"L'essenza dello Stato è l'universale in sé e per sé,
la razionalità del volere. Ma, come tale che è consapevole di sé e si attua,
essa è senz'altro soggettività; e, come realtà, è un individuo. La sua opera in
genere, - considerata in relazione con l'estremo dell'individualità come
moltitudine degli individui, - consiste in una doppia funzione. Da una parte,
deve mantenerli come persone, e, per conseguenza, fare del diritto una realtà
necessaria; e poi promuovere il loro bene, che dapprima ciascuno cura per sé,
ma che ha un lato universale: proteggere la famiglia e guidare la società
civile. Ma, d'altra parte, deve ricondurre entrambi, - e l'intera disposizione
d'animo e attività dell'individuo, come quello che aspira ad essere un centro
per sé, - nella vita della sostanza universale; e, in questo senso, come potere
libero, deve intervenire nelle sfere subordinate e conservarle in immanenza
sostanziale." (Hegel)
Nella “Critica alla filosofia del
diritto pubblico di Hegel. Introduzione.” Marx, per la prima volta, individua
nel proletariato l’unica classe capace di sovvertire l’intero ordinamento della
società e dello Stato (la
Germania , in quel caso).
Nel linguaggio fortemente dialettico delle sue opere giovanili, Marx
così mette a fuoco la condizione proletaria e le potenzialità che ne derivano:
“Dov’è dunque la possibilità effettiva
della emancipazione tedesca? Risposta: nella formazione di una classe
con catene radicali, una classe della società civile che non sia una classe
della società civile, un ceto che sia la dissoluzione di tutti i ceti.”
Contro questa classe “viene
esercitata non un ‘ingiustizia particolare bensì l’ingiustizia senz’altro”,
essa è “in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema politico”
e non può “ emancipare se stessa
senza…emancipare tutte le
rimanenti sfere della società”. Il proletariato è “la perdita completa
dell’uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa attraverso il completo recupero dell’uomo”.
Nel momento in cui scrive questo articolo per gli “Annali franco- tedeschi” Marx non ha ancora intrapreso gli studi di economia cui si dedicherà anima e corpo negli anni successivi: non ha ancora messo a fuoco sul piano scientifico la struttura antinomica della società capitalistica né la centralità della contraddizione capitale – lavoro. In più, è da notare come egli, consapevole della condizione di arretratezza economica e sociale della Germania dei suoi tempi, parli di “formazione” di una classe: significa che questa classe ancora non è pienamente sviluppata e che solo il suo sviluppo porrà le condizioni perché essa possa svolgere il ruolo storico che Marx le riconosce.
Voglio dire che il problema
centrale, con cui Marx si confronta qui, non è ancora quello del superamento di
un determinato sistema socio-economico fondato sulla separazione del lavoro dai
mezzi di produzione: il tema dell’assoggettamento umano appare, dunque, non come
conseguenza di particolari
rapporti di produzione, bensì nella forma dell’opposizione fra l’uomo e lo
Stato, fra “società civile” e Stato, fra l’“essenza umana” e la sua negazione nello Stato – qualsiasi
Stato.
E’ nozione di tutti come su questi
temi ( il “giovane Marx”, i suoi
rapporti con l’hegelismo, il suo “umanesimo”, la successiva cosiddetta “rottura
epistemologica ecc.) siano state scritte moltissime pagine – è sufficiente
ricordare Althusser.
Ma è fuor di dubbio, a mio avviso, che in questo breve e difficile testo si possa scorgere un elemento in grado di illuminare un aspetto del pensiero – o meglio, del modo di pensare – di Marx, che non solo non verrà meno nell’opera successiva, ma che ne costituirà, sempre, lo sfondo e il presupposto: mi riferisco all’originaria vocazione etico- morale di Marx, la stessa che lo avvicina, ma anche lo differenzia, ad altri scrittori socialisti o “comunisti” del suo tempo.
Nel parlare di “vocazione etico- morale “, però, non intendo indicare qualcosa di assimilabile a un sentimento o a un “astratto furore” – per dirla col Vittorini di “Conversazione in Sicilia”: c’è sicuramente del sentimento in Marx, e senz’altro anche del furore e una genuina indignazione, che spesso si scaricano in ironia e sarcasmo, ma non sono questi i fondamenti della sua posizione etica.
Piuttosto Marx, a partire dai suoi
primi scritti, si presenta come il più
coerente prosecutore della linea che dall’Illuminismo porta alla
Rivoluzione Francese. Quella linea, cioè,
che riconosce nell’uomo (ma c’era già in Vico) l’unico costruttore della
propria storia e, dunque, anche dello Stato della
società in quanto prodotti storici. La novità di Marx (ma rintracciabile anche
in altri) sta però nel suo scorgere che lo stesso Stato che nasce dalla
Rivoluzione giacobina, lo Stato ispirato dal “Contratto sociale di Rousseau e
portato alle estreme conseguenze dal Robespierrismo di sinistra e dal
radicalismo piccolo- borghese di Saint- Just, una volta rovesciati i tiranni si
rovescia poi a sua volta al punto da diventare egli stesso un nuovo tiranno.
Non per un errore degli uomini: ma per sua intrinseca natura, per una “legge”
storica.
Marx, ovviamente, non nega il grande progresso costituito dalla Rivoluzione francese, al contrario: egli contrappone nettamente lo Stato della Convenzione, e in generale gli Stati a costituzione democratico- rappresentativa, allo Stato prussiano- tedesco“teologico”, autoritario, censore e semi-feudale.
