domenica 21 maggio 2017

Storia e oggettività in Nietzsche*- Vladimiro Giacché

*Da:  http://www.nilalienum.it/  Pubblicato su Hortus Musicus, luglio-settembre 2004, pp. 100-107



1. Storia e oggettività nella seconda Considerazione inattuale.

L'utilità e il danno della storia per la vita, pubblicata nel 1874, è la seconda delle Considerazioni inattuali di Nietzsche, ed è anche una delle sue opere più note e più lette. Tra le ragioni principali del fascino che quest'opera ha esercitato e tuttora esercita su un largo pubblico di lettori va sicuramente ricordata l'abilità di polemista del filosofo tedesco, che riesce a tenere su un tono molto teso e sostenuto tutta la prima parte dello scritto, imperniandola su variazioni del modulo retorico dell'antitesi; accanto a questo motivo di natura stilistica va collocato il bersaglio polemico dell'opera, ossia - come è detto nella Prefazione - la "corrente storica dell'epoca [historische Zeitrichtung]", l'attenzione (soprattutto tedesca) alla storia. Proprio questo obiettivo degli strali di Nietzsche, facilmente identificabile con lo “storicismo”, ha consentito di volta in volta a lettori avversi ad una delle vere o presunte varianti di questo (lo storicismo hegeliano, diltheyano, crociano, marxista...) di far proprio il discorso di Nietzsche, di utilizzarlo come arma per la propria battaglia: in altre parole, ha reso l'"inattualità" nietzscheana ripetutamente attuale. L'utilità e il danno della storia per la vita ha rappresentato quindi per generazioni di lettori una sorta di "canone dell'antistoricismo": e del resto proprio con questa definizione uno studioso in continuo (e simpatetico) dialogo con il pensiero del filosofo tedesco, Giorgio Colli, aprì alcune sue pagine di commento alla seconda considerazione inattuale.[2]

Ora, da un lato è difficile non concordare con il giudizio di Colli: lo scritto in questione è in effetti un attacco frontale allo storicismo, e più in generale agli effetti dell'uso della storia (ivi compresa, ovviamente, la storia della filosofia)[3] nella cultura moderna; d'altro lato, una delle ragioni di interesse di quest'opera di Nietzsche consiste nel suo dispiegare ed articolare alcuni temi centrali di un discorso metafisico sul mondo. Da questo punto di vista, i limiti di una lettura tutta 'antistoricistica' della seconda Considerazione inattuale sono evidenti. Oggetto dell'opera, in effetti, non è solo la storiografia: le implicazioni filosofiche del discorso di Nietzsche sono di assai più vasta portata, e lo stesso attacco alla storiografia può essere capito in base alla comprensione dello sfondo metafisico dello scritto. A questo va aggiunto che sul punto fondamentale - valore globalmente negativo della storia - Nietzsche non appare del tutto conseguente: talvolta impone un freno alla propria radicalità teorica, in altri casi mostra significative indecisioni o sfuma, nelle varie stesure dell'opera e nel corso di quella definitiva, contrasti dapprima presentati nella massima nettezza:[4] insomma, il percorso argomentativo di quest'opera si rivela in definitiva assai più articolato e problematico di quanto non sembri a prima vista. Ma passiamo senz’altro ad una lettura dello scritto nietzscheano.

1.1. L’attacco alla “malattia storica” 

Il fronte principale dell’attacco sferrato da Nietzsche con la Seconda considerazione inattuale è rappresentato dalla cultura storica, dalla formazione storica: ossia dall’educazione imperniata sull’insegnamento della storia e su un atteggiamento storicizzante. Lo afferma l’autore stesso, quando definisce il proprio scritto come "una protesta contro l'educazione storica della gioventù da parte dell'uomo moderno".[5]

La cultura storica è messa violentemente in discussione tanto nelle sue ragioni e motivazioni quanto nelle sue conseguenze. Per Nietzsche il bisogno della storia nasce dalla perdita del mito - usando termini hegeliani potremmo dire: nasce dalla perdita dell’“eticità naturale”, intesa come quell’insieme di credenze condivise che reggono la vita sociale senza poter essere poste in dubbio dall'individuo. La cultura storica nasce dall’insicurezza e dall’indebolimento della personalità determinati dalla perdita di quelle certezze immediate ed immediatamente condivise: è una personalità (un'epoca, una società) indebolita quella che ha bisogno di viaggiare in altre epoche e di andarsi a prendere lì altre vite a prestito. Il sapere storico, insomma, è un surrogato del mito ad uso e consumo di personalità indebolite.

Ma non è tutto: l'atteggiamento storicizzante (ad esempio nell'educazione) accelera questo processo e quindi aggrava la malattia dell'uomo moderno. La conoscenza storica conduce all'ironia, allo scetticismo ed alla negazione dell'azione, e questo perché instilla la convinzione della mancanza di senso della storia e conseguentemente la sfiducia nella sensatezza di ogni azione storica attuale: per questa via essa conduce nientemeno che alla distruzione della vita. Fermiamoci su quest'ultimo aspetto.

Nel primo capitolo dell'opera Nietzsche afferma testualmente: "la storia [Geschichte], pensata come pura scienza e divenuta sovrana, sarebbe una specie di chiusura e liquidazione della vita per l'umanità".[6] Come è facile vedere, qui entra in gioco un motivo che travalica la polemica contro il sapere storico: si tratta di un motivo filosofico-metafisico, ossia l'opposizione tra conoscenza e vita, tra coscienza e azione. È precisamente questa opposizione che è in gioco quando Nietzsche, ad esempio, afferma: "dove si trovano le azioni che l'uomo sarebbe capace di fare, senza essere prima entrato in quello strato vaporoso di ciò che è non storico?".[7] Oppure quando (nella stesura preparatoria del settimo capitolo della Inattuale)aveva scritto che "se qualcosa è compreso, allora l'istinto creativo è annientato".[8]

Viceversa, per vivere (ed essere felici) occorre saper “dimenticare”, occorre la "capacità di sentire in modo non storico", occorre "mettersi a sedere sulla soglia dell'attimo".[9] È appena il caso di notare che, in queste formulazioni, i termini "storia" e "storico" si caricano di significati assai impegnativi sul piano metafisico. Ad ogni modo, una cosa è certa: in queste formulazioni l'opposizione storia/vita appare radicale e insanabile. Va però detto che è lo stesso Nietzsche, poco più avanti, a sdrammatizzare questa opposizione, quando afferma: "c'è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l'essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo, o di una civiltà"; e poco oltre: "ciò che è non storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo o di una civiltà".[10]

Ma qual è il criterio che stabilisce quale "grado" di senso storico sia tollerabile? Su questo Nietzsche si esprime con grande chiarezza: la forza dell'individuo. "La storia [Geschichte] – egli afferma senza mezzi termini - viene sopportata solo dalle personalità forti, quelle deboli, essa le cancella completamente”; e questo perché la storia “imbroglia il sentimento e la sensazione, dove questi non sono abbastanza robusti da commisurare il passato a sé”.[11] Coerentemente con questi assunti, nelle ultime pagine dell'opera Nietzsche finisce per concepire il rifiuto della storia come una sorta di quarantena, in attesa che i contemporanei ritornino "abbastanza sani per coltivare di nuovo la storia e per servirsi del passato sotto il dominio della vita".[12]

La realtà che Nietzsche vede intorno a sé, però, al momento non è questa. I moderni non hanno forza creativa autonoma, non cavano nulla da sé, si limitano ad inseguire le epoche passate - ed è proprio questo che rende possibile la storia come scienza: caratteristici della modernità sono infatti il “sapere intorno alla cultura” [Wissen um die Bildung], la “culturalità” [Gebildetheit], anziché la cultura [Bildung].[13]

