*Da: https://www.lacittafutura.it/ **L’autore insegna Economia politica alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo
Nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione del lavoratore, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare.
L'attenzione
notevole rivolta negli ultimi anni ai cambiamenti intervenuti nella
distribuzione del reddito da numerosi studiosi (Milanovic, Picketty,
Deaton) può essere utilizzata correttamente se si considerano le
crescenti disuguaglianze come effetto e non come causa della crisi.
Salari fermi al livello di sussistenza
Per
Karl Marx, la parola “miseria” non indica la povertà assoluta,
avendo egli chiarito nel I libro del Capitale (in particolare nei
par. 3 e 4 del cap. 23) che la legge dell'immiserimento della classe
operaia non è contraddetta dalla possibilità che i salari dei
lavoratori crescano durante l’accumulazione di capitale, almeno
fino a un certo livello. Nella sua analisi, Marx distingue tre
definizioni del salario. In primo luogo, e a un livello più
immediato, il salario rappresenta la quantità di denaro che il
lavoratore riceve dal suo datore di lavoro: è il salario “nominale”
o “monetario”. Tuttavia, in un mondo in cui spetta ai capitalisti
decidere quantità e prezzi della produzione, non possiamo
accontentarci di considerare i salari nominali, ma dobbiamo
considerare la quantità effettiva di beni e servizi che i salari
sono in grado di acquistare, cioè i salari “reali”.
Figura 1 Tassi di variazione annuali dei salari nominali orari dei lavoratori negli Usa (1964 – 2012) fonte: Federal Reserve Economic Data (FRED)
Quello che appare in figura 1 è la variazione nel corso del tempo dei salari nominali dei lavoratori negli Usa: quindici anni di crescita anche sostenuta con incrementi annui compresi tra il 4 ed il 9 per cento, poi – in “coincidenza” con la svolta monetarista del 1979 – un drastico ridimensionamento che ha portato i salari a oscillare entro una banda molto più ristretta (tra l’1,5 ed il 4 per cento). Ma si tratta solo di un’immagine parziale di quanto è avvenuto.
Per
calcolare e rendere confrontabili i salari reali, vale a dire la
quantità di beni e servizi acquistabili dai lavoratori, è
necessario considerare la variazione dei prezzi delle merci, vale a
dire l’inflazione. Utilizzando come indicatore di inflazione
l’indice
dei prezzi al consumo, si
nota (figura 2) che la fase di crescita reale del salario (che non
supera mai il 4 per cento) non si interrompe – come poteva sembrare
dall’immagine precedente – alla fine degli anni ’70, ma qualche
anno prima. A partire dalla seconda metà degli anni ’70, infatti,
i salari reali orari di chi lavora negli Usa crescono sempre meno,
fino a raggiungere un picco negativo proprio nel 1979; a partire da
allora, oscillazioni ridotte, che alternano momenti di crescita a
momenti di diminuzione.
Figura 2 Tassi di variazione annuali dei salari reali orari dei lavoratori negli Usa (1964 – 2012) fonte: FRED
In termini di paga oraria, chi lavorava negli Usa a metà anni ’60 guadagnava in media due dollari e mezzo l’ora. Oggi ne guadagna circa venti: quasi dieci volte di più. Questo l’aumento del salario negli Usa in termini nominali (figura 3).
Figura 3 Livello dei salari nominali dei lavoratori negli Usa (1964-2012)
Utilizzando l’indice dei prezzi al consumo per riportare ad oggi il valore dei due dollari e mezzo del 1964, troviamo che corrispondono a 18 dollari e mezzo, il che equivale a dire che i lavoratori, con i due dollari e mezzo l’ora di 53 anni fa, potevano comprare un paniere (panierino) di merci che oggi costa-vale diciotto dollari e mezzo. È questo che si intende per “salario che oscilla attorno al livello di sussistenza”: chi lavora negli Usa lo fa per un livello reale di potere di acquisto che non è cambiato, se non per qualche decimale di punto, da cinquanta anni e più a questa parte (figura 4).
Figura 4 Livello dei salari reali dei lavoratori negli Usa
Chi – utilizzando la banca dati OECD – volesse mettere a confronto l’andamento dei salari dei lavoratori negli Usa con quelli di chi lavora in Italia nell’intervallo 1971-2015 otterrebbe un risultato come quello mostrato in figura 5.
Figura 5 Confronto tra i salari orari Usa e Italia (1971-2016) fonte: OECD
Sappiamo da Marx che il salario rappresenta il valore (di scambio) della forza-lavoro. Questa è forse la più grande innovazione scientifica nel campo della teoria economica: il salario paga il valore della forza-lavoro, non il suo uso-consumo, ossia il lavoro, il cui equivalente monetario è al contrario incassato dai capitalisti che, per accrescere il plusvalore, puntano tutte le loro carte migliori sulla produttività.
