venerdì 13 marzo 2015

FUNZIONI DELLO STATO - DISTINZIONE FORMALE LOGICA ANALITICA - Stefano Garroni


"L'essenza dello Stato è l'universale in sé e per sé, la razionalità del volere. Ma, come tale che è consapevole di sé e si attua, essa è senz'altro soggettività; e, come realtà, è un individuo. La sua opera in genere, - considerata in relazione con l'estremo dell'individualità come moltitudine degli individui, - consiste in una doppia funzione. Da una parte, deve mantenerli come persone, e, per conseguenza, fare del diritto una realtà necessaria; e poi promuovere il loro bene, che dapprima ciascuno cura per sé, ma che ha un lato universale: proteggere la famiglia e guidare la società civile. Ma, d'altra parte, deve ricondurre entrambi, - e l'intera disposizione d'animo e attività dell'individuo, come quello che aspira ad essere un centro per sé, - nella vita della sostanza universale; e, in questo senso, come potere libero, deve intervenire nelle sfere subordinate e conservarle in immanenza sostanziale." (Hegel)


Nella “Critica alla filosofia del diritto pubblico di Hegel. Introduzione.” Marx, per la prima volta, individua nel proletariato l’unica classe capace di sovvertire l’intero ordinamento della società e dello Stato (la Germania, in quel caso).  Nel linguaggio fortemente dialettico delle sue opere giovanili, Marx così mette a fuoco la condizione proletaria e le potenzialità che ne derivano: “Dov’è dunque la possibilità effettiva   della emancipazione tedesca? Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, una classe della società civile che non sia una classe della società civile, un ceto che sia la dissoluzione di tutti i ceti.”
Contro questa classe “viene esercitata non un ‘ingiustizia particolare bensì l’ingiustizia senz’altro”, essa è “in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema politico” e non può “ emancipare se stessa  senza…emancipare  tutte le rimanenti sfere della società”. Il proletariato è “la perdita completa dell’uomo,  e può dunque  guadagnare nuovamente se stessa  attraverso il completo recupero dell’uomo”.

Nel momento in cui scrive questo articolo per gli “Annali  franco- tedeschi” Marx non ha  ancora intrapreso gli studi di economia cui si dedicherà anima e corpo negli anni successivi: non ha ancora messo a fuoco sul piano scientifico la struttura antinomica della società capitalistica né la centralità della contraddizione capitale – lavoro. In più, è da notare come egli, consapevole della condizione di arretratezza economica e sociale della Germania dei suoi tempi,  parli di “formazione” di una classe: significa che questa classe ancora non è pienamente sviluppata e che solo il suo sviluppo porrà le condizioni perché essa possa svolgere il ruolo storico che Marx le riconosce.
Voglio dire che il problema centrale, con cui Marx si confronta qui, non è ancora quello del superamento di un determinato sistema socio-economico fondato sulla separazione del lavoro dai mezzi di produzione: il tema dell’assoggettamento umano  appare, dunque,  non come  conseguenza   di particolari rapporti di produzione, bensì nella forma dell’opposizione fra l’uomo e lo Stato, fra “società civile” e Stato, fra l’“essenza umana”  e la sua negazione nello Stato – qualsiasi Stato.
E’ nozione di tutti come su questi temi  ( il “giovane Marx”, i suoi rapporti con l’hegelismo, il suo “umanesimo”, la successiva cosiddetta “rottura epistemologica ecc.) siano state scritte moltissime pagine – è sufficiente ricordare Althusser.

Ma è fuor di dubbio, a mio avviso, che in questo breve e difficile testo si possa scorgere un elemento in grado di illuminare un aspetto del pensiero – o meglio, del modo  di pensare – di Marx, che non solo non verrà meno nell’opera successiva, ma che ne costituirà, sempre, lo sfondo e il presupposto: mi riferisco all’originaria vocazione etico- morale di Marx, la stessa che lo avvicina, ma anche lo differenzia,  ad altri scrittori  socialisti o “comunisti” del suo tempo.

Nel parlare di  “vocazione etico- morale “, però, non intendo indicare qualcosa di assimilabile a un sentimento o a un “astratto furore” – per dirla col Vittorini di “Conversazione in Sicilia”: c’è sicuramente del sentimento in Marx, e senz’altro anche del furore e una genuina indignazione, che spesso si scaricano in ironia e sarcasmo, ma non sono questi i fondamenti della sua posizione etica.
Piuttosto Marx, a partire dai suoi primi scritti,  si presenta come il più coerente prosecutore della linea che dall’Illuminismo porta alla Rivoluzione  Francese. Quella linea, cioè, che riconosce nell’uomo (ma c’era già in Vico) l’unico costruttore della propria storia e, dunque, anche dello Stato della società in quanto prodotti storici. La novità di Marx (ma rintracciabile anche in altri) sta però nel suo scorgere che lo stesso Stato che nasce dalla Rivoluzione giacobina, lo Stato ispirato dal “Contratto sociale di Rousseau e portato alle estreme conseguenze dal Robespierrismo di sinistra e dal radicalismo piccolo- borghese di Saint- Just, una volta rovesciati i tiranni si rovescia poi a sua volta al punto da diventare egli stesso un nuovo tiranno. Non per un errore degli uomini: ma per sua intrinseca natura, per una “legge” storica.