Potremmo dire che la cultura è “saputa”, cioè conosciuta esteriormente, ma non vissuta. In tal modo si produce una scissione tra interno ed esterno, si ha una mancata corrispondenza tra sapere e azione, tra ciò che si sa e ciò che si fa:[14] cosicché l’"interiorità" diventa "deserto accumulato delle cose apprese che non agiscono all'esterno", "erudizione che non diventa vita".[15] Ora, è proprio in relazione alla scissione tra interno ed esterno, tra sapere e azione (o, se vogliamo, tra teoria e prassi - ma si tratta di una coppia oppositiva che in questi termini è estranea al pensiero di Nietzsche), che caratterizzano la modernità, che l'“eccesso”, la “saturazione”, o – come forse sarebbe più corretto tradurre - l’“indigestione” di storia può risultare pericolosa per la vita.[16]

Nietzsche enumera ben cinque motivi di pericolosità: "[1] da un tale eccesso viene prodotto quel contrasto tra esterno e interno di cui si è finora parlato, e da esso la personalità viene indebolita; [2] per questo eccesso un'epoca cade nella presunzione di possedere la virtù più rara, la giustizia, in grado più alto di ogni altra epoca; [3] da questo eccesso gli istinti del popolo vengono turbati, e al singolo non meno che alla totalità viene impedito di maturare; [4] da questo eccesso viene istillata la credenza sempre dannosa nella vecchiaia dell'umanità, la credenza di essere frutti tardivi ed epigoni; [5] per questo eccesso un'epoca cade nel pericoloso stato d'animo dell'ironia su se stessa, e da esso in quello ancora più pericoloso del cinismo: ma in tale stato d'animo un'epoca va sempre più maturando verso una prassi furba ed egoistica, da cui le forze vitali vengono paralizzate e alfine distrutte".[17] Al di là di questa minuziosa elencazione tassonomica (ce ne sono diverse nella Seconda inattuale, e non rappresentano la parte migliore di questo pamphlet), in fondo il tema è uno solo: la "formazione storica" come scuola di passività. Come Nietzsche dirà più avanti nell’opera, "il senso storico rende passivi e retrospettivi i suoi servitori".[18]

1.2. Contro l’“oggettività” storica

È questo lo sfondo anche delle osservazioni di Nietzsche di natura più direttamente metodologica: quelle che riguardano il tema dell’“oggettività” storica, nei suoi due sensi di oggettività della ricostruzione storica e di obiettività dello storico.[19] La presunzione dell’oggettività è attaccata in entrambi questi sensi, ponendone in discussione i rispettivi presupposti: nel primo caso, l’illusione della conoscibilità dell'essenza della storia; nel secondo caso, l’illusione che l’assenza di interesse all’oggetto, l’“indifferenza” nei suoi confronti rappresenti il presupposto dell'onesta ricostruzione storica.[20] In entrambi i casi il bersaglio dei rilievi di Nietzsche è il grande storico tedesco Leopold von Ranke, che nelle sue riflessioni metodologiche sulla storia aveva proposto, come obiettivo dello storico, per l’appunto quello dell’“oggettività”.

Ora, per Nietzsche l'oggettività storica è, nella migliore delle ipotesi, un'“illusione”. Su questo tema dell'illusorietà dell'oggettività storica è utile spendere qualche parola, perché proprio a questo riguardo Nietzsche ci propone alcune delle notazioni più interessanti, sul piano del metodo storico, dell'intera Seconda inattuale. Secondo Nietzsche l’“oggettività” storica è illusoria per tre motivi.

Innanzitutto, la pretesa "oggettività" spesso consiste semplicemente nel "commisurare le opinioni e le azioni del passato alle opinioni correnti del momento":[21] abbiamo cioè una storia che valuta in base alle opinioni del proprio tempo, assunte acriticamente come valide in assoluto. Non di rado questo atteggiamento si trasforma in puro e semplice ossequio al potere: così è per Ranke, e così è anche per Hegel. Non per caso, in un frammento del 1873 Nietzsche accomuna culto dell’“obiettività” ed “Hegeleria” come fenomeni graditi ai governi, in quanto tali da rendere i loro adepti “docili” e “adattabili”.[22] Nietzsche conosceva le lezioni di filosofia della storia di Hegel: tale conoscenza è testimoniata da frammenti precedenti la seconda inattuale e può esser fatta risalire alle lezioni di Jacob Burckhardt.[23] Va però notato che qui, come altrove, il bersaglio diretto di Nietzsche non è tanto Hegel, quanto i suoi discepoli. E proprio nella feroce Considerazione inattuale dedicata ad un anziano esponente della cosiddetta “sinistra hegeliana” (David Strauss l’uomo di fede e lo scrittore), Nietzsche aveva ironizzato sul motto hegeliano "ciò che è razionale è reale", etichettandolo come una "formula per la divinizzazione della quotidianità" e per la "divinizzazione del successo".[24]

In secondo luogo, è "cattiva mitologia" pensare che il soggetto sia, per così dire, in grado di fotografare il reale come è realmente avvenuto: qui il bersaglio è ancora Ranke. Quest’ultimo, infatti, in polemica con le filosofie della storia di Fichte e di Hegel, aveva affermato che compito dello storico è "narrare i fatti così come sono avvenuti". È proprio prendendo partito contro questa impostazione del problema della ricostruzione storica che Nietzsche si scaglia contro la considerazione dell'"indifferenza" (assenza di interessi) nei confronti dell'oggetto storico intesa come presunta fonte di “oggettività”.[25] L’attacco di Nietzsche può essere accostato a quello condotto da Burckhardt contro il “falsamente oggettivo far valere tutti e tutto”.[26]

Infine, è illusorio pensare di trarre leggi universali dalla storia. E quando si tenta di farlo si rischia il ridicolo, adoperando formulazioni che oscillano "tra la tautologia e il controsenso". E anche a questo riguardo Nietzsche se la prende con Ranke, di cui – dopo averlo definito “un celebre virtuoso della storia” - cita con scherno questa formulazione: "è proprio così, ogni fare e agire umano è soggetto al corso delle cose, lieve e spesso sottratto all'osservazione, ma potente e irresistibile".[27] Insomma: dalla storia (a differenza di quanto avviene nelle scienze, in cui "gli universali sono la cosa più importante") noi non possiamo trarre leggi che non siano tautologie o banalità prive di interesse.

Cosa possiamo trarre, quindi, dalla storia? Secondo il Nietzsche della Seconda inattuale, possiamo e dobbiamo trarne dei simboli: la storia deve "vedere il suo significato non nei pensieri universali, come in una specie di fiore e di frutto"; il suo valore consiste invece nel "parafrasare con spirito un tema noto, forse ordinario, una melodia quotidiana, ...elevarla, ...innalzarla a simbolo universale, facendo così intuire nel tema originale tutto un mondo di significato profondo, di potenza e di bellezza".[28]

Non si tratta di una formulazione astratta: il modello reale di questo ideale di rappresentazione storica è per Nietzsche l’arte drammatica di Richard Wagner. Nella Considerazione inattuale a lui dedicata - la quarta ed ultima - Nietzsche dirà infatti che Wagner riesce a "introdurre nell'avvenimento particolare ciò che è tipico di intere epoche, giungendo così a una verità di rappresentazione, a cui lo storico non giunge mai".[29]

E già nella pagina citata della Seconda inattuale lo storico è esplicitamente accostato all'artista: per raggiungere quel risultato, dice infatti Nietzsche, occorre "soprattutto una grande potenza artistica". Qui è in opera l'"oggettività" che è propria della "forza artistica", quella dell'“occhio dell'artista”, capace di reinterpretare gli eventi dando loro un significato nuovo: "il vero storico deve avere la forza di coniare di nuovo ciò che è noto [Allbekannte] in qualcosa di mai sentito [Niegehörte] e di annunciare ciò che è universale così semplicemente e profondamente, da far dimenticare la profondità per la semplicità e la semplicità per la profondità".[30]

Ma a cosa serve questo “significato profondo” e nuovo, questo “inaudito” che lo storico-artista è in grado di renderci intuibile e visibile? Serve all'azione. Infatti, solo quando la storia "sopporta di essere trasformata in opera d'arte, cioè di diventare pura creazione d'arte", solo allora essa può "conservare istinti - o perfino suscitarli".[31]Il problema dell’azione è centrale: di fatto, Nietzsche finisce per stabilire un nesso strettissimo tra forza individuale e tensione all’azione da un lato, oggettività storica (l’oggettività storico/artistica, quella “vera” e non falsamente obiettiva) e giudizio storico dall’altro.

