Da: https://ilmanifesto.it - https://www.facebook.com/alberto.negri.9469 - Alberto Negri è giornalista professionista dal 1982. Laureato in Scienze Politiche, dal 1981 al 1983 è stato ricercatore all'Ispi di Milano. Storico inviato di guerra per il Sole 24 Ore, ha seguito in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, Somalia, Afghanistan e Iraq.
Zelensky, platealmente insultato da Trump, è agli sgoccioli e quasi non c’eravamo accorti che l’Arabia saudita è già entrata, non ufficialmente, nel Patto di Abramo, il formato degli stati arabi amici di Israele che si allarga sempre di più nei suoi obiettivi. Un segnale chiaro è l’ospitalità data dal principe Mohammed bin Salman al vertice tra Lavrov e Rubio.
Come è noto Riad è il paese guida dell’Opec, non ha mai messo sanzioni a Mosca ma è anche e soprattutto il faro del mondo musulmano e sunnita perché controlla i pellegrinaggi della Mecca.
Non ha particolarmente a cuore, come Trump del resto, il destino dell’Ucraina e neppure quello di Gaza. Se ora in Europa ci si straccia le vesti per Kiev, non lo si fa e non lo si farà per il futuro dei palestinesi.
La nuova diplomazia americana prevede premi per coloro che seguono i consigli di Washington e punizioni solide per quelli che si oppongono. E sul Patto di Abramo Trump non ammette defezioni, perché lo ha promosso lui nella sua prima presidenza e perché contempla di fare di Israele l’unica superpotenza che controlla la regione, eliminando o riducendo al minimo l’influenza dell’Iran.
Per Zelensky si è capito che ci sono solo punizioni se non accetta la pace con Putin, che nella visione di Trump deve servire come antemurale della Cina, e deve anche essere staccato dai suoi legami con Teheran che ha finora sostenuto lo sforzo bellico di Mosca. Questo aspetto per Trump forse è più importante del destino territoriale dell’Ucraina e si lega anche al suo piano per svuotare Gaza dai palestinesi. Kiev e la Striscia sono fastidiosi orpelli sulla carta geografica per la nuova amministrazione americana: assorbono energie da convogliare sul fronte cinese. Ecco perché Riad è il luogo ideale del vertice russo-americano: per l’Arabia saudita e le monarchie del Golfo la Repubblica islamica iraniana, ossessione del piano di sicurezza di Netanyahu, costituisce un nemico storico. Si regolano conti antichi ma anche recenti: nel 1980 quando Saddam Hussein attaccò l’Iran le monarchie del Golfo finanziarono l’Iraq con 50 miliardi di dollari – in termini attuali più di quanto sia arrivato in tre anni a Kiev – ma senza alcun risultato, anzi nel 1990 Baghdad invase il Kuwait. E nel 2003 la caduta del sunnita Saddam a opera degli Stati uniti venne percepita dai paesi del Golfo come una sconfitta che lasciava mano libera a Teheran e ai suoi alleati. In anni più vicini l’Iran appoggiando gli Houthi ha inferto una solenne sconfitta proprio ai sauditi sulle porte di casa. E Riad non dimentica gli attacchi filo-iraniani contro i suoi impianti petroliferi ai quali allora gli Usa risposero con un’alzata di spalle.
Ma con Trump tutto è cambiato. Lo si è capito molto bene quando Marco Rubio, prima di arrivare in Arabia saudita, ha fatto tappa in Israele. Che cosa può spingere i sauditi e il mondo arabo ad accettare l’inverosimile piano di Trump per Gaza che a parole respingono? Rubio si è presentato dal premier Netanyahu portandosi come regalo l’argomento più sensibile per il governo ebraico: bombe. Le MK-84 recentemente autorizzate dall’amministrazione Trump. Sono ordigni a caduta libera, entrati in servizio nella loro prima versione nella guerra del Vietnam. Alla MK-84 viene dato il soprannome Hammer, in inglese martello: un modo per sottolineare la sua grande capacità distruttiva.
A chi sono destinate? Certamente ad Hamas, che come hanno chiarito prima Trump e poi Rubio, in piena sintonia con Netanyahu, «deve essere eliminato», cosa che in fondo fa piacere a molti stati arabi. Ma soprattutto sono il preludio a una seconda fase nella guerra contro l’Iran: l’eliminazione o la neutralizzazione dell’apparato bellico della Repubblica islamica – nucleare compreso – sono il vero obiettivo strategico del complesso militare-industriale israelo-americano. E Riad e il Golfo, chiamati a pagare più o meno tutti i piani di Trump, possono dire di no? Un nuovo conflitto tra Iran e Israele è possibile, se non probabile: lo dicono gli americani, gli israeliani ma anche Teheran. Basta leggere le ultime dichiarazioni delle parti in causa. L’ammiraglio britannico Tony Radkin, in un discorso al Royal United Service Institute di Londra, ha affermato che Israele nei bombardamenti del 26 ottobre ha distrutto la quasi totalità delle difese aeree iraniane e la sua capacità di costruire missili balistici per almeno un anno. Gli F-35 israeliani hanno lanciato missili volando a una distanza di almeno 120 chilometri dai bersagli, fuori da ogni possibilità di intercettazione. Gli iraniani non li hanno visti neppure arrivare sui radar. «Il vantaggio militare e di intelligence israeliano – ha concluso Radkin – è fuori dalla portata di ogni avversario regionale».
E se ne sono accorti anche russi e cinesi perché questa guerra in Medio Oriente diretta all’Iran e ai suoi alleati va molto oltre i confini dell’area.
Il piano per Gaza e le eventuali concessioni territoriali a Putin sull’Ucraina hanno come corollario fondamentale, nelle intenzioni di Trump e Netanyahu, il riconoscimento americano dell’annessione della Cisgiordania. Perché fermarsi a Gaza? Il messaggio per i palestinesi è chiaro: non c’è possibilità di compromesso con Israele e il suo alleato americano, almeno nella sua forma attuale, perché sono determinati a eliminare il popolo palestinese. Con la complicità ipocrita e nascosta degli arabi e, naturalmente, anche della nostra.
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