*Da: http://casadellacultura.it/ Qui il link alla rivista completa: http://casadellacultura.it/viaborgogna3/viaborgogna3-n5-filosofia-e-spazio-pubblico.pdf
**Fulvio_Papi. Filosofo, politico,scrittore e giornalista
italiano
Cerchiamo di mettere in
luce, riassumendoli, alcuni temi centrali della “Filosofia del diritto” di Hegel
scritta nel 1820 quando
aveva la cattedra di filosofia all’Università di Berlino.
Gli studiosi di Hegel hanno
spesso considerato i famosi scritti jenensi di Hegel dal 1801 al 1806 come
precedenti importanti della “Fenomenologia dello
Spirito” del 1808 come
della “Filosofia del diritto”,
anzi questi scritti giovanili
mostrano spesso una ricchezza tematica più ampia
delle successive opere a
stampa.
Inoltrarci in questa ricchissima selva filosofica vorrebbe dire perdere di vista
la strada teorica che Hegel
ha poi codificato come
sua filosofia resa pubblica. Tuttavia su un tema molto
generale si può trovare una
linea di continuità.
Molti anni fa, siamo agli
inizi degli anni Cinquanta,
Mario Rossi (un amico di
grande valore perduto immaturamente), studiando
proprio gli scritti jenensi
notava che “la preminenza assoluta di valore della
determinazione politica
serve a comprendere e a
risolvere in sé le determinazioni sociali”. Vale a dire
che ogni figura sociale,
l’agricoltore, l’artigiano, il
medico, il professore vanno compresi nel significato
spirituale che essi hanno
nella struttura ideale, unitaria e organica dello stato.
Hegel, all’inizio dell’Ottocento, conosceva le opere di Ferguson, sociologo e storico, Say, Smith,
Ricardo, e classici della
economia politica. Questa
conoscenza ha portato a
ritenere che Hegel, avendo
nozione di queste opere,
avesse anche una immagine teorica della società
“borghese” che stava nascendo su una base capitalistica. Detta così questa
proposizione non è vera. E
qui è necessaria una considerazione generale intorno a che cosa sia la conoscenza di opere e quale
senso esse possano avere
in un tessuto interpretativo.
Hegel, per esempio, aveva
certamente conosciuto
bene i concetti di lavoro, di
divisione sociale del lavoro,
dello scambio come forma
della razionalità economica, ma non aveva compreso che questi concetti
erano il riflesso intellettuale
di una trasformazione del
mondo che, in prospettiva, avrebbe rovesciato
completamente il rapporto
tra economia e struttura e
potere politico. Per Hegel
la dimensione economica
non aveva affatto questa
potenzialità, anzi (come
avevo accennato in precedenza) era regolata dalla
struttura politica che riconosceva all’essere umano,
alla sua natura, il bisogno,
l’alimentazione, la difesa
delle numerose possibilità
oppressive del mondo, e il
godimento sessuale. L’uno
e l’altro, tuttavia, compresi in una antropologia che
certamente riconosceva
la materialità dell’esistenza, ma la sottoponeva alla
superiore legislazione dello
Spirito che aveva la sua realtà oggettiva nella forma
dello stato politico.
Questa è una forma di
pensiero in cui la dimensione dello Spirito dà un ordine e un senso a tutte le
forme ideali che dominano
storicamente la vita sociale. Nella “Fenomenologia
dello Spirito” si dà il rapporto tra il lavoro, struttura
indispensabile della vita, e
le forme delle autocoscienze. Tuttavia nella dialettica
storica, il lavoro è contemporaneamente necessario,
sottinteso e obliato.
Avvicinandoci alla “Filosofia del diritto” sappiamo già
quale sia la forma del pensiero che condiziona Hegel
nell’analisi della famiglia,
del lavoro, del funzionamento politico dello stato.
Tuttavia è molto comune
l’osservazione secondo cui
in tutte le opere di Hegel
è sempre il pensiero che
disegna nel mondo
la forma della
realtà, nella
“Filosofia
del diritto”
invece vi è un
rovesciamento di questa
prospettiva, per cui si dice
comunemente che Hegel ha descritto nella sua
opera la forma materiale
dello stato prussiano e l’ha
trasformata in una realtà
dello Spirito che governa il
mondo.