In altre parole, la forza interpretativa di uno storico, così come la sua idoneità a giudicare il passato, sono legati a ciò che egli esprime di significativo nei confronti del presente e del futuro. Nietzsche può così affermare: "solo con la massima forza del presente voi potete giudicare il passato", "soltanto colui che costruisce il futuro ha diritto a giudicare il passato".[32] Viceversa, è da contestare la giustizia storica esercitata dai dotti. A questo riguardo Nietzsche opera una vera e propria ricusazione della corte: "come giudici dovreste stare più in alto del giudicando; mentre siete solo venuti più tardi".[33]

1.3. Antidoti contro la “malattia storica”

Dal nesso così stabilito tra azione e sapere nasce per Nietzsche la necessità di trovare degli antidoti all’eccesso di storia: a quella storia, cioè, che è scuola di passività e di supina accettazione del presente. Questi antidoti sono di diverso tipo.

Abbiamo in primo luogo antidoti dell’eccesso di storia interni alla storia. Al modello della storia come scienza, Nietzsche contrappone altri generi di storia che sono a diverso titolo in rapporto con i bisogni della vita. In effetti, “a tre riguardi al vivente occorre la storia: essa gli occorre in quanto è attivo e ha aspirazioni, in quanto preserva e venera, in quanto soffre e ha bisogno di liberazione. A questi tre rapporti corrispondono tre specie di storia, in quanto sia permesso distinguere una specie di storia monumentale, una specie di storia antiquaria e una specie critica”.[34] Vediamo più da vicino questi antidoti storici alla “malattia storica”.

La storia “monumentale” consiste negli esempi illustri di grandi uomini del passato; questo genere di storia “occorre innanzitutto all’attivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel presente”.[35] Come ogni farmaco, anche questo ha però le sue controindicazioni. La storia monumentale può infatti essere dannosa se diviene appannaggio di "impotenti e inattivi": in tal caso, infatti, essa può venire utilizzata contro gli spiriti artistici forti del presente, contrapponendo ad essi i grandi del passato.[36]

“Della storia ha bisogno in secondo luogo colui che custodisce e venera – colui che granda indietro con fedeltà e amore, verso il luogo onde proviene, dove è divenuto; con questa fedeltà egli per così dire paga il debito di riconoscenza per la sua esistenza”. A questo genere di uomo serve la storia “antiquaria”. Anche questo genere di storia, però, può risultare dannoso: ciò accade allorché la storia antiquaria conduce ad una mummificazione del passato, a ritenerlo in quanto passato tutto parimenti venerabile, sino a manifestare un interesse spropositato per inezie.[37]

Infine, la storia “critica”. L’uomo ha molto spesso necessariamente bisogno anche di questo genere di storia. Infatti “egli deve avere, e di tempo in tempo impiegare, la forza di infrangere e di dissolvere un passato per poter vivere: egli ottiene ciò traendo quel passato innanzi a un tribunale, interrogandolo minuziosamente, e alla fine condannandolo”. In questo caso il rischio è rappresentato dal “tentativo di darsi per così dire a posteriori un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con quello da cui si deriva”: col rischio di inventarsi una seconda natura artificiale e fragile.[38]

Comunque sia, una cosa è chiara: questo triplice antidoto storico alla malattia storica può essere somministrato solo a pazienti (uomini e popoli) sufficientemente forti da evitare i rischi insiti in ogni sua versione. Per questo stesso motivo, altri sono i veri e propri "rimedi contro l'elemento storico" per l’uomo moderno.[39]

Il primo è rappresentato dall’alternativa "antistorica": cioè "la forza e l'arte di poter dimenticare, di rinchiudersi in un orizzonte limitato".[40] E poi abbiamo le alternative “sovrastoriche”: cioè arte e religione, che il Nietzsche della seconda inattuale considera – in opposizione speculare a Hegel – come superiori non soltanto alla storia, ma anche alla filosofia.[41] Tali potenze sovrastoriche “distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all'esistenza il carattere dell'eterno e dell'immutabile”.[42]

Ma perché per l’agire è così importante “distogliere lo sguardo dal divenire”? Perché il divenire ci racconta l'insensatezza della storia e dell'esistenza. Per questo motivo la verifica storica ha in definitiva sempre un carattere distruttivo e de-mitizzante: "alla verifica storica vengono ogni volta alla luce tante cose false, rozze, disumane, assurde e violente, che l'atmosfera d'illusione [Illusions-stimmung] piena di pietà, in cui soltanto può vivere ciò che vuol vivere, di necessità si disperde".[43] E ancora: "Se... le dottrine del divenire sovrano, della fluidità di tutte le idee, i tipi e le specie, della mancanza di ogni diversità cardinale tra l'uomo e l'animale - dottrine che io ritengo vere ma micidiali - saranno scagliate nel popolo ancora per una generazione nel furore di istruzione oggi abituale, nessuno si dovrà poi meravigliare se il popolo andrà in rovina...".[44]

In quest’ultima citazione si può notare ancora una volta il passaggio da un tema storico ad un tema più propriamente filosofico-metafisico. Ma vale la pena di soffermare la nostra attenzione soprattutto sull’inciso “vere ma micidiali”. In questo inciso si può infatti scorgere – in germe - buona parte dello sviluppo successivo del pensiero di Nietzsche, e il motivo profondo del futuro abbandono della “metafisica del genio” che impronta tanto La nascita della tragedia quanto le Considerazioni inattuali: la scelta – cioè – a favore della conoscenza, della "verità", del divenire ...e del senso storico.

2. Verità, divenire e storia dopo la seconda Considerazione inattuale.

La rottura con le posizioni espresse nella Seconda considerazione inattuale si consuma pochi anni dopo la sua pubblicazione, e viene alla luce con le opere del cosiddetto "periodo illuminista" di Nietzsche, a partire da Umano, troppo umano (1878).[45] Possiamo parlare per molti versi di un vero e proprio rovesciamento delle posizioni fino ad allora sostenute. Il Nietzsche di Umano, troppo umano abbandona la metafisica dell'artista, ed attacca senza mezzi termini arte, religione e metafisica.