Marx, ovviamente, non nega il grande progresso costituito dalla Rivoluzione francese, al contrario:   egli contrappone nettamente lo Stato della Convenzione, e in generale gli Stati a costituzione democratico- rappresentativa, allo Stato  prussiano- tedesco“teologico”, autoritario, censore  e semi-feudale.

Ma, per usare un’espressione del linguaggio comune, quel progresso “non gli basta”. Un altro passo va compiuto sulla strada della liberazione umana, e questo passo corrisponde al superamento dello Stato in quanto tale, condizione sine qua non  perché l’uomo si ritrovi finalmente padrone assoluto di se stesso: non solo nei cieli della teoria ma nella concretezza della sua esistenza effettiva.
Si può parlare di Marx, almeno in questa  fase del suo pensiero, come di un  “anarchico razionale”? Forse a questa domanda si può rispondere affermativamente a patto di porre l’enfasi sul termine “razionale”, vale a dire sulla consapevolezza,  che in Marx è senz’altro presente, che non si tratta di distruggere fisicamente  un apparato più o meno oppressivo la cui semplice scomparsa restituirebbe magicamente agli uomini la completa libertà. Tutt’altro: la libertà umana è un  presupposto, non una conseguenza, del superamento dello Stato. Infatti, solo attraverso l’esercizio della libertà questo processo potrà compiersi: ma non della libertà formale, nemmeno di quella vigente nelle democrazie rappresentative, bensì di quella libertà  che Marx vede come propria dell’essenza umana e che fa degli uomini, in ogni circostanza, dei creatori di se stessi.

Marx, si può dire in anticipo su se stesso, individua  nel proletariato l’iniziatore e il catalizzatore di questo processo. Lo fa ancora prima di diventare propriamente “comunista”, il che comunque avverrà da lì a poco. Lo fa perché crede che l’uomo sia qualcosa per cui valga la pena spendersi: in questo  è un grande erede dell’Illuminismo e ancora in questo sta la sua originaria ispirazione etica.
 Aristide Bellacicco (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni)

L'audio dell'incontro:         https://www.youtube.com/watch?v=-ZEUew5oY3c
La trascrizione parte dal min. 3:13.

Volevo provare a fare una chiacchierata, e cioè affrontare l’argomento come se non facessimo riferimento a nessun libro e a nessuno scritto, ma appellandoci semplicemente all’esperienza che abbiamo tutti quanti e al comune uso della ragione. Ovviamente in questo tipo di esposizione sia chiaro che io sto parlando in realtà di alcune opere di Marx in modo particolare – per es. La questione ebraica -, sto parlando di alcune opere di Kant, di Hegel ecc.
Mi pare che sia più utile parlarne sotto questa forma non cattedratica e non appesantita da citazioni ecc.
Tra l’altro – questo vale come una piccola introduzione – voi sapete che esiste una tradizione filosofica di lingua inglese in particolare, estremamente importante, che è la tradizione della filosofia analitica che vede la funzione della filosofia fondamentalmente in questo: cercare di chiarire il significato della lingua che tutti quanti parlano. Cioè esiste un linguaggio comune che per es. tutti i parlanti di una certa lingua parlano, e il problema è quello di cercare di chiarire che significano quelle cose che vengono dette comunemente.
Ispirandoci un po’ a questo tipo di impostazione, credo che noi dovremo fare questo ragionamento: è evidente che quando qualcuno dice: “ogni uomo ha diritto a…” o “ha diritto di…”, intende dire che, quali che siano le differenze naturali, sociali, culturali di ogni uomo; appunto, ogni uomo ha lo stesso diritto.
Se si dice: “ogni uomo ha diritto a…” vuol dire che non si accetta per es. il fatto che uno perché ha la pelle nera ha meno diritti, o una perché è donna ha meno diritti, ma appunto si afferma che “ogni uomo ha diritto a…”
Significa che ogni individuo umano ha quel certo diritto, che quel certo diritto appartiene all’individuo umano, quali che siano le sue caratteristiche naturali e storiche, e quindi la nozione di diritto viene immediatamente legata prima a “individuo”, e secondo è immediatamente una nozione formale, nel senso che prescinde da differenze di contenuto materiale, storico, sociale, culturale, biologico, ecc.
Insomma, voglio dire che il portatore di questo diritto, non è un uomo concreto - l’uomo concreto è bianco, è nero, è uomo, è donna – ,ma è qualunque uomo, qualunque individuo, quindi è un uomo formale, non concreto.
Ed è estremamente importante l’affermazione “ogni uomo ha diritto a…” , proprio in quanto il portatore di questo diritto non è un individuo concreto, con caratteristiche storiche e fisiche determinate, ma è ogni individuo; quindi è la generalità degli individui, quindi l’individuo in astratto.
Se invece il diritto fosse legato all’uomo concreto, cioè con quel corpo, con quella pelle, con quel sesso ecc., allora non sarebbe un diritto ma sarebbe un privilegio. E’ chiaro che se quando dico “ogni uomo ha diritto a…” intendo l’uomo bianco – e quindi non in astratto ma l’uomo con quelle caratteristiche fisiche di essere razza bianca -, sto escludendo il nero e quindi sto affermando un privilegio.
Quindi se io dico “ogni individuo ha diritto”, è fondamentale comprendere che non sto parlando di un uomo concreto ma dell’individuo in generale, dell’uomo in generale.
