*Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582,n° 1-2/2016, dal titolo"Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 12-17. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/596 **Giuseppe_Cacciatore è un filosofo italiano (Università Federico II di Napoli)
Beati costoro, che il futuro della storia e il diritto al progresso misurano quasi alla stregua di un certificato di assicurazione sulla vita! (LABRIOLA 1965, p.286).
Dove diminuisce il dolore dell’uomo là c’è progresso. Tutto il resto non ha senso.(BROCH 1950,p.19).
La storia universale è una storia del progresso – o forse anche soltanto del mutamento – nei mezzi e nei metodi dell’appropriazione: dalla occupazione della terra dei tempi nomadi e agrario-feudali alla conquista dei mari del XVI e XVII secolo, fino alla appropriazione industriale dell’epoca tecnico-industriale e alla sua differenziazione fra paesi sviluppati e non-sviluppati, per finire all’appropriazione dell’aria e dello spazio dei nostri giorni. (SCHMITT 1972, p. 311).
Si è sempre partiti da una sorta di equazione tra idea del progresso e teorie storicistiche.
Perciò
non sarebbe sbagliato sottolineare che la critica delle ideologie del
progresso può anch’essa muovere da prospettive storicistiche.
Questo presuppone però che si operi una distinzione nell’ambito
della polisemanticità degli storicismi. Se, ad esempio, si pone in
questione la prospettiva storicistica fondata non sul concetto di
legge e di generalità, ma su quello di singolarità e individualità
(anche nella sua declinazione etica), si modifica radicalmente
l’equazione progresso/storia universale. È il caso, ad esempio, di
quegli storicismi che hanno messo capo ad una filosofia speculativa
della storia, o a una teoria evolutivo-ottimistica. Tutto questo ha,
naturalmente, non secondari riflessi sul modo stesso di pensare e di
scrivere la storia del progresso (il progresso del capitalismo o il
regresso delle crisi economiche? Il progresso della società
mercantile o la decadenza dell’anarchia della produzione? Il
progresso delle masse o quello indotto dalla tecnica? Il progresso
delle ideologie liberali o quello delle ideologie socialiste?).
Naturalmente,
come tutti sanno, accanto alle varianti storicistiche che mettono
capo alle filosofie progressive della storia, tanto di stampo
idealistico quanto di stampo storico-materialistico, si collocano le
posizioni di critica della storicità assoluta che non fuoriescono,
tuttavia, da una prospettiva di storicismo prospettico che riconduce
l’idea del progresso alla categoria problematica della possibilità
e non più a quella della necessità, ad una storiografia delle
differenze decostruibili più che di identità costruite.
Questa
premessa serve (o almeno a me serve) per proporre un dato che, agli
occhi di molti raffinati politologi, potrebbe apparire banale e
scontato, ma che, proprio per questo, molti hanno quasi un nascosto
pudore di enunciare. La plausibilità dell’uso di un concetto di
progresso ispirato alle premesse teoriche e pratiche del marxismo è
praticabile soltanto se si resta radicati ad una versione debole
della sua storicità determinata e si abbandona, dunque, il terreno
della previsione filosofico-ideologica. Naturalmente, tutto ciò si
tiene soltanto a patto che si sappiano cogliere gli interstizi che,
nel corpo di un disegno di filosofia della storia (ora
originariamente e consapevolmente costruito, ora stratificatosi nelle
trascrizioni e nelle volgarizzazioni ideologiche successive), si
aprono, da un lato, all’analisi storico-economica e, dall’altro,
alla concretezza e permanenza dell’azione politica. Non solo, ma
bisogna anche che si faccia strada il convincimento che la
possibilità stessa della trasformazione delle condizioni date
finirebbe coll’essere smentita se l’individuo fosse indotto a
modificare se stesso solo a condizione che sia cambiata prima la
serie delle condizioni sociali. «La storia invece – sostiene
Gramsci – è una continua lotta di individui e di gruppi per
cambiare ciò che esiste in ogni momento dato, ma perché la lotta
sia efficiente questi individui e gruppi dovranno sentirsi superiori
all’esistente»1.
