giovedì 12 marzo 2015

IL CONCETTO DI “CASO” NELLE LEZIONI SULLA FILOSOFIA DELLA STORIA DI HEGEL* - Vladimiro Giacchè


 Questo ottimo lavoro può spingere qualcuno a interessarsi a questioni difficili ma che sono presenti in modo determinante anche nel pensiero di Marx, come ben sappiamo.
Il progressivo affermarsi (secondo Hegel) della libertà come motore della storia non può avverarsi senza che l’uomo ne abbia coscienza (illuminismo). Ma è chiaro che questo concetto di libertà va tenuto ben distinto da qualsiasi connotazione arbitraria: insomma  non si tratta tanto del fatto che “l’uomo fa ciò che vuole” bensì del fatto che “l’uomo vuole ciò che fa”: e poiché, anche secondo Hegel, l’uomo è un essere razionale, questo permette di rintracciare i moventi razionali della storia stessa. Marx dirà, concordando con Hegel, che l’uomo è il creatore della propria storia, ma aggiungerà che  questa storia l’uomo la costruisce all’interno di condizioni date (limiti naturali, sviluppo delle forze produttive ecc.): sono questi ultimi elementi quelli che Hegel considererebbe “accidentali” o “contingenti”? Inoltre, dove noi scriviamo “uomo” Hegel scrive “Spirito del mondo” e questo va tenuto presente: perché  è proprio l’affermazione dell’essenza spirituale della storia che porta Hegel a dire che  “il reale è razionale ecc.” Ma sono questi i caratteri idealistici del pensiero di Hegel?
Certamente  la "costruzione" della Storia che fa Hegel, come storia di emancipazione umana non può fermarsi al suo sistema come Marx ha evidenziato. Ma è poi vero che Hegel intendesse realmente ciò - contraddicendo se stesso e la sua "opera"- ?
- Il collettivo di formazione marxista Stefano Garroni -     

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*Quaderni del Ponte, 1-2 , gennaio-giugno 1993

1. Cenni sul concetto hegeliano di contingenza

Nella sua Scienza della logica Hegel ci offre la seguente definizione di “contingente”:
“l’accidentale [Zufälliges] è un reale [Wirkliches], che in pari tempo è deter­minato solo come possibile, un reale di cui l’altro o l’opposto è anch’esso. Questa realtà è quindi semplice essere o esistenza, posti però nella loro verità, di avere cioè il valore di un esser posto o della possibilità” (HW 6.205 = tr. Moni-Cesa 614);
ad ideale completamento di questo passo possiamo aggiungere un luogo delle le­zioni hegeliane sulla logica:
“noi consideriamo il contingente come qualcosa che può essere o non essere, che può essere così o essere altrimenti, e il cui essere o non essere, essere così o essere altrimenti non è fondato in lui stesso, ma in altro” (E § 145 Z, HW 8.285= tr. Verra 357; cfr. Gdl § 15 e Handbemerkung);
è evidente in questo luogo la ripresa della trattazione aristotelica dell’argomento: si pensi soprattutto alla seconda delle tre accezioni di contingente distinte da Aristotele nella Metafisica, secondo cui “l’accidente si produce ed esiste, ma non in virtù di se stesso, bensì in virtù di un’altra cosa” (Metaph. D, 1025 a 27). Ma se il contesto del discorso aristotelico si riferiva a due catene causali indipendenti che danno luogo ad un risultato non voluto, H. attribuisce invece immediato va­lore ontologico al concetto di “contingenza”: in altre parole, esistono realtà ed enti che possono dirsi, a differenza di altri, “contingenti”, ossia imperfetti.
In pari tempo, H. stabilisce anche riguardo al problema della contingenza una precisa corrispondenza tra la gerarchia delle forme di natura e spirito e il procedere del conoscere. Infatti, da un lato nel corso del­l’e­sposizione del si­stema possiamo osservare una progressiva depurazione delle forme dalla casua­lità, ossia da isolamento, esteriorità e dipendenza da altro, insomma dalla fini­tezza; ciò risulta particolarmente evidente nel passare dalla natura inorganica alla natura organica, e da questa allo spirito. D’altro lato, ciò vale anche per quel che riguarda lo sviluppo dei momenti del conoscere: infatti anche il percorso che, attraverso la sensazione e la percezione, conduce all’intelletto e da ultimo alla ragione, vede un incremento progressivo della necessità, ossia una graduale liberazione dello “spirito” dalla casualità.