E qui si possono fare due
osservazioni storiche. Nel
1830 vide chiaramente il
senso di quella rivoluzione parigina che portò al
trono “Philippe égalité” e
che assunse come proprio
emblema la proposizione
“arricchitevi”. Hegel fu costretto in una celebre lettera, alla vigilia della morte,
ad accorgersi che era la
potenza del denaro, icona
fondamentale del costume pubblico, a investire
ogni fascia sociale e ogni
desiderio umano, così che
andava definitivamente
perduto l’ordine spirituale del mondo, sottoposto
alla organizzazione ideale,
politica e burocratica dello
stato.
Si può dire che i romanzi
di Balzac sono l’interpretazione della vita sociale
che oscurava il modello
idealistico hegeliano.
La
seconda osservazione
mette in relazione il monumento della “Filosofia del
diritto” con quelli che nel
1815 erano stati i risultati, del resto faticosi, della
conferenza di Vienna che
restaurava l’ordine degli
stati monarchici e assolutisti, e doveva cancellare
ogni traccia della rivoluzione francese, nel potere
politico, nella cultura, nel
costume. Hegel, cancellava anche se stesso che
da studente aveva piantato l’albero della libertà, e
da filosofo maturo aveva
definito Napoleone come
“lo Spirito del mondo a
cavallo”: Napoleone nella
sua realtà politica e militare
rappresentava nel mondo
lo svolgimento temporale
dello Spirito.
E, considerato che più
di una volta ha usato il
modello della storia contro-fattuale che è utile per
disporre di una possibilità
di comprendere i fatti accadenti che nemmeno Dio
potrebbe cambiare, ora
non è del tutto futile domandarci se a Waterloo,
Napoleone avesse vinto
come poteva se non per un
errore di strategia militare
incredibile per il suo genio,
come si sarebbe orientato
il pensiero di Hegel?
Questa osservazione ha
un suo valore teorico solo
in quanto conduce a considerare che ogni opera
filosofica va considerata in
ordine alla pluralità di contingenze da cui nasce e di
cui porta il segno nella forma del pensiero (del comporre l’opera).
Della “Filosofia del diritto”
prenderò in esame la terza
parte, l’eticità che coinvolge l’antropologia secondo la sua forma ideale.
L’inizio del mondo etico è
la famiglia che, con il matrimonio, l’educazione dei
figli, la dimensione patrimoniale (sono temi decisivi della letteratura inglese
del ‘700), conduce all’oggettività sociale anche la
fondamentale struttura del
desiderio, potenzialmente decostruttiva di un ordine
oggettivo necessario per
un buon equilibrio sociale.
Fuori dall’istituzione matrimoniale passione sensibile
e innamoramento ideale
ma esplicito sono considerati elementi negativi e
pericolosi per l’ordine sociale. Del resto un’eco di
questa posizione idealista
e statalista si aveva, fino a
non moltissimo tempo fa,
anche nel codice penale
italiano, almeno per quanto interessa la figura femminile.
Zizek che è un pensatore
contemporaneo di grande
cultura e notevole originalità (talora eccessiva) nota
che l’oscuramento del sesso e del desiderio mostra
uno Hegel nascostamente materialista. Sappiamo
che in Hegel questa dissonanza era risolta in una
moralità oggettiva. Ma, ovviamente, potremmo dire:
“quale moralità oggettiva?”
E qui potremmo rivolgere
la nostra attenzione alle
radici cristiane. Sappiamo
che S. Paolo considerava il matrimonio come
soluzione delle pulsioni
sessuali, ma senza grande conoscenza poiché,
in ogni caso, anche il desiderio codificato portava
lontano dalla devozione a
Dio. Quanto all’oggettività
il tema della religione del
popolo era proprio della
giovinezza filosofica di Hegel, ed è di grande rilievo
nella “Fenomenologia dello
Spirito”. Il rapporto tra religione e stato è considerato
positivamente da Hegel: il
ministero pastorale con i
valori morali che sostiene collabora a formare il
tessuto etico dello stato.
