La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
Su PeaceLink è stato appena pubblicato questo editoriale in cui si mette in evidenza come Snowden abbia scritto una nuova pagina nella storia della nonviolenza, violando la legge per poter tutelare i cittadini; oggi una corte americana gli dà ragione. Sette anno dopo. Ma Snowden vive ancora nascosto.
La storia di Snowden fa pensare a quella dei Pentagon Papers (le "Carte del Pentagono") ossia le settemila pagine top-secret del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d'America sul Vietnam in cui venivano documentate le bugie dei presidenti americani sulla guerra. Vennero pubblicati sul New York Times nel 1971 e poi sul Washington Post. Fu un atto illegale, erano segreti di stato, segreti militari. Ma quell'atto illegale era compiuto nel nome di una legalità più ampia e superiore, quella della costituzione. UNa legalità che riguardava gli interessi dei cittadini e non dei soli governi. E così è la storia di Snowden. Snowden, esperto informatico, era entrato nel santuario dello spionaggio digitale e aveva scoperto che era stato realizzato un accordo fra i colossi di Internet e il governo americano, dando vita a un sistema di sorveglianza di massa invasivo come mai era avvenuto.
Questa vicenda è illuminante non solo per la storia di Internet.
E' una vicenda che riguarda la storia della nonviolenza.
E che riguarda noi tutti, come cittadini che aspirano alla libertà attraverso la verità.
4 settembre 2020
Nel 2013 Edward Snowden denunciò al mondo intero che la National Security Agency americana spiava milioni di telefoni e computer, svolgendo un controllo globale sulle comunicazioni.
Da: Festivalfilosofia - Roberto Esposito è un filosofo e professore universitario italiano, docente di filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore.
Siamo tornati al punto di partenza. Cioè ai tormenti di Piero Gobetti e Antonio Gramsci all’inizio del secolo scorso. E, ancora prima, a quelli di Giacomo Leopardi del 1824 in Discorso sopra lo Stato presente dei costumi degl’italiani (Feltrinelli, 1991). Se non si compie infatti un’analisi chirurgica sul “caso italiano”, paragonabile a quella contenuta in La rivoluzione liberale (Gobetti) e nei Quaderni del carcere (Gramsci), la bussola della sinistra resterà a lungo senza riferimenti per andare a nord o a sud. Non convince infatti la lettura dell’impasse attuale della sinistra che fa ruotare l’analisi prevalentemente sugli errori “soggettivi”: siano quelli prima del governo Prodi, poi del Pd o dei vari contraenti di patti di unità e di governo. Non perché questi errori non ci siano stati. Ma perché soprattutto un esito così fragile dell’attuale configurazione della sinistra non può essere spiegato con le categorie del harakiri e del “tradimento”. Anche i gruppi dirigenti della sinistra e le loro politiche sono il frutto di un humus, per così dire, ambientale.
Se in via preliminare le cose stanno così, lo sguardo deve essere capace di andare oltre la congiuntura politica del giorno per giorno e il governo Conte (insperato un anno fa) misurandosi con la società che ha provocato tale esito politico. Del resto tutti i nostri problemi erano già stati squadernati dai deludenti risultati di varie elezioni che solo una certa pigrizia intellettuale aveva contribuito a sottovalutare. Aver sottovalutato, per esempio, il primato della riforma della politica come questione che riguardava innanzitutto la sinistra è stato – come dimostra l’emergere del fenomeno dei grillini degli anni scorsi – l’errore più grande. Da qui quel venir meno dello spartiacque tra destra e sinistra che non poteva che misurarsi con idee differenti di società, libertà, comportamenti e valori. La sinistra moderata (Pd) è diventata “centro” e quella radicale (gli spezzoni di Liberi e uguali) ha tentato di unirsi solo in condizioni di emergenza.
Pensiamo che sia condivisibile la spiegazione sulla crisi da sovrapproduzione che è intrinseca al capitalismo, e Sini lo spiega bene con chiarezza.