Ma, per usare un’espressione del linguaggio comune, quel progresso “non gli basta”. Un altro passo va compiuto sulla strada della liberazione umana, e questo passo corrisponde al superamento dello Stato in quanto tale, condizione sine qua non perché l’uomo si ritrovi finalmente padrone assoluto di se stesso: non solo nei cieli della teoria ma nella concretezza della sua esistenza effettiva.
Si può parlare di Marx, almeno in
questa fase del suo pensiero, come di
un “anarchico razionale”? Forse a questa
domanda si può rispondere affermativamente a patto di porre l’enfasi sul
termine “razionale”, vale a dire sulla consapevolezza, che in Marx è senz’altro presente, che non si
tratta di distruggere fisicamente un
apparato più o meno oppressivo la cui semplice scomparsa restituirebbe
magicamente agli uomini la completa libertà. Tutt’altro: la libertà umana è
un presupposto, non una conseguenza, del
superamento dello Stato. Infatti, solo attraverso l’esercizio della libertà
questo processo potrà compiersi: ma non della libertà formale, nemmeno di
quella vigente nelle democrazie rappresentative, bensì di quella libertà che Marx vede come propria dell’essenza umana
e che fa degli uomini, in ogni circostanza, dei creatori di se stessi.
Marx, si può dire in anticipo su se stesso, individua nel proletariato l’iniziatore e il catalizzatore di questo processo. Lo fa ancora prima di diventare propriamente “comunista”, il che comunque avverrà da lì a poco. Lo fa perché crede che l’uomo sia qualcosa per cui valga la pena spendersi: in questo è un grande erede dell’Illuminismo e ancora in questo sta la sua originaria ispirazione etica.
Aristide Bellacicco (Collettivo di formazione
marxista Stefano Garroni)
L'audio dell'incontro: https://www.youtube.com/watch?v=-ZEUew5oY3c
Volevo provare a fare una chiacchierata, e cioè affrontare
l’argomento come se non facessimo riferimento a nessun libro e a nessuno
scritto, ma appellandoci semplicemente all’esperienza che abbiamo tutti quanti
e al comune uso della ragione. Ovviamente in questo tipo di esposizione sia
chiaro che io sto parlando in realtà di alcune opere di Marx in modo
particolare – per es. La questione ebraica -, sto parlando di alcune opere di
Kant, di Hegel ecc.
Mi pare che sia più utile parlarne sotto questa forma non cattedratica
e non appesantita da citazioni ecc.
Tra l’altro – questo vale come una piccola introduzione –
voi sapete che esiste una tradizione filosofica di lingua inglese in
particolare, estremamente importante, che è la tradizione della filosofia
analitica che vede la funzione della filosofia fondamentalmente in questo:
cercare di chiarire il significato della lingua che tutti quanti parlano. Cioè
esiste un linguaggio comune che per es. tutti i parlanti di una certa lingua
parlano, e il problema è quello di cercare di chiarire che significano quelle
cose che vengono dette comunemente.
Ispirandoci un po’ a questo tipo di impostazione, credo che
noi dovremo fare questo ragionamento: è evidente che quando qualcuno dice:
“ogni uomo ha diritto a…” o “ha diritto di…”, intende dire che, quali che siano
le differenze naturali, sociali, culturali di ogni uomo; appunto, ogni uomo ha
lo stesso diritto.
Se si dice: “ogni uomo ha diritto a…” vuol dire che non si
accetta per es. il fatto che uno perché ha la pelle nera ha meno diritti, o una
perché è donna ha meno diritti, ma appunto si afferma che “ogni uomo ha diritto
a…”
Significa che ogni individuo umano ha quel certo diritto,
che quel certo diritto appartiene all’individuo umano, quali che siano le sue
caratteristiche naturali e storiche, e quindi la nozione di diritto viene
immediatamente legata prima a “individuo”, e secondo è immediatamente una
nozione formale, nel senso che prescinde da differenze di contenuto materiale,
storico, sociale, culturale, biologico, ecc.
Insomma, voglio dire che il portatore di questo diritto, non
è un uomo concreto - l’uomo concreto è bianco, è nero, è uomo, è donna – ,ma è
qualunque uomo, qualunque individuo, quindi è un uomo formale, non concreto.
Ed è estremamente importante l’affermazione “ogni uomo ha
diritto a…” , proprio in quanto il portatore di questo diritto non è un
individuo concreto, con caratteristiche storiche e fisiche determinate, ma è
ogni individuo; quindi è la generalità degli individui, quindi l’individuo in
astratto.
Se invece il diritto fosse legato all’uomo concreto, cioè
con quel corpo, con quella pelle, con quel sesso ecc., allora non sarebbe un
diritto ma sarebbe un privilegio. E’ chiaro che se quando dico “ogni uomo ha
diritto a…” intendo l’uomo bianco – e quindi non in astratto ma l’uomo con
quelle caratteristiche fisiche di essere razza bianca -, sto escludendo il nero
e quindi sto affermando un privilegio.
Quindi se io dico “ogni individuo ha diritto”, è
fondamentale comprendere che non sto parlando di un uomo concreto ma
dell’individuo in generale, dell’uomo in generale.
