conflitto. 

C’è un’unica certezza. Sia a Est che a Ovest sanno che niente sarà più come prima: ovvero il cordone ombelicale che legava la Russia all’Europa sul gas è spezzato e ora galleggia in alto mare, forse destinato ad affondare per sempre nella ruggine del tempo, tra i flutti, come un relitto. 

UN ADDIO ANNUNCIATO. 
Il 7 febbraio scorso, poco più di due settimane prima dell’invasione dell’Ucraina, il presidente Biden aveva affermato, in presenza del cancelliere Olaf Scholz in visita nella capitale Usa, che la politica energetica tedesca non veniva più decisa a Berlino ma a Washington: «Se la Russia – disse – dovesse invadere, cioè se carri armati e truppe attraverseranno di nuovo il confine dell’Ucraina, il Nord Stream 2 non esisterebbe più. Vi metteremo fine». Immaginate come avrebbe reagito la Casa Bianca se la Germania avesse minacciato di “mettere fine a una grande pipeline americana in caso di invasione dell’Iraq». 

Il caso Nord Stream 2 è emblematico di come confliggevano gli interessi americani ed europei. Non si trattava soltanto di una questione economica ma strategica. Voluto fortemente dalla ex cancelliera Angela Merkel, il Nord Stream era la vera leva politica ed economica che tratteneva Putin da azioni dissennate come la guerra in Ucraina (c’era ancota l’accordo di Minsk 2). Molti non lo avevano capito perché attribuivano al gas russo una valenza soltanto economica: aveva invece un enorme valore politico per tenere agganciata Mosca all’Europa. 

IL NORD STREAM 2 era stato completato il 6 settembre 2021 per trasportare il gas naturale dai giacimenti russi alla costa tedesca, si estende per 1230 km sotto il Mar Baltico ed è il più lungo gasdotto del mondo. Era stato ideato per potenziare il gas già fornito dalla Russia all’Europa raddoppiando il tracciato del Nord Stream 1 che corre parallelo al nuovo progetto. L’infrastruttura costata 11 miliardi di dollari è di proprietà della russa Gazprom. La società possiede anche il 51% del gasdotto originale Nord Stream. 

PERCHÉ PER MOSCA aveva un valore strategico? Prima della costruzione dei due gasdotti Nord Stream, il gas russo passava via terra, attraverso i territori di Ucraina e Bielorussia. Una volta in funzione il Nord Stream 2 avrebbe consentito a Mosca di trasportare verso la Germania ulteriori 55 miliardi in metri cubi di gas naturale all’anno. 

Il progetto Nord Stream nasce nel 1997, quando la situazione geopolitica di quel periodo già prevedeva che il gasdotto non attraversasse né i paesi baltici né Polonia, Bielorussia e Ucraina. Nazioni escluse da eventuali diritti di transito e che non avrebbero potuto intervenire sul percorso per sospendere la fornitura di gas all’Europa e mettere sotto pressione negoziale la Russia. La posa della prima conduttura Nord Stream venne completata il 4 maggio 2011 e il 6 settembre dello stesso anno entrava in funzione, inaugurato l’8 novembre dello stesso anno dall’allora presidente russo Medvedev, dal primo ministro francese Fillon e dalla cancelliera Angela Merkel. Viene poi costruita una seconda linea del gasdotto Nord Stream che entra in funzione nell’ottobre 2012. E poco dopo si comincia a passare a un ulteriore potenziamento: nasce così il progetto di Nord Stream 2. 

USCITA DI SCENA Angela Merkel, gli Usa hanno avuto campo libero. La guardiana di Putin e del gas non c’era più e gli americani hanno capito che il presidente russo era diventato più pericoloso ma anche più vulnerabile. Per due mesi gli Usa hanno avvertito dell’invasione dell’Ucraina perché sapevano che contestando, come hanno fatto, il Nord Stream 2 si apriva una falla. I gasdotti avevano legato Mosca all’Unione all’europea, la dipendenza dava a Putin un senso di sicurezza, lo strumento per condizionare gli europei e renderli più docili e interessati alle sorti della Russia. 

QUANDO MOSCA ha capito che con Scholz il Nord Stream 2 non sarebbe stato al sicuro ha cominciato le minacce all’Ucraina, che in precedenza russi e tedeschi avevano pagato perché non protestasse troppo per la realizzazione del gasdotto, assai temuto dalla Polonia in quanto visto come uno strumento di espansione dell’influenza Putin. Gli americani per altro avevano già messo alle corde anche Merkel, obbligandola ad acquistare quantitativi di gas liquido americano di cui Berlino, allora, non aveva alcun bisogno. E che ora il segretario di stato Usa Blinken ci offre «per passare l’inverno» e che saremo costretti a pagare caro, posto che i produttori americani ne abbiano abbastanza da venderci. 