Con la consueta onestà intellettuale, Nietzsche non cerca di minimizzare la svolta nel proprio pensiero, e in un frammento dell’estate del 1877 dichiara: "ai lettori dei miei scritti passati voglio espressamente dichiarare che io ho abbandonato le opinioni metafisico-artistiche che sostanzialmente li dominavano: sono opinioni gradevoli ma insostenibili. Quando uno si permette di parlare in pubblico, è di solito costretto a contraddirsi subito dopo, pubblicamente".[46]

È però importante precisare che parlare di “rovesciamento” di posizioni è corretto, ma soltanto dal punto di vista del giudizio di valore: già prima – infatti - il mondo immobile di arte, religione e metafisica era considerato da Nietzsche come una illusione, benché benefica ed anzi necessaria per la vita (si rilegga il passo della Seconda considerazione inattuale citato più sopra!).[47]

Quindi, se vogliamo, nel recupero della dimensione del divenire e della storicità non c’è niente di sorprendente. L'aspetto sorprendente delle nuove posizioni di Nietzsche è un altro: il pensatore tedesco adesso non solo afferma la realtà del divenire e della storia, ma del senso storico fa l'arma principale contro la triade di arte, religione e metafisica - ed in generale per la sua azione di critica filosofica.

2.1. Storia e divenire

Coerentemente con questo nuovo orientamento, a Schopenhauer viene ora rimproverata la negazione dello "sviluppo"[48] e l'assenza di "senso storico".[49]

Il nesso tra Philosophie e Historie è posto in opera da Nietzsche sotto due distinti profili: da un punto di vista che potremmo definire “decostruttivo” (della filosofia metafisica) e da un punto di vista costruttivo (cioè teso all’affermazione di una diversa prospettiva filosofica).

Da un punto di vista decostruttivo la “filosofia storica” [historische Philosophie] è programmaticamente contrapposta alla “filosofia metafisica” sin dal primo aforisma di Umano, troppo umano.

Gli usi della “filosofia storica” sono molteplici, ma in fondo tutti riconducibili all’utilizzo della storicità come grimaldello contro i pretesi “assoluti”. Nietzsche se ne infatti serve per storicizzare i concetti, contro le presunte verità eterne della metafisica, e contro il presunto valore conoscitivo di arte, religione e morale.[50] Ma anche per invocare la storicità dei bisogni su cui si basa la religione[51] e per affermare la storicità dell'arte. A quest’ultimo riguardo Nietzsche si spinge molto in là: sino a scorgere la genesi dell’arte in errori religiosi e filosofici, e a teorizzare il carattere di sopravvivenze di arte e metafisica – preconizzandone il necessario e definitivo tramonto.[52] Ancora: un’intera parte (la seconda) di Umano, troppo umano è dedicata all’origine dei sentimenti morali; e in quest’opera viene attaccata a più riprese anche la presunta "immediatezza" del risultato artistico.[53]

Infine, la “filosofia storica” è uno strumento per attaccare il nesso tra originario e verità, per sconfiggere la “glorificazione dell'origine” sul terreno dei concetti: "glorificare l'origine – scrive Nietzsche nella seconda parte di Umano, troppo umano II - è questo il germoglio metafisico che rispunta nella considerazione della storia [Historie] e che fa ogni volta credere che al principio delle cose si trovi il più perfetto e il più essenziale".[54] È, questa, una posizione alla quale Nietzsche resterà fedele, sino a sostenere (in un frammento del 1885) che i concetti più "universali" sono semplicemente i concetti più falsi e più antichi: "ciò che ci divide nel modo più radicale da ogni modo di pensare platonico o leibniziano è questo: noi non crediamo a concetti eterni, valori eterni, forme eterne, anime eterne; e la filosofia, in quanto è scienza e non legislazione, significa per noi soltanto la più ampia estensione del concetto di "Historie". Partendo dall'etimologia e dalla storia del linguaggio, noi consideriamo tutti i concetti come divenuti e molti come ancora in divenire; e precisamente in modo tale che i concetti più universali, come i più falsi, debbano anche essere i più antichi".[55] A tale proposito non sarà mai abbastanza sottolineato l’abisso che separa questa impostazione da tutte le filosofie dell’originario, ed in particolare da quella di Heidegger.

A questo riguardo si può quindi condividere l'opinione di Foucault, che parlava di un "uso rigorosamente anti­platonico" della storia.[56] L’interpretazione foucaultiana ha però il limite di vedere del Nietzsche "genealogico" solo questo aspetto decostruttivo. È invece possibile dimostrare che a questo aspetto – senz’altro centrale – Nietzsche affianca un utilizzo della storia in termini costruttivi.

L’uso costruttivo della “filosofia storica” è ben esemplificato da un frammento del giugno-luglio 1885: "la sola filosofia che ha per me ancora valore è la forma più generale della storia [Historie], il tentativo di descrivere in qualche modo e di abbreviare con segni il divenire eracliteo (di tradurlo per così dire, e di mummificarlo, in una specie di essere apparente [scheinbares Sein])".[57]

Questo frammento riguarda a ben vedere il nucleo stesso della filosofia di Nietzsche, ossia il suo tentativo di conquistare un’autonoma prospettiva filosofica: per Nietzsche la realtà è il divenire. Il divenire, da un punto di vista rigorosamente filosofico, non è scomponibile in cose, soggetti, né ammette la distinzione di causa ed effetto.[58] In ultima analisi, il divenire non è neppure predicabile: "il mondo 'che è' [seiende] è un'invenzione poetica; vi è soltanto un mondo che diviene [werdende]".[59] Vista da questo punto di vista, la stessa dottrina dell’"eterno ritorno" è una semplificazione, una mummificazione, un'entificazione arbitraria del divenire: "Imprimere al divenire il carattere dell'essere - è questa la suprema volontà di potenza (...) Che tutto ritorni, è l'estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell'essere: culmine della contemplazione".[60] È facile misurare la distanza di queste parole dalle posizioni espresse nel periodo della Seconda inattuale.

2.2. Senso storico e vita

In tanti cambiamenti di prospettiva, c'è però un punto su cui Nietzsche rimane fedele alla inattuale sulla storia: ed è il fatto che il "senso storico" viene comunque pensato come funzionale alla costruzione della vita presente, e la sua utilità subordinata alla forza dell'individuo. Tornano anche le metafore legate alla salute, che la seconda inattuale ci aveva reso familiari: così, ne La gaia scienza (1882) il “senso storico” è considerato "virtù e malattia" dell'epoca presente.[61] Il motivo di questa ambivalenza è presto detto: il senso storico è apertura all'altro (ad altre civiltà e ad altri tempi), ed è quindi profondamente ambiguo nei suoi effetti.

Per un verso, declinato come relativismo, è dannoso ed è sintomo di assenza di una propria identità.[62] Il “senso storico” così inteso è accostato da Nietzsche all'"esotismo geografico-climatico";[63] in questa stessa accezione, lo “storicismo” [Historismus] è ricompreso da Nietzsche, assieme all’"infiacchimento", alla "palpazione cosmopolita", al “tout comprendre”, tra i sintomi di "pessimismo della decadenza".[64] Il senso storico che Nietzsche rifiuta è quello inteso come guardaroba di identità da indossare per colui che ne è privo;[65] precisamente in questa direzione va l’invettiva di Zarathustra contro gli uomini del presente: "nei vostri spiriti cianciano l'una contro l'altra tutte le epoche".[66]

C’è però un’altra accezione – potremmo dire: un altro uso – del senso storico che invece è utile ed anzi essenziale: si tratta del senso storico inteso come ampliamento di prospettiva. La nostra, afferma Nietzsche in Umano, troppo umano, è "l'età del paragone"; e in un frammento del 1877 è ancora più esplicito: “il privilegio della nostra civiltà è il confronto. Noi possiamo raccogliere i più differenti prodotti delle civiltà antiche e confrontarne il valore; far bene tutto ciò è il nostro compito. La nostra forza deve rivelarsi nel modo come noi scegliamo; noi dobbiamo essere i giudici”.[67] E più tardi, ne La Gaia scienza: la capacità di "sentire la storia degli uomini come la sua propria storia" senza perdere la propria unità, può essere base della massima felicità, e addirittura costituire la base per l’“umanità” [Menschlichkeit] dell'avvenire. [68] Del resto, talora vivere nel presente non è sufficiente: in tali circostanze, ci sono uomini che possono trovare conforto e rifugio in altre civiltà, in altri "climi spirituali" – e in tal senso la Historie può servire, se non da cura vera e propria, almeno da “dottrina dei rimedi” [Heilmittellehre]. [69]