È importante anche comprendere questo: quando io affermo che “ogni individuo ha diritto a…”, in realtà quello che sto dicendo è questo: se esiste un potere che nega a un individuo un certo diritto, io mi ribello e affermo: “no, ogni individuo ha diritto a…”
L’affermazione “ogni individuo ha diritto a…” è 1) legata a un individuo astratto, nel senso che non è il privilegio di un gruppo o di una persona con certe caratteristiche. 2) è un affermazione difensiva: si presuppone una minaccia, contro cui si eleva un argine: “questo non si può fare perché ogni individuo ha diritto a…”
Quindi per es. se c’è un governo che toglie la parola a qualcuno, si afferma: “no, ogni individuo ha diritto alla parola, quindi contro questa prepotenza, contro questa minaccia del potere affermo il diritto di…”
La cosa è abbastanza pacifica perché voi ricordate che  per es. in Italia esisteva un ordinamento giuridico per cui la donna che commetteva adulterio era punibile in modo diverso dall’uomo.
Di fronte a questo, dire “No, ogni individuo ha diritto a…”, per es. a una uguale giustizia, significa negare il privilegio dell’uomo in quella situazione, parificare tutti, cioè prescindere dalla differenza sessuale, - appunto riappare l’individuo astratto – e affermare il diritto dell’individuo astratto.
Analogamente se il colonialista bianco nega la libertà al nero di organizzarsi politicamente, uno che dice: “no, ogni individuo ha diritto a…”, sta affermando appunto il diritto dell’individuo nero di organizzarsi , poniamo, contro la prepotenza di un potere in questo caso bianco. E di nuovo, qui dicendo “ogni individuo”, si prescinde dal fatto che sia bianco, nero, uomo o donna; quindi si prescinde dalla concretezza dell’individuo e dalla materialità dell’individuo, e si afferma il diritto dell’individuo astratto, dell’individuo formale.
È chiaro che se io faccio esempi di questo genere – uomo, donna, l’adulterio, il bianco o il nero -, il discorso fila tranquillo.
Ma immaginiamo invece un mondo fatto di tre persone A, B e C. Facciamo conto che B e C non hanno altra proprietà che se stessi – cioè hanno il loro corpo e basta – e A è proprietario invece di capitale. Questo capitale produrrà profitto solo se viene impiegato lavoro. Facciamo conto che abbia bisogno del lavoro di una sola persona. “A” potrà contrattare con “B” e con “C” chi lavorerà per il suo capitale, e proprio perché B e C sono due, e lui ha bisogno di un solo lavoratore, potrà imporre il contratto lavorativo a lui più conveniente. Quando poi si stabilisce un contratto, facciamo conto che appare un quarto individuo D che fa di professione il giudice o il notaio, questo può assicurarsi che il contratto sia stato fatto rispettando tutte le norme di legge, e quindi giudicare valido il contratto, ma in realtà è un imbroglio, perché B e C debbono - per vivere -, vendersi ad A, ed A può giocare sulla concorrenza tra loro due per imporre la propria volontà.
In questo caso è del tutto chiaro che io non posso dire che il diritto vale a prescindere dalle differenze concrete. Qui la differenza concreta di essere o no proprietario di capitale, ha una tale importanza da negare la possibilità di salire al livello dell’individuo astratto formale. Qui la differenza è tale da cambiare completamente lo stato di cose.
Qui ci troviamo di fronte a un paradosso importante: 1) non si può parlare di diritto se non si parla dell’individuo in astratto, cioè a prescindere dalle differenze materiali. Se si prescinde dalle differenze materiali esistono casi - per es. questo della proprietà degli strumenti di produzione, del capitale ecc. -, in cui invece quelle differenze annullano la parità di diritto. Qui la forza della differenza è tale da non rendere possibile se non con l’imbroglio l’affermazione dell’uguale situazione.
Se io dico che tutti e due sono proprietari, l’uno di sé e l’altro del capitale, faccio solo un gioco di parole, perché essere proprietario di me vuol dire che non ho niente, essere proprietario del capitale vuol dire che posseggo un bene esterno, oltre a me, e quindi ho una situazione di privilegio in realtà.
Il paradosso sta in questo: non posso parlare di diritto se non astraendo dalle differenze, ma esistono casi concreti in cui se astraggo dalle differenze in realtà annullo il diritto.
In concreto noi dobbiamo capire che, diciamo a partire dal ‘500, si va formando un moderno pensiero giuridico che afferma l’uguale diritto degli uomini a prescindere dalle differenze, e che questo pensiero – nel ‘700 per es., con la rivoluzione francese ecc. - diviene poi il pensiero su cui vengono fondate le costituzioni di stati borghesi e capitalistici.
Il paradosso si spiega nel senso che appunto, non posso parlare di diritto se non facendo astrazione dalle differenze, ma esiste un caso determinato – la proprietà degli strumenti di produzione, del capitale – in cui prescindere dalle differenze significa imbrogliare, significa far finta che proprietario di se stesso e proprietario di capitale siano entrambi proprietari, e quindi creare una apparente uguaglianza che in realtà si rovescia nel privilegio del capitalista. E allora ecco che questo pensiero giuridico formale diventa un puntello, una legittimazione del privilegio capitalistico.
Il problema nostro però è capire questo: il fatto che divenga un puntello del privilegio capitalistico, significa allora che noi dobbiamo rifiutare in ogni caso il discorso del diritto formale? Del diritto che fa astrazione dalle differenze?
