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Gianfranco Pala (1940 - 2023), Economista italiano. Docente di Economia alla Sapienza di Roma. Direttore della rivista LA CONTRADDIZIONE (
https://rivistacontraddizione.wordpress.com). Studioso marxista tra i più rigorosi.
Nel periodo che stiamo vivendo, complesso e difficile da comprendere in tutti i suoi aspetti, è forse utile riprendere analisi scientifiche marxiste già pubblicate in un recente passato (2005), e poco diffuse in quanto politicamente in opposizione alle logiche della visibilità elettorale come priorità esclusiva. “Lo sviluppo economico capitalistico e la guerra” di Gianfranco Pala, ex docente di Economia Politica alla Sapienza di Roma, ora scomparso, aveva messo in luce il rapporto di capitale, la sua necessaria estensione nel mercato mondiale e la guerra, quale sua specifica modalità di rapina del plusvalore ai danni dei paesi dominati, nella gerarchia mondiale mistificata nel termine “globalizzazione”. Nell’imperialismo del capitale finanziario, ormai transnazionale, nella sua unità dialettica con la politica, la guerra è contrasto tra stati il cui fine è costituito dal vantaggio economico, oltre che essere merce. Scarso rilievo se costerà alle popolazioni già sfruttate per appartenenza di classe, anche in termini di perdita di diritti umani e civili o di sofferenze e morti, sterminio, genocidio. La tragica attualità di questa analisi può aiutare a formare una coscienza collettiva più consapevole, e sperabilmente più pronta a lottare contro la distruttività di questo sistema, incapace ormai di riprodursi se non mediante una costante e progressiva violenza senza confini. (Carla Filosa)
gfp.278 - Athanor xvi-9, Meltemi, Roma 2005 [in Mondo di guerra]
LO SVILUPPO ECONOMICO CAPITALISTICO E LA GUERRA
la crisi dell’accumulazione mondiale e il trasferimento di plusvalore
N.B.: La guerra è sviluppata prima della pace:
modo in cui attraverso la guerra e negli eserciti, ecc.,
determinati rapporti economici come lavoro salariato, macchine, ecc.,
si sono sviluppati prima che all’interno della società borghese.
Anche il rapporto tra forze produttive e scambio
diviene particolarmente evidente nell’esercito.
[Karl Marx, Lf, q.M, f.21]
di Gianfranco Pala
Marx, in conclusione dell’inedita Introduzione del 1857, lasciata nei manoscritti dedicati ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, al primo punto di un “notabene: alcuni punti che sono da menzionare qui e non devono essere dimenticati” pose la questione della <guerra> (riportata nell’esergo qui posto a mo’ di occhiello). Non era la prima volta che lui con Engels – ne testimonia il loro carteggio – si occupavano della questione militare. Lo stretto legame tra economia e guerra – ossia tra lo sviluppo delle forze produttive, la base della produzione materiale e sociale, e la loro inesorabile esigenza di estensione all’intero mercato mondiale in continuo allargamento – rappresentò sempre un “punto che non doveva essere dimenticato”. Il tema si connetteva inevitabilmente al carattere della violenza di classe, nell’epoca moderna quella della borghesia capitalistica e imperialistica; senonché, come osservò Engels, dal 1876 allorché cominciò a scrivere l’Anti-Dühring, nel primo capitolo della ii sezione dedicato all’oggetto e metodo dell’economia politica, “la violenza non fa che proteggere lo sfruttamento, ma non lo causa”; e che la “base” di quello “sfruttamento è il rapporto tra capitale e lavoro salariato e che questo è sorto per via puramente economica e niente affatto per via di violenza”. Già nell’Ideologia tedesca, in particolare verso la fine del paragrafo 4 della i sezione rivolta a Feuerbach, Engels e Marx esponevano in fieri la loro "concezione della storia" che “sembra contraddetta dal fatto della conquista. Finora erano considerate forze motrici della storia la violenza, la guerra, il saccheggio, la rapina, ecc.”, facendo l’esempio della “distruzione di un’antica civiltà a opera di un popolo barbaro”: ogni riferimento a fatti bellici attualissimi non è qui per niente casuale. Per cui i due osservavano che “niente è più comune dell’idea secondo la quale fino a oggi nella storia non si è trattato altro che di prendere”. Marx, in una nota agli inizi del Capitale, aveva già scritto che “comicissimo è il sig. Bastiat, il quale si immagina che gli antichi greci e romani vivessero soltanto di rapina. Ma se si vive di rapina per molti secoli, ci dovrà pur essere continuamente <qualcosa da rapinare>, ossia l’oggetto della rapina dovrà continuamente essere riprodotto”. Anche nelle epoche precedenti, dunque, c’era “un processo di produzione, quindi un’economia, la quale costituiva il fondamento materiale del loro mondo, esattamente come l’economia borghese costituisce il fondamento materiale del mondo contemporaneo. Il medioevo non poteva vivere del cattolicesimo, e il mondo antico non poteva vivere della politica. D’altra parte, già don Chisciotte ha ben scontato l’errore di essersi illuso che la cavalleria errante fosse ugualmente compatibile con tutte le forme economiche della società” [c, i.1(4)]. Chi è il don Chisciotte o, peggio perché meno poetico, il Bastiat attuale che, tra i politici e gli economisti moderni, “illuminati” alla Keynes o cupi tipo “neo-con” (i neoconservatori made in Usa, guerrafondai quasi tutti provenienti dalla lotta “sinistra” all’Urss staliniana), crede di trovare nella rapina della guerra imperialistica il grimaldello per il rilancio dell’economia mondiale? Panzane!