2. La filosofia della storia non è casuale rispetto al corso della storia

Se in generale possiamo osservare, quanto alla progressiva liberazione dalla casualità, un parallelismo tra il procedere del conoscere e la “Stufenfolge” degli enti di cui H. si occupa nell’Enciclopedia, nell’ambito della trattazione della “Welt­geschichte” dobbiamo parlare addirittura di un rapporto di coimplicazione e complicità tra corso della storia e filosofia della storia. E questo per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, la filosofia della storia secondo H. non può per definizione essere “casuale” (nel duplice senso di “semplicemente soggettiva” ed “esterna”) rispetto al corso della storia (VG 3 Ms, 22=205). D’altronde, neppure la storiografia lo è: a questo proposito H. non si limita ad addurre la nascita con­temporanea di storia [Geschichte] e storiografia [Historie] (5 Ms), ponendo en­trambe in corrispondenza col sorgere dello stato (164=167 Ms), ma suggerisce ad­dirittura una sorta di generazione della storia ad opera della storiografia. In se­condo luogo, dal momento che la storia, come vedremo presto, può secondo H. intendersi soltanto come progressivo sviluppo della coscienza della libertà, allora la filosofia (e dunque anche la filosofia della storia), nel suo stesso chiarire tale caratteristica, non si limita ad osservarne il compimento ma vi con­tribuisce attivamente; il fatto che l’“occhio del concetto” (32=11, 259 Z) non sia af­fatto esterno al processo osservato, ma anzi collabori alla sua effettuazione, e la complicità tra storia e filosofia della storia che così si verifica, costituiscono non solo elementi fondamentali per intendere fino in fondo i caratteri dell’“oggettivismo storico” hegeliano, ma ci pongono anche in condizione di comprendere il pathos di molte affermazioni particolari contenute in queste le­zioni.


3. I due aspetti del rapporto tra necessità e contingenza in storia

Volendo dare una prima caratterizza­zione del rapporto tra “caso” e “necessità” nella ricostruzione hegeliana della storia, ci imbattiamo in due fondamentali ac­cezioni del concetto di “caso” e del suo opposto complementare: 
a) “Caso” come particolarità, elementi dispersi, in opposizione a “necessità” come “regolarità, legalità compren­si­bile”;
b) “Caso” come “necessità naturale, esteriore”, in opposizione a “necessità” come “direzione razionale, finalismo”.
E’ da notare che la prima accezione dei due termini (a) comprende nel suo campo semantico la seconda; in altre parole, quando H. parla della “necessità” come dell’obiettivo che lo storico ed il filosofo della storia devono perseguire, egli ha in mente un’esigenza metodologica che include sia la “necessità dell’intelletto” (semplicemente conforme al principio della causalità) che la (b) “necessità della ragione” (la quale comporta invece un principio finalistico di spiegazione). Questo rilievo ha la sua importanza: infatti tutta una serie di asse­verazioni hegeliane concernenti il caso, l’esigenza di un suo superamento ed i limiti di questo vanno intese come affermazioni generali, che prescindono in­tenzional­mente dal tipo di necessità a cui H. poi intende fare privilegiato riferi­mento nel corso delle sue Lezioni. 
È il caso, in primo luogo, della richiamata inevitabilità di un asse centrale della narrazione storica, a cui è relativo ed opposto il contingente. A questo pro­posito infatti H. nota come già per il conoscere dell’intelletto sia decisivo distin­guere ciò che è essenziale da quello che non lo è (168-9=173 Ms), e proprio tale ca­pacità è da lui considerata carattere distintivo dello storico rispetto al cronista (260 Z); tutto questo però presuppone la conoscenza dell’essenziale stesso, o quan­tomeno una “familiarità con le idee” (168-9=172-3 Ms). Tentando di sistemare gli aspetti e le implicazioni principali di questa posizione hegeliana si possono fissare i seguenti punti: (1) H. ritiene fondamentale per la comprensione storica un modello che potremmo definire di “causalità gerarchica”, ossia una distin­zione delle cause ed eventi decisivi (il cui insieme configura il “corso della sto­ria”) rispetto ad eventi accessori e contingenti; questo assunto metodologico, da lui espresso con esemplare chiarezza (cfr. 33-34=13!), lo accomuna alla più parte degli storici e filosofi della storia del XVIII e del XIX secolo, ed è indifferente ri­spetto alle differenti cause e forme che al “corso della storia” vengono attribuite dai vari autori: in generale, esso non può essere identificato, come pure in re­centi riflessioni sulla storia si è tentato di fare, con una “concezione teleologica” della storia. (2) Inoltre H. considera che per effettuare tale distinzione sia ne­cessario presupporre uno schema teorico, e dunque che neppure in ambito sto­rico possa esistere il “puro empirico” (31=10-11 Ms, E § 549 A); a questo riguardo (è un punto su cui torneremo a proposito del significato dell’a priori) il suo atteg­giamento diverge da quello fichtiano. (3) Infine, egli ritiene che il “caso” costi­tuisca il limite negativo, ma reale della conoscenza storica; i confini della razio­nalizzabilità del contingente sono ben espressi da H. in un luogo che possiamo connettere al parallelismo realtà-conoscenza visto sopra:
“è completamente giusto dire che compito della scienza, e più precisamente della filosofia, è quello, in generale, di conoscere la necessità nascosta sotto l’apparenza della contingenza; ma questo non va inteso come se il contin­gente appartenesse soltanto al nostro modo soggettivo di rappresentare le cose e perciò fosse del tutto da accantonare per giungere alla verità” (E § 145 Z, HW 8.286-7=359).
Dopo aver passato in rassegna (a) i vari versanti del più generale rapporto che H. stabilisce tra “necessità” e “contingenza” in storia, possiamo addentrarci nella seconda, particolare accezione di tale rapporto in H.: (b) il rifiuto di concepire la storia come “caso”, ossia come necessità esteriore, assenza di razionalità e legalità (29=8, 263 Z, 36=16 sgg. Ms). Il primo punto da mettere in rilievo è il seguente: il progetto filosofico di Beseitigung del caso in questo significato è comune a gran parte delle filosofie della storia post-kantiane: l’intreccio di razionalizzabilità (conoscibilità) e finalità può infatti esser fatto risalire alla kantiana Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. E lo H. che interpreta la storia sulla base della fiducia aprioristica (in quanto ottenibile dalla Logica e a cui sul terreno storico va data una “riprova”: 29=9) nella razionalità degli eventi (26=5 sgg., partic. 30-1=10-11 Ms, 32=12, e 258-9 Z, 38-39=18-19 Ms) non fa insomma che continuare una consolidata tradizione filosofica.
Se questo è vero, solo la risposta a due domande ulteriori può renderci lo spe­cifico della posizione hegeliana. In primo luogo, in che senso il procedimento di H. può dirsi “aprioristico”? In secondo luogo: di quali contenuti effettivi H. riempie la generica opposizione di caso e necessità, sulla base della sua fiducia nel fatto che “la ragione governi il mondo”? Alla seconda questione è de­dicato tutto il seguito del presente lavoro. Alla prima cercherò di rispondere subito, discutendone in rapporto a quanto H. afferma su a priori ed a posteriori nella lunga annotazione al § 12 dell’Enciclopedia. In particolare, se prendiamo sul serio l’opinione hegeliana secondo cui la filosofia è in senso forte “debitrice del proprio sviluppo alle scienze empiriche”, ma “dà al loro contenuto la figura essenziale della libertà (dell’a priori) del pensiero e l’inveramento della neces­sità” (HW 8.58 = 139), e proviamo a metterla a confronto con la filosofia della storia, risulta che dobbiamo parlare di almeno due a priori, anziché di uno solo: il primo è la fiducia nella razionalità del reale; dall’indagine del mol­teplice storico (l’a posteriori) sulla base di quel presupposto (e degli strumenti concettuali approntati nella Scienza della logica), scaturisce poi un risultato, ossia una ricostruzione sintetica del significato del percorso storico, che in quanto in­dividua la necessità dei suoi vari passaggi può ben definirsi un secondo a priori, e che sta a quel postulato iniziale come la verità della certezza sta alla semplice cer­tezza. Tale risultato è poi a priori anche nel senso banale che esso viene antici­pato da H. ai suoi uditori nell’in­tro­du­­zione generale alle lezioni, ossia è, al pari di tutto ciò che tale introduzione contiene, un mero “presuppo­sto” che riceverà la propria “plausibilità” nel corso stesso della trattazione (30=10 Ms e 54=36 Ms). Ma vediamo in concreto qual è questo risultato.