Il “senso storico” è la capacità di concepire l'individuale, di intendere totalità di vita lontane da noi, o – come Nietzsche scriverà in Al di là del bene e del male – di "indovinare rapidamente l'ordine gerarchico degli apprezzamenti di valore, secondo i quali un popolo, una società, un uomo hanno vissuto, l''istinto divinatorio' in ordine alle connessioni di questi apprezzamenti, alla relazione tra l'autorità dei valori e l'autorità delle forze agenti".[70] Per ciò stesso, il senso storico è anche un mezzo per la conoscenza di sé: "L'immediata osservazione di sé è ben lungi dal bastare per conoscere se stessi: abbiamo bisogno della storia [Geschichte], giacché il passato continua a scorrere in noi in cento onde; noi stessi infatti non siamo se non ciò che in ogni attimo sentiamo di questo fluire".[71]

Infine, i vantaggi dell'esercizio del senso storico sono legati al nucleo stesso del “prospettivismo” di Nietzsche. “L'esistenza ha un carattere prospettico”, e questo restituisce al mondo la sua infinità: "il mondo è divenuto per noi ancora una volta 'infinito': in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite".[72] Credo che quest’ultimo passo rappresenti anche la migliore introduzione agli ulteriori sviluppi delle riflessioni nietzscheane sul metodo storico.

2.3. La metodologia della storia

Nietzsche nega in radice l’oggettività della conoscenza storica (come di ogni altra conoscenza).[73] Nega validità alla spiegazione storica, che egli perlopiù intende come sinonimo di spiegazione finalistica. Sono molto significative, in proposito, le accuse mosse al provvidenzialismo di Leopold von Ranke, al quale rimprovera l’“abbellimento” della storia ed il rifiuto di ammettere ogni casualità ed insensatezza; in tal modo Ranke, e gli altri storici contemporanei, diventano dei"modesti avvocati dei fatti".[74] Si tratta in fondo della medesima obiezione mossa ad Hegel, il cui stesso successo è ricondotto alla sua "fatalistica sottomissione al reale".[75]

Secondo Nietzsche ciò che ha storia non soltanto non può essere spiegato, ma non se ne può neppure dare una definizione. La formulazione più chiara a tale riguardo ce la offre la Genealogia della morale a proposito dell’origine della “pena”. Della pena, ci dice il filosofo tedesco, è impossibile dire esattamente il "perché" [warum], ossia la causa; e sùbito aggiunge: "tutte le nozioni, in cui si condensa semioticamente un intero processo, si sottraggono alla definizione [Definition]; definibile è soltanto ciò che non ha storia".[76]

Se ciò che ha storia non può essere né definito, né spiegato, esso può però essere descritto. Nietzsche contrappone alla spiegazione la descrizione. Del resto molte presunte “spiegazioni” altro non sono che descrizioni sotto mentite spoglie: "spiegazione significa mostrare sempre più chiaramente la successione: niente di più"; "il succedersi” stesso degli eventi “è una descrizione": per questo motivo il concetto stesso di “sviluppo storico” rappresenta un “fraintendimento”.[77] È in contrapposizione a questo “fraintendimento” che Nietzsche articola il proprio programma di lavoro: "descrizione, non spiegazione"; e subito precisa: "morfologia come descrizione della successione".[78]

Leggendo queste formulazioni si sarebbe tentati di scorgere in Nietzsche niente più che uno storicismo estremo, per così dire “invertebrato” – ed effettivamente in questa direzione lo hanno interpretato molti pensatori “post-moderni”, i quali ne hanno fatto un capostipite della loro riduzione della storia a pura e semplice “narrazione”. Le cose, però, non stanno in questo modo. E l’idea stessa della storia come puro e semplice flusso è contraddetta da un principio metodologico che gioca un ruolo molto importante nel pensiero nietzscheano: mi riferisco alla distinzione tra genesi e funzione, tra genesi e struttura. Questo principio è di importanza centrale per la Genealogia della morale. Nietzsche lo menziona allorché sostiene che è necessario dissociare origine e scopo della pena. E subito ne generalizza la portata, affermando che, per ogni "specie di Historie", non esiste principio più importante di ciò, che "la causa genetica [Ursache der Entstehung] di una cosa e la sua finale utilità, la sua utilizzazione e inserimento in un sistema di fini sono fatti toto coelo disgiunti".[79] Detto in altri termini: è perfettamente possibile che di un uso nato per una qualche utilità si appropri una nuova "volontà di potenza" (ossia un nuovo sistema di valori dominante) che lo trasforma ai suoi fini, differenti dall'utilità originaria; ed è altresì possibile che esso evolva, per dinamica interna, in maniera contraddittoria rispetto ai suoi stessi presupposti.

Le implicazioni ed applicazioni di questo principio sono di capitale importanza per il pensiero dell’ultimo Nietzsche.

In primo luogo, è questo lo strumento teorico che permette a Nietzsche di concepire lo sganciamento della filosofia dall'"ideale ascetico" che l'ha generata,[80] e di analizzare in tal senso l’evoluzione del rapporto tra l’ “ideale ascetico” (la morale) e la “volontà di verità”. Lo schema di questo processo è il seguente: [1] ideale ascetico Þ [2] volontà di verità Þ [3] distruzione della fede in Dio Þ [4] autocoscienza della volontà di verità Þ [5] crollo della morale (ossia dell’ideale ascetico stesso).

Il passaggio dall’[1] ideale ascetico alla [3] distruzione della fede in Dio, per mezzo della [2] volontà di verità, è descritto da Nietzsche nella stessa Genealogia della morale, dove si legge che l’ateismo altro non è se non la “catastrofe… di una bimillenaria costrizione educativa alla verità, che finisce per proibirsi la menzogna della fede in Dio”. È insomma la stessa moralità cristiana, ed il suo culto della veracità, ad aver “trionfato sul Dio cristiano”.[81] Secondo questa interpretazione, “il senso della veridicità, altamente sviluppato dal cristianesimo, prova disgusto per la falsità e mendacità di tutta l’interpretazione cristiana del mondo e della storia”.[82] Il rischio, a questo punto, è il dispiegarsi di un “nichilismo” distruttore, nel “rimbalzo dal ‘Dio è la verità’ alla fanatica convinzione secondo cui ‘tutto è falso’”.[83] Ed è precisamente qui che Nietzsche individua il proprio ruolo storico: nell’interpretare come si è visto il percorso da [1] a [3], egli contribuisce alla [4] “progressiva autocoscienza della volontà di verità” e quindi dà inizio al [5] crollo della morale in quanto tale (un processo storico che a suo avviso si dispiegherà pienamente nei secoli successivi).[84] L’importanza degli ultimi due passaggi consiste nel sostituire, alla disperazione che consegue alla “morte di Dio”, la convinzione che ogni interpretazione del mondo (e quindi anche l’interpretazione morale-cristiana del mondo) è appunto niente più che un’interpretazione. Però, questa l’analisi di Nietzsche, soltanto gli uomini più forti sapranno resistere a questa concezione: i “falliti”, viceversa, non godranno più della consolazione offerta dalla morale e dalla religione. La concezione appena descritta presta il fianco a molte critiche, nel cui merito non si può entrare in questa sede. Il punto importante da notare, nel nostro contesto, è il fatto che l’architrave di tutta la costruzione nietzscheana è proprio la distinzione tra genesi e funzione: è solo in questo modo, infatti, che si può dar conto di come la volontà di verità si rivolga contro il suo presupposto storico.