Anche se è solo la costituzione dello stato che crea
la figura etica del cittadino.
Questa posizione avrà il
suo seguito negli hegeliani
italiani profondamente laici.
La società civile nasce
da quello che Hegel chiama “il sistema dei bisogni” che altro non è che
la forma sociale in cui si
manifesta la condizione naturale dell’uomo.
È il lavoro che nell’uomo
può appagare la sua naturalità, ed è il lavoro che produce ricchezza con un
effetto positivo per tutta la
comunità, dato che la ricchezza di ognuno ha un
effetto positivo fondendosi
nella ricchezza collettiva.
Questa considerazione rispetto al rapporto tra ricchezza privata e ricchezza
collettiva può richiamare la
ripetizione del modello di
Smith sulla divisione sociale del lavoro come forma
immanente di razionalità
che provoca un beneficio
collettivo. È ovvio rilevare
che Hegel non dà nessuna
importanza a quelle che a
noi paiono non rilevanti differenze sociali che tali appaiono dal momento in cui
il ceto sociale disagiato ha
potuto prendere la parola
rivendicando la sua identità.
Per Hegel è come valesse a
pieno la tradizionale concezione neoplatonica per cui
ciascuno ha il suo posto nel
mondo.
L’amministrazione sociale
avviene attraverso la “classe
generale” che è la burocrazia dello stato, il processo
economico ha un suo equilibrio e ha il suo fondamento nell’agricoltura (la tesi è
fisiocratica e appare uguale
anche nella Fenomenologia
dello Spirito), il suo sviluppo
nell’artigianato, nella manifattura e nel commercio.
Per avere un’idea di quale
fosse la situazione economico-sociale della Germania del tempo basta leggere il “Wilhelm Meister” di
Goethe. La burocrazia ha il
compito di organizzare l’insieme “secondo gli interessi dello stato”. Il cittadino, quando lo stato è in pace
ha il compito che possiamo leggere: “L’individuo si
dà realtà, soltanto in quanto esso viene nell’esistenza in genere, quindi nella
particolarità determinata,
e quindi, si limita esclusivamente a una delle cerchie
particolari del bisogno. I
sentimenti etici in questo
sistema sono, quindi l’onestà e la dignità di classe,
cioè diventare, per propria
determinazione, mercé la
propria diligenza e attitudine, componente di uno
dei momenti della società
civile, e conservarsi come
tale”. L’individuo, nell’attività che esplica al meglio
possibile trova la sua moralità, potremmo anche
dire il suo senso, in un
comportamento che ne fa
un elemento fondamentale
dello stato.
Ci sono a questo proposito
tre critiche fondamentali.
L’uno di tradizione anglosassone, per tutti la posizione di Popper sullo storicismo, che vedono schiacciata dallo stato la libertà
personale di intrapresa nel
mondo dell’individuo. Sappiamo in questa prospettiva che storicamente l’individualismo ha la sua radice
nella dimensione economica. La seconda nasce
come critica religiosa in
Kierkegaard secondo cui
l’identità tragica di ogni individuo è la sua condizione
di creatura a fronte dell’irraggiungibile infinità di Dio.
Da questa posizione derivano gli elementi fondamentali dell’esistenzialismo
laico. La terza critica vede
in questa struttura statualistica l’assoluta mancanza di una qualità politica
dell’individuo che appartiene ad una comunità che ha sovranità politica come
“popolo”. E qui certamente sullo sfondo troviamo il
pensiero di Rousseau.
Al contrario per Hegel, la
famiglia, per quanto riguarda l’individuo, la corporazione per quanto riguarda il
lavoro, sono le forme che,
nel “mondo dei bisogni”,
costituiscono le basi materiali dello stato politico.
Il potere politico appartiene
all’assoluta sovranità dello
stato fisicamente incarnata nella figura del re. Per
certo senso qui ritroviamo, a rovescio, il celebre
discorso di Saint Just alla
Convenzione: se il simbolo
del potere è fisicamente il
re, il superamento politico
di quel potere è la morte
del re.
