Il
libro di Samir Amin, “La
crisi”,
del 2009, il cui sottotitolo è “Uscire
dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?”
conclude per ora la lettura di alcuni testi dell’economista
egiziano che ha visto prima il suo testo del 1973 “Lo
sviluppo ineguale”,
poi il libro del 1999 “Oltre
la mondializzazione”,
e quello del 2006 “Per
un mondo multipolare”.
Dieci anni dopo abbiamo letto l’intervento “La
sovranità popolare unico antidoto all’offensiva del capitale”,
nel quale la pluridecennale riflessione dell’alfiere della
liberazione terzomondista e instancabile denunciatore della
polarizzazione generata dallo sviluppo capitalista perviene alla
determinazione, apparentemente di chiave tattica, di dover far leva
sulle lotte nazionali e popolari, punto per punto, dai luoghi più
deboli. Il riscatto deve, cioè, pervenire dai luoghi in cui la
contraddizione tra la promessa di prosperità e la realtà di
assoggettamento e alienazione è più ampia. Ciò che bisogna
combattere è una tendenza intrinseca al capitalismo, al quale non è
riconosciuta alcuna capacità emancipatoria o di sviluppo delle forze
produttive: quella
di schiacciare le periferie, creandole come tali.
Creandole in
quanto periferie, rispetto ai
centri dominanti nei quali il capitale si concentra e dalle quali
domina, accade che la logica intrinseca della macchina produttiva (di
valore) tende quindi continuamente a fare della natura (e degli
uomini) risorse e
per questo ad estrarle, ad alienarle.
Per
contrastare questa tendenza, dice Amin, non bisogna aspettare che una
qualche contromeccanica automatica intervenga a salvarci: bisogna
prendere il potere. Occorre, cioè, lottare per il potere.
Costringerlo a fare i conti con le forze popolari, schiacciate, ma
che vogliono rivendicare il proprio.
Dunque:
- Rivendicare
la propria capacità di essere autonomi, di non essere dipendenti e
subalterni;
- Decostruire
sempre, in noi e nelle cose, le relazioni di potere e dominazione;
- Disconnettersi
dai vincoli del capitale, specificatamente dalla logica della
competizione selvaggia della mondializzazione, ponendo anche la
questione della sovranità.
Essere
ciò che si vuole, e volere quel che si è.