Per es.: io sono un marito e ho una moglie. La tradisco. Se si rivolge al tribunale le leggi sono tali per cui io non sono passibile di nessuna punizione a meno che non abbia sottratto denaro al mantenimento della moglie e dei figli.
Rovesciamo il caso: io sono il marito, mia moglie mi tradisce, io la denuncio, e la legge mi riconosce il diritto della denuncia e punisce la moglie. È una situazione di squilibrio. È una situazione, dal punto di vista del diritto, intollerabile.
Se è invece, dal punto di vista del diritto, tollerabile che uomo o donna abbiano tutti e due la stessa responsabilità di fronte al matrimonio, allora vuol dire che l’individuo, quale che sia la differenza sessuale, deve essere sottoposto alla stessa legge. Allora quell’individuo che è sottoposto a quella legge, non è ne uomo e ne donna, ma è entrambi. In questo senso è un individuo astratto.
E dal punto di vista del diritto è ovviamente intollerabile una situazione in cui invece il diritto sia diverso a seconda del sesso. E ugualmente a seconda della razza per es.
Oppure, facciamo conto: noi facciamo la dichiarazione dei redditi e abbiamo il privilegio di poter versare l’8 per mille a Santa Romana Chiesa. Facciamo conto che tu voglia versare l’8 per mille alla chiesa musulmana. Non lo puoi fare.
E dal punto di vista del diritto questa è un’assurdità perché se io devo avere il diritto di versare soldi a una chiesa, deve essere – dal punto di vista del diritto – a qualunque chiesa, quindi a una chiesa in astratto e non a una chiesa concreta. E devo avere anche il diritto di non versare soldi a nessuna chiesa, cioè deve essere rispettata la mia credenza, quale che sia: religiosa o non religiosa.
Quindi dal punto di vista del diritto non vale la mia credenza concreta, ma la mia credenza in astratto.
Ma se io sono proprietario degli strumenti di produzione e tu sei proprietario del tuo corpo solamente, certamente possiamo stabilire un contratto paritetico, in cui io ti propongo una cosa e tu liberamente accetti. In realtà è un imbroglio, perché se tu non accetti fai la fame, mentre – dal punto di vista del capitalista – se tu non accetti io mi rivolgo a un altro e quindi il mio capitale rende ugualmente. Allora questo è un caso determinato in cui la differenza materiale annulla il diritto: la formale uguaglianza è un imbroglio in questo caso.
Se uno dicesse – riprendendo la faccenda dell’adulterio -: “no, guarda che quella è donna e quello è uomo”, questa differenza non annulla il diritto, perché entrambi…ecc. ecc.
Quello che voglio dire è questo – ecco il paradosso –: non possiamo parlare di diritto se non parliamo dell’uomo astratto, quindi a prescindere dalle differenze. Esiste però una situazione determinata in cui se noi parliamo in astratto, imbrogliamo.
Siccome storicamente è successo che questo pensiero giuridico astratto si è – diciamo - cominciato a sviluppare  dal ‘500, poi con le rivoluzioni borghesi è diventato il diritto della borghesia, ma appunto della borghesia, cioè l’autorizzazione a quella falsa uguaglianza tra proprietario del proprio corpo e proprietario del capitale, - e quindi l’imbroglio e la sanzione giuridica dello sfruttamento – allora il problema nostro è questo: è inevitabile che il diritto in astratto divenga la copertura ideologica della società capitalistica, o no?
Detto in altri termini: una società socialista può proporre un diritto astratto?
È chiaro che se il diritto astratto, inevitabilmente, deve diventare la copertura dello sfruttamento capitalistico è chiaro che la società socialista non può proporre un diritto astratto.
Se invece questo rapporto non è inevitabile allora la società socialista potrebbe proporre un diritto astratto. Per es. nella costituzione sovietica degli anni ’60, si diceva che “ogni individuo, a prescindere dalle differenze di razza, di sesso e di credenza, ha diritto a…”. Questa è una formulazione da diritto astratto. Questo è un caso concreto in cui una società socialista propone un diritto astratto. Allora torna la domanda: ma se il diritto astratto ha un rapporto organico necessario con l’essere copertura dello sfruttamento capitalistico, allora i sovietici quando proponevano questa formulazione astratta, che cosa stavano facendo? Coprivano un loro capitalismo? O no?
Io credo che sia molto importante che noi comprendiamo una cosa: prendiamo una qualunque teoria che venga formulata in una epoca data. In definitiva può avere almeno due significati: un significato in quanto appartiene a una storia delle teorie, e un altro significato che gli viene dall’esistenza dei rapporti sociali esistenti.
Perché il diritto astratto diviene copertura della società capitalistica? Per la semplice ragione che esiste nella realtà una parte di popolazione che possiede il capitale e una parte che non lo possiede. Questo stato di fatto impone un senso al diritto astratto che è quello di diventare copertura della società capitalistica.
Sto dicendo che non c’è nessuna necessità logica che quel diritto divenga giustificazione e copertura della società capitalistica. Lo diventa per il semplice fatto che esiste nella realtà una struttura capitalistica. Insomma, le cose – anche le cose teoriche – acquistano significati diversi in contesti storici diversi.
E qui bisogna fare attenzione – quando si butta via un contesto storico -, stiamo attenti, che non siamo immediatamente autorizzati a buttar via anche le sue teorie, perché quelle sue teorie in quanto teorie possono avere un significato diverso da quello che hanno assunto nel contesto storico.