L’Unione europea ha commesso due errori. Il primo ridurre frettolosamente la dipendenza dal gas russo (45%) senza avere soluzioni alternative. L’Algeria di gas, da venderci, oltre a quello che già scorre nel Transmed, ne ha poco, meno ancora la Libia destabilizzata, cui ci lega il Greenstream di Gela. 

Il secondo errore è stato mettere in crisi economie e governi, per cui sarà più difficile assegnare eventuali risorse all’Ucraina. Come si capisce bene in questa guerra, partita anche dal gas, a perderci saremo in molti. 

sabato 2 aprile 2022

La battaglia del gas. Con la mossa russa in gioco la nostra sopravvivenza - Alberto Negri

Da: https://ilmanifesto.it - https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq.

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Le pipeline in Siria e Iraq: il vero motivo strategico della guerra* - Alberto Negri

Tra l’Ucraina e il Kazakistan: ipotesi di una guerra nel cuore dell’Europa? - Alessandra Ciattini 


Con la mossa russa in gioco la nostra sopravvivenza 

Il gas non è solo energia, è strategia, politica e diplomazia. È anche, nell’immediato, pura sopravvivenza della nostra economia. La guerra parallela a quella sul terreno. Ce ne accorgeremo sempre di più ora che la battaglia sul gas russo entra nel vivo mentre si interrompe la fornitura (fonte Reuters) del gasdotto Yamal (uno dei tre diretti in Europa), con un’allerta preventivo di Germania e Austria e il Cremlino che ha dilazionato, per ora, i pagamenti delle sue materie prime in rubli. 

Putin avanza e arretra nella campagna militare ma anche sul fronte del gas per testare la dipendenza degli europei. Le prospettive per europei e italiani sono comunque poco rassicuranti. Non è possibile sostituire dall’oggi al domani il gas russo che copre in totale il 38% di tutto l’import (circa 28-29 miliardi di metri cubi su 76 complessivi di consumi annuali). Secondo alcune stime (Nomisma Energia) - malgrado le contromosse e un po’ di gas liquido Usa - potrebbe mancare all’appello, già durante l’estate, una quota compresa tra 10 e 12 miliardi di metri cubi. Nel prossimo inverno, una volta bruciate le riserve, si profila il razionamento.

Si capisce bene, con queste cifre, quanto sia stata importante la telefonata di ieri tra Draghi e Putin. Strategica per noi ma anche per Mosca. 

Da quando Putin ha invaso l’Ucraina, l’Europa ha speso più di 17 miliardi di euro per acquistare gas, petrolio e carbone dalla Russia. La Germania e l’Italia sono particolarmente dipendenti dal gas russo e nel 2021 hanno speso rispettivamente 14 e 10 miliardi di euro. 

La battaglia del gas da noi si svolge su due fronti. Uno, in Ucraina, una tragedia, sotto gli occhi di tutti, cominciata, in maniera prima sotterranea poi sempre più aperta, lungo i tracciati dei gasdotti e accompagnata dall’espansione della Nato a Est. 
Un altro, in Libia - teatro che nessuno vuole nominare - ha un aspetto quasi da commedia, con una tragedia, reale, che si vuole tenere nascosta. 

Il lato libico della commedia è soprattutto italiano. Draghi ha incontrato alla Nato Erdogan e non è uscita una parola sulla Libia, dove si contendono il potere due premier Daibaba e Bashaga.
Nessuno osa neppure domandare: cosa succede in Libia? Come se questo non fosse il Paese del gasdotto Greenstream e dei pozzi dell’Eni. Eppure la Libia - dove i profughi della diaspora africana sono scomparsi dai media pur continuando a subire inaudite violenze nella più totale impunità - sarebbe la nostra pompa di benzina e di energia sotto casa. Il condizionale è d’obbligo: il Greenstream, in funzione dal 2004, ha una portata di 30 miliardi di metri cubi se messo a regime ma oggi ha un ruolo quasi insignificante nei nostri rifornimenti. 

