venerdì 28 giugno 2019

Il concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin - Vladimiro Giacché

Da: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/1306/1206 - Vladimiro Giacché è un economista italiano.
                           Sulla NEP e sul capitalismo di Stato* - Lenin 


lI concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin (1)

Dopo sei mesi di rivoluzione socialista coloro che ragionano solo sulla base dei libri non capiscono nulla. 
LENIN, 5 luglio 1918 (2)


1. 1917-1918. Il capitalismo di Stato come «passo avanti» 

Le prime occorrenze significative del concetto di capitalismo di Stato negli scritti di Lenin del periodo postrivoluzionario risalgono alla primavera del 1918, e si situano nel contesto della dura contrapposizione ai «comunisti di sinistra», l’opposizione interna al Partito comunista allora guidata da Nikolaj Bucharin. Lo scontro, inizialmente infuriato sulla firma del trattato di pace con la Germania, non era meno duro sul terreno economico. Esso riguardava ora la gestione delle imprese e il rafforzamento della disciplina del lavoro al loro interno: alla necessità di questo rafforzamento, su cui Lenin insisteva, i «comunisti di sinistra» contrapponevano la gestione collettiva delle imprese, che finiva in pratica per tradursi nella paralisi e nell’ingovernabilità delle imprese nazionalizzate. Ma il tema centrale era un altro ancora: il ritmo e la direzione della trasformazione economica. In quei mesi Oppokov proponeva di «dichiarare la proprietà privata inammissibile sia nella città che nelle campagne», mentre un altro «comunista di sinistra», Osinskij, parlava di «liquidazione totale della proprietà privata» e di «immediata transizione al socialismo»(3).

Per Lenin le priorità sono diverse: «la ricostituzione delle forze produttive distrutte dalla guerra e dal malgoverno della borghesia; il risanamento delle ferite inferte dalla guerra, dalla sconfitta, dalla speculazione e dai tentativi della borghesia di restaurare il potere abbattuto degli sfruttatori; la ripresa economica del paese; la sicura tutela dell’ordine più elementare»(4) . Diventano quindi decisive da un lato «l’organizzazione di un inventario e di un controllo popolare rigorosissimo sulla produzione e sulla distribuzione dei prodotti», dall’altro «l’aumento su scala nazionale della produttività del lavoro». A questo fine, bisogna arrestare l’offensiva contro il capitale e «spostare il centro di gravità» della propria iniziativa: «Finora sono stati in primo piano i provvedimenti di immediata espropriazione degli espropriatori. Ora passa in primo piano l’organizzazione dell’inventario e del controllo nelle aziende in cui i capitalisti sono già stati espropriati». Ancora più chiaramente: «se volessimo ora continuare ad espropriare il capitale con lo stesso ritmo di prima, certamente subiremmo una sconfitta»(5) . Il passaggio al socialismo non è un salto ma una transizione. «Il problema fondamentale di creare un regime sociale superiore al capitalismo» consiste nell’«aumentare la produttività del lavoro, e in relazione con questo (e a questo scopo) creare una superiore organizzazione del lavoro»: e «se ci si può impadronire in pochi giorni di un potere statale centrale, […] una soluzione durevole del problema di elevare la produttività del lavoro richiede in ogni caso (e soprattutto dopo una guerra straordinariamente dolorosa e devastatrice), parecchi anni»(6).

sabato 22 giugno 2019

"Immanuel Kant. Progetto per una pace perpetua" - Antonio Gargano

Da: AccademiaIISF - Antonio Gargano è un filosofo italiano. Docente presso l'Università degli studi "Suor Orsola Benincasa", Scienze della Formazione. 
Vedi anche: Kant: "Critica della ragion pura"- Antonio Gargano 
                       Kant: "Critica della ragion pratica" - Antonio Gargano

                                                                             

mercoledì 19 giugno 2019

- Note sulla polisemia di «dialettica»: dal quotidiano alla riflessione formale - Stefano Garroni

Da: Dialettica riproposta - Stefano Garroni - lacittadelsole a cura di Alessandra Ciattini - Stefano Garroni  è stato un filosofo italiano.  