Per es.: voi sapete che quando – tra la fine degli anni ‘10 e l’inizio degli anni ’20 – l’internazionale comunista discute il problema del diritto delle nazioni all’autodeterminazione, questa discussione ha un enorme importanza perché? Perché il movimento socialista e comunista nasce come movimento internazionalista. Cioè ha tutta una storia che lo porta ad essere nemico dei nazionalisti e dei nazionalismi. Lenin che svolta introduce? Introduce questa svolta: le nazioni coloniali lottando per la loro libertà nazionale, lottano contro l’imperialismo, quindi divengono obbiettivamente alleate del proletariato.
Allora in questo contesto storico determinato, il diritto delle nazioni all’autodeterminazione significa un appoggio alla lotta proletaria. Allora ecco che la parola d’ordine “viva la nazione” acquista un senso diverso per il contesto storico in cui si inserisce.
Allora una volta che io abbia in mente per es. il nazionalismo degli italiani che fanno finta di fare il loro risorgimento e lo condanno come fenomeno borghese, non posso andare in un altro contesto storico – quello della prima guerra mondiale, della prima manifestazione mostruosa appunto, mondiale dell’imperialismo, e applicare lo stesso criterio, cioè condannare i nazionalismi. Non posso farlo perché il contesto storico è cambiato e la parola d’ordine “si alla nazione” ha acquistato, nel contesto cambiato, un nuovo significato, un nuovo senso.
Se comprendiamo che una teoria – per es. la teoria nazionalistica, o la teoria del diritto o qualunque altra teoria – in contesti storici diversi può assumere significati diversi, allora comprendiamo che non è automatico per es. il fatto che il diritto astratto, essendo divenuto in un contesto dato, strumento per sancire  la società capitalistica, è da abbandonare in una prospettiva socialista. In un nuovo contesto storico può acquisire un altro significato.
Questo è del tutto chiaro, per es. se io dico che ogni cittadino ha diritto di parola, quale che sia il ruolo che svolge nella società, io sto dicendo per es. che se un cittadino si chiama Kim il Sung, ed è il presidente del nord Corea, lui ha diritto di parola così come qualunque coreano che non sia presidente della Corea.
Quindi sto affermando un principio elementare per garantire una democrazia proletaria.
Certamente il diritto va giudicato per il rapporto che ha con una società, ma attenti però che il significato del diritto non è tutto e solo in quel rapporto, perché in un contesto sociale diverso può assumere un significato diverso. Se è vero che il diritto astratto diventa un puntello della società capitalistica esistendo il capitalismo, non è detto che non esistendo il capitalismo ma essendo sostituito per es. da una organizzazione socialista, non acquisti un altro senso.
Dobbiamo fare una differenza tra teoria e ideologia. Se l’ideologia è quell’insieme di norme, di convinzioni, di pratiche che sostengono una società data, che la puntellano; la teoria non è questo, ma è uno strumento di conoscenza. Lo strumento di conoscenza può diventare ideologia in un contesto dato, ma non è solo ideologia.
Però questo allora significa che per es. da parte nostra deve essere estremamente attenta l’analisi per es. di questo fatto: è del tutto chiaro, se io affermo che “ogni individuo ha diritto a…”, lo affermo contro un potere che sta cercando di violare, di invadere il campo altrui.
C’è un elemento difensivo nel diritto. E questa è una faccenda antipatica: lo vediamo benissimo nella nuova sinistra: l’esaltazione del diritto individuale ha un lato estremamente brutto. Voglio dire: se io difendo il diritto dell’individuo lo difendo rispetto a un potere. Il che significa che io do per scontato l’esistenza di quel potere. Se io difendo il diritto suo a non essere violato dallo Stato, do per scontato che c’è uno Stato che lo minaccia e difendo il suo diritto. Ma questa è una posizione subalterna perché appunto dà per scontato l’esistenza di un potere centrale che lo minaccia.
Il comunista a cosa tende? Tende a mettere in questione invece quel potere centrale, vuole sostituirlo con un altro potere centrale, quindi non può limitarsi a rivendicare il diritto, perché il diritto è difensivo. Deve mettere in questione proprio l’origine del pericolo: cambiare lo Stato. E allora deve andare oltre il diritto. 
D’altra parte bisogna stare attenti però, perché? Per es. quando sono stato in Corea ovviamente li la gente parlava coreano quindi era difficile passeggiando per la strada capire qualche cosa. Questo è fondamentale invece per farsi una idea della situazione. Allora propongo ai compagni coreani che ci accompagnavano, di andare nella loro libreria internazionale dove ovviamente c’erano pubblicazioni non in coreano. Bene io li trovo pubblicazioni in inglese, in tedesco, in francese e in spagnolo. Queste pubblicazioni erano le opere di Kim il Song.
Questo vuol dire che non solo io straniero non sono in condizioni di rendermi conto della realtà del paese, ma che lui coreano che sapesse una lingua straniera, leggerebbe in inglese quello che legge in coreano.
Se a questo punto io dico “no, ogni individuo ha diritto all’informazione”, qui io sto sicuramente elevandomi contro un potere statale, che non metto in discussione. Da questo potere statale tu hai un limite: il diritto del singolo: non lo metto in discussione quel potere. Questo può essere esteso ovviamente anche ad altre situazioni purtroppo dei paesi socialisti. Il che significa che allora un problema del rapporto dell’individuo nei confronti dello Stato, sicuramente esistente all’interno della società capitalistica, si pone ugualmente – sia pure in termini diversi – in una realtà socialista.
