Da: https://www.invictapalestina.org - Fonte: English version - Traduzione: Simonetta Lambertini.
Emad Moussa è un ricercatore e scrittore palestinese-britannico specializzato nella psicologia politica delle dinamiche intergruppi e dei conflitti, con un interesse particolare per Israele/Palestina. Ha una formazione in diritti umani e giornalismo e attualmente collabora spesso con diversi organi accademici e mediatici, oltre a essere consulente di un think tank con sede negli Stati Uniti.
Gli alleati di Israele snobbano Netanyahu per nascondere la loro complicità nel genocidio, scrive Emad Moussa. E se Bibi fosse il sintomo di una malattia sociale più ampia?
La maggior parte degli israeliani non è in grado di vedere le cose dal punto di vista dell’altro o di accettare la responsabilità per i danni che ha inflitto, scrive Emad Moussa.
A Washington, i mormorii di malcontento per la gestione di Bibi della guerra di Israele contro Gaza si sono trasformati in vero e proprio disprezzo.
La decisione del leader della maggioranza del Senato Chuck Schumer, uno dei più strenui alleati di Israele, di chiedere la destituzione di Benjamin Netanyahu ha provocato scosse in tutto il Campidoglio.
Il Presidente Biden ha poi superato Schumer rimproverando Netanyahu, definendo il suo approccio a Gaza un “errore” e rompendo decenni di convenzioni bilaterali.
Entrambi i casi suggeriscono che il problema è Bibi, e i suoi fiancheggiatori di destra, e non Israele stesso. Rimuovete Netanyahu e tutto andrà bene.
Ma quanto è corretto tutto ciò? Piuttosto, cosa spinge Netanyahu ed è l’unico responsabile dell’intento genocida di Israele?
Cosa spinge Benjamin Netanyahu?
I teorici minimalisti puntano sul background di Benjamin Netanyahu per spiegare il suo comportamento, considerando l’attuale “situazione israeliana” come un riflesso della psiche di Netanyahu.
Per spiegare il suo sciovinismo, essi indicano l’ammirazione di Bibi per il sionismo revisionista di Vladimir Jabotinsky – un approccio militarista per controllare tutta la Palestina storica.
Potrebbero anche far riferimento al padre di Netanyahu, Ben-Zion, e alla convinzione di quest’ultimo – e di Jabotinsky – che la storia sia una serie di tentativi falliti di distruggere il popolo ebraico, per comprendere la sua ossessione per la sicurezza nazionale israeliana.
Infine, possono indicare la morte del fratello Yoni nel raid di Entebbe del 1976 per spiegare la visione del mondo di Netanyahu che divide tutti in due campi: quello “indiscutibilmente pro-Israele” e quello “assolutamente anti-ebraico”.
È questo, sostengono, che spiega la decontestualizzazione della storia da parte di Netanyahu. Gli attivisti anti-israeliani sono una “esplosione del passato” della ”lacrimosa storia ebraica”, per usare un termine dello storico ebreo Salo Cohen.
Nel mondo di Netanyahu, c’è un continuum di sofferenze ebraiche da Nabucodonosor e la distruzione del Primo Tempio nel 586 a.C., ai pogrom russi e all’Affare Dreyfus nel 1896, alla Germania degli anni ’30-’40, fino al conflitto arabo-israeliano e all’occupazione dei palestinesi.
Questa visione è astorica, non rispetta le leggi della causalità e porta a una percezione errata della realtà. Netanyahu, ad esempio, nel 2015 non si è fatto scrupoli ad attribuire la Soluzione Finale al Muftì di Gerusalemme, lo sceicco Amin al-Husseini, assolvendo Hitler dal suo piano genocida e attribuendo la Shoah ai palestinesi.
Ma ciò che la teoria minimalista non riesce a comprendere è che, concentrando la colpa su una sola persona, si solleva il collettivo dalle responsabilità. In particolare, si distrae dal contesto più profondo dal quale Benjamin Netanyahu è emerso: il suo elettorato israeliano-ebraico.
I leader, come tutti gli altri, sono il prodotto del sistema di credenze, dell’identità sociale, dell’ethos e degli orientamenti emotivi della loro società. Per quanto estreme, le loro tendenze personali non sarebbero liberamente esternate se non fossero incoraggiate, approvate o almeno tollerate dalla società.
In effetti, la maggior parte degli israeliani è indignata con Netanyahu e lo incolpa personalmente per la violazione della sicurezza del 7 ottobre, per la vanificazione dell’accordo sugli ostaggi con Hamas e per la compromissione della democrazia israeliana. Ma questa stessa maggioranza – compresi i parenti degli ostaggi – che vuole che Netanyahu si dimetta per garantire un accordo sugli ostaggi, sostiene contemporaneamente le sue politiche contro i palestinesi.
La maggior parte di loro vuole che la guerra continui e crede che i massacri e i crimini di guerra senza precedenti a Gaza siano giustificati. La maggior parte ritiene che l’IDF stia usando “troppa poca potenza di fuoco” a Gaza, nonostante l’uccisione di oltre 34.750 palestinesi, la carestia, lo sfollamento di massa e la distruzione di quasi la metà delle infrastrutture civili di Gaza.