    Indice:


Nota dell’editore
                                                                                                                                             Stefano Garroni: Dialettica riproposta - Presentazione di Paolo Vinci 









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Una contraddizione, ben bizzarra, del nostro tempo è che l’impegno (l’apparente e sempre proclamato impegno) ad una cultura, che sappia finalmente liberarci da schemi e punti vista, nati e sviluppatisi in contesti storici ormai superati, di fatto si riduce a critica del marxismo e della dialettica, cioè di due momenti della riflessione moderna particolarmente ignorati o fraintesi. Quello che cerco di fare, con queste mie brevi note, è mostrare quanto sia ricca la problematicità della dialettica e come sia sicuramente vero che la sua critica – ovviamente sempre possibile – supponga però una conoscenza larga e profonda della dinamica del movimento storico, sotto tutti i suoi aspetti, notoriamente interconnessi e diversi in contesti diversi.

Un momento di particolare importanza, nella storia del pensiero scientifico, si ha con l’affermarsi del leibniziano «principio di continuità»1. Non è difficile comprendere che questo principio fa parte di una visione del mondo (Weltbild), che nega la possibilità di eventi isolati, i quali non trovino in serie di accadimenti passati, presenti e, perfino, futuri, la spiegazione e il senso del loro esserci attuale. In questa prospettiva non esistono eventi ineffabili, perché al contrario va riconosciuto al «nuovo» la proprietà di essere una combinazione particolare del già noto e, dunque, va altrettanto riconosciuta al linguaggio una plasticità combinatoria, che lo mette in condizione di comunicare novità, servendosi di segni già noti, o di inventare nuovi segni, ma a partire dalla struttura linguistica tradizionale2.

Se questa concezione attribuisce al pensiero ed al linguaggio una capacità inventiva, capace di fare dell’immaginazione scientifica qualcosa di ben più ricco e “imprevedibile” di qualunque coattiva costruzione del mero sentimento (inconscio compreso), dà luogo tuttavia a una difficoltà.

Posto il principio di continuità, va forse affermato che in effetti nulla di nuovo sorge sotto il sole, ovvero, che non esistono fenomeni, anche sociali, in radicale rottura con quelli della tradizione?

Se nella realtà non esiste il gratuito, il casuale, il zufällig, ciò comporta, forse, il pieno dominio del predeterminismo e, di conseguenza, far scienza non significherà che ritrovare nel nuovo, nel sorprendente, nell’inedito, il déjà vu?3

Proseguendo nella nostra ricerca, le sorprese aumentano.

lunedì 17 giugno 2019

Antonio Gramsci. Ritratto di un rivoluzionario - Angelo D'Orsi

Da: Laboratorio Lapsus - Angelo D'Orsi, allievo di Norberto Bobbio, è professore ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino.

                                                                         

«Carissima mamma, vorrei per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo, qualunque condanna stiano per darmi.
Che tu comprendessi bene anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e avrò mai da vergognarmi di questa situazione.
Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perchè non ho mai voluto mutare le mie opinioni per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione.
Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso.
Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché tu sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente.
La vita é così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini. Ti abbraccio teneramente».

Antonio Gramsci, lettera alla madre, 10 maggio 1928

giovedì 13 giugno 2019

Critica del Programma di Gotha - Karl Marx

Da: /www.marxists.org - Il seguente scritto fu realizzato da Marx nel 1875 e pubblicato da Engels nel 1891. Le lettere scritte a Bebel e a Kautsky sono di Engels.
- La traduzione è conforme a quella delle Edizioni in lingue estere di Mosca. Trascritto da Ivan , Luglio 1999


    Indice:
                 Prefazione di Friedrich Engels
                  Lettera a Wilhelm Brake
                    Lettera ad August Bebel
                     Lettera a Karl Kautsky