Un
discorso su progresso e marxismo deve oggi fare i conti con tutto ciò
che, a livello della teoria come al livello della prassi storica, ha
contribuito a mettere in radicale discussione la plausibilità stessa
del marxismo come analisi economica e politica in grado di misurarsi
con il presente. È del tutto comprensibile, ad esempio, il fatto che
nell’immaginario collettivo (mai peraltro del tutto originato
spontaneamente e quasi sempre costruito nei laboratori
dell’onnipervasiva rete della comunicazione mediatica) la “storia
universale” del comunismo venga alla fine compressa nella sua
catastrofica parabola finale ed identificata pressocché totalmente
con i suoi errori e i suoi imperdonabili crimini. E, tuttavia, non
sarebbe certo un’affermazione apologetica dire che, proprio
sull’onda dell’ approccio analitico marxiano, si è imposto quel
concetto di mondializzazione dell’economia che nessuno oggi osa
mettere in discussione, sia quando se ne debbano segnalare le
storture ed i negativi effetti sulle società e gli stati “deboli”
del mondo, sia quando se ne debbano positivamente valutare, ma si
tratta di casi ben rari, gli aspetti di gestione delle crisi
internazionali e stabilizzazione e controllo dei mercati.
Se
Marx ed Engels seppero con straordinaria lucidità descrivere e
prefigurare gli effetti della globalizzazione (l’urbanizzazione, lo
sfruttamento del lavoro minorile e femminile, il disgregarsi della
famiglia, la mondializzazione dei commerci e delle comunicazioni),
ciò non era certo dovuto ad una profetica capacità di previsione.
Si trattava, piuttosto, della tenace messa a frutto di un inedito ed
efficace metodo di critica della politica e di analisi storica.
Se
appare oggi del tutto improponibile e persino insensato il grande
quadro di filosofia della storia tracciato, ad esempio, in quelle
straordinarie pagine del Manifesto, non per questo è da considerare
chiusa, malgrado i tanti peana inneggiati in morte di essa, la
parabola della storia, dei suoi conflitti e delle sue incessanti
trasformazioni, né si può ritenere solo come un’anticaglia
ideologica la constatazione del ruolo che in essa continuano ad
assolvere, negli scenari nazionali ed internazionali, nuove classi
dominanti e nuovi ceti sociali dominati, nuovi padroni del mondo e
delle sue ricchezze e nuovi diseredati.
Per
questo credo che sia del tutto inutile e improduttivo ridurre il
dibattito sul marxismo o alla inappellabile condanna di quanti
ritengono che con esso inizi la lunga storia del totalitarismo e
delle sue immani colpe o alla pervicace convinzione che esista un
comunismo ideale assolutamente inconfondibile con i momenti peggiori
della sua evoluzione storica. Dunque: critica storica e memoria
storica. Altre vie non riesco a scorgere per un discorso attuale su
marxismo, etica e progresso. La critica deve servire a discernere nel
corpo stesso del pensiero e dell’opera di Marx quegli elementi di
irrisolta ambiguità tra una concezione finalistica e profetica del
processo storico (con tutto ciò che di grave ed irreparabile essa ha
significato nelle vicende del comunismo realizzato) e una capacità
di analisi determinata dei bisogni dei popoli e delle classi sociali
insieme alla concreta individuazione degli strumenti della critica
politica ed economica e della sua azione emancipatrice.
Ma
se è del tutto condivisibile il giudizio sulla straordinaria
scoperta marxiana del proletariato come moderno «soggetto politico
storicouniversale» e, dunque, dell’oggettivo universalizzarsi
dell’agire politico degli uomini (di tutti gli uomini e non di
pochi individui) al di là degli artificiosi limiti posti da una
natura e da una struttura sociale storicamente immobile o idealmente
eterna, non può esserlo altrettanto la sottovalutazione di come
abbia negativamente pesato sulla storia stessa del marxismo l’ambigua
sovrapposizione tra classe universale e classe politica, fino a
raggiungere quel deleterio livello, espresso da alcuni marxismi
novecenteschi, di identificazione tra classe, Stato e Partito e di
sostanziale colpevole indifferenza per i temi della “felicità
pubblica” e dell’etica individuale.