Ma l’importanza della distinzione tra genesi e funzione, tra genesi e struttura, nel tardo pensiero di Nietzsche non si esaurisce qui. Essa consente a Nietzsche anche di superare l'identità, tipica degli scritti del cosiddetto “periodo illuministico”, tra esibizione della genesi e confutazione. A questo proposito, le differenze di impostazione che sussistono tra la Genealogia della morale (ma anche i frammenti degli ultimi anni) e le opere in cui Nietzsche aveva fatto un uso immediatamente distruttivo della Historie (principalmente Umano, troppo umano I e II ed Aurora) sono molto rilevanti.

Negli scritti del “periodo illuministico”, ad esempio, la scoperta dell’“irrazionalità” dell'origine di un uso (ad esempio di una norma) valeva immediatamente come sua “confutazione”. Esemplare, al riguardo, il primo aforisma di Aurora, di carattere quasi programmatico: "Razionalità postuma. Tutte le cose che vivono a lungo, s'impregnano gradualmente di ragione, a tal punto che la loro provenienza dall'irrazionale diventa perciò improbabile [unwahrscheinlich]. Non risuonano quasi tutte paradossali ed empie, per il sentimento, le storie precise di una genesi [genaue Geschichte der Entstehung]? In fondo il buono storico non contraddice continuamente?". Ma è ancora più chiaro il § 95 della stessa opera: "La confutazione storica come definitiva. Un tempo si cercava di dimostrare che Dio non esiste, - oggi si mostra come ha potuto avere origine la fede nell'esistenza di un Dio, e per quale tramite questa fede ha avuto il suo peso e la sua importanza: in tal modo una controdimostrazione dell'esistenza di Dio diventa superflua".

Nessuna critica di questa concezione eguaglia quella offerta dallo stesso Nietzsche in un frammento del 1885-6: "il problema dell'origine delle nostre valutazioni e delle nostre tavole di beni non coincide affatto con la loro critica, come tanto spesso si crede, sebbene certamente la scoperta di una pudenda origo comporti per il sentimento una diminuzione del valore della cosa così sorta, preparando contro quest'ultima una disposizione e un atteggiamento critici".[85]

La riaffermazione della distinzione di genesi e funzione, di genesi e struttura, è più volte ripetuta nei frammenti postumi. Ad esempio, leggiamo che "la storia della nascita [Geschichte der Entstehung] non spiega le proprietà [Eigenschaften]" di un fenomeno o di un avvenimento storico.[86] E ancora: “per quanto si possa aver capito le condizioni in base alle quali una cosa sorge, non per questo si comprende la cosa stessa: ciò sia detto all’orecchio dei signori storici”.[87]

Queste annotazioni di metodo, in cui è rifiutata non soltanto la confutazione genetica, ma anche già la sola spiegazione basata sulla genesi, rappresentano la base metodologica della Genealogia della morale.In quest’opera il filosofo tedesco svolge un'analisi storica originale e rigorosa di alcuni concetti chiave della morale("buono e malvagio [Böse]", "buono e cattivo [Schlecht]", "colpa", "cattiva coscienza")e sferra su questa base un attacco agli "ideali ascetici" (a questo risultato dell’opera abbiamo già fatto riferimento più sopra).

Sin dal primo dei tre saggi di cui si compone il suo scritto, Nietzsche insiste sulla radicale dissociazione di genesi e funzione. Questa dissociazione è dapprima giocata contro i genealogisti inglesi della morale, che (privi come sono di “spirito storico”) schiacciano la genesi dei concetti morali sull'"utilità" (attuale, ma da loro assunta come assoluta) di determinati comportamenti. Nietzsche mostra l’inconsistenza di queste teorie, e lo fa servendosi dell’etimologia dei termini-chiave della morale: a questo proposito, in una nota posta alla fine del primo saggio, egli riafferma l’importanza della "scienza linguistica", e in particolare dell'"etimologia" (assieme a fisiologia e psicologia) per la "storia dell'evoluzione [Entwicklungsgeschichte] dei concetti morali". Qui varrà la pena di ricordare la differenza tra l’uso nietzscheano dell’etimologia e quello che ne farà Heidegger: per quest’ultimo l’etimologia rappresenta la ricerca di un originario assunto come il vero, come il canone al quale tornare, recuperandone la verità rispetto alle degenerazioni successive; per Nietzsche l’etimologia è invece strumento della genealogia, ossia di una ricostruzione del percorso, fatto di evoluzioni e di fratture, nel significato di determinate pratiche sociali: e questo è a sua volta funzionale ad una reinterpretazione di queste pratiche tale da dischiudere nuovi orizzonti all’agire umano.

3. Conclusione

È importante fermarsi sulla non linearità del percorso delle pratiche sociali ricostruite da Nietzsche nella Genealogia della morale. Possiamo partire proprio dalla dissociazione di genesi ed utilità: "per bene che si sia compresa l'utilità di un qualsiasi organo fisiologico (o anche di una istituzione giuridica, di un costume sociale, di un uso politico, di una determinata forma nelle arti o nel culto religioso), non si è perciò stesso ancora compreso nulla relativamente alla sua origine." E non si è compreso nulla perché, ad esempio in un “costume sociale”, nel corso del tempo si producono mutamenti di scopo che nascono da "interpretazioni e riassestamenti" imposti dall’affermazione di un sistema di valori più forte (e non di rado imposto con la forza) che si afferma a scapito di forze più deboli. Nietzsche considera questo un "capitale punto di vista della metodologia storica", in quanto consente di leggere il percorso storico escludendo tanto la "assoluta casualità", la "meccanicistica assurdità di ogni avvenimento", quanto l’“adattamento” finalistico dei costumi a “circostanze esteriori” propugnato da Spencer. In ogni caso, la concezione di Nietzsche esclude ogni identificazione dello “sviluppo” con il “progresso” più o meno lineare verso uno scopo.

Si tratta di una concezione che pone al centro della sua attenzione il conflitto tra potenze. Il punto, però, è che questo conflitto di interpretazioni, di valori, non è soltanto cosa del passato: esso è, al contrario, la vera sfida che il presente muove al filosofo. A tale riguardo è significativo che, proprio al momento di congedarsi definitivamente dall’“ideale ascetico”, Nietzsche provi la necessità di rendere omaggio ad esso. Bisogna mostrare riconoscenza verso i rovesciamenti delle prospettive e delle valutazioni consuete propri della filosofia guidata dall'ideale ascetico: troviamo infatti qui una "propedeutica dell'intelletto alla sua futura 'obiettività' - intesa quest'ultima non come 'intuizione disinteressata' (che come tale è un non-concetto e un controsenso), bensì come la facoltà di avere in proprio potere, di scombinare e combinare il nostro pro e contro: cosicché si sa utilizzare, per la conoscenza, proprio la diversità delle prospettive e delle interpretazioni affettive... Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un 'conoscere' prospettico; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro 'concetto' di essa, la nostra 'obiettività'".[88]

Al culmine del percorso filosofico di Nietzsche, ricompare quindi l’“oggettività”. Non è più la falsa “oggettività” degli storici “disinteressati” che Nietzsche aveva attaccato nella seconda inattuale; non è certamente la “verità sovrastorica” comunicata dalla filosofia di Schopenhauer e dall’arte di Wagner; e – come abbiamo visto sopra – non può essere neppure l’“oggettività” kantianamente proveniente dall’“intuizione disinteressata”. È allora, forse, un’“oggettività” coincidente con la somma di differenti punti di vista, come alcuni seguaci contemporanei di Nietzsche amano credere? Non è neppure questo: l’“oggettività” a cui mira Nietzsche è al contrario la capacità di avere questi diversi punti di vista dentro di sé, di governarli e di sceglierli secondo una forte prospettiva individuale.

