Pubblicato
su “materialismostorico. Rivista di filosofia, storia e scienze
umane", n° 1
(2019), TECNOLOGIA
E IMPERIALISMO. CRISI ECONOMICA, PRODUZIONE INTELLETTUALE,
SFRUTTAMENTO E CONFLITTUALITÀ TRA CAPITALI,
a cura di Francesco
Schettino,
pp. 276-292,
licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Francesco Schettino (Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli)1. Introduzione
Il dominio della
casse borghese sulla classe proletaria (o lavoratrice), quindi
subalterna, è l’elemento che innegabilmente qualifica il modo di
produzione capitalistico; il rapporto di proprietà instaurato tra le
due classi – perno attorno a cui ruota tutto il sistema – si
concreta nella produzione di plusvalore, ossia l’appropriazione da
parte della classe dominante di una parte dell’attività erogata da
quella subalterna, che è l’essenza della riproduzione
dell’economia nel suo complesso. Se per il capitale nella sua
astratta unicità ciò che interessa è l’incremento della
massa di plusvalore e, ancor di più, essa in relazione al valore
anticipato dalla totalità dei capitalisti, dal punto di vista del
capitale individuale la produzione di plusvalore necessita di
“schiudersi”, ossia trasformarsi per divenire utile,
realizzandosi quindi in forma monetaria (quella del profitto).
L’incremento del plusvalore, ossia dell’appropriazione di lavoro
altrui non pagato, è dunque la condizione principale per cui
l’accumulazione possa procedere a tassi crescenti ed è per questo
motivo l’obiettivo prioritario del sistema nella sua totalità e
quindi del singolo agente del capitale.
La contraddittorietà
tra unicità del capitale e molteplicità dei suoi
agenti si svolge mediata dalla concorrenza e agisce principalmente
nel momento della trasformazione del plusvalore in profitto e del
saggio di plusvalore in tasso di profitto: infatti, se la massa
del profitto coincide con quella del plusvalore, non subendo le
fluttuazioni del valore, ciò non avviene per i rispettivi tassi.
In particolare, l’agire della concorrenza, nella fase della
circolazione e le differenze nella composizione organica dei diversi
capitali, rende impossibile tale convergenza. Di conseguenza, le
strategie dei diversi partecipanti al “banchetto” del frutto
espropriato dall’attività dell’operaio complessivo
necessariamente si contrappongono avendo in comune l’obiettivo
dell’incetta del maggior quantitativo di fette possibile. Dunque,
nella fase della produzione, fermo restando il morboso interesse del
capitalista per la quantità di ore non pagate ai propri lavoratori,
appare lampante l’importanza della riduzione dell’esborso
sostenuto anche per il capitale costante, macchinari e materie prime.
La trasformazione di
plusvalore in profitto implica, infatti, che «se il plusvalore è
dato, il saggio del profitto può essere aumentato soltanto mediante
una diminuzione del valore del capitale costante necessario per la
produzione delle merci» [Marx, Il capitale, III.5]: in
sostanza, fermo il numeratore del rapporto che rappresenta il saggio
del profitto, il capitale individua nella diminuzione del
denominatore il fattore complementare all’aumento dello
sfruttamento per poter incrementarne l’entità. In altri termini
una riduzione del valore di macchinari e materie prime, ossia quella
che Marx definisce «economia del capitale costante», implica che il
costo connesso all’appropriazione di lavoro vivo altrui diminuisca,
permettendo così un incremento della sua produttività che a sua
volta si riflette direttamente sul saggio di profitto: nel caso
limite in cui il costo di macchinari e materie prime fosse nullo,
esso raggiungerebbe il livello massimo, essendo esattamente identico
al saggio di plusvalore, ferma restando la variabilità determinata
dalla circolazione delle merci, ossia «a prescindere da tutte
le modificazioni apportate dal sistema creditizio, da tutte le
soperchierie e truffe che i capitalisti commettono l’uno a danno
dell’altro, e infine da ogni favorevole scelta del mercato» [C,
III.7]. In questo caso, il costo del capitale costante per l’utilizzo
della forza-lavoro essendo nullo, il capitalista potrebbe
appropriarsi del lavoro pagato e non pagato in maniera totalmente
gratuita, permettendo una opportuna accumulazione di capitale che
«dipende ancor più dalla produttività che dalla massa di lavoro
impiegato» [C, III.5].