Resta
da chiedersi se c’è ancora spazio per un’idea “forte” di
storia nell’età di tutti i “post” possibili e immaginabili e
della crisi delle grandi narrazioni ideologiche. La risposta è
probabilmente già contenuta nelle considerazioni sinora svolte e nel
convincimento che vi sia ancora bisogno di una teoria critica della
storicità, intesa innanzitutto come individuazione e utilizzazione
delle condizioni che rendono possibili sempre nuove storie e, con
essa, di una idea della vita e delle sue infinite espressioni, del
tempo e della continua circolarità dei suoi modi nella storia
concreta e, infine, del riconoscimento dell’altro, della sua
identità e della sua volontà di affermazione ed
autorappresentazione.
L’intonazione
“storicistica” del marxismo gramsciano non risponde soltanto a
una esigenza di chiarificazione filosofica (il senso della storicità
della vita come immediato antidoto a ogni metafisica naturalistica e
a ogni apriorismo astrattamente razionalistico), ma anche a una
precisa opzione politica che colloca al centro la rielaborazione del
nesso teoria-prassi, della relazione tra analisi concettuale e
l’azione trasformatrice-rivoluzionaria. C’è un testo del giovane
Gramsci che pone in netto risalto come anche la particolare lettura
in senso marxista dello storicismo sia caratterizzata in prima
battuta da una motivazione etica ancor prima che economico-politica:
«Per
i socialisti il problema della iniziativa produttrice di valori non
si risolve nella psicologia, ma nella storia. Siamo storicisti, per
la concezione filosofica che nutre il nostro movimento; neghiamo la
necessità di ogni apriorismo, sia esso trascendente [...], sia anche
storico [...]. La conquista della realtà economica è solo
nell’apparenza vistosa il nostro unico scopo; attraverso essa noi
prepariamo la strada all’uomo completo, libero, e la nuova vita
morale fervida vogliamo sia estesa al più gran numero possibile di
individui»2.
Come
ho già sostenuto in non poche delle mie pagine dedicate alla
peculiare visione del marxismo gramsciano, è la concezione dinamica
e non lineare-evolutiva della storia che consente di recuperare
l’originaria tensione dialettica tra l’oggettività dei rapporti
sociali (ma anche dei rapporti politici di forza) e l’intervento
trasformatore e, per certi versi, risolutivo della soggettività.
Infatti, proprio spostandoci sul terreno dell’etica, non può non
colpire la determinatezza con la quale Gramsci esprime la sua
preferenza per il “dover-essere” piuttosto che per l’essere
dato e immoto di una realtà che si presume fatalisticamente
immodificabile.
Se
l’atto concreto della volontà e l’azione pratica che da essa è
intenzionata sono volti a una modificazione dell’equilibrio delle
forze reali (e, dunque, anche a una scelta tra le forze in
conflitto), questo significa che si resta sul terreno della realtà,
proprio al fine di una sua trasformazione e di un suo
oltrepassamento. «Il “dover essere” è quindi concretezza, anzi
è la sola interpretazione realistica e storicistica della realtà, è
sola storia in atto e filosofia in atto, sola politica»3.
Riferimenti bibliografici
BROCH, HERMANN, 1950 Cantos 1913 (1913-14), ripubbl. Come Stimmen 1913 in Id., Die Schuldlosen. Roman in elf Erzählungen, Rhein-Verlag, Zürich.
GRAMSCI,
ANTONIO, 1958
Scritti
giovanili (1914-1918), Einaudi, Torino.
ID.,
1975
Quaderni del
carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, vol. II, Einaudi,
Torino.
LABRIOLA,
ANTONIO, 1965
Discorrendo
di socialismo e di filosofia, in Id., La concezione materialistica
della storia,
a
cura di E. Garin, Laterza, Bari.
SCHMITT, CARL, 1972 Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna.
Note
1. GRAMSCI 1975, p.
1878.
2. GRAMSCI 1958, p.
117.
3. GRAMSCI 1975, p.
1578.
Dobbiamo continuare a chiederci se il patrimonio di conoscenze scientifiche e tecnologiche (da non confondere tra di loro) è in evidente crescita? Dobbiamo ancora chiederci se questa crescita influenza le forze produttive? Dobbiamo ancora una volta constatare che ciò che appare come progresso nei rapporti sociali di produzione capitalistici ha sempre due facce: una che sembra aprire a prospettive di innovazione ed emancipazione ed una che peggiora le condizioni materiali di esistenza della popolazione? Ma oggi c'è una domanda cruciale: la crescente automazione della produzione è un progresso o un regresso? Come risponderebbe un imprenditore e come risponderebbe un lavoratore?
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