Della Libia si preferisce non parlare perché è stata persa due volte dai nostri strateghi. Una nel 2011 con i raid decisi da Francia, Gran Bretagna e Usa, cui l’Italia si è unita sotto bandiera della Nato. La seconda nel 2019 quando - con Tripoli sotto assedio di Haftar - la difesa del governo Sarraj, che ci aveva chiesto un modesto aiuto, è stata lasciata alla Turchia di Erdogan. Così nessuno ha più investito in Libia che ha molte più riserve di gas dell’Algeria, tanto per fare un esempio. 

L’altro fronte del gas è la scoperta dell’acqua calda. Ci voleva una guerra per sapere che l’Europa dipendeva da Mosca? La scelerata iniziativa di Putin ha sconvolto l’Ucraina ma ha messo al tappeto anche l’Europa che prende dalla Russia il 40-50% del suo gas. Ora sono gli Stati Uniti che ci venderanno il gas con prezzi superiori a quelli russi in media del 20%. 

Il caso Nord Stream 2 è emblematico di come confliggono interessi americani ed europei. Non si tratta soltanto di una questione economica ma strategica. Voluto fortemente dalla ex cancelliera Angela Merkel, il Nord Stream 2 era la vera leva politica ed economica che tratteneva Putin da azioni dissennate come la guerra. Molti non lo avevano capito perché attribuivano al gas russo una valenza soltanto economica: aveva invece un enorme valore politico per tenere agganciata Mosca all’Europa. 

Uscita di scena Merkel, gli Usa hanno avuto campo libero. La guardiana di Putin e del gas non c’era più e gli americani hanno capito che il presidente russo era diventato più pericoloso ma anche più vulnerabile. Per due mesi gli Usa hanno avvertito dell’invasione dell’Ucraina perché sapevano che contestando, come hanno fatto, il Nord Stream 2 si apriva una falla nel cuore del continente. I gasdotti sono stati il cordone ombelicale che ha legato Mosca all’Europa, la nostra dipendenza dava a Putin un senso di sicurezza, lo strumento per condizionare gli europei e renderli più flessibili e interessati alle sorti della Russia. 

Quando Mosca ha capito che con il debole cancelliere Scholz il Nord Stream 2 non sarebbe stato al sicuro ha cominciato le minacce all’Ucraina che in precedenza russi e tedeschi avevano pagato perché non protestasse troppo per la realizzazione del gasdotto, assai temuto dalla Polonia in quanto visto come uno strumento di espansione dell’influenza Putin. 
Gli americani per altro avevano già messo alle corde anche Merkel, obbligandola ad acquistare persino gas liquido americano di cui Berlino allora non aveva alcun bisogno, visto che non ha neppure rigassificatori. 

E così con la guerra si è alla resa dei conti. L’Europa dovrà pagare di più la quota Nato, comprando ovviamente più armi e aerei da caccia Usa, e anche più gas americano. Tutto a beneficio delle corporation e del complesso militar-industriale. È la ricetta di Biden, tentato di prolungare un conflitto che logora Putin e riempie le casse americane. Un mondo perfetto per “esportare” ancora una volta la democrazia. 

martedì 15 febbraio 2022

Stavolta l’atlantismo è nudo. Come il re - Alberto Negri

Da: https://ilmanifesto.it - https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) - “Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017) - “Bazar Mediterraneo” (GOG edizioni, Dicembre 2021)
Leggi anche: Il nuovo, pericoloso, «arco della crisi» - Alberto Negri 
Vedi anche: La Guerra tra Russia e Ucraina - Alessandro Barbero https://www.youtube.com/watch?v=VCXTT2Tg2PQ 
L'approfondimento di Dario Fabbri. Tensione al confine tra Russia e Ucraina. Perché Biden vuole l'escalation. Fin dove possono arrivare gli Stati Uniti? La guerra è possibile? https://www.youtube.com/watch?v=rh0_IjpXYL4


Usa/Russia. Biden nella telefonata con il leader del Cremlino, sembra quasi spingere Putin a entrare in Ucraina: minaccia ma non propone nulla. Una situazione per certi versi ineluttabile visto quanto accaduto negli ultimi vent’anni dopo essersi volontariamente cacciata nel cul de sac preparato dagli americani, con interventi militari dall’esito devastante che nel gergo comune si chiamano sconfitte, politiche e militari




Se l’Europa vivrà altre giornate sul filo del rasoio e delle telefonate tra i leader, come quella di ieri Putin-Biden, lo deve anche a se stessa. Biden nella telefonata con il leader del Cremlino, sembra quasi spingere Putin a entrare in Ucraina: minaccia ma non propone nulla. Una situazione per certi versi ineluttabile visto quanto accaduto negli ultimi vent’anni dopo essersi volontariamente cacciata nel cul de sac preparato dagli americani, con interventi militari dall’esito devastante che nel gergo comune si chiamano sconfitte, politiche e militari.