Quello che Nietzsche in definitiva ci propone, più che un ideale di conoscenza, è un ideale di individuo, di soggettività. Abbastanza curiosamente, si tratta di un ideale che somiglia molto da vicino a quello offerto da un filosofo tedesco che Nietzsche conosceva poco e amava ancora meno: un filosofo che aveva definito la soggettività come la capacità di sostenere la contraddizione e di mantenere la propria identità nella contraddizione. Secondo questo pensatore – noto per l’astrusità del suo linguaggio – lo “spirito” è “la contraddizione tornata nella sua assoluta unità, cioè nel concetto, dove le differenze non si devono più pensare come a sé stanti, ma solo come momenti particolari, interni al soggetto, della individualità indivisa”; e “il pensare speculativo consiste solo in ciò, che il pensiero tiene ferma la contraddizione e nella contraddizione se stesso”.[89]

Note

[1] Pubblicato su Hortus Musicus, luglio-settembre 2004, pp. 100-107

[2] G. Colli, “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, 1974; in G. Colli, Scritti su Nietzsche, Milano, Adelphi, 1980, p. 49.

[3] Questo aspetto dell'attività storiografica non è però trattato direttamente in quest'opera, ma in altri scritti nietzscheani dello stesso periodo: in Schopenhauer come educatore (1874) e già nella quinta Conferenza sull’avvenire delle nostre scuole (1872) (vedi F. Nietzsche, Opere, vol. 3, tomo 2, p. 195).

[4] Sulla presenza, nella stesura definitiva della seconda Considerazione inattuale, di maggiori differenziazioni rispetto allo schema originario dell'opera cfr. J. Salaquarda, “Studien zur Zweiten Unzeitgemäßen Betrachtung”, in Nietzsche-Studien, 1984 (13), p. 30; l'articolo in questione offre senza dubbio la migliore analisi oggi disponibile della storia interna del testo nietzscheano.

[5] F. Nietzsche, “Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali, II”, § 10;tr. it. di S. Giamettain Opere, vol. 3, tomo 1, p. 345 [d’ora in avanti citato soltanto con i numeri di capitolo e di pagina].

[6] Ivi, p. 271.

[7] Ivi, p. 267.

[8] Ivi, p. 529. L'opposizione conoscenza/vita resterà in Nietzsche anche negli scritti del cosiddetto “periodo illuministico”, successivi alla seconda inattuale: ad es., l’affermazione secondo cui "l'albero della conoscenza non può essere scambiato con l'albero della vita" chiude il § 1 de Il viandante e la sua ombra, seconda parte di Umano, troppo umano II (Opere, vol. 4, tomo 3, p. 135).

[9] Sull’utilità e il danno…, § 1, p. 264.

[10] Ibidem ; ivi, p. 266. Vedi anche la stesura preparatoria del passo precedente: “Memoria e dimenticanza sono entrambe necessarie per la salute, entrambe lo sono per la salute di un popolo, di una cultura” (p. 526). Già prima, d'altronde, confermando peraltro la portata metafisica del suo discorso: "per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità" (264; corsivi miei).

[11] Ivi, § 5, p. 299.

[12] Ivi, § 10, p. 353.

[13] Ivi, § 4, pp. 288 e 290.

[14] Su questo si può vedere p. 288, ma più in generale tutto il § 4 della Inattuale.

[15] § 5, p. 296.

[16] Il tedesco Uebersättigung indica infatti, letteralmente, il “rimpinzarsi” ed il senso di saturazione e malessere che ne consegue (§ 5, p. 295).

[17] Ibidem.

[18] Ivi, § 8, p. 323.

[19] Questi due significati sono chiaramente distinguibili nella trattazione nietzscheana. Va però precisato che in tedesco il termine per “oggettività” e “obiettività” è uno solo: Objektivität.

[20] § 6, p. 310.

[21] Ivi, p. 306.

[22] F. Nietzsche, Sämtliche Werke, Kritische Studienausgabe, vol. 7: Nachgelassene Fragmente 1869-1874, DTV-De Gruyter, München-Berlin/New York, 1980, p. 652 (frammento 29 [57] dell’estate-autunno 1873). Questa edizione delle opere sarà d’ora in avanti citata come NW e seguita dai numeri di volume e di pagina.

[23] Per la conoscenza della filosofia della storia di Hegel da parte di Nietzsche cfr. frammenti 29 [51] e seguenti (NW 7.646 sgg.), che sono chiaramente lavori preparatori della Seconda inattuale, § 8, p. 327. Jacob Burckhardt tenne le sue lezioni sullo studio della storia negli anni accademici 1868/9, 1870/1, 1872/3. Le lezioni burckhardtiane furono frequentate da Nietzsche.

[24] F. Nietzsche, “David Strauss l’uomo di fede e lo scrittore. Considerazioni inattuali, I”, §§ 2 e 7;tr. it. di S. Giamettain Opere, vol. 3, tomo 1, pp. 178 e 208.

[25] F. Nietzsche, “Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali, II”, § 6, p. 310.

[26] Cit. in D. Cantimori, “Lettere del Burckhardt”, in Storici e storia, Torino, Einaudi, 1971, p. 117.

[27] Ivi, § 6, p. 308.

[28] Ivi, § 6, p. 309 (corsivi miei).

[29] F. Nietzsche, “Wagner a Bayreuth. Considerazioni inattuali, IV”, § 3;tr. it. di S. Giamettain Opere, vol. 4, tomo 1, p. 15.

[30] F. Nietzsche, “Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali, II”, § 6, pp. 309, 310, 311.

[31] Ivi, § 7, p. 314. Qui si può notare la differenza di Nietzsche rispetto a Schopenhauer: questi aveva contrapposto poesia a storia, sostenendo che l'essenziale sul genere umano ce lo dicono i poeti e non gli storici; Nietzsche invece, potremmo dire, "riduce la storia sotto il concetto generale di arte", non negandone il valore conoscitivo, ma ponendola come funzionale all'azione (prospettiva, questa, del tutto estranea a Schopenhauer).

[32] Ivi, § 6, pp. 311 e 312.

[33] Ivi, § 6, p. 311. Contro i dotti moderni come giudici di tutte le civiltà di tutti i tempi Nietzsche si era scagliato con veemenza nella già citata quinta Conferenza sull’avvenire delle nostre scuole (vedi F. Nietzsche, Opere, vol. 3, tomo 2, p. 191).

[34] “Sull’utilità e il danno…”, cit., § 2, p. 272.

[35] Ibidem.

[36] Ivi, § 2, pp. 277 e 278.

[37] Ivi, § 3, pp. 280 e 282 sg.

[38] Ivi, § 3, pp. 285-286.

[39] Ivi, § 10, p. 351.

[40] Ibidem. Cfr. anche la stesura preparatoria, riportata a p. 531.

[41] Ivi, § 5, p. 298; § 8, p. 327. A tali potenze “sovrastoriche” Nietzsche aggiungerà successivamente anche la metafisica di Schopenhauer, alla quale è dedicata la terza Considerazione inattuale, che reca il titolo di Schopenhauer come educatore (cfr. frammento dell’estate del 1878: 30 [166]).