Quindi l’uso dell’aggettivo
“incarnata” non è a caso.
Poiché Hegel sostiene che
il potere assoluto deve
spettare alla figura fisica
del re, poiché sarebbe impossibile governare senza
una volontà che ha la sua
radice in un corpo.
Va detto però che questo
era il modo per Hegel per
mettere in ombra la giustificazione divina del potere
regale. Il popolo non ha
alcun diritto politico, ma
solo la possibilità, nel suo
ordine di partecipare a una
comunità statale etica e
universale.
Su questi temi vi è un orizzonte critico pressoché
contemporaneo, molto
diffuso e corretto, che ha
il suo centro teoretico nella filosofia di Feuerbach,
e la sua diffusione sociale
nel “giovani hegeliani”. La
critica più nota è questa:
i giovani hegeliani rivendicavano la sovranità politica
per il popolo come realtà
obiettiva degli individui sociali. A questo gruppo di
prussiani “ribelli” la parola
“popolo” veniva nel significato francese e, ovviamente, il tema dei diritti politici
dalla grande Rivoluzione. A
questa critica si aggiungeva quella del giovane Marx
che già dodici anni dopo la
morte di Hegel (1843) sosteneva che i diritti politici
erano solo un’eguaglianza spirituale, mentre nella società civile rimaneva
consolidata la differenza
economica. È una critica
notissima, e noi prenderemo un’altra strada che ci
condurrà alla dissoluzione
dello stato hegeliano nella situazione europea da
decenni successivi sino al
Novecento, dopo gli importanti movimenti che nel
48 condussero alle costituzioni politiche. Si può anche dire che le critiche dei
giovani hegeliani degli anni
Trenta avevano vinto. Ma
è un’osservazione storica
contemporanea poiché
l’influenza di quei gruppi,
quando vi fu, restò per lo
più chiusa nella provincia
tedesca.
La conclusione della “Filosofia del diritto” apre in direzione della “storia universale”: per Hegel l’universalità etica degli stati ne fa
delle figure storiche individuali una necessaria competizione tra loro, cosicché
la guerra è il momento più
elevato dello stato, e gli
uomini del “sistema dei
bisogni” ora come soldati incarnano con il rischio
della morte la profonda
eticità dello stato che si
incarna nella loro vita. Dal
punto di vista filosofico si
può notare che il processo
più elevato di idealizzazione conduce nella dimensione tragica della morte,
la morte dell’individuo e la
realizzazione dell’universale storico.
La prospettiva che abbiamo evocato tiene conto
certamente delle guerre
napoleoniche e tuttavia dal
punto di vista della concezione del conflitto tra stati
può anche evocare la visione della guerra dell’ultimo Kant, della “Pace perpetua” sugli stati-principe
in guerra tra loro per ottenere espansioni territoriali.
La realtà si modificava in
modo molto lontano dalle
prospettive di Hegel. Quello che per il filosofo era il
“sistema dei bisogni”, diventava, al contrario, negli
stati europei uno sviluppo
economico molto potente
al punto di divenire un elemento centrale della politica nazionale degli stati. La
conflittualità non consisteva
nell’incontro-scontro di individualità etiche, ma nella
difesa che la politica di ogni
stato metteva in atto per
incrementare e difendere il
proprio sviluppo economico in competizione con gli
altri stati.
Ed è in questa prospettiva, unita allo sviluppo del
capitale finanziario, che nel
nuovo secolo si manifestava la competitività degli stati
dal punto di vista della loro
potenzialità economica. Era
il sorgere dell’imperialismo
europeo analizzato da Hilferding e da Lenin. Lo stato
hegeliano dei trattati viennesi del 1815, della prevalenza del capitale fondiario,
non esisteva più. Esisteva
invece la guerra come risoluzione delle competitività
imperialistiche delle potenze. Della possibilità di una
guerra se ne parlava dall’inizio del secolo, nel 1914 si
realizzò la prima catastrofe
che segnò il suicidio della
costruzione civile europea
che fino ad allora era stata
costruita.
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