Sul capitale diventato finanziario se ha ragione Sini è andare oltre Marx. Lo sfruttamento avverrebbe solo da parte del capitalista finanziario e non industriale. Il primo si approprierebbe del plusvalore in ultima istanza. Ma, noi pensiamo, non si può isolare un fenomeno del sistema capitalistico dalla totalità del sistema stesso. Marx parla di interesse (o rendita) e di profitto come di entità diverse ma tutte riconducibili alla produzione di plusvalore. E' quest'ultimo il vero prodotto del capitale (dice Marx). E oggi come oggi c'è un'estrazione di plusvalore dal lavoro vivo quanto mai abbondante. Si deve pensare non solo all'occidente, ma ai milioni di lavoratori cinesi, indocinesi, africani, sudamericani ecc. che producono valore effettivo il quale viene risucchiato e accumulato attraverso le multinazionali e le istituzioni finanziarie internazionali (FMI ecc.). E rimanendo qui da noi, quanto plusvalore viene estorto agli immigrati che coltivano le campagne? (Che poi, attraverso il meccanismo finanziario, questo plusvalore si realizzi come interesse e non solo come profitto è vero). Secondo Sini non esiste più il proletariato come classe e indica come errore d'ingenuità di Marx l'aver considerato il proletariato come classe generale in grado di superare, una volta per sempre la divisione in classi. Ma tutti gli economisti marxisti sono d'accordo sul fatto che non ci sono stati mai tanti salariati come oggi, con rapporti di lavoro di vario tipo (precari, schiavistici). Il proletariato esiste ancora oggettivamente, ma ben poco soggettivamente.
Sini fa un rapido accenno all' "accumulazione originaria" individuandone una delle fonti nel commercio e nello sfruttamento degli schiavi. Il che è giusto, ma, va precisato, l'accumulazione originaria ha origine con la spoliazione dei popoli colonizzati (sterminio dei nativi in America), che dovettero essere sostituiti con gli africani. E al momento in cui da questo fenomeno storico dovrebbe passare a considerare le dinamiche imperialistiche contemporanee, dice che "è un altro discorso". Non è così. Senza l'imperialismo il capitale finanziario forse nemmeno esisterebbe, Lenin l'aveva ben chiaro.
Verso la fine del dibattito Sini tocca una problematica centrale, la scelta tra rivoluzione e riformismo. Riconosce alla prima la centralità che meriterebbe ma con l'onestà che lo qualifica, non se la sente di farsi carico del costo di sangue e vite umane che questa potrebbe voler dire. E' questo un problema enorme che ha segnato il mondo occidentale e le scelte riformistiche e spesso inconsistenti della sinistra dal dopoguerra ad oggi. Quel poco o tanto che si era ottenuto è stato, ed è ancora, spazzato via brutalmente. Vogliamo solo osservare che mentre la violenza rivoluzionaria è di breve durata e non è detto che dia luogo a un bagno di sangue (durante l'Ottobre ci furono assai meno vittime che nella successiva guerra civile scatenata e sostenuta dalle potenze imperialiste) la società di mercato in condizioni capitalistiche richiede invece una mattanza costante e sistematica di esistenze umane: guerre, bassa vita media nelle nazioni povere, avvelenamento dell'ambiente, violenza poliziesca e una perenne insicurezza sulla prospettiva di sopravvivenza materiale di sé e della propria famiglia, sulla assistenza medica adeguata, ecc. E' stato calcolato che solo la politica imperialistica degli Usa ha provocato dopo la II guerra mondiale circa 30 milioni di morti (dalla guerra di Corea in poi), senza calcolare feriti, mutilati, impoveriti etc. Infine: quanto ci cosa in lacrime e sangue il permanere del sistema attuale?
Il problema sul tappeto non è come garantire la "democrazia" - la sua è una visione della democrazia già criticata dai primi del novecento (per non citare Marx) - ma come evitare che il capitale, nelle sue varie forme, ci mangi vivi, noi e la Terra. Forse la "democrazia" - questo tipo di democrazia - non è affatto lo strumento più adatto a questo scopo. (il collettivo)
Si
è svolta recentemente una conferenza virtuale tra organizzazioni
latinoamericane e statunitensi: siamo entrati in una nuova fase sia
pure a tentoni?