È importante anche comprendere questo: quando io affermo che
“ogni individuo ha diritto a…”, in realtà quello che sto dicendo è questo: se
esiste un potere che nega a un individuo un certo diritto, io mi ribello e
affermo: “no, ogni individuo ha diritto a…”
L’affermazione “ogni individuo ha diritto a…” è 1) legata a
un individuo astratto, nel senso che non è il privilegio di un gruppo o di una
persona con certe caratteristiche. 2) è un affermazione difensiva: si
presuppone una minaccia, contro cui si eleva un argine: “questo non si può fare
perché ogni individuo ha diritto a…”
Quindi per es. se c’è un governo che toglie la parola a
qualcuno, si afferma: “no, ogni individuo ha diritto alla parola, quindi contro
questa prepotenza, contro questa minaccia del potere affermo il diritto di…”
La cosa è abbastanza pacifica perché voi ricordate che per es. in Italia esisteva un ordinamento
giuridico per cui la donna che commetteva adulterio era punibile in modo
diverso dall’uomo.
Di fronte a questo, dire “No, ogni individuo ha diritto a…”,
per es. a una uguale giustizia, significa negare il privilegio dell’uomo in
quella situazione, parificare tutti, cioè prescindere dalla differenza sessuale,
- appunto riappare l’individuo astratto – e affermare il diritto dell’individuo
astratto.
Analogamente se il colonialista bianco nega la libertà al
nero di organizzarsi politicamente, uno che dice: “no, ogni individuo ha
diritto a…”, sta affermando appunto il diritto dell’individuo nero di
organizzarsi , poniamo, contro la prepotenza di un potere in questo caso
bianco. E di nuovo, qui dicendo “ogni individuo”, si prescinde dal fatto che
sia bianco, nero, uomo o donna; quindi si prescinde dalla concretezza
dell’individuo e dalla materialità dell’individuo, e si afferma il diritto
dell’individuo astratto, dell’individuo formale.
È chiaro che se io faccio esempi di questo genere – uomo,
donna, l’adulterio, il bianco o il nero -, il discorso fila tranquillo.
Ma immaginiamo invece un mondo fatto di tre persone A, B e
C. Facciamo conto che B e C non hanno altra proprietà che se stessi – cioè
hanno il loro corpo e basta – e A è proprietario invece di capitale. Questo
capitale produrrà profitto solo se viene impiegato lavoro. Facciamo conto che
abbia bisogno del lavoro di una sola persona. “A” potrà contrattare con “B” e
con “C” chi lavorerà per il suo capitale, e proprio perché B e C sono due, e
lui ha bisogno di un solo lavoratore, potrà imporre il contratto lavorativo a
lui più conveniente. Quando poi si stabilisce un contratto, facciamo conto che
appare un quarto individuo D che fa di professione il giudice o il notaio,
questo può assicurarsi che il contratto sia stato fatto rispettando tutte le
norme di legge, e quindi giudicare valido il contratto, ma in realtà è un
imbroglio, perché B e C debbono - per vivere -, vendersi ad A, ed A può giocare
sulla concorrenza tra loro due per imporre la propria volontà.
In questo caso è del tutto chiaro che io non posso dire che
il diritto vale a prescindere dalle differenze concrete. Qui la differenza
concreta di essere o no proprietario di capitale, ha una tale importanza da
negare la possibilità di salire al livello dell’individuo astratto formale. Qui
la differenza è tale da cambiare completamente lo stato di cose.
Qui ci troviamo di fronte a un paradosso importante: 1) non
si può parlare di diritto se non si parla dell’individuo in astratto, cioè a
prescindere dalle differenze materiali. Se si prescinde dalle differenze
materiali esistono casi - per es. questo della proprietà degli strumenti di
produzione, del capitale ecc. -, in cui invece quelle differenze annullano la
parità di diritto. Qui la forza della differenza è tale da non rendere
possibile se non con l’imbroglio l’affermazione dell’uguale situazione.
Se io dico che tutti e due sono proprietari, l’uno di sé e
l’altro del capitale, faccio solo un gioco di parole, perché essere
proprietario di me vuol dire che non ho niente, essere proprietario del
capitale vuol dire che posseggo un bene esterno, oltre a me, e quindi ho una
situazione di privilegio in realtà.
Il paradosso sta in questo: non posso parlare di diritto se
non astraendo dalle differenze, ma esistono casi concreti in cui se astraggo
dalle differenze in realtà annullo il diritto.
In concreto noi dobbiamo capire che, diciamo a partire dal
‘500, si va formando un moderno pensiero giuridico che afferma l’uguale diritto
degli uomini a prescindere dalle differenze, e che questo pensiero – nel ‘700
per es., con la rivoluzione francese ecc. - diviene poi il pensiero su cui
vengono fondate le costituzioni di stati borghesi e capitalistici.
Il paradosso si spiega nel senso che appunto, non posso
parlare di diritto se non facendo astrazione dalle differenze, ma esiste un
caso determinato – la proprietà degli strumenti di produzione, del capitale –
in cui prescindere dalle differenze significa imbrogliare, significa far finta
che proprietario di se stesso e proprietario di capitale siano entrambi
proprietari, e quindi creare una apparente uguaglianza che in realtà si
rovescia nel privilegio del capitalista. E allora ecco che questo pensiero
giuridico formale diventa un puntello, una legittimazione del privilegio
capitalistico.
Il problema nostro però è capire questo: il fatto che
divenga un puntello del privilegio capitalistico, significa allora che noi
dobbiamo rifiutare in ogni caso il discorso del diritto formale? Del diritto
che fa astrazione dalle differenze?
Per es.: io sono un marito e ho una moglie. La tradisco. Se
si rivolge al tribunale le leggi sono tali per cui io non sono passibile di
nessuna punizione a meno che non abbia sottratto denaro al mantenimento della
moglie e dei figli.