Note in margine al programma del Partito operaio tedesco

I

l. "Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà, e poichè un lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società, il frutto del lavoro appartiene integralmente, a ugual diritto, a tutti i membri della società"
Prima parte del paragrafo. "Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà."
Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d'uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che esso stesso, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana. Quella frase si trova in tutti i sillabari, e intanto è giusta in quanto è sottinteso che il lavoro si esplica con i mezzi e con gli oggetti che si convengono. Ma un programma socialista non deve indulgere a tali espressioni borghesi tacendo le condizioni che solo danno loro un senso. E il lavoro dell'uomo diventa fonte di valori d'uso, e quindi anche di ricchezze, in quanto l'uomo entra preventivamente in rapporto, come proprietario, con la natura, fonte prima di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e la tratta come cosa che gli appartiene. I borghesi hanno i loro buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice soprannaturale; perchè dalle condizioni naturali del lavoro ne consegue che l'uomo, il quale non ha altra proprietà all'infuori della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo di quegli uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro. Egli può lavorare solo col loro permesso, e quindi può vivere solo col loro permesso.
Lasciamo ora la proposizione come essa è e scorre, o piuttosto come essa zoppica. Che cosa se ne sarebbe atteso come conseguenza? Evidentemente questo:
"Poichè il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, anche nella società nessuno si può appropriare ricchezza se non come prodotto del lavoro. Se dunque un membro della società non lavora egli stesso, vuol dire che egli vive di lavoro altrui e che si appropria anche della propria cultura a spese di lavoro altrui."
Invece di questo, col giro di parole: "e poichè" viene aggiunta una seconda proposizione per trarre una conclusione da essa e non dalla prima.
Seconda parte del paragrafo: "Un lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società."
Secondo la prima proposizione il lavoro era la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà, e quindi nessuna società era possibile senza lavoro. Ora veniamo a sapere, viceversa, che nessun lavoro "utile" è possibile senza società.
Si sarebbe potuto dire ugualmente bene che solo nella società un lavoro inutile, e persino dannoso alla società stessa, può diventare una fonte di guadagno, che solo nella società si può vivere di ozio, ecc., ecc., - si sarebbe potuto, in breve, trascrivere tutto Rousseau.
E che cosa è lavoro "utile"? Solo il lavoro che porta l'effetto utile voluto. Un selvaggio - e l'uomo è un selvaggio, dopo che ha cessato di essere una scimmia - che abbatte un animale con un sasso, che raccoglie frutti, ecc., compie un lavoro "utile."
In terzo luogo: la conclusione: "E poichè un lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società, il frutto del lavoro appartiene integralmente, a ugual diritto, a tutti i membri della società."
Bella conclusione! Se il lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società, il frutto del lavoro appartiene alla società - e al singolo lavoratore ne tocca solo quel tanto che non è necessario per mantenere la "condizione" del lavoro, la società.
In realtà questa proposizione è stata sostenuta in ogni tempo dai difensori del regime sociale esistente. In prima linea vengono le pretese del governo, con tutto ciò che vi sta attaccato, perchè esso è l'organo della società per il mantenimento dell'ordine sociale; indi vengono le pretese delle diverse specie di proprietà privata, poichè le diverse specie di proprietà privata sono le basi della società, e così via. Si vede che queste frasi vuote si possono girare e rigirare come si vuole.
La prima e la seconda parte del paragrafo hanno un costrutto intelligibile solo in questa redazione:
"Il lavoro diventa fonte della ricchezza e della civiltà solo come lavoro sociale" o, ciò che è lo stesso, "nella società e mediante la società."
Questa proposizione è indiscutibilmente esatta, perchè se anche il lavoro isolato (premesse le sue condizioni oggettive) può creare valori d'uso, esso non può creare né ricchezze né civiltà.
Ma ugualmente inoppugnabile è l'altra proposizione:
"Nella misura in cui il lavoro si sviluppa socialmente e in questo modo diviene fonte di ricchezza e di civiltà, si sviluppano povertà e indigenza dal lato dell'operaio, ricchezza e civiltà dal lato di chi non lavora."
Questa è la legge di tutta la storia sinora vissuta. Quindi, invece di fare delle frasi generiche sul "lavoro" e sulla "società," bisognava dimostrare concretamente come nella odierna società capitalistica si sono finalmente costituite le condizioni materiali, ecc., che abilitano e obbligano gli operai a spezzare quella maledizione sociale.
Ma in realtà l'intero paragrafo, sbagliato nella forma e nel contenuto, è stato inserito soltanto per poter scrivere come rivendicazione sulla bandiera del partito la formula di Lassalle sul "frutto integrale del lavoro." Tornerò in seguito sul "frutto del lavoro," sull'"ugual diritto," ecc., poichè la stessa cosa ritorna in forma alquanto diversa.

mercoledì 12 giugno 2019

Colpendo Trotsky Netflix attacca la Rivoluzione di Ottobre - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza


Non è sufficiente calunniare la Rivoluzione di Ottobre, bisogna trasformare una delle sue maggiori figure in oggetto di consumo giovanile, come è già avvenuto al Che.