Tra la fine di luglio e i primi di agosto si è tenuta un’ampia conferenza virtuale [1], inizialmente programmata per maggio, ma poi rimandata per la pandemia, apparentemente ignorata anche da chi si richiama alla sinistra radicale; conferenza che ha visto la partecipazione di 39 organizzazioni legate al Frente de Izquierda de los Trabajadores (Argentina)di matrice trotskista, oltre ad altri dieci gruppi invitati, non sempre consistenti e in molti casi presenti unicamente su Facebook (in totale di 15 paesi). Questi ultimi, legati ad altre tradizioni marxiste, sono rappresentati per la Bolivia dal Partito socialista rivoluzionario e dal Partito dei lavoratori, per il Brasile da Lotta per il socialismo e Piattaforma Contropotere, per il Perù dal Collettivo uniti per Tacna, per l’Ecuador dal collettivo Eloy Alfaro, per il Messico dalla Lega di Unità socialista, per gli Stati Uniti dai Comitati contro la guerra in solidarietà con le lotte, da Parla ora (Speak out now) e dal Collettivo Tempesta. Queste organizzazioni provengono da differenti tradizioni della sinistra, hanno partecipato attivamente al dibattito, mostrando un’ampia condivisione dei temi proposti nell’appello alla conferenza, pur essendosi palesate delle differenze [2].
Dalla rivoluzione francese in poi il pensiero moderato ha criticato la modernità in quanto distruttrice dei valori sui quali si fondava la società umana (compresa la gerarchia politica ed economica e le forme tradizionali del potere). Avevano ragione, avevano torto? Dipende. La cosa certa è che nelle società eredi delle rivoluzioni borghesi, vale a dire in quelle industrialmente e tecnologicamente sviluppate, vivere è diventato per tutti sempre più difficile, duro e insensato. È colpa del "capitalismo"? Chi sostiene di sì, come gli autori citati nell'articolo, non può cavarsela pensando a un capitalismo razionalizzato, ma deve mettere in discussione vari problemi fra i quali la cosiddetta morte di dio di cui parlava Nietzsche.
Una società socialista risolverebbe il problema del senso della vita? Non lo sappiamo. Può darsi che, anche solo istintivamente, larghe masse, abbandonate dall'ideologia rivoluzionaria e dalla religione, soprattutto nelle nazioni a più diffuso e intenso dominio della forma capitalistica, possano sentire quel vuoto che una certa alta borghesia (ma non tutta la borghesia) conosce da tempo e a cui reagisce col cinismo, col lusso o, a sua volta, con le droghe.
Già in Montaigne e Pascal questa dimensione spirituale di angoscia e smarrimento si è resa presente alla coscienza filosofica.
Il punto di vista autenticamente critico sulla società capitalistica è quello di classe, vale a dire comunista. Un' intellettuale borghese può essere in grado di scorgere le contraddizioni e i limiti storici del capitale, ma non riesce a pensarne il superamento. Può al massimo ipotizzare delle correzioni o delle riforme sul piano della redistribuzione della ricchezza (del plusvalore). Non gli verrà mai in mente la socializzazione dei mezzi di produzione e l'economia pianificata. (il collettivo)
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16/08/2020 di Antonio Pelligra
Arrivano
dagli Usa, storica avanguardia delle tendenze che poi invaderanno
gran parte del mondo economicamente avanzato, segni nefasti: uno dei
più tragici è legato alla diffusione delle “morti per
disperazione”. Una vera e propria epidemia che ha visto, solo negli
Stati Uniti, nel 2017, morire 158.000 persone di suicidio, overdose o
malattie correlate all'abuso di alcool
La
ricerca di un senso profondo per la nostra vita, le relazioni, il
lavoro, rappresenta il bisogno più fondamentale che ogni essere
umano cerca consciamente o inconsciamente di soddisfare. Riuscire a
costruire una narrazione logica e coerente della propria vicenda
esistenziale, sentirsi utili agli altri, capaci di fare la
differenza, consapevoli di operare in vista di un fine che riteniamo
giusto e degno di valore; sono questi gli elementi che ci aiutano ad
attribuire significato alle nostre azioni. Ne stiamo parlando ormai
da varie settimane, qui su “Mind the Economy”, anche in ambito
economico. Poi, naturalmente, c'è il contesto, l'ambiente nel quale
ci muoviamo, il microcosmo e il macrocosmo che abitiamo e che è
determinante nel facilitare o ostacolare questo processo di
costruzione del senso.