Sui nostri giornali campeggiano, a commento dei fatti ucraini, i cantori dell’atlantismo con frasi come queste: «Ogni Stato ha diritto di scegliersi gli alleati che vuole», «massima solidarietà agli Stati Uniti per mantenere l’ordine liberale». 

domenica 22 agosto 2021

Afghanistan: «Fallimento politico-militare ma anche ideologico» - Alberto Negri

Da: https://www.ventuno.news -  Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017) 

Vedi anche: In viaggio in Medio Oriente: Iraq/Afghanistan - Alberto Negri 

In Viaggio in Medio Oriente: Siria - Alberto Negri

Medio Oriente* - Alberto Negri, Marco Santopadre



Il fallimento in Afghanistan? Politico-militare ma anche ideologico. Dopo i sovietici, i talebani hanno sconfitto anche gli occidentali, pur con importanti differenze. E ora costruiranno l’Emirato II, con nuovi partner e una nuova struttura statale. Per capirne qualcosa di più, Ventuno ne ha parlato con Alberto Negri, giornalista tra i massimi esperti di esteri, che conosce l’Afghanistan – dove è stato una dozzina di volte a partire dagli anni ’80 – come le sue tasche. Editorialista de Il Manifesto, quotidiano che ha compiuto 50 anni, Negri è stato a lungo inviato di guerra per Il Sole 24 Ore, seguendo in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, in Somalia, in Afghanistan e in Iraq. 


Cosa sta succedendo in Afghanistan?

«Per dirlo in maniera dettagliata bisognerebbe essere sul posto. Abbiamo sempre un taglio della realtà afghana che proviene soprattutto da Kabul, la capitale. Sappiamo poco, però, di quello che accade nelle province. Questo è un limite dell’informazione attuale che ci dovrebbe far riflettere, perché la storia dell’Afghanistan non è solo quella di una guerra sbagliata, ma anche di una narrativa sbagliata. Per esempio si ignora che i talebani controllavano già il 40-50% del territorio quattro-cinque anni fa. Soprattutto nelle province. Questo spiega perché c’è stata una loro rapida avanzata, dovuta ovviamente alla dissoluzione dell’esercito nazionale afghano, ma anche al fatto che in questi anni i talebani hanno consolidato la loro presenza, stando molto più attenti che in passato ai rapporti con la popolazione civile».

venerdì 28 dicembre 2018

I "regali" occidentali ai cristiani d’Oriente - Alberto Negri


Da: https://ilmanifesto.italberto-negri è un giornalista italiano. Has been special and war correspondent for “Il Sole 24 Ore” for the Middle East, Africa, Central Asia and the Balkans from 1987 to 2017. - https://www.facebook.com/alberto.negri.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2017/06/medio-oriente-alberto-negri-marco.html                                                                                                                                               https://ilcomunista23.blogspot.com/2017/12/in-viaggio-in-medio-oriente.html


Oriente e Occidente. Pur di far fuori il regime di Assad, Usa e occidentali hanno sostenuto la Turchia e le monarchie del Golfo che appoggiavano i ribelli facendoli passare per “moderati” 

Pur di far fuori il regime di Assad, Usa e occidentali hanno sostenuto la Turchia e le monarchie del Golfo che appoggiavano i ribelli facendoli passare per “moderati”. E Trump se ne lava le mani in Iraq lasciando a Israele il ruolo di poliziotto della regione.

A Natale i cristiani d’Occidente festeggiano, quelli d’Oriente anche, ma non se ne ricorda quasi nessuno tranne qualche diretta tv da Betlemme. I cristiani del Libano, della Siria, dell’Iraq e dell’Egitto, vengono generalmente ignorati, come se il cristianesimo non fosse nato qui ma nei grandi magazzini con gli alberi di Natale americani ed europei che grondano consumismo. Per loro il regalo di quest’anno del presidente americano Donald Trump è stato trasferire l’ambasciata Usa a Gerusalemme, riconoscendola come capitale dello stato di Israele, invece di lasciarla, come raccomandano le risoluzioni dell’Onu e il buon senso, capitale delle tre religioni monoteiste.