Tra i vari gruppi comunisti nel mondo serpeggia l’idea di tentare di ricostruire un fronte comune, la cui basi – a mio modesto parere – non possono che essere la riflessione articolata e approfondita sulla nostra drammatica e dolorosa storia, punteggiata da sconfitte disastrose, da effimere vittorie, che hanno fortemente danneggiato la nostra immagine e la nostra stessa possibilità di dialogare con le masse. Tale riflessione deve assolutamente basarsi sull’abbandono di consunti stereotipi e luoghi comuni e implica riprendere veramente in mano lo studio della nostra storia e delle nostre laceranti controversie. Oltreché ovviamente il problema sempre aperto della dissoluzione dell’Unione Sovietica e dei paesi ad essa connessi.
Riflettendo con preoccupazione su questo tema, ho pensato fosse utile scrivere un articolo su una vicenda, di cui in Italia hanno parlato a fondo le voci alternative e per lo più vicine al trotskismo, mentre a livello internazionale essa ha coinvolto organizzazioni e pensatori marxisti ma non tutti strettamente legati al rivoluzionario fatto assassinare da Stalin a Coyocán nel 1940. Mi limito a citare Fredric Jameson, Michel Löwy, Srecko Horvat, Florian Wilde, sottolineando la massiccia presenza di autori latinoamericani e quella di italiani come Antonio Moscato e Dario Giacchetti. In particolare, anche se si è fatto riferimento al cyberpunk Trotsky, [1] vestito di lucida pelle nera e con una vita sessuale “bollente”, non mi pare si sia dedicato spazio alla reazione internazionale che tale falsa e obbrobriosa immagine ha generato. D’altra parte, lo stesso treno blindato, che sbuffa fumo nero e da cui l’organizzatore dell’Armata rossa impartisce i suoi ordini spietati contro i controrivoluzionari e non solo, appare un simbolo fallico che solca la sterminata campagna russa.
In breve, ecco la vicenda che ha spinto il nipote di León Trotsky, Esteban Volkov e il Centro di studi, ricerche e pubblicazioni dell’Argentina e del Messico a prendere una vigorosa posizione di protesta.

martedì 11 giugno 2019

Riflessioni profane (e stolte) su Marx - EDOARDA MASI

Da: Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova, "CONVERSAZIONI SU MARX". 
Edoarda Masi è stata una saggista e sinologa italiana, specializzata nella cultura della Cina e nella lingua cinese.
Leggi anche: Divagazioni intorno al 25° capitolo del I Libro del Capitale - Edoarda Masi 
                        Come usare il capitalismo nell'ottica del socialismo - Deng Xiaoping 
                        Questioni relative allo sviluppo e alla persistenza nel socialismo con caratteristiche cinesi - Xi Jinping 
                        Marx e Hegel. Contributi a una rilettura - Roberto Fineschi 

Nelle accese discussioni che nella Cina degli anni settanta contrapponevano le “due linee”, uno degli argomenti centrali nell’attacco alla “linea capitalistica” verteva sulla cosiddetta “teoria delle forze produttive” – cioè sulla teoria storicista-meccanicistica secondo cui all’evoluzione delle forze produttive (intese qui, in senso radicalmente deformato rispetto alla tradizione marxista se non alla vulgata del Soviet Marxism, come scienza e tecnologia applicate al processo produttivo) debbono adeguarsi i rapporti di produzione. Questo dibattito, come altri nella Cina di allora, non è mai stato preso sul serio in Europa, anche perché si presentava in forma ingenua e spesso teoricamente scorretta. In realtà non si faceva qui nessuno sforzo per comprendere su che cosa si dibattesse nella sostanza. Durava sotterraneo l’etnocentrismo, cieco sul fatto che quelle discussioni riguardavano l’avvenire economico-sociale-politico del paese destinato a divenire la seconda potenza mondiale. L’avvenire è stato, fino a questi giorni, la vittoria della cosiddetta “teoria delle forze produttive”: la vittoria del capitale.

Fra gli europei, molti marxisti inclusi, si è continuato a lungo, e si continua tuttora, a chiamare “rivoluzione industriale” l’introduzione di alcune importanti innovazioni tecniche nella produzione, che hanno favorito la nascita del capitalismo moderno. Scrivo “hanno favorito”; meglio avrei detto: “sono state utilizzate”; ma nella vulgata sono considerate ancora oggi una rivoluzione, cioè un fatto di per sé politicamente rilevante, e causa principale dell’evoluzione verso il capitalismo; le ulteriori innovazioni scientifico-tecniche-organizzative sarebbero poi causa principale delle evoluzioni successive del capitalismo; a fortiori, del passaggio al socialismo che avrà da scaturire dal seno del capitalismo. 