[42] Ivi, § 10, p. 351.

[43] Ivi, § 7, p. 313.

[44] Ivi, § 9, p. 339 (corsivo mio). Secondo quanto Nietzsche stesso precisa qualche pagina oltre, il popolo “andrà in rovina” perché diverrà consapevole del fatto che l'egoismo è motore della storia (p. 342).

[45] Peraltro, come oggi sappiamo grazie all’edizione critica delle opere di Nietzsche ed alle ricerche di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, già durante la stesura della quarta Considerazione inattuale, ossia Wagner a Bayreuth, il filosofo tedesco aveva cominciato a modificare in misura significativa le sue posizioni.

[46] Frammento postumo dell’estate 1877: 24 [75]; tr. it. di M. Montinari in F. Nietzsche, Opere, vol. 4, tomo 2, p. 459. “Gradevoli ma insostenibili” è espressione speculare rispetto a “vere ma micidiali”.

[47] In questo senso si esprime Nietzsche stesso in un frammento della primavera-estate del 1878, in cui parla della seconda inattuale come di un "tentativo di chiudere gli occhi di fronte alla conoscenza della storia" (fr. 27 [34]: tr. it. di M. Montinari in F. Nietzsche, Opere, vol. 4, tomo 3, p. 275 [il 'di fronte' è caduto, forse per un refuso, nella traduzione italiana]).

[48] F. Nietzsche, Umano, troppo umano (Opere, vol. 4, tomo 2, § 238, p. 172). Per contro, Nietzsche giungerà ad esaltare l’importanza di Hegel (senza cui “non ci sarebbe neppure Darwin”), ravvisandola nella priorità attribuita al “divenire” ed allo “sviluppo” rispetto all’“essere” (La gaia scienza, § 357).

[49] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, § 204; cfr. il frammento postumo 2 [188] del 1885-6, in Opere, vol. 8, tomo 1, p. 146; contro la mancanza di senso storico nei filosofi si veda ancora Il crepuscolo degli idoli, “La ragione nella filosofia”, § 1.

[50] Vedi Umano, troppo umano, §§ 1, 2, e Umano, troppo umano II, § 10; Umano, troppo umano, § 10.

[51] Umano, troppo umano, § 27.

[52] Umano, troppo umano, §§ 153, 220, 222, 223, 239.

[53] Umano, troppo umano, §§ 145, 155, 156, 162.

[54] Umano, troppo umano II, parte seconda: “Il viandante e la sua ombra”, § 3.

[55] Frammento del giugno-luglio 1885: 38 [14], in Opere, vol. 7, tomo 3, pp. 295-7; vedi anche il frammento dell’aprile-giugno 1885: 34 [73], ivi, p. 121.

[56] M. Foucault, “Nietzsche, la genealogia, la storia”, 1971; tr. it. in Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, p. 49, cfr. pp. 41-2.

[57] Frammento del giugno-luglio 1885: 36 [27], in Opere , vol. 7, tomo 3, p. 240.

[58] La gaia scienza, § 112.

[59] Frammento della primavera 1884: 25[116], in Opere , vol. 7, tomo 2, p. 36.

[60] Frammento di fine 1886-primavera 1887: 7 [54], in Opere , vol. 8, tomo 1, p. 297.

[61] La gaia scienza, § 337; cfr., nella sua ambiguità, Al di là del bene e del male, § 224.

[62] Frammento della primavera 1884: 25 [163], in Opere , vol. 7, tomo 2, p. 47-48.

[63] Frammento dell’aprile-giugno 1885: 34 [180], in Opere , vol. 7, tomo 3, p. 159.

[64] Frammento dell’autunno 1887: 9 [126], in Opere , vol. 8, tomo 2, p. 65. Sul “senso storico” come “servilismo di fronte al gusto altrui” vedi Ecce homo, "Al di là del bene e del male", § 2.

[65] Frammento del l’inverno 1884-5: 31 [10], in Opere , vol. 7, tomo 3, p. 36; Al di là del bene e del male, § 223.

[66] Così parlò Zarathustra, parte II, "Sul paese dell'istruzione", in Opere, vol. 6, tomo 1, p. 145.

[67] Vedi rispettivamente Umano, troppo umano, § 23; frammento dell’estate 1877: 24 [46], in Opere, vol. 4, tomo 2, pp. 447-8 (il frammento corrisponde al 23 [85] dell’edizione tedesca).

[68] La gaia scienza, § 337. Questo aforisma attrasse, non per caso, l'attenzione di Burckhardt .

[69] Umano, troppo umano II, parte seconda: “Il viandante e la sua ombra”, § 188.

[70] Vedi rispettivamente Umano, troppo umano, § 274; Al di là del bene e del male, § 224. Ma anche il frammento del 1884-5: 35 [2], in Opere , vol. 7, tomo 3, p. 187; ed il frammento dell’estate-autunno 1884: 26 [424], in Opere , vol. 7, tomo 2, pp. 241-2, che contiene un esplicito riconoscimento a Hyppolite Taine a proposito della “gerarchia dei fatti”.

[71] Umano, troppo umano II, parte prima: “Opinioni e sentenze diverse”, § 223.

[72] La gaia scienza, § 374.

[73] Vedi Aurora, § 307; Genealogia della morale, Terza dissertazione, § 26, nonché i diversi luoghi contro Ranke (§ 19 e passim).

[74] Frammenti dell’agosto -settembre 1885: 40 [62] e 40 [67], in Opere , vol. 7, tomo 3, pp. 348, 354.

[75] Frammento dell’autunno1887: 9 [178], in Opere , vol. 8, tomo 2, p. 93.

[76] Genealogia della morale, Seconda dissertazione, § 13.

[77] Vedi i frammenti del 1885: 35 [52] e 43 [2], in Opere , vol. 7, tomo 3, pp. 213, 394.

[78] Frammento dell’estate-autunno 1884: 27 [67], in Opere , vol. 7, tomo 2, p. 270.

[79] Genealogia della morale, Seconda dissertazione, § 12.

[80] Ivi, Terza dissertazione, § 10.

[81] Ivi, § 27.

[82] Frammento dell’1885-6: 2 [127], in Opere , vol. 8, tomo 1, p. 113; e vedi anche il punto 2 del frammento del 1887 sul nichilismo europeo: 5 [71], ivi, p. 200: “tra le forze promosse dalla morale c’era la veridicità: questa si rivolge infine contro la morale”.

[83] Vedi ancòra il già citato frammento 2 [127].

[84] Genealogia della morale, Terza dissertazione, § 27.

[85] Frammento del 1885-1886: 2 [189], in Opere , vol. 8, tomo 1, p. 146; poi ne La gaia scienza, § 345: il problema dell'origine delle valutazioni morali non coincide con la loro critica; cfr. il frammento dell’1882-3: 4 [90]: "mostrare un errore nella sua genesi non è un argomento contro la morale. La morale è una condizione di vita"; nella stessa direzione, ma più generico, il frammento del 1884: 26 [329], in Opere , vol. 7, tomo 2, p. 215.

[86] Frammento del 1885: 34 [55], tr. it. di S. Giametta in Opere , vol. 7, tomo 3, p. 116 (il traduttore rende opinabilmente “Eigenschaften” con “qualità” anziché con “proprietà”). Cfr. anche il frammento 1885: 34 [122], ivi, pp. 139-140.

[87] Frammento del 1885-1886: 2 [132], in Opere , vol. 8, tomo 1, p. 120.

[88] Genealogia della morale, Terza dissertazione, § 12.

[89] G.W.F. Hegel, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni riv. da C. Cesa, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 558 e 492.

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