MA ORMAI È NOTO: non c’è niente di più incomprensibile del cristianesimo americano, se non che gli evangelici sono una delle principale basi elettorali del presidente Usa. E che Israele è uno dei maggiori sostenitori del presidente, il quale per fare un favore allo stato ebraico e ai sauditi ha deciso di uscire dal trattato sul nucleare del 2015 con l’Iran di imporre nuove sanzioni a Teheran cui si debbono piegare tutti, anche gli stati europei che vorrebbero rispettare l’accordo.

Un messaggio confortante per il principe Mohammed bin Salman mandante, secondo la Cia, dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, ed esponente del quella monarchia wahabita che rappresenta una delle versioni più retrograde dell’islam che ha ispirato per decenni i jihadisti. Gli Usa, con la complicità degli europei, foraggiano di armi il peggiore nemico dei cristiani, quello che ha sostenuto insieme alle altre monarchie del Golfo gli estremisti islamici che hanno sgozzato per anni oltre ai musulmani anche i cristiani dell’Iraq e della Siria.

C’è proprio da essere fieri di essere cristiani in Occidente: con l’appoggio agli emiri e per i soldi del loro petrolio hanno contribuito ad assottigliare la già esigua minoranza dei cristiani d’Oriente. 

giovedì 21 dicembre 2017

In viaggio in Medio Oriente: Iraq/Afghanistan - Alberto Negri

Da: http://www.lantidiplomatico.it/ - alberto-negri è un giornalista italiano.
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/medio-oriente-alberto-negri-marco.html

Irak: "Perché l'Iraq è stata la più grande fake news della storia contemporanea. 
La preparazione fu un lavoro enorme da parte della propaganda americana, anglosassone in generale 
con migliaia e migliaia di pagine di giornali in cui si documentava il possesso da parte di Saddam di armi di distrazione di massa".... 

giovedì 15 febbraio 2018

In Viaggio in Medio Oriente: Siria - Alberto Negri


Da: http://www.lantidiplomatico.it/ alberto-negri è un giornalista italiano. 
                                                                                                                                   Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/medio-oriente-alberto-negri-marco.html


                                                                                                                                 Iraq/Afghanistan: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/12/in-viaggio-in-medio-oriente.html

mercoledì 8 dicembre 2021

Il Truman Show della politica estera italiana - Alberto Negri

Da: https://ilmanifesto.it - Alberto Negri  è un giornalista e reporter di guerra. Per «Il Sole 24 Ore» ha seguito dal 1987 al 2017 i principali eventi politici e bellici come inviato in Medio Oriente, Balcani, Asia Centrale e Africa. - https://www.facebook.com/alberto.negri. 


https://www.gogedizioni.it/prodotto/bazar-mediterraneo/ 


La politica estera italiana è un Truman show, dove non c’è nulla di vero e siamo stati tutti adottati da un’emittente televisiva. Bastava ascoltare i discorsi in diretta tv del presidente del Consiglio Draghi e del ministro degli esteri Di Maio al Med, secondo i quali l’Italia si «batte per i diritti umani» del Mediterraneo.

Due giocolieri, neppure troppo abili, che in due ore di sproloqui riescono a non pronunciare mai i nomi di Giulio Regeni, di Patrick Zaki e di Al Sisi. I loro flessibili consiglieri dicono che lo fanno per non irritare ulteriormente il generale egiziano che già di malavoglia tollera la presenza degli avvocati al processo Zaki, di cui sapremo la sorte in queste ore.

Quale delicatezza per il macellaio golpista del Cairo, che tiene in carcere e ammazza gli oppositori.

L’Italia si batte così a bassa voce e in maniera talmente generica per i diritti umani perché in realtà è un Paese dalla coscienza sporca assai. All’Egitto vendiamo miliardi di euro di armamenti, quindi non bisogna disturbare il manovratore anche quando insulta le nostre istituzioni, dalla magistratura al Parlamento. 

Come se difendere i diritti umani precludesse dal fare affari: è difendendoli che ci si fa valere come interlocutori, ribadendo i propri ideali, posto che ne siano rimasti.

lunedì 6 maggio 2019

Venezuela, l’ultima fregatura made in Usa - Alberto Negri

Da: https://ilmanifesto.it - https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è un giornalista italiano. 


  Stati uniti dell’amnesia. 

Campioni di un unilateralismo esasperato, senza storia e senza memoria, che riaccende il bloqueo contro Cuba, aumenta le sanzioni contro il Venezuela e spera con l’embargo petrolifero di strangolare l’Iran. Il tutto con l’obiettivo evidente di imporre, da fuori e da dentro, un cambio di regime in questi Paesi.