I cinesi oggetto di attacco negli anni settanta quali seguaci della “via capitalistica” erano in sostanza assai vicini a questi europei. E risultano assai vicini a Cavallaro e Fineschi [del quale ultimo non ho letto i testi, ma assumo l’interpretazione che ne fornisce Cavallaro sul Manifesto del 7 gennaio; e che appunto mi ha ricordato quell’importante episodio cinese (Hegel velato dall'occhio di Marx - Luigi Cavallaro)]. 

Che rapporto ha tutto ciò con la lettura del Capitale organizzata a Bergamo da Riccardo Bellofiore, e di cui questi appunti sono una ricaduta secondaria? 

mercoledì 5 giugno 2019

FILOSOFIA - Un incontro con Carlo Sini

Da:  Dante Channel - Carlo Sini è un filosofo italiano.- CarloSiniNoema 
Leggi anche: L'uomo e il denaro*- Carlo Sini* - 
                         L'annullamento del debito nell'antichità*- Eric Toussaint* - 
                          Semiotica e Moneta*- Carlo Sini* - 
Vedi anche: Dalla parola alla verità scritta - Carlo Sini - 
                       LA SCRITTURA - Carlo Sini -  
                        La Politica in Spinoza - Carlo Sini 

               

lunedì 3 giugno 2019

"Jean-Paul Sartre" - Antonio Gargano

Da: AccademiaIISF - Antonio Gargano è un filosofo italiano. Docente presso l'Università degli studi "Suor Orsola Benincasa", Scienze della Formazione. 
                     "La teoria critica e Herbert Marcuse" - Antonio Gargano 

                                                                             

venerdì 31 maggio 2019

Trump e la fine dell’American dream - Sergio Romano

Da: Fondazione Centro Studi Campostrini - Sergio_Romano è uno storico, scrittore, giornalista e diplomatico italiano.

                                                                           

lunedì 27 maggio 2019

domenica 26 maggio 2019

Fare la propria parte e lasciare che la natura faccia la sua - Bertolt Brecht

Da: Bertolt Brecht, Me-ti - Libro delle svolte, Einaudi, Torino, 1979 - Traduzione di Cesare Cases - http://www.contraddizione.it - 



Nel paese di Tsen imperversava un’aspra lotta tra mol­ti gruppi l’un contro l’altro armati. Mi-en-leh si schierò dalla parte dei fabbri d’aratri, poiché credeva che solo co­storo potessero far progredire il paese. Da essi ci si poteva aspet­tare i massimi sforzi, e i loro sforzi massimamente giovavano a tutti gli altri uomini.

Egli diceva: Se sono soltanto i contadini a raddoppiare i loro sforzi, il raccolto sarà poco più grande. Se invece si forniscono aratri in numero sufficiente, si otterrà molto. Vi erano infatti a quel tempo due sorte di aratri. Gli uni era­no fatti di legno, secondo l’antico costume, gli altri in­vece, più moderni, di ferro, e li si fabbricava in grandi of­ficine che appartenevano a potenti signori. Ma di siffatti aratri di ferro ve n’erano relativamente pochi. Erano co­stosi e po­tevano essere vantaggiosamente utilizzati solo per grandi estensioni di terreno, e trainati da cavalli. In­vece i semplici aratri di legno potevano essere fabbricati e usati dai contadini stessi. Il suolo lo incidevano assai poco profondamen­te. Questi aratri venivano usati dai contadini poveri. I quali avevano per di più tanto poca terra che non bastava a dar loro il cibo di un campicello.

Spesso dovevano lavorare anche nei grandi poderi, contro mercede. Molti figli di contadini migravano nelle città e chiedevano lavoro nelle fucine dei fabbri e in altre offici­ne. Ma solo una parte di coloro che la campagna non nu­triva erano nutriti dalle città. Il commercio degli aratri era contenuto in ristretti limiti. In primo luogo il nume­ro dei gran­di poderi era piccolo, e in secondo luogo i pa­droni delle fucine dovevano tenere alti i prezzi degli ara­tri. Il loro gua­dagno essi non l’aumentavano aumentando le vendite di aratri, ma principalmente aumentando l’op­pressione degli operai. Per la continua fuga dalle cam­pagne dei figli dei contadini poveri gli operai delle fucine si trovavano sempre a buon mercato. Essi versavano in grande miseria.