Rovesciamo il caso: io sono il marito, mia moglie mi
tradisce, io la denuncio, e la legge mi riconosce il diritto della denuncia e
punisce la moglie. È una situazione di squilibrio. È una situazione, dal punto
di vista del diritto, intollerabile.
Se è invece, dal punto di vista del diritto, tollerabile che
uomo o donna abbiano tutti e due la stessa responsabilità di fronte al
matrimonio, allora vuol dire che l’individuo, quale che sia la differenza
sessuale, deve essere sottoposto alla stessa legge. Allora quell’individuo che è
sottoposto a quella legge, non è ne uomo e ne donna, ma è entrambi. In questo
senso è un individuo astratto.
E dal punto di vista del diritto è ovviamente intollerabile
una situazione in cui invece il diritto sia diverso a seconda del sesso. E
ugualmente a seconda della razza per es.
Oppure, facciamo conto: noi facciamo la dichiarazione dei
redditi e abbiamo il privilegio di poter versare l’8 per mille a Santa Romana
Chiesa. Facciamo conto che tu voglia versare l’8 per mille alla chiesa
musulmana. Non lo puoi fare.
E dal punto di vista
del diritto questa è un’assurdità perché se io devo avere il diritto di versare
soldi a una chiesa, deve essere – dal punto di vista del diritto – a qualunque
chiesa, quindi a una chiesa in astratto e non a una chiesa concreta. E devo
avere anche il diritto di non versare soldi a nessuna chiesa, cioè deve essere
rispettata la mia credenza, quale che sia: religiosa o non religiosa.
Quindi dal punto di vista del diritto non vale la mia
credenza concreta, ma la mia credenza in astratto.
Ma se io sono proprietario degli strumenti di produzione e
tu sei proprietario del tuo corpo solamente, certamente possiamo stabilire un
contratto paritetico, in cui io ti propongo una cosa e tu liberamente accetti.
In realtà è un imbroglio, perché se tu non accetti fai la fame, mentre – dal
punto di vista del capitalista – se tu non accetti io mi rivolgo a un altro e
quindi il mio capitale rende ugualmente. Allora questo è un caso determinato in
cui la differenza materiale annulla il diritto: la formale uguaglianza è un
imbroglio in questo caso.
Se uno dicesse – riprendendo la faccenda dell’adulterio -:
“no, guarda che quella è donna e quello è uomo”, questa differenza non annulla
il diritto, perché entrambi…ecc. ecc.
Quello che voglio dire è questo – ecco il paradosso –: non
possiamo parlare di diritto se non parliamo dell’uomo astratto, quindi a
prescindere dalle differenze. Esiste però una situazione determinata in cui se
noi parliamo in astratto, imbrogliamo.
Siccome storicamente è successo che questo pensiero
giuridico astratto si è – diciamo - cominciato a sviluppare dal ‘500, poi con le rivoluzioni borghesi è
diventato il diritto della borghesia, ma appunto della borghesia, cioè
l’autorizzazione a quella falsa uguaglianza tra proprietario del proprio corpo
e proprietario del capitale, - e quindi l’imbroglio e la sanzione giuridica
dello sfruttamento – allora il problema nostro è questo: è inevitabile che il
diritto in astratto divenga la copertura ideologica della società capitalistica,
o no?
Detto in altri termini: una società socialista può proporre
un diritto astratto?
È chiaro che se il diritto astratto, inevitabilmente, deve
diventare la copertura dello sfruttamento capitalistico è chiaro che la società
socialista non può proporre un diritto astratto.
Se invece questo rapporto non è inevitabile allora la
società socialista potrebbe proporre un diritto astratto. Per es. nella
costituzione sovietica degli anni ’60, si diceva che “ogni individuo, a
prescindere dalle differenze di razza, di sesso e di credenza, ha diritto a…”.
Questa è una formulazione da diritto astratto. Questo è un caso concreto in cui
una società socialista propone un diritto astratto. Allora torna la domanda: ma
se il diritto astratto ha un rapporto organico necessario con l’essere
copertura dello sfruttamento capitalistico, allora i sovietici quando
proponevano questa formulazione astratta, che cosa stavano facendo? Coprivano
un loro capitalismo? O no?
Io credo che sia molto importante che noi comprendiamo una
cosa: prendiamo una qualunque teoria che venga formulata in una epoca data. In
definitiva può avere almeno due significati: un significato in quanto
appartiene a una storia delle teorie, e un altro significato che gli viene
dall’esistenza dei rapporti sociali esistenti.
Perché il diritto astratto diviene copertura della società
capitalistica? Per la semplice ragione che esiste nella realtà una parte di
popolazione che possiede il capitale e una parte che non lo possiede. Questo
stato di fatto impone un senso al diritto astratto che è quello di diventare
copertura della società capitalistica.
Sto dicendo che non c’è nessuna necessità logica che quel
diritto divenga giustificazione e copertura della società capitalistica. Lo
diventa per il semplice fatto che esiste nella realtà una struttura
capitalistica. Insomma, le cose – anche le cose teoriche – acquistano
significati diversi in contesti storici diversi.
E qui bisogna fare attenzione – quando si butta via un
contesto storico -, stiamo attenti, che non siamo immediatamente autorizzati a
buttar via anche le sue teorie, perché quelle sue teorie in quanto teorie
possono avere un significato diverso da quello che hanno assunto nel contesto
storico.