Gli anni 1919-1920 sono chiamati “Biennio Rosso”, per il carattere di agitazione sociale e di attesa di grandi cambiamenti che li contraddistingue, al punto da rappresentare il periodo “rivoluzionario” per antonomasia nella storia del Novecento italiano; ma sono anche gli anni della rivoluzione mancata. L’immiserimento provocato dalla guerra nei ceti popolari, l’arricchimento delle classi possidenti, le insoddisfazioni e le attese dei reduci, una generale richiesta di cambiamento sociale, il mito della Russia bolscevica, furono le cause principali dei moti di quei due anni. Ma le divisioni interne al mondo socialista, la mancanza di autentici leader e l’impreparazione delle dirigenze politiche, i livelli non sempre adeguati di coscienza delle masse resero impraticabile l’opzione rivoluzionaria. E al “Biennio Rosso” fece seguito il “Biennio Nero” (1921-1922), con l’avvento del fascismo.
La comune umanità. Memoria di Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del materialismo storico in
Domenico Losurdo, di Stefano G. Azzarà, precedentemente edito dalle Editions Delga di Parigi
nel 2012 ed ora pubblicato da La Scuola di Pitagora in edizione italiana riveduta, ampliata ed
aggiornata dalle corpose integrazioni di Emiliano Alessandroni, costituisce una privilegiata
chiave d’accesso all’itinerario di pensiero di Domenico Losurdo.
I tre capitoli di cui si compone il libro riguardano il confronto storico e filosofico di Losurdo
con la storia del liberalismo, con la filosofia classica tedesca e con il materialismo storico.
Secondo le narrazioni oggi in Occidente più gettonate, il liberalismo, nato tra Sei e Settecento
presso le più illuminate intellettualità europee, lottò e vinse contro l’assolutismo monarchico
facendo acquisire centralità al valore dell'individuo e realizzando lo stato di diritto.
Dopodiché, una volta conferita una più o meno solida struttura alla sua propensione
democratica, si trovò ad affrontare nemici ancora più temibili. Un parto gemellare di natura
totalitaria diede infatti vita a nazismo e comunismo che, affratellati dalla comune natura
dispotica, hanno tentato entrambi di contendere al mondo liberale la guida del Novecento.
Fortunatamente, tuttavia, il liberalismo vinse anche quest’ultima battaglia e a tutt'oggi si
candida a prosperare sull'intero globo, esportando il proprio modello sociale e politico,
garanzia di serenità e di pace.
Domenico Losurdo ha mostrato l’inconsistenza di una simile narrazione, opponendo a questa
storia sacra (la cui credibilità è stata favorita dalla sconfitta dei tentativi di costruzione del
socialismo in Europa orientale) una storia profana, finora abilmente schivata dalla luce dei
riflettori. La narrazione corrente sembra infatti ignorare come il liberalismo abbia costituito
non già un impulso ma un ostacolo alla realizzazione della democrazia moderna, essendo
stato soltanto il sopraggiunto confronto con la tradizione rivoluzionaria ad aver condotto al
superamento delle tre grandi discriminazioni che contraddistinguevano le società occidentali
ancora all'inizio del Novecento: la discriminazione di censo, quella di razza e quella di genere.
Non si trattava tuttavia, secondo Losurdo, di opporre al “Libro nero del comunismo” di
Courtois e colleghi, un “libro nero” del liberalismo, bensì di contestare al liberalismo stesso la
«sua autoidentificazione con la centralità dell’individuo e con la storia della libertà moderna».
Il liberalismo, che pure aveva formulato questi concetti, appariva contraddistinto da notevoli
clausole di esclusione che ne boicottavano la portata universale: la tradizione che aveva
innalzato la bandiera della libertà della società civile e su questa base aveva condotto la
battaglia contro il dispotismo delle monarchie assolute, venne ad imporre a sua volta, con la
propria ascesa, un potere assoluto nei confronti delle classi subalterne e dei popoli coloniali. Si
trattava di un processo di de-umanizzazione su scala globale: solo per la razza dei signori, sulla base delle severe discriminazioni di razza, di genere e di censo, veniva a costituirsi una
comunità di liberi e uguali.
Losurdo ha evidenziato come il superamento di questi limiti sia stato possibile soltanto
attraverso l'incontro/scontro con il movimento operaio e si sia verificato nonostante la struttura
portante del discorso liberale. Questo conflitto da un lato ha mostrato la “duttilità” e la
“modernità” del liberalismo, la sua capacità di adattamento e il suo realismo; dall’altro ha
generato una spaccatura nell’ambito del liberalismo stesso, tra una componente che è andata
saldandosi con le tendenze apertamente reazionarie e un’altra che, ripensandosi interamente a
partire dal compromesso antifascista, è divenuta parte del processo di costruzione della
democrazia moderna.