Con l’aiuto di Mi-en-leh i fabbri di aratri cacciarono i padroni delle fucine e conquistarono il potere.

I contadini poveri avevano appoggiato i fabbri nell’e­spellere i padroni delle fucine, e ora i fabbri li aiutarono ad espellere i padroni della terra. I contadini poveri sud­divisero subito tra loro la terra così conquistata.

Prima di giungere al potere Mi-en-leh aveva insegnato che prima di tutto bisognava provvedere tutto il paese di aratri di ferro. E molti avevano inteso che volesse subito sopprimere interamente i piccoli poderi. Ma quando egli assunse il potere insieme ai fabbri di aratri, fece il contra­rio. Egli lasciò la terra ai contadini poveri, come le offici­ne agli operai, e più precisamente a ognuno tanta terra quanta poteva coltivarne con le proprie forze. In tal mo­do egli perfino aumentò il numero dei campicelli, che era­no troppo piccoli per gli aratri di ferro. Solo pochi grandi poderi li amministrò lui stesso insieme ai suoi scolari.

Il filosofo Sa biasimò fortemente Mi-en-leh, dicendo: Mi-en-leh è come tutti gli altri. Il potere indebolisce la me­moria. E aggiunse: Chi è arrivato alla mèta, dimentica molte cose.

Mi-enleh rispose: Io ho insegnato, ora essi imparano. Essi hanno ascoltato, ora fanno esperienza.

Mi-en-leh rise di tutti coloro che credevano che in un sol giorno si potesse por fine con dei decreti ad una mise­ria millenaria, e proseguì nel suo cammino.

Presto si delineò la seguente situazione. I fabbri d’ara­tri, dopo aver cacciato i loro oppressori, fabbricavano più aratri di ferro che potevano, senza chiedersi quale prezzo ne avrebbero ricavato. I padroni della terra erano stati parimenti cacciati e la loro terra l’amministrava ora lo stato, oppure gli innumerevoli piccoli contadini indipen­denti. Tra i contadini ve n’erano di quelli che di terra ne avevano quanto bastava, e avevano anche i cavalli per ti­rare gli aratri. Per loro non valeva la pena di comprare aratri di ferro, perché la loro terra era troppo poca. I con­tadini più poveri non avevano cavalli e soffrivano la fame. Essi dovevano rivolgersi di nuovo a quelli più bene­stanti e compiere lavoro a mercede o lavoro per ottenere in pre­stito i cavalli. Presto si trovarono ad essere assai malcon­tenti. Il loro odio si indirizzò verso i contadini benestanti

Mi-en-leh non fece nulla contro questo odio, anzi l’attizzò. I fabbri di aratri inviarono nei villaggi persone che fa­cevano propaganda per gli aratri di ferro. Essi consiglia­vano ai contadini poveri di riunirsi in gruppi più numero­si che potessero e di mettere insieme più terra che potes­sero, onde valesse la pena di usare un aratro di ferro. A colo­ro che li seguivano essi inviavano aratri di ferro a credito. Invece ai contadini benestanti non davano credi­to e in­viavano gli aratri solo dopo molto tempo. Diceva­no tranquillamente: Noi e i contadini poveri stiamo bene insieme, noi fabbri di aratri non possediamo neanche noi ognuno la sua propria morsa, ché in questo modo non si potrebbe­ro fabbricare aratri.

La parola d’ordine di Mi-en-leh fu: Voi volevate la terra per il grano; ora datela via per il grano! Il che vole­va di­re: Se voi darete via i vostri piccoli appezzamenti di terreno, avrete più grano. Questa era la verità.

Presto si formarono gigantesche fattorie, più grandi delle fattorie padronali che c’erano prima. Dopo qualche tempo anche i contadini più benestanti dovettero entrare a far parte di queste fattorie, perché non si trovarono più lavoratori a mercede e i loro campi davano poco grano, perché i vecchi aratri di legno incidevano troppo poco il terreno. Così Mi-en-leh aveva attuato il suo programma facendo la propria parte e lasciando che la natura facesse la sua.



martedì 21 maggio 2019

Vitalità della riflessione marxiana e marxista sull’ideologia - Alessandra Ciattini

Da: http://www.marxismo-oggi.it - Alessandra Ciattini (Sapienza – Università di Roma) 



 Premessa 


In un mondo, nel quale a detta di alcuni, stiamo assistendo al trionfo della cosiddetta post-verità, in cui siamo intrisi sino alle midolla di ideologie invisibili che si presentano come l’effettiva rappresentazione dei fatti, in cui il paese più potente del mondo legge la storia attuale e futura come il dispiegamento del “secolo americano”, in cui trova spazio l’estremismo islamico, in cui risorge il populismo neofascista e neonazista, non possiamo in nessun modo accantonare la nozione di ideologia.