Per es.: voi sapete che quando – tra la fine degli anni ‘10
e l’inizio degli anni ’20 – l’internazionale comunista discute il problema del
diritto delle nazioni all’autodeterminazione, questa discussione ha un enorme
importanza perché? Perché il movimento socialista e comunista nasce come
movimento internazionalista. Cioè ha tutta una storia che lo porta ad essere
nemico dei nazionalisti e dei nazionalismi. Lenin che svolta introduce?
Introduce questa svolta: le nazioni coloniali lottando per la loro libertà
nazionale, lottano contro l’imperialismo, quindi divengono obbiettivamente
alleate del proletariato.
Allora in questo contesto storico determinato, il diritto
delle nazioni all’autodeterminazione significa un appoggio alla lotta
proletaria. Allora ecco che la parola d’ordine “viva la nazione” acquista un
senso diverso per il contesto storico in cui si inserisce.
Allora una volta che io abbia in mente per es. il
nazionalismo degli italiani che fanno finta di fare il loro risorgimento e lo
condanno come fenomeno borghese, non posso andare in un altro contesto storico
– quello della prima guerra mondiale, della prima manifestazione mostruosa
appunto, mondiale dell’imperialismo, e applicare lo stesso criterio, cioè
condannare i nazionalismi. Non posso farlo perché il contesto storico è
cambiato e la parola d’ordine “si alla nazione” ha acquistato, nel contesto
cambiato, un nuovo significato, un nuovo senso.
Se comprendiamo che una teoria – per es. la teoria
nazionalistica, o la teoria del diritto o qualunque altra teoria – in contesti
storici diversi può assumere significati diversi, allora comprendiamo che non è
automatico per es. il fatto che il diritto astratto, essendo divenuto in un
contesto dato, strumento per sancire la
società capitalistica, è da abbandonare in una prospettiva socialista. In un
nuovo contesto storico può acquisire un altro significato.
Questo è del tutto chiaro, per es. se io dico che ogni
cittadino ha diritto di parola, quale che sia il ruolo che svolge nella
società, io sto dicendo per es. che se un cittadino si chiama Kim il Sung, ed è
il presidente del nord Corea, lui ha diritto di parola così come qualunque
coreano che non sia presidente della Corea.
Quindi sto affermando un principio elementare per garantire
una democrazia proletaria.
Certamente il diritto va giudicato per il rapporto che ha
con una società, ma attenti però che il significato del diritto non è tutto e
solo in quel rapporto, perché in un contesto sociale diverso può assumere un
significato diverso. Se è vero che il diritto astratto diventa un puntello
della società capitalistica esistendo il capitalismo, non è detto che non
esistendo il capitalismo ma essendo sostituito per es. da una organizzazione
socialista, non acquisti un altro senso.
Dobbiamo fare una differenza tra teoria e ideologia. Se
l’ideologia è quell’insieme di norme, di convinzioni, di pratiche che
sostengono una società data, che la puntellano; la teoria non è questo, ma è
uno strumento di conoscenza. Lo strumento di conoscenza può diventare ideologia
in un contesto dato, ma non è solo ideologia.
Però questo allora significa che per es. da parte nostra
deve essere estremamente attenta l’analisi per es. di questo fatto: è del tutto
chiaro, se io affermo che “ogni individuo ha diritto a…”, lo affermo contro un
potere che sta cercando di violare, di invadere il campo altrui.
C’è un elemento difensivo nel diritto. E questa è una
faccenda antipatica: lo vediamo benissimo nella nuova sinistra: l’esaltazione
del diritto individuale ha un lato estremamente brutto. Voglio dire: se io
difendo il diritto dell’individuo lo difendo rispetto a un potere. Il che significa
che io do per scontato l’esistenza di quel potere. Se io difendo il diritto suo
a non essere violato dallo Stato, do per scontato che c’è uno Stato che lo
minaccia e difendo il suo diritto. Ma questa è una posizione subalterna perché
appunto dà per scontato l’esistenza di un potere centrale che lo minaccia.
Il comunista a cosa tende? Tende a mettere in questione
invece quel potere centrale, vuole sostituirlo con un altro potere centrale,
quindi non può limitarsi a rivendicare il diritto, perché il diritto è
difensivo. Deve mettere in questione proprio l’origine del pericolo: cambiare
lo Stato. E allora deve andare oltre il diritto.
D’altra parte bisogna stare attenti però, perché? Per es.
quando sono stato in Corea ovviamente li la gente parlava coreano quindi era
difficile passeggiando per la strada capire qualche cosa. Questo è fondamentale
invece per farsi una idea della situazione. Allora propongo ai compagni coreani
che ci accompagnavano, di andare nella loro libreria internazionale dove
ovviamente c’erano pubblicazioni non in coreano. Bene io li trovo pubblicazioni
in inglese, in tedesco, in francese e in spagnolo. Queste pubblicazioni erano
le opere di Kim il Song.
Questo vuol dire che non solo io straniero non sono in
condizioni di rendermi conto della realtà del paese, ma che lui coreano che
sapesse una lingua straniera, leggerebbe in inglese quello che legge in
coreano.
Se a questo punto io dico “no, ogni individuo ha diritto
all’informazione”, qui io sto sicuramente elevandomi contro un potere statale,
che non metto in discussione. Da questo potere statale tu hai un limite: il
diritto del singolo: non lo metto in discussione quel potere. Questo può essere
esteso ovviamente anche ad altre situazioni purtroppo dei paesi socialisti. Il
che significa che allora un problema del rapporto dell’individuo nei confronti
dello Stato, sicuramente esistente all’interno della società capitalistica, si
pone ugualmente – sia pure in termini diversi – in una realtà socialista.