Tra guerre sbagliate, golpe falliti e colpi di mano, il catalogo è lungo. Con Trump questi sono diventati sempre di più gli «Stati uniti dell’Amnesia», sottolinea sul Financial Times Edward Luce. Campioni di un unilateralismo esasperato, senza storia e senza memoria, che riaccende il bloqueo contro Cuba, aumenta le sanzioni contro il Venezuela e spera con l’embargo petrolifero di strangolare l’Iran. Il tutto con l’obiettivo evidente di imporre, da fuori e da dentro, un cambio di regime in questi Paesi. Ma pure qui abbiamo bisogno di rinfrescarci la memoria sulle fregature degli americani di cui siamo stati alleati e complici.

Sembra che nessuno impari la lezione: credono ancora agli Stati Uniti. Nel 2001 gli Usa, dopo gli attentati a New York e Washington, cominciarono la guerra al terrorismo in Afghanistan e ci siamo ritrovati il terrorismo in casa, nato da quel jihadismo che gli stessi americani alimentarono negli anni Ottanta per far fuori l’Urss. E tutti siamo andati prontamente in Afghanistan a dare una mano contro Al Qaida e il Mullah Omar mentre adesso gli Usa negoziano proprio con i talebani. Ma perché teniamo ancora 800 soldati a Herat che ci costano un occhio nella testa?

mercoledì 22 dicembre 2021

Il ritorno della sinistra in Cile e le casse vuote dello stato - Alberto Negri

Da: https://edicola.quotidianodelsud.it - https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la CoronaIran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) - “Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017) - “Bazar Mediterraneo” (GOG edizioni, Dicembre 2021)


Gabriel Boric Font è un politico cileno di origini croate, figura del movimento studentesco del 2011, è deputato dal 2014. Il 19 dicembre 2021 viene eletto Presidente del Cile. Entrerà in carica l'11 marzo 2022.



Fermato il pinochetismo, Boric deve fare i conti con uno Stato dalle casse pubbliche prosciugate per i fondi concessi durante la pandemia. Nel 2021 in Cile è stato elargito l’equivalente di un intero Pil nazionale in sussidi a famiglie e imprese. 

Il difficile comincia adesso ma il Cile comunque volta pagina. In Cile Gabriel Boric l’ex leader delle proteste studentesche, il più giovane presidente mai eletto, ha nettamente sconfitto Jose Antonio Kast, il candidato dell’estrema destra, ammiratore di Pinochet. 

Il nuovo inquilino della Moneda (si insedierà a marzo) non avrà vita facile. Boric _ come del resto sarebbe accaduto anche a Kast _ non può contare su una maggioranza in Parlamento, deve fare i conti con i lavori dell’Assembla Costituente, che sta scrivendo la nuova Carta, e si trova con uno Stato dalle casse pubbliche prosciugate dai fondi concessi durante la pandemia. 

Nel 2021 in Cile è stato elargito l’equivalente di un intero Pil nazionale in sussidi a famiglie e imprese. Questo ha permesso a molti di sopravvivere alla crisi economica, ma il Cile non sono gli Stati Uniti, non possono stampare moneta per sostenere l’economia nazionale. Sospeso tra passato e futuro, il presente del Paese che per molto tempo è stato erroneamente considerata come un’isola felice in Sudamerica è tutt’altro che semplice. 

Quale era la vera posta in gioco di queste elezioni? Al centro della partita elettorale c’era il sistema economico e sociale estremamente controverso, che ha reso il Cile un paese prospero e la prima economia dell’America Latina ma anche il secondo per tassi di povertà estrema dopo l’Uruguay. Il Cile ha pagato la sua crescita con una disuguaglianza che frattura la società dall’interno. Una disuguaglianza che ha nutrito la rabbia delle proteste dei liceali nel 2006 e degli universitari del 2011, delle continue mobilitazioni dei mapuche nel Sud e nelle mobilitazioni contro le grandi centrali elettriche in Patagonia, e che infine è esplosa nelle proteste del 2019. 

martedì 18 maggio 2021

Cade la maschera di Israele e anche la nostra - Alberto Negri

Da: https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Articolo apparso su "Il Manifesto", 15/05/2021. - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) e “l musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017)

Leggi anche: PALESTINA. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi. - Francesca Merz 