E ciò soprattutto perché si tratta di un’idea pericolosa, come dice il titolo italiano della traduzione del libro dello studioso britannico Terry Eagleton Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa (2007) (il titolo in inglese invece è Ideology. An Introduction1991)[1]. Idea pericolosa perché stabilisce una correlazione, complessa e articolata, tra certe idee e una certa struttura di potere. Oltre a queste considerazioni teniamo in conto che, dopo la caduta del muro di Berlino, alcuni non sprovveduti, cui i mass media hanno dato notevole e continua risonanza, hanno anche osato parlare di fine delle ideologie, evidentemente ignorando che la verità è solo un processo interminabile di paziente studio e ricerca, sul cui sfondo sta il nostro modo di concepire la vita sociale. 
Un’altra considerazione che ci consiglia di tornare a riflettere sull’ideologia e le sue molteplici valenze è rappresentata dal fatto che costituisce un nodo problematico del pensiero marxista, sul quale molti si sono divisi, accusandosi di riproporre con l’opposizione struttura / sovrastruttura l’antico dualismo positivistico, di ricadere nel volgare economicismo per l’uso della categoria del riflesso o di finire nell’idealismo per l’accento posto con enfasi sulle idee rispetto alla dimensione materiale.

La dialettica marxiana come critica immanente dell’empiria - Stefano Breda

Da: http://www.consecutio.org Stefano Breda, Freie Universität Berlin. 

1. Un campo di tensione teorica

La questione della specificità del metodo dialettico seguito da Marx nella sua critica dell’economia politica rispetto a una dialettica idealista è stata al centro di accesi dibattiti fin dalla prima pubblicazione del primo libro del 
Capitale. L’inconsistenza della celebre metafora del capovolgimento attraverso la quale Marx definiva il rapporto tra il suo metodo dialettico e quello di Hegel è stata convincentemente messa in luce da Althusser (1965, 87 ss.), il quale, però, non ha fornito alcuna vera alternativa complessiva. Indicazioni più concrete si possono trovare in alcune fondamentali intuizioni di Adorno e nella loro elaborazione da parte della Neue Marx-Lektüre, la nuova lettura di Marx sviluppatasi in Germania a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Se si seguono tali indicazioni, il rivoluzionamento della dialettica da parte di Marx non consiste in un capovolgimento di soggetto e predicato rispetto alla sua forma hegeliana, bensì nel riconoscimento del fatto che la dialettica tout court non è che l’espressione filosofica di quegli specifici rapporti sociali in cui soggetto e predicato si presentano oggettivamente capovolti: i rapporti capitalistici (cfr. Reichelt 1970, 81)[1]. Se dunque la dialettica, nella sua forma hegeliana, presenta un mondo capovolto, non la si rimette coi piedi per terra rovesciandola in quanto sistema di pensiero, ma svelandone l’oggettivo radicamento nei rapporti capitalistici e criticando un rovesciamento operante in tali rapporti. Da rovesciare, al più, sono allora i rapporti sociali materiali, non la dialettica: essa va piuttosto demisticizzata, de-naturalizzata, individuandone i presupposti storicamente determinati. Molto più appropriata di ogni immagine legata al capovolgimento è dunque un’immagine legata alla delimitazione: «la forma dialettica d’esposizione è corretta solo se conosce i propri limiti» (MEGA II.2, 91)[2], ovvero i punti nei quali la dialettica, da explanans, diviene essa stessa parte dell’explanandum, in quanto prodotto storico bisognoso di una spiegazione altrettanto storica.

Tutto ciò, però, rimane solo un’astratta concezione generale della dialettica finché non si sia data una risposta soddisfacente al problema fondamentale sollevato da Althusser: demisticizzare la dialettica non significa solo pensarla in termini diversi, ma, al contempo, trasformarne i principi operativi. Ora, se la demisticizzazione della dialettica corrisponde ad una sua limitazione, il problema si pone in questi termini: che cosa significa, operativamente, utilizzare la forma dialettica d’esposizione conoscendone i limiti?