Lotta
di classe e ideologia nel capitalismo crepuscolare.
Molti, anche autorevolmente, si sono chiesti se gli Uffizi abbiano fatto bene a scegliere Chiara Ferragni come testimonial. Implicitamente, anche non volendo, si intende criticare il mondo che la ragazza rappresenta, che non c'entra con gli Uffizi e l'alta cultura. Altri invece pensano: che c'è di male se la Ferragni ha successo, piace e porta i giovani agli Uffizi?
Il rischio qui latente è la critica moralistica da una parte o l'elitismo dell'alta cultura, un po' snobistico, dall'altra. Sono approcci che non credo portino a niente. Cerchiamo di evitare il moralismo: Chiara Ferragni è una bella ragazza cui piace mostrarsi, di ciò si compiace molto, incontrando il consenso di molti. C'è qualcosa di male? No. La ragazza ne approfitta per fare molta pubblicità a cose come profumi, vestiti, accessori ecc. e tirar su una montagna di soldi. È qualcosa di sbagliato? È una cosa normale in un mondo mercantile.
Se ti piacciono molto i vestiti, gli accessori, l'aspetto della Ferragni, fai qualcosa di esecrabile? Di socialmente inaccettabile o riprovevole? Non credo. Sono tutte cose carine o meno, a seconda dei gusti. Il problema non è qui.
La questione diventa più complessa per il fatto che la Ferragni fa del suo autocompiaciuto edonismo esibizionistico non uno stile di vita, ma la vita stessa: esso è totalizzante includendo ogni sfera della sua esistenza, dal figlio alle "buone azioni". Questo non so se è male, ma è, diciamo, pericoloso.
Se accettiamo l'idea che libertà e cittadinanza implichino, di fatto, che conoscenza, partecipazione, mutua socialità siano costitutivi del vivere insieme, tali cose non possono essere messe sullo stesso piano dei beni effimeri, se non addirittura scomparire. Non per moralismo, ma perché pensare il concetto di cittadinanza implica determinate conseguenze. Non si tratta dunque di fare o non fare certe cose, ma della loro posizione nella scala di riferimento della cittadinanza attiva.
Hegel
non è un autore facile. Il suo pensiero è sottomesso alla stessa
legge di ciò di cui è legge. Tutto ciò imprime al suo sistema una
forma piuttosto contorta e difficilmente afferrabile. In più, il
tempo è inteso come un fiume che mi trascina, ma sono io il fiume,
una tigre che mi sbrana, ma sono io la tigre, un fuoco che mi divora,
ma sono io il fuoco (Borges). Avere ragione di questo processo
significa andare fino in fondo, vedere la fine, mettersi alla prova.
Ma la prova non è un esperimento, un saggio o una verifica. È
piuttosto un errare, costellato di difficoltà e sconfitte.
Come
in un romanzo di formazione, la prova è un mettersi in cammino
attraverso cui il protagonista della narrazione può, alla fine del
tragitto, giungere alla conquista della verità su se stesso e sulla
vita.
La
sua ricerca su Hegel inizia con «Finalità e soggettività. Forme
del finalismo nella Scienza della logica di Hegel»*, e termina con
«Hegel. La dialettica». Si tratta di un cammino – e non potrebbe
essere altrimenti, visto che qui in causa c’è proprio Hegel – un
cammino iniziato con un libro molto tecnico, e chiuso con un libro
altrettanto rigoroso, ma accessibile a un pubblico di non addetti ai
lavori. Cosa ha determinato questo cambiamento di rotta, questo
passaggio a una scrittura apparentemente più semplice e lineare, ma
in realtà molto più sorvegliata?
I
due libri hanno innanzitutto due destinazioni diverse. “Finalità
e soggettività” era la mia tesi di perfezionamento in Normale.