Chiarezza - Shlomo Sand 

Israele/Palestina. Alle radici del conflitto - Joseph Halevi 

Antisemitismo e antisionismo sono collegati tra loro? - Alessandra Ciattini 

https://invictapalestina.wordpress.com/2016/07/12/stato-attuale-ed-origine-del-conflitto-tra-israele-e-la-palestina-breve-riassunto-per-le-scuole-medie/ 

Quattro ore a Chatila - Jean Genet

Vedi anche: La Nakba - Joseph Halevi


Le proteste degli arabi minacciati di espulsione dal quartiere di Sheik Jarrah vengono viste come il casus belli di questa guerra. In realtà prima del 1948, della sconfitta araba e della Nakba ricordata ieri, il 77% delle proprietà nel lato Ovest di Gerusalemme appartenevano ai palestinesi, sia cristiani che musulmani. 

Difendiamo con la stessa maschera dei governi israeliani la nostra insostenibile ipocrisia e disonestà intellettuale. 


La rivolta arabo-palestinese è quella di tutti noi, per la giustizia e la vera pace, contro ogni doppio standard che da decenni avvelena Gerusalemme, la Palestina e tutto il Medio Oriente. Israele vive, da noi pienamente tollerato, nella condizione di uno Stato fuorilegge, i palestinesi, a causa anche della sua dirigenza e di Hamas, sono perpetuamente nella lista nera dei popoli criminali, non degli stati criminali semplicemente perché i palestinesi hanno diritto a uno Stato solo nella retorica occidentale che si lava le mani della questione. 

La posizione mediana assunta dai politici e dalla maggior parte dei media occidentali in realtà è la più ipocrita di tutte le sanzioni architettate in Medio Oriente. Quella che pagheremo forse in un prossimo futuro: le guerre altrui entreranno in casa nostra, come è già accaduto un decennio fa quando le primavere arabe si trasformarono, come in Siria, in guerre per procura e nel jihadismo. Finora Israele, nelle mente degli europei, ha fatto da antemurale alle rivolte e alla diffusione del estremismo islamico: in realtà ha alimentato l’incendio – Hamas sin dalla sua fondazione negli anni Ottanta serviva a mettere sotto scacco Al Fatah e i laici – e incoraggiato ogni degenerazione perché lo stato di guerra perpetuo giustifica la sua impunità e il non rispetto assoluto dei diritti degli arabi, delle leggi internazionali e delle Risoluzioni delle Nazioni unite. 

Ma la maschera israeliana, come pure la nostra, sta per cadere. È scattata la sirena d’allarme, non soltanto quella per i razzi di Hamas, ma dei linciaggi e delle rivolte nelle città israeliane abitate «anche» dagli arabi. Il venti per cento della popolazione di un Paese che si dichiara lo Stato degli ebrei ignorando tutti gli altri. 

Come scriveva questa settimana su il manifesto Tommaso Di Francesco non basta dire che entrambi i popoli hanno diritto a vivere in pace, di questa frasette inutili ne abbiamo piene le tasche e molto più di noi i palestinesi. E persino una parte consistente dell’opinione pubblica arabo-musulmana, anche di quei Paesi entrati nel Patto di Abramo, nella sostanza un’intesa che non è un accordo di pace, come è stato venduto dalla propaganda, ma di fatto un via libera a Israele per fare quello che vuole.
Come fai a vivere in pace quando confiscano le tue terre, la tua casa viene demolita, i coloni moltiplicano gli insediamenti e ogni giorno viene eretto, oltre al Muro, un reticolato di divieti di cemento difesi con il mitra spianato? La terra viene divorata, i monumenti della tua cultura sono vietati e si cambia la faccia del mondo che conoscevi: tutto questo avviene sotto occupazione militare, cioè contro il diritto internazionale. E noi qui vorremmo che gli arabi rispettassero leggi di cui noi stessi ci facciamo beffe? 

Gerusalemme è diventato il simbolo di tutte queste ingiustizie, di tutte le violazioni del diritto internazionale. Questa storica e magica città non è per niente la capitale delle tre religioni monoteiste come viene ripetuto fino alla noia: è la capitale soltanto dello Stato di Israele, come ha sancito Trump nel 2018 trasferendo l’ambasciata americana da Tel Aviv. In questa città Israele decide quello che vuole non solo per gli ebrei ma anche per musulmani e cristiani. Anche questa è una violazione del diritto internazionale, delle Risoluzioni Onu e degli Accordi di Oslo: non solo non abbiamo fatto niente per evitarlo ma lo abbiamo accettato senza reagire. Tollerando che avvenga pure senza testimoni con il bombardamento del centro stampa internazionale di Gaza e l’uccisione di una collega palestinese Reema Saad, incinta al quarto mese, polverizzata da una bomba insieme alla sua famiglia. 