Allora se per un verso il comunista deve andare oltre il
diritto individuale perché deve mettere le mani sullo Stato, dall’altro lato però deve riprendere il
diritto perché deve difendere contemporaneamente l’individuo anche nei confronti
del nuovo Stato.
Per comodità chiamiamo questa forma di diritto e di libertà
– questa dell’individuo – libertà minore. Il che significa che c’è una libertà
maggiore.
Che vuol dire libertà maggiore? Voi lo sapete che il comune
discorso dell’uomo religioso è questo: “io tollero il male, l’ingiustizia e il
dolore sulla terra e verrò ricompensato nell’altro mondo”. Questo significa in
definitiva che il problema della giustizia per l’uomo religioso non è un
problema che si risolve in questo mondo, ma è un problema che si risolve
nell’altro mondo. Allora voi capite perfettamente che ha una grande importanza
politica una netta presa di posizione atea: non c’è un altro mondo. Vuol dire
questo: il problema della giustizia si gioca qua. Non è possibile, come in anni
passati si cercò di fare, separare l’essere marxista in quanto persona che si
serve di certi strumenti di analisi sociale dall’essere ateo, perché il succo
fondamentale del marxismo è questo: non c’è un altro mondo e la partita della
giustizia si gioca qua, e siamo chiamati tutti insieme a giocarla qua. Cioè
l’ateismo fa parte organica del marxismo.
Ma che vuol dire che la questione della giustizia si gioca
tutta in questo mondo? Vuol dire che il merito di ogni individuo deve essere
socialmente riconosciuto. L’uomo religioso potrà dire: “sarà riconosciuto in
cielo, in paradiso”. Il comunista dice “no, nella società deve essere
riconosciuto”. Ecco la libertà maggiore.
Cioè non semplicemente il fatto che io devo essere garantito
dalle prepotenze dello Stato, ma che la società deve essere organizzata in
maniera tale per cui il merito individuale trovi nella società il
riconoscimento, cioè: non c’è un altro mondo, la partita è qua che si gioca.
In concreto questo che significa? Nel ‘600-‘700-‘800,
esistevano delle persone estremamente serie, le quali dicevano questo: tutti
gli uomini posseggono la ragione, tutti gli uomini sono uguali, e quindi se
quei neri e quei gialli sono a un livello culturalmente inferiore rispetto
all’inglese, questo non dipende dal fatto che loro siano razzialmente
inferiori: loro hanno la ragione come tutti. Dipende dal fatto che vivono in
condizioni sociali negative, per cui: volete far sviluppare questi neri o
questi gialli? Cambiate la società in cui vivono.
Questo è un discorso che a noi ci sta perfettamente bene, ma
è estremamente importante che questo discorso venisse fatto già nel ‘600-‘700.
Questo è all’origine il motivo del riconoscimento sociale del merito. Cioè ogni
individuo deve trovare nella società il riconoscimento delle sue capacità.
Questo comporta anche la necessità di una modifica della società quando la
società è fatta in maniera tale da non consentire lo sviluppo delle possibilità
umane.
Quindi il tema del riconoscimento sociale del merito ha due
lati. Un lato è: il mio lavoro deve trovare nella società il suo riconoscimento
(ma questo è un significato ancora statico della cosa). L’altro lato è – ed
ecco il significato dinamico –, che deve cambiare la società in modo che le mie
possibilità di individuo possano svilupparsi.
Cioè la società deve essere fatta in maniera tale, per cui
le mie possibilità vengano tirate fuori.
Questo è sicuramente vero – dalla Corea a tutti gli altri
paesi socialisti – che un impegno fondamentale dei paesi socialisti è stato lo
sviluppo dell’istruzione. Non è un caso. Questa è una forma precisa del
significato dinamico del riconoscimento sociale del merito, cioè fare in modo
che la società sia costruita in maniera tale da sviluppare le potenzialità
dell’individuo. Quindi non si tratta solo di riconoscere il lavoro fornito, ma
di mettere la gente in condizione di fornire un miglior lavoro.
Qui c’è una conseguenza molto importante: il signor Abete,
che come sapete è il presidente della Confindustria, - non ho portato il testo
ma di questo parleremo lunedì prossimo -, nella sua relazione alla recente
assemblea della Confindustria, ha affermato una cosa fondamentale, e cioè ha
detto: “bisogna portare avanti il sistema maggioritario perché bisogna
smetterla con questa finzione della rappresentanza.” È un discorso fondamentale
perché la finzione della rappresentanza qual è? È questa: il parlamentare
rappresenta il popolo. Voi capite perfettamente che se il parlamentare
rappresenta il popolo, l’unico sistema elettorale è quello proporzionale. Il
fatto è che non è vero che nello stato borghese che il parlamentare rappresenta
il popolo, ma è vero quello che dice Scalfaro, e cioè che il potere legislativo
è il parlamento, e non il popolo. Allora il parlamentare non rappresenta il popolo,
ma lo sostituisce. La fonte delle leggi è l’attività parlamentare e non del
popolo, e allora il sistema maggioritario perché questo consente al parlamento
che possa lavorare per un certo numero di anni senza casini – loro si illudono
-, e quindi produrre leggi e svolgere la funzione propria che non è quella di
rappresentare il popolo - e quindi di essere subalterno al popolo -, ma di
sostituirlo nell’attività legislativa. Così è la società capitalistica. Noi
abbiamo una esperienza in parte diversa perché voi lo sapete che tra la fine
degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 il mondo capitalistico viene sconvolto
da una crisi enorme e l’unico modo per uscire da questa crisi che loro trovano
è operare un cambiamento profondo nel loro ordinamento giuridico, che ha un
perno fondamentale, e cioè: ingresso dello Stato nell’economia. Significa in parole povere questo: l’industria
capitalistica non tira più, allora lo Stato si prende carico – attraverso il
deficit di bilancio – di dare posti di lavoro, di avanzare commesse
all’industria, cioè di sostituire un mercato che non tira più con la propria
attività. In questo modo quegli stipendi che dà, ovviamente poi diventeranno
spese nei negozi dei capitalisti, quelle commesse statali diventano possibilità
per l’industria capitalistica di riprendere e quindi di fare profitti, ma
questa figura nuova dell’ingresso dello Stato nell’economia, modifica
profondamente il quadro dello stato borghese. E tra l’altro – anche se questo
nessuno lo dice – l’ingresso dello Stato nell’economia nei paesi capitalistici
ha significato ovviamente l’inizio di una attività di programmazione economica.