L’aumento
della produttività consente ai proprietari delle imprese di ottenere
un volume maggiore di merci, volume,
non valore, e questa è una
delle contraddizioni più pesanti del
modo capitalistico di produzione. Se confrontiamo l’andamento della
produttività del lavoro in paesi diversi facendo attenzione alla
differenza tra livelli assoluti e tassi di variazione, osserviamo
che, nonostante sia vero che nel corso del tempo la dinamica della
produttività abbia subito ovunque nel mondo un rallentamento anche
notevole, ciononostante, considerando un intervallo di tempo
significativo, la produttività del lavoro è cresciuta molto più di
quanto siano cresciuti i salari reali e conseguentemente – come
vedremo - la quota distributiva che spetta al lavoro si è ridotta. È
evidente e noto il rallentamento della crescita della produttività
in Italia a partire dai primi anni ‘90; quello che normalmente si
omette è che, nei decenni precedenti, il ritmo di crescita della
produttività in Italia non solo era elevato, ma superiore – per
esempio – a quello che si registrava negli Usa (figura 6).
Se a questo punto mettiamo a confronto la dinamica della produttività con quella del salario reale, il quadro che viene fuori è quello mostrato in figura 7: una forbice che – in Italia - si allarga per trent’anni, dalla seconda metà degli anni ’60 alla metà degli anni ’90, poi è vero che la produttività smette di crescere, ma il salario reale pure, da prima e di più.
Ma quanto detto non basta per capire la fondatezza della legge dell’immiserimento della classe lavoratrice, ed è per questo motivo che Marx ed Engels si riferiscono a tre dimensioni del salario, non semplicemente a due. “Innanzi tutto il salario è determinato anche dal suo rapporto col guadagno, col profitto del capitalista. Questo è il salario proporzionale, relativo. Il salario reale esprime il prezzo della forza-lavoro in rapporto col prezzo delle altre merci; il salario relativo, invece, la parte del valore nuovamente creato che spetta al lavoro immediato, in confronto con la parte che spetta al lavoro accumulato, al capitale” [1]. Da questo segue che il salario relativo, e dunque la quota che spetta al lavoro sul prodotto/reddito totale (il Pil, o il valore aggiunto) può diminuire anche se i salari reali, non solo quelli nominali, aumentassero. Molti di coloro che accusano Marx di aver sbagliato previsione ipotizzando che il capitalismo avrebbe ridotto alla fame i lavoratori fraintendono questo punto, e dunque la dimensione relativa dell’impoverimento che naturalmente, costituendo i lavoratori la parte di gran lunga maggioritaria della popolazione, diventa immiserimento generale, ma sempre in termini relativi.
Per
Marx, che assume la definizione di salario relativo da Ricardo, è
questa la dimensione che conta quando enuncia la legge generale
dell’accumulazione, che equivale alla legge generale della
sovrappopolazione. Scrive Marx: “Quanto
maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il
volume e l’energia del suo aumento, quindi anche la grandezza
assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto
maggiore è l’esercito industriale di riserva […]. La legge per
la quale una massa sempre crescente di mezzi di produzione, grazie al
progresso compiuto nella produttività del lavoro sociale, può
essere messa in moto mediante un dispendio di forza umana
progressivamente decrescente, questa legge si esprime su base
capitalistica – per la quale non è l’operaio che impiega i mezzi
di lavoro, bensì sono i mezzi di lavoro che impiegano l’operaio –
in questo modo: quanto più alta è la forza produttiva del lavoro,
tanto più grande è la pressione degli operai sui mezzi della loro
occupazione, e quindi tanto più precaria la
loro condizione di esistenza: vendita della propria forza per
l’aumento della ricchezza altrui […]. Ne consegue quindi che,
nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione
dell’operaio, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve
peggiorare […]. Questa legge determina un’accumulazione di
miseria proporzionata all’accumulazione di capitale” [2].
A
livello di mercato mondiale (secondo alcuni istituti di ricerca a
partire dagli inizi degli anni ’80, per altri qualche anno prima) è
andata proprio così: la quota del reddito spettante al lavoro è
diminuita ovunque, più o meno, ma ovunque, dai paesi più
accanitamente “liberisti”, dove i sindacati non contano molto,
alle (ex) socialdemocrazie scandinave; dai paesi più “avanzati”,
a quelli “emergenti”. In termini quantitativi, le stime dell’OECD
(2015) relative a 59 paesi, per il periodo 1975 – 2012 riferiscono
di cinque punti percentuali persi dal lavoro, dal 64 al 59 per cento.
Continuando
l’analisi dell’economia Usa (figura 8), ancora la più importante
e più rappresentativa del capitalismo globale, e mettendola anche in
questo caso a confronto con l’Italia (figura 9), scopriamo che la
tendenza negativa per la quota di reddito spettante al lavoro parte
negli Usa dal 1970-71, anni in cui ai lavoratori andava quasi il 68
per cento dell’intero prodotto; a partire da quel biennio comincia
una perdita di peso relativo del lavoro che si interrompe solo per il
breve ciclo (tipicamente speculativo) della seconda metà degli anni
novanta, con l’ultimo dato disponibile che corrisponde al 62 per
cento: sei punti in meno, diciamo nella media. Per l’Italia il
ciclo “glorioso” degli anni ’60 termina ben presto e dalla metà
degli anni ’70 la quota di reddito che spetta al lavoro crolla dal
72 fino a un minimo del 52 per cento del reddito prodotto, salvo
recuperare qualche punto negli ultimi anni (“nonostante”
l’introduzione dell’euro?): in totale almeno quindici punti
persi, diciamo tre volte in più della media mondiale. E allora, a
che cosa serve la produttività?