Allora se per un verso il comunista deve andare oltre il diritto individuale perché deve mettere le mani sullo Stato,  dall’altro lato però deve riprendere il diritto perché deve difendere contemporaneamente l’individuo anche nei confronti del nuovo Stato.
Per comodità chiamiamo questa forma di diritto e di libertà – questa dell’individuo – libertà minore. Il che significa che c’è una libertà maggiore.
Che vuol dire libertà maggiore? Voi lo sapete che il comune discorso dell’uomo religioso è questo: “io tollero il male, l’ingiustizia e il dolore sulla terra e verrò ricompensato nell’altro mondo”. Questo significa in definitiva che il problema della giustizia per l’uomo religioso non è un problema che si risolve in questo mondo, ma è un problema che si risolve nell’altro mondo. Allora voi capite perfettamente che ha una grande importanza politica una netta presa di posizione atea: non c’è un altro mondo. Vuol dire questo: il problema della giustizia si gioca qua. Non è possibile, come in anni passati si cercò di fare, separare l’essere marxista in quanto persona che si serve di certi strumenti di analisi sociale dall’essere ateo, perché il succo fondamentale del marxismo è questo: non c’è un altro mondo e la partita della giustizia si gioca qua, e siamo chiamati tutti insieme a giocarla qua. Cioè l’ateismo fa parte organica del marxismo.
Ma che vuol dire che la questione della giustizia si gioca tutta in questo mondo? Vuol dire che il merito di ogni individuo deve essere socialmente riconosciuto. L’uomo religioso potrà dire: “sarà riconosciuto in cielo, in paradiso”. Il comunista dice “no, nella società deve essere riconosciuto”.  Ecco la libertà maggiore.
Cioè non semplicemente il fatto che io devo essere garantito dalle prepotenze dello Stato, ma che la società deve essere organizzata in maniera tale per cui il merito individuale trovi nella società il riconoscimento, cioè: non c’è un altro mondo, la partita è qua che si gioca.
In concreto questo che significa? Nel ‘600-‘700-‘800, esistevano delle persone estremamente serie, le quali dicevano questo: tutti gli uomini posseggono la ragione, tutti gli uomini sono uguali, e quindi se quei neri e quei gialli sono a un livello culturalmente inferiore rispetto all’inglese, questo non dipende dal fatto che loro siano razzialmente inferiori: loro hanno la ragione come tutti. Dipende dal fatto che vivono in condizioni sociali negative, per cui: volete far sviluppare questi neri o questi gialli? Cambiate la società in cui vivono.
Questo è un discorso che a noi ci sta perfettamente bene, ma è estremamente importante che questo discorso venisse fatto già nel ‘600-‘700. Questo è all’origine il motivo del riconoscimento sociale del merito. Cioè ogni individuo deve trovare nella società il riconoscimento delle sue capacità. Questo comporta anche la necessità di una modifica della società quando la società è fatta in maniera tale da non consentire lo sviluppo delle possibilità umane.
Quindi il tema del riconoscimento sociale del merito ha due lati. Un lato è: il mio lavoro deve trovare nella società il suo riconoscimento (ma questo è un significato ancora statico della cosa). L’altro lato è – ed ecco il significato dinamico –, che deve cambiare la società in modo che le mie possibilità di individuo possano svilupparsi. 
Cioè la società deve essere fatta in maniera tale, per cui le mie possibilità vengano tirate fuori.
Questo è sicuramente vero – dalla Corea a tutti gli altri paesi socialisti – che un impegno fondamentale dei paesi socialisti è stato lo sviluppo dell’istruzione. Non è un caso. Questa è una forma precisa del significato dinamico del riconoscimento sociale del merito, cioè fare in modo che la società sia costruita in maniera tale da sviluppare le potenzialità dell’individuo. Quindi non si tratta solo di riconoscere il lavoro fornito, ma di mettere la gente in condizione di fornire un miglior lavoro.
Qui c’è una conseguenza molto importante: il signor Abete, che come sapete è il presidente della Confindustria, - non ho portato il testo ma di questo parleremo lunedì prossimo -, nella sua relazione alla recente assemblea della Confindustria, ha affermato una cosa fondamentale, e cioè ha detto: “bisogna portare avanti il sistema maggioritario perché bisogna smetterla con questa finzione della rappresentanza.” È un discorso fondamentale perché la finzione della rappresentanza qual è? È questa: il parlamentare rappresenta il popolo. Voi capite perfettamente che se il parlamentare rappresenta il popolo, l’unico sistema elettorale è quello proporzionale. Il fatto è che non è vero che nello stato borghese che il parlamentare rappresenta il popolo, ma è vero quello che dice Scalfaro, e cioè che il potere legislativo è il parlamento, e non il popolo. Allora il parlamentare non rappresenta il popolo, ma lo sostituisce. La fonte delle leggi è l’attività parlamentare e non del popolo, e allora il sistema maggioritario perché questo consente al parlamento che possa lavorare per un certo numero di anni senza casini – loro si illudono -, e quindi produrre leggi e svolgere la funzione propria che non è quella di rappresentare il popolo - e quindi di essere subalterno al popolo -, ma di sostituirlo nell’attività legislativa. Così è la società capitalistica. Noi abbiamo una esperienza in parte diversa perché voi lo sapete che tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 il mondo capitalistico viene sconvolto da una crisi enorme e l’unico modo per uscire da questa crisi che loro trovano è operare un cambiamento profondo nel loro ordinamento giuridico, che ha un perno fondamentale, e cioè: ingresso dello Stato nell’economia. Significa  in parole povere questo: l’industria capitalistica non tira più, allora lo Stato si prende carico – attraverso il deficit di bilancio – di dare posti di lavoro, di avanzare commesse all’industria, cioè di sostituire un mercato che non tira più con la propria attività. In questo modo quegli stipendi che dà, ovviamente poi diventeranno spese nei negozi dei capitalisti, quelle commesse statali diventano possibilità per l’industria capitalistica di riprendere e quindi di fare profitti, ma questa figura nuova dell’ingresso dello Stato nell’economia, modifica profondamente il quadro dello stato borghese. E tra l’altro – anche se questo nessuno lo dice – l’ingresso dello Stato nell’economia nei paesi capitalistici ha significato ovviamente l’inizio di una attività di programmazione economica. Ora: esattamente i primi che hanno parlato di programmazione economica, di pianificazione e di sviluppo del pensiero economico in connessione con il pensiero matematico per la programmazione economica furono i sovietici.