Si trattava di una ricerca sul significato del finalismo hegeliano
condotta a partire da un’analisi degli ultimi capitoli della
Scienza della logica di Hegel. Al finalismo ero arrivato da un
confronto tra la filosofia della storia di Hegel e altre filosofie
della storia grosso modo contemporanee (era stato l’oggetto del mio
secondo colloquio in Normale). Era abbastanza naturale risalire da lì
alla summa logica del pensiero hegeliano. Ovviamente, arrivato
alla Scienza della logica, mi accorsi che il finalismo di
Hegel aveva una portata molto più vasta della sua applicazione ai
processi storici, e anche che esso era qualcosa di sostanzialmente
diverso dal vitalismo a cui spesso viene accostato. La finalità è
per Hegel lo strumento concettuale essenziale per spiegare la
soggettività, ossia le strutture più complesse del reale: gli
esseri viventi, gli esseri umani, la società e la storia, il
pensiero stesso. Nel mio testo ponevo tra l’altro a confronto
l’approccio di Hegel con la cibernetica, la teoria generale dei
sistemi e quella – molto in voga negli anni Ottanta –
dell’“autopoiesi”. Per giungere alla conclusione che gli schemi
concettuali hegeliani erano tutt’altro che incompatibili con questi
tentativi di comprensione del vivente e più in generale dei sistemi
complessi.
Il
mio ultimo libro, “Hegel. La dialettica”, non è un testo
di ricerca, ma una vera e propria introduzione a Hegel. Il suo
obiettivo è quello di avvicinare il lettore (lo studente delle
superiori, lo studente universitario, ma anche la persona che per
curiosità intellettuale voglia capire il pensiero di Hegel) alla
filosofia hegeliana. Per questo il linguaggio adoperato è il più
possibile semplice. Lo sviluppo del pensiero di Hegel è seguito
ripercorrendo i contenuti delle sue opere e delle sue lezioni, per
poi offrire una sintesi, nel capitolo che chiude la prima parte del
volume (“Pensare con Hegel”), dei caratteri generali della
filosofia hegeliana, del significato di “dialettica” e
“contraddizione” in Hegel, e infine presentare alcuni usi
successivi del suo pensiero (in qualche caso piuttosto sorprendenti).
Questa parte del libro è seguita da una seconda, che contiene alcune
pagine particolarmente significative tratte dalle opere di Hegel e da
testi critici su questo pensatore.
Per governare le aziende nell’era digitale ci vuole un capo-carismatico e impegnato che motivi i lavoratori ad andare oltre il profitto.
Il
16 luglio scorso sul Sole
24 Ore,
quotidiano della Confindustria,
che si è distinta in questa fase per le pressioni sul governo per il
proseguimento dell’attività produttiva anche non “essenziale”,
è uscito un interessante inserto “guidaImpresa
Smart”,
dedicato a come le aziende cambieranno in seguito alla massiccia
introduzione del digitale. La guida è stata realizzata grazie alla
collaborazione della School
of Managementdel
Politecnico di Milano (tutti gli anglicismi sono originali) e si pone
come obiettivo quello di comprendere e di dirigere le opportunità
offerte da queste rilevanti trasformazioni tecnologiche,
pur ovviamente restando immutato l’obiettivo finale: il profitto,
anzi magari facilitandone l’ottenimento e aumentandone l’entità.
A
mio parere la pubblicazione rivela un significativo
cambio di paradigma, ovviamente ulteriormente antidemocratico, nella
gestione delle aziende,
che cercherò brevemente di illustrare, segnalando come questa virata
sia sostenuta ideologicamente dal mondo accademico organico alla
Confindustria.
Il
problema fondamentale, indicato nell’articolo “Impegno e scopo le
parole chiave per la leadership” di Antonio Dini, pubblicato
nell’inserto, è quello del cambiamento delle persone, ossia di
introiettare una sorta di nuova
morale del lavoro,
con il rischio che se questo processo fallisce le grandi
trasformazioni tecnologiche risulteranno inefficaci.
Credo
che proprio queste due parole “impegno e scopo” meritino una
qualche riflessione, soprattutto dopo che per decenni si sono
aspramente criticati i cosiddetti “intellettuali engagés”
(impegnati), accusati di essere sottoposti a verità imposte
dall’alto, estranei a un sano pragmatismo di matrice statunitense,
che individui i mezzi adeguati a risolvere i problemi, senza
interrogarsi sulla natura e sulla legittimità di della loro
impostazione e senza prospettare progetti a lungo termine. Che in
molti casi questa accusa si sia dimostrata del tutto inconsistente è
evidenziato dalla vicenda politica e umana di Jean-Paul
Sartre,
icona dell’intellettuale impegnato ma indipendente, che nel 1964
giunse a rifiutare il premio Nobel per la letteratura, dopo aver
rifiutato l’onorificenza della Legion d’onore e una cattedra al
prestigioso Collège de France.