L’ossessione per la produttività
Tra
le ipotesi proposte per spiegare un declino di tale portata della
quota del lavoro sul reddito, alcuni economisti (Karabarbounis e
Neiman) prendono in considerazione il cambiamento tecnologico, ma
considerando solo un aspetto del fenomeno, ossia la diminuzione
relativa del prezzo dei mezzi di produzione relativamente a quello
dei beni di consumo; tale convenienza avrebbe costituito un fattore
decisivo per spostare le decisioni dei capitalisti verso
l’innovazione.
Ma,
e qui la contraddizione menzionata prima, anche se l’aumentata
produttività si manifesta in un aumento dei valori d’uso ottenuti
con le stesse ore di lavoro di prima, questo non determina un aumento
nel valore (di scambio) della massa di merci prodotte: il volume di
merci ottenuto sarà maggiore, ma non il loro valore. Quei settori
produttivi e quelle imprese che operano con il macchinario più
moderno e le tecnologie più avanzate si approprieranno di valore
sottratto ai capitalisti che non hanno innovato, dunque senza alcun
effetto sistemico che non sia l’aumento della tendenza alla
centralizzazione, da questo punto di vista. Approfondendo l’analisi,
si comprende come il risultato più importante delle innovazioni
tecnologiche riguarda gli effetti dell’aumento della produttività
sulla riduzione del tempo di lavoro necessario per produrre merci che
vedranno per questa via ridursi e non aumentare il proprio valore
unitario.
Questo
effetto vale per tutte le merci e particolarmente per quelle che
fanno parte del paniere (panierino) di merci che serve alla
riproduzione della forza-lavoro. Così, anche se i lavoratori
ricevono in cambio della vendita della propria forza-lavoro lo stesso
ammontare di valori d’uso o persino un ammmontare maggiore di
quello che ricevevano prima dell’aumento della produttività, il
tempo totale di lavoro necessario a produrre queste merci è
diminuito e con esso è diminuito il loro valore. Nella giornata
lavorativa di un operaio, il tempo di lavoro richiesto per produrre
l’equivalente del proprio salario diminuisce, mentre aumenta la
quota di lavoro superfluo, e dunque di plusvalore che i proprietari
delle imprese possono estrarre dal lavoro. Poiché è impossibile
allungare la durata della giornata lavorativa oltre determinati
limiti fisici, questo meccanismo diventa lo strumento fondamentale a
disposizione del capitalismo maturo per aumentare il plusvalore
estorto ai lavoratori ed è questa è la ragione della vera e propria
ossessione che la classe dei capitalisti nutre per la questione della
produttività.
D’altro
canto – e antiteticamente – l’introduzione di nuovi macchinari,
l’uso di tecnologie avanzate consente pure di aumentare l’intensità
del lavoro, che si riflette in una maggior tensione dell’ora di
lavoro e in una sua minore porosità, fattori a cui va aggiunta in
molti casi anche una estensione della durata dell’impegno
lavorativo, sia che la si consideri su base giornaliera che su base
annuale o addirittura sull’intero arco della vita lavorativa (l’età
pensionabile che si allunga). Il più intenso utilizzo della
forza-lavoro produce, per le stesse ore di lavoro, un maggiore
ammontare di valore e questo, fermo restando il valore della
forza-lavoro, consente al capitale di aumentare il pluslavoro e
dunque il plusvalore da appropriarsi. Poiché l’intensificazione
del lavoro causa pure un aumento della massa di merci prodotte,
diventa difficile distinguere empiricamente quanto del maggiore
valore d’uso è il risultato delle innovazioni tecnologiche e
quanto dipende dal più intenso utilizzo del lavoro.
Tenendo
a mente queste osservazioni, e al netto di altre questioni relative
alla sua misurazione, il confronto tra salari e produttività,
misurata come rapporto tra valore aggiunto e ore lavorate, ci può
fornire una indicazione indiretta di quanto sia aumentato nel corso
degli anni lo sfruttamento del lavoro senza che questo abbia
comportato la risoluzione della crisi. Nel frattempo, un
amministratore delegato (CEO) guadagna oggi 276 volte più di quanto
guadagna un tipico lavoratore dipendente (figura 10).
Figura 10 Rapporto tra i compensi degli amministratori delegati ed i salari dei lavoratori negli USA (1965-2015)
Note:
[1] Karl Marx, Lavoro salariato e capitale, (con le modifiche di F. Engels)
[2] Karl Marx, Il capitale, Libro I capitolo 23.
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