La tanto arretrata scienza economica sovietica sta all’origine di tutto il pensiero economico moderno.
Questa situazione, voi avete visto che ha retto finché il sistema capitalistico si è sentito minacciato dall’avversario di classe. Tolto il pericolo comunista lo Stato torna con le caratteristiche capitalistiche proprie, e allora riduzione della presenza dello Stato nell’economia, sistema maggioritario, basta con l’inganno della rappresentanza, il parlamentare fa le leggi e non il popolo.
Su questo io insisto per chiarire un concetto:  immaginiamo che noi siamo tutto il popolo e noi siamo il sovrano, cioè quello che decide. Ovviamente non possiamo fare tutti le stesse cose: per es. avremo bisogno di qualcuno che produca le scarpe per gli altri. Facciamo conto che incarichiamo lui di produrre le scarpe. Lui è un nostro rappresentante o commissario, nel senso che lui ha un incarico di lavoro per la collettività, ed è responsabile rispetto alla collettività dell’incarico che ha avuto. Ed è quindi revocabile, in un senso molto semplice: noi gli abbiamo dato l’incarico di fare le scarpe ma lui le fa male. Lo critichiamo, e lui continua a farle male: caro compagno basta, ce ne mettiamo un altro.
Perché è possibile questo? Perché lui – parlamentare rosso – è il commissario della comunità. Rappresenta la comunità nel senso che è incaricato di svolgere un lavoro per la comunità, e quindi è revocabile se non funziona. Il parlamentare non è revocabile per questo. Perché? Perché non rappresenta il popolo. Il parlamentare, insieme agli altri parlamentari, è la fonte dell’attività legislativa, quindi nessuno può revocarli.
Non esiste la figura del mandato imperativo negli ordinamenti giuridici e statuali borghesi.
Quello che ho cercato di dimostrare è ovviamente una linea di ragionamento. Voglio dire: tutti quanti sappiamo che nella realtà dei fatti – per es. nei paesi socialisti – le cose andavano in modo molto diverso, ma non moltissimo però.
Il problema però è quello delle condizioni storiche in cui effettivamente certe cose sono successe, e quindi implica un altro tipo di ragionamento.
Quello che qui a me interessa è fissare due punti:
1) per quanto sia vero che il diritto dell’individuo è storicamente divenuto un sostegno dello sfruttamento capitalistico, il significato però del diritto dell’individuo non si esaurisce in questo. E’  un nostro problema vero e proprio concepire il diritto dell’individuo come parte organica di un ordinamento socialista. Ma ad una condizione fondamentale: che il diritto dell’individuo venga nettamente separato dal problema della proprietà degli strumenti di produzione e di scambio.
Se il diritto dell’individuo è il diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione o di scambio, allora diventa privilegio. Va separato nettamente da questo.
2) esiste un problema di difesa dell’individuo dallo Stato anche nella società socialista.
Questo non significa però che il pensiero politico comunista si è esaurito nel tema della difesa dell’individuo dallo Stato, per una ragione fondamentale: che il movimento comunista punta alla conquista dello Stato, a togliere cioè quello Stato minaccioso.
Ultimo punto: esiste un senso maggiore dell’espressione libertà che significa riconoscimento sociale del merito nel duplice senso: che la mia prestazione, il mio lavoro, la mia realtà deve essere riconosciuta socialmente perché non c’è un altro mondo, e la società deve essere costruita in maniera tale da mettere in evidenza le potenzialità che sono di ogni individuo.
È chiaro che se questa è la linea del discorso, un altro paio di maniche è come di fatto le cose siano andate in certe condizioni storiche determinate.
Faccio un esempio preciso: qualche riunione fa, l’agenzia di informazione ha pubblicato brani di un testo di Stalin sullo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali. Stalin li sta polemizzando con un compagno. Queste pagine sono tratte dall’opera di Stalin, e il suo scritto è costruito in questa maniera: citazioni dal discorso di quel compagno e poi la critica di Stalin.
Il cittadino sovietico non ha mai conosciuto l’opera di quel compagno, ma sempre e solo il testo di Stalin e le citazioni che Stalin ha fatto da quell’opera. Quando lui qui fa la polemica contro Muccioli ha perfettamente ragione. In che senso?