Oggi le proteste della famiglie arabe minacciate di espulsione dal quartiere di Sheik Jarrah vengono viste come il casus belli di questa ultima guerra. In realtà prima del 1948, della sconfitta araba e della Nakba ricordata ieri, il 77% delle proprietà nel lato Ovest di Gerusalemme appartenevano ai palestinesi, sia cristiani che musulmani. Ma i loro beni, una volta cacciati via e i proprietari classificati come «assenti» sono stati espropriati e venduti allo Stato o al Fondo nazionale ebraico. Così si costruisce con l’ordine «liberale» del «diritto di proprietà» ogni ingiustizia. Non solo: gli ebrei possono reclamare le case che possedevano a Gerusalemme prima del 1948 ma questo diritto non è previsto per i palestinesi. Una beffa. Queste le chiamate leggi, questa la possiamo chiamare giustizia? Si tratta soltanto di un sopruso accompagnato quotidianamente dall’uso della forza militare. 

«Le vite palestinesi contano», ammonisce il leader democratico Bernie Sanders. Ma il presidente americano Biden che ieri ha mandato un inviato per verificare le possibilità di una tregua deve uscire dall’ambiguità: se concede a Israele di violare tutte le leggi e i principi più elementari di giustizia diventa complice di Trump e delle sue scellerate decisioni. In ballo non c’è soltanto un cessate il fuoco ma un’esecuzione mortale: quella che viene perpetrata ogni giorno al popolo palestinese messo al muro dalla nostra insipienza. E con le spalle al muro ci siamo pure noi che difendiamo con la stessa maschera dei governi israeliani la nostra insostenibile ipocrisia e disonestà intellettuale. 

venerdì 14 gennaio 2022

Il nuovo, pericoloso, «arco della crisi» - Alberto Negri

 Da: https://ilmanifesto.it - https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq. Tra le sue principali opere: “Il Turbante e la Corona – Iran, trent’anni dopo” (Marco Tropea, 2009) - “Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier, marzo 2017) - “Bazar Mediterraneo” (GOG edizioni, Dicembre 2021)


Le crisi in Ucraina, Bielorussia, Kazakhstan e tra Armenia e Azerbaijan sono viste dagli Usa come occasioni per destabilizzare la Russia odierna fastidiosamente alleata della Cina. 

È singolare che gli Usa, ieri a colloquio a Ginevra con Mosca sulla questione Ucraina, minaccino sanzioni a Mosca ma non al Kazakhstan dove i russi e i loro alleati sono intervenuti a fianco del presidente Tokayev che ha messo in galera 8mila oppositori e fatto dozzine di morti nella repressione della rivolta. 

Una rivolta che appare sempre di più una resa dei conti con il vecchio regime del presidente dittatore Nazarbayev. Basti pensare che nella notte di martedì scorso ad Almaty la polizia è scomparsa dalle strade lasciando via libera a saccheggi e incendi: un messaggio inequivocabile che erano in due a dare gli ordini e uno doveva soccombere. 

Biden in realtà è stato al fianco di Tokayev: “gli Usa sono orgogliosi di poterla chiamare amico”, ha scritto a settembre in un messaggio al presidente del Khazakstan, al di là delle dichiarazioni attuali che Washington “monitorerà i diritti umani” nel Paese. Come no: lì ci sono investimenti miliardari di Exxon e Chevron (c’è anche Eni). Questo interessa monitorare. 

All’Occidente dei diritti umani in Kazakhstan non è mai importato nulla, se non fare affari con Nazarbayev. O ci siamo dimenticati che l’Italia nel 2013 deportò Alma Shalabayeva, moglie del’ex oligarca Ablyazov: un sequestro di persona per cui a Perugia adesso sono imputati cinque funzionari di polizia. 

L’intervento russo difende anche questi interessi occidentali. Le multinazionali dell’energia e minerarie in questi anni hanno investito in Khazakistan 160 miliardi di dollari ma non significa che questo sia un Paese ricco, anzi gas e petrolio hanno accentuato le differenze di classe e di censo durante gli anni della dittatura di Nazarbayev. In troppi Paesi petroliferi come Iraq, Libia, Iran e Algeria, l’oro nero non ha portato quella ricchezza che tutti si aspettavano.