Nel frattempo, i canali dei social media israeliani continuano a pullulare di sproloqui razzisti e genocidi e di filmati che celebrano e deridono la morte di civili palestinesi, tra cui migliaia di bambini.
Anche molti giornalisti e funzionari hanno espresso un linguaggio genocida simile. Secondo Chris McNeal, che ha seguito il genocidio ruandese, questo linguaggio gli ricorda i termini usati dagli Hutu per incitare contro i Tutsi.
La maggioranza degli israeliani si oppone, in linea di principio, alla creazione di uno Stato palestinese. E come Netanyahu, molti interpretano il clamore del mondo per il massacro di Gaza come antiebraico, negando a Israele – l’occupante – il suo “diritto all’autodifesa”.
Questo ragionamento distorto può essere stato accentuato dal 7 ottobre, ma la base c’era già: un sistema di credenze preesistente da decenni che rendeva le politiche israeliane, per quanto controverse, giustificabili agli occhi della maggior parte degli ebrei israeliani.
Consente di conciliare pratiche contraddittorie come il volere un accordo per gli ostaggi e l’opporsi a un cessate il fuoco. In Israele, non c’è contraddizione nel “volere” la pace ma non la fine dell’occupazione. Ciò consente alla maggior parte degli israeliani di partecipare all’occupazione con distacco, incoraggiamento o tolleranza delle pratiche del proprio governo.
La realtà violenta del “popolo eletto” di Israele
Tre sono i fattori in gioco: il vittimismo autopercepito, l’autogratificazione e la disumanizzazione dei palestinesi. Ben-Zion e Benjamin Netanyahu non hanno dato inizio alla tendenza vittimistica, anzi, ne sono stati e ne sono il prodotto.
Il sionismo è stato fondato sulla nozione di emancipazione degli ebrei da secoli di vittimismo e la nascita di Israele è stata percepita come una redenzione delle vittime.
La trasformazione dei sionisti da vittime a carnefici dopo la Shoah non ha cambiato la loro immagine di vittime. La resistenza e le critiche mondiali contro la loro occupazione militare hanno approfondito questa percezione, anziché innescare una riflessione.
Gli israeliani sono forse gli unici occupanti nella storia moderna che si considerano vittime, se non le uniche vere vittime. Questo permette loro di sentirsi vittime delle stesse persone che occupano e che abitualmente rendono vittime.
Per alimentare questa bizzarra mentalità, ha bisogno, tra l’altro, di capitalizzare la convinzione preesistente che gli israeliani siano “il popolo eletto”.
In un sondaggio del 2023, la maggioranza degli ebrei israeliani ha risposto “sì” alla domanda: credi che gli ebrei siano il “popolo eletto” come descritto dalla Bibbia?
In un altro sondaggio di dieci anni prima, la metà degli ebrei israeliani credeva “molto fortemente” o “abbastanza fortemente” che gli ebrei fossero il popolo eletto. In un sondaggio del 2016, il 61% di loro era d’accordo sul fatto che Dio avesse concesso loro la terra d’Israele.
Il giornalista israeliano Gideon Levy commenta: “La maggior parte degli israeliani crede profondamente che siamo il popolo eletto…[con] il diritto di fare qualsiasi cosa”.
Perché ciò sia vero, è necessario eliminare tutte le vestigia del vittimismo palestinese. Chi vuole una competizione che mina l’immagine di sé, il vittimismo perpetuo e il senso di grandiosità? Pertanto, i palestinesi vengono sistematicamente e regolarmente disumanizzati.
Se i palestinesi non sono “ugualmente umani”, significa che non hanno diritti umani. Significa che Israele può eliminarli come “animali umani” e impadronirsi della loro terra impunemente.
Questi tre fattori fanno sì che la prospettiva di una società si rivolga esclusivamente verso l’interno, sviluppando un alto grado di auto-coinvolgimento e narcisismo. Le “vittime” di solito tendono a concentrarsi su se stesse e sulla propria sofferenza, il che porta a una ridotta capacità di empatia e, di conseguenza, a una riduzione del senso di colpa di gruppo.
Diventano incapaci di vedere le cose dal punto di vista dell’altro, di identificarsi con la sua storia o di accettare la responsabilità per il danno che hanno inflitto. Peggio ancora, scaricano la colpa delle proprie azioni sulle vittime: “Hamas mi ha costretto a farlo” o – per gentile concessione di Golda Meir – “Non potremo mai perdonare [gli arabi] per averci costretto a uccidere i loro figli”.
Una società con questi tratti narcisistici patologici si sente moralmente superiore e ha il diritto di fare tutto ciò che è necessario per garantire la propria sicurezza, senza alcun riguardo per le considerazioni morali o le conseguenze fisiche.
Benjamin Netanyahu e la sua destra hanno dato l’ordine di uccidere 14.000 bambini e radere al suolo centinaia di migliaia di case a Gaza, ma hanno avuto l’appoggio della maggioranza degli ebrei israeliani per farlo. Bibi è un sintomo di una società malata, non la malattia stessa.
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