Nel senso che noi dobbiamo stare attenti perché la lingua è una cosa molto pericolosa. Da tempi antichissimi sappiamo che la lingua ammalia, conquista gli animi, a prescindere anche dalla verità di quello che dice. Immaginiamo due oratori: un oratore che sappia parlare con il cuore in mano e riscaldare la gente, e un oratore come era Togliatti per es., molto freddo, analitico. È questo secondo che va scelto. Perché quello freddo e analitico che non fa appello ai sentimenti, fa appello alla capacità critica. Ma la capacità critica implica che se io polemizzo con lui, io devo fornire a te il suo testo, perché tu devi giudicare. Allora se tu hai una situazione costruita in maniera tale, per cui se io ho il potere, io faccio le citazioni dal suo libro e l’accompagno alla mia critica e a te fornisco le sue citazioni e la mia critica, tu sei preso in giro. Questa è la testimonianza del fatto che tu non conti. Tu ti devi difendere. È certo che il problema non può finire qua.
Voglio dire che quando oggi, certa sinistra diventa sempre più estrema nella rivendicazione delle libertà e delle differenze, questo estremismo è a compensazione di una mancanza e di una debolezza fondamentale e cioè che non mette in questione il potere dello Stato. Allora è chiaro che tu non puoi limitarti a difendere, ma devi attaccare. Per es., giustamente, questo attacco a Muccioli, in realtà è l’attacco alla retorica. Per retorica intendo un rapporto fondato prevalentemente sul sentimento: Muccioli era un cattolico. Capisci che il rapporto caldo, di intimità, vis-à-vis, è il rapporto che ti cattura dentro. È come se tu avessi quella melassa addosso, per cui alla fine sei tutto preso dal sentimento e catturato. E allora il manipolatore ti ha fregato, e ti ha fregato con il tuo consenso.
E invece no. Il Togliatti che parla lucidamente, stimola la tua capacità critica. Quindi non ti richiama a quell’abbracciamoci tutti sotto il manto della nostra madre comune che è Santa Romana Chiesa. No.
Io affermo norme razionali, che tu puoi discutere razionalmente – in questo senso affermo il diritto e affermo la necessità dell’astrazione, perché è la necessità della critica, della ragione, invece che il sentimento. Ma proprio perché la tua liberazione passa per la tua capacità critica, quindi di ragionare e dunque di astrarre.
In questo senso la formalità è fondamentale. La formalità è espressione della ragione.
Certo, la questione non può fermarsi qua. Per es. è chiaro che – a mio modo di vedere – (come diceva lui prima) tu puoi fare tutti i discorsi sul diritto che vuoi, ma se esistono certi rapporti sociali di produzione, quei discorsi sono vanificati.
Una delle cose più infami della così detta via giuridica al socialismo – cioè sostituire l’attacco all’avversario di classe con i giudici (mani pulite per es.) – è che tu mistifichi i problemi. Cioè che tu non metti al centro il problema della conquista dello Stato. Certo che tu ti devi difendere dal potere, però devi conquistare il potere e costruire un nuovo potere. Ecco il senso del riconoscimento sociale del merito, cioè un nuovo potere.
Io credo che sia fondamentale quello che diceva lui, e cioè questo: qualunque discorso e progetto giuridico – non basato sul diritto, democrazia ecc. – lascia il tempo che trova se non esistono le condizioni materiali perché quel progetto diventi realtà. Cioè voglio dire questo: se noi avessimo l’università che hanno in nord Corea saremmo avanzatissimi. Voi lo capite perfettamente: esistono tre diversi tipi di università: se tu sei molto bravo hai l’università di serie A, l’appartamento, lo stipendio ecc. Se tu non superi regolarmente gli esami te ne vai perché tu sei pagato dal popolo e devi lavorare bene, se non lavori bene vai all’università di serie B. Se tu lavori allora hai il diritto a un orario ridotto per poter studiare. In questo modo tu hai la possibilità di una elevazione culturale di massa reale. Certo, il piccolo popolo circondato dal nemico – e qui nemico vuol dire i giapponesi, vuol dire gli americani ( e non è poco) – perdi il retroterra sovietico e cinese, insomma… Clinton l’ha detto: “noi vi spazziamo via con le bombe atomiche”, e lo possono fare. Allora è evidente che c’è il problema dell’unità del paese.
Che vuol dire il culto del capo? Il culto del capo vuol dire: tutti uniti e compatti, perché sennò qui ci fanno secchi. Questo è il discorso. È chiaro che questo ha una ricaduta certamente negativa. Ma questo appunto, nel senso che dice lui: tu puoi prospettare tutte le leggi di questo mondo, ma se le condizioni materiali non consentono a…
Questo è estremamente importante perché quel discorso sulla libertà maggiore cioè il riconoscimento sociale del merito significa che il diritto mette veramente i piedi per terra se la società è organizzata in modo da poterlo riconoscere questo merito di ognuno.
Cioè non bisogna illudersi che sia possibile un diritto, una libertà e una democrazia fuori di una organizzazione sociale di un certo tipo.
Allora diventa ancora più delittuosa quella sinistra che è sempre più estremista nella difesa della diversità e dimentica il problema centrale, cioè chi ha in mano i meccanismi di costruzione della società. Questo è il punto.

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