Ora: esattamente i primi che hanno parlato di programmazione economica, di
pianificazione e di sviluppo del pensiero economico in connessione con il
pensiero matematico per la programmazione economica furono i sovietici.
La tanto arretrata scienza economica sovietica sta
all’origine di tutto il pensiero economico moderno.
Questa situazione, voi avete visto che ha retto finché il
sistema capitalistico si è sentito minacciato dall’avversario di classe. Tolto
il pericolo comunista lo Stato torna con le caratteristiche capitalistiche
proprie, e allora riduzione della presenza dello Stato nell’economia, sistema
maggioritario, basta con l’inganno della rappresentanza, il parlamentare fa le
leggi e non il popolo.
Su questo io insisto per chiarire un concetto: immaginiamo che noi siamo tutto il popolo e
noi siamo il sovrano, cioè quello che decide. Ovviamente non possiamo fare
tutti le stesse cose: per es. avremo bisogno di qualcuno che produca le scarpe
per gli altri. Facciamo conto che incarichiamo lui di produrre le scarpe. Lui è
un nostro rappresentante o commissario, nel senso che lui ha un incarico di
lavoro per la collettività, ed è responsabile rispetto alla collettività
dell’incarico che ha avuto. Ed è quindi revocabile, in un senso molto semplice:
noi gli abbiamo dato l’incarico di fare le scarpe ma lui le fa male. Lo
critichiamo, e lui continua a farle male: caro compagno basta, ce ne mettiamo
un altro.
Perché è possibile questo? Perché lui – parlamentare rosso –
è il commissario della comunità. Rappresenta la comunità nel senso che è
incaricato di svolgere un lavoro per la comunità, e quindi è revocabile se non
funziona. Il parlamentare non è revocabile per questo. Perché? Perché non
rappresenta il popolo. Il parlamentare, insieme agli altri parlamentari, è la
fonte dell’attività legislativa, quindi nessuno può revocarli.
Non esiste la figura del mandato imperativo negli
ordinamenti giuridici e statuali borghesi.
Quello che ho cercato di dimostrare è ovviamente una linea
di ragionamento. Voglio dire: tutti quanti sappiamo che nella realtà dei fatti
– per es. nei paesi socialisti – le cose andavano in modo molto diverso, ma non
moltissimo però.
Il problema però è quello delle condizioni storiche in cui
effettivamente certe cose sono successe, e quindi implica un altro tipo di
ragionamento.
Quello che qui a me interessa è fissare due punti:
1) per quanto sia vero che il diritto dell’individuo è
storicamente divenuto un sostegno dello sfruttamento capitalistico, il
significato però del diritto dell’individuo non si esaurisce in questo. E’ un nostro problema vero e proprio concepire
il diritto dell’individuo come parte organica di un ordinamento socialista. Ma
ad una condizione fondamentale: che il diritto dell’individuo venga nettamente
separato dal problema della proprietà degli strumenti di produzione e di
scambio.
Se il diritto dell’individuo è il diritto alla proprietà
privata dei mezzi di produzione o di scambio, allora diventa privilegio. Va
separato nettamente da questo.
2) esiste un problema di difesa dell’individuo dallo Stato
anche nella società socialista.
Questo non significa però che il pensiero politico comunista
si è esaurito nel tema della difesa dell’individuo dallo Stato, per una ragione
fondamentale: che il movimento comunista punta alla conquista dello Stato, a
togliere cioè quello Stato minaccioso.
Ultimo punto: esiste un senso maggiore dell’espressione
libertà che significa riconoscimento sociale del merito nel duplice senso: che
la mia prestazione, il mio lavoro, la mia realtà deve essere riconosciuta
socialmente perché non c’è un altro mondo, e la società deve essere costruita
in maniera tale da mettere in evidenza le potenzialità che sono di ogni
individuo.
È chiaro che se questa è la linea del discorso, un altro
paio di maniche è come di fatto le cose siano andate in certe condizioni
storiche determinate.
Faccio un esempio preciso: qualche riunione fa, l’agenzia di
informazione ha pubblicato brani di un testo di Stalin sullo sviluppo delle
forze produttive e i rapporti sociali. Stalin li sta polemizzando con un
compagno. Queste pagine sono tratte dall’opera di Stalin, e il suo scritto è
costruito in questa maniera: citazioni dal discorso di quel compagno e poi la
critica di Stalin.
Il cittadino sovietico non ha mai conosciuto l’opera di quel
compagno, ma sempre e solo il testo di Stalin e le citazioni che Stalin ha
fatto da quell’opera. Quando lui qui fa la polemica contro Muccioli ha
perfettamente ragione. In che senso?
Nel senso che noi dobbiamo stare attenti perché la lingua è
una cosa molto pericolosa. Da tempi antichissimi sappiamo che la lingua
ammalia, conquista gli animi, a prescindere anche dalla verità di quello che
dice. Immaginiamo due oratori: un oratore che sappia parlare con il cuore in
mano e riscaldare la gente, e un oratore come era Togliatti per es., molto
freddo, analitico. È questo secondo che va scelto. Perché quello freddo e
analitico che non fa appello ai sentimenti, fa appello alla capacità critica.
Ma la capacità critica implica che se io polemizzo con lui, io devo fornire a
te il suo testo, perché tu devi giudicare. Allora se tu hai una situazione
costruita in maniera tale, per cui se io ho il potere, io faccio le citazioni
dal suo libro e l’accompagno alla mia critica e a te fornisco le sue citazioni
e la mia critica, tu sei preso in giro. Questa è la testimonianza del fatto che
tu non conti. Tu ti devi difendere. È certo che il problema non può finire qua.
Voglio dire che quando oggi, certa sinistra diventa sempre
più estrema nella rivendicazione delle libertà e delle differenze, questo
estremismo è a compensazione di una mancanza e di una debolezza fondamentale e
cioè che non mette in questione il potere dello Stato. Allora è chiaro che tu
non puoi limitarti a difendere, ma devi attaccare. Per es., giustamente, questo
attacco a Muccioli, in realtà è l’attacco alla retorica. Per retorica intendo
un rapporto fondato prevalentemente sul sentimento: Muccioli era un cattolico.
Capisci che il rapporto caldo, di intimità, vis-à-vis, è il rapporto che ti
cattura dentro. È come se tu avessi quella melassa addosso, per cui alla fine
sei tutto preso dal sentimento e catturato. E allora il manipolatore ti ha
fregato, e ti ha fregato con il tuo consenso.
E invece no. Il Togliatti che parla lucidamente, stimola la
tua capacità critica. Quindi non ti richiama a quell’abbracciamoci tutti sotto
il manto della nostra madre comune che è Santa Romana Chiesa. No.
Io affermo norme razionali, che tu puoi discutere
razionalmente – in questo senso affermo il diritto e affermo la necessità
dell’astrazione, perché è la necessità della critica, della ragione, invece che
il sentimento. Ma proprio perché la tua liberazione passa per la tua capacità
critica, quindi di ragionare e dunque di astrarre.
In questo senso la formalità è fondamentale. La formalità è
espressione della ragione.
Certo, la questione non può fermarsi qua. Per es. è chiaro
che – a mio modo di vedere – (come diceva lui prima) tu puoi fare tutti i
discorsi sul diritto che vuoi, ma se esistono certi rapporti sociali di
produzione, quei discorsi sono vanificati.
Una delle cose più infami della così detta via giuridica al
socialismo – cioè sostituire l’attacco all’avversario di classe con i giudici
(mani pulite per es.) – è che tu mistifichi i problemi. Cioè che tu non metti
al centro il problema della conquista dello Stato. Certo che tu ti devi
difendere dal potere, però devi conquistare il potere e costruire un nuovo
potere. Ecco il senso del riconoscimento sociale del merito, cioè un nuovo
potere.
Io credo che sia fondamentale quello che diceva lui, e cioè
questo: qualunque discorso e progetto giuridico – non basato sul diritto,
democrazia ecc. – lascia il tempo che trova se non esistono le condizioni
materiali perché quel progetto diventi realtà. Cioè voglio dire questo: se noi
avessimo l’università che hanno in nord Corea saremmo avanzatissimi. Voi lo
capite perfettamente: esistono tre diversi tipi di università: se tu sei molto
bravo hai l’università di serie A, l’appartamento, lo stipendio ecc. Se tu non
superi regolarmente gli esami te ne vai perché tu sei pagato dal popolo e devi
lavorare bene, se non lavori bene vai all’università di serie B. Se tu lavori
allora hai il diritto a un orario ridotto per poter studiare. In questo modo tu
hai la possibilità di una elevazione culturale di massa reale. Certo, il
piccolo popolo circondato dal nemico – e qui nemico vuol dire i giapponesi,
vuol dire gli americani ( e non è poco) – perdi il retroterra sovietico e
cinese, insomma… Clinton l’ha detto: “noi vi spazziamo via con le bombe
atomiche”, e lo possono fare. Allora è evidente che c’è il problema dell’unità
del paese.
Che vuol dire il culto del capo? Il culto del capo vuol
dire: tutti uniti e compatti, perché sennò qui ci fanno secchi. Questo è il
discorso. È chiaro che questo ha una ricaduta certamente negativa. Ma questo
appunto, nel senso che dice lui: tu puoi prospettare tutte le leggi di questo
mondo, ma se le condizioni materiali non consentono a…
Questo è estremamente importante perché quel discorso sulla
libertà maggiore cioè il riconoscimento sociale del merito significa che il
diritto mette veramente i piedi per terra se la società è organizzata in modo
da poterlo riconoscere questo merito di ognuno.
Cioè non bisogna illudersi che sia possibile un diritto, una
libertà e una democrazia fuori di una organizzazione sociale di un certo tipo.
Allora diventa ancora più delittuosa quella sinistra che è
sempre più estremista nella difesa della diversità e dimentica il problema
centrale, cioè chi ha in mano i meccanismi di costruzione della società. Questo
è il punto.
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