4. Il filo conduttore della storia hegeliana. Il “caso” come indicatore dell’insufficienza delle forme pre-moderne di libertà. I tre livelli di significato della storia

Per H. nella storia ciò che è essenziale è la “coscienza della libertà e le deter­minazioni assunte da tale coscienza nel suo processo evolutivo [Entwicklung]” (169=172 Ms); l’accento qui posto sulle varie tappe del percorso permette di as­solvere al requisito richiesto da H. stesso, per il quale la “ragione”, e la “provvidenza” sono concetti di per sé vuoti, e viceversa “solo la ragione conce­pita nel suo determinarsi [Bestimmung] è la cosa [Sache]” (49=31 Ms). In questo modo H. non solo fa propria l’insofferenza schellinghiana nei confronti del sem­plice richiamo alla “provvidenza” o al “destino”, ma aggira anche l’obiezione di Humboldt contro la provvidenza come pseudo-principio esplicativo che in realtà “sbarra la strada ad ogni indagine ulteriore”.
Nel contesto dello schema hegeliano di sviluppo della libertà nella storia è as­sai evidente il ruolo di nozione negativa giocato dal caso: i termini “Zufall” e “Zufälligkeit” demarcano regolarmente i confini delle varie forme di libertà che precedono quella propria del “mondo cristiano-germanico”, denunciandone i li­miti strutturali.
Così, in Asia la libertà è solo “in sé” (WG 572), ossia l’uomo non ha coscienza del proprio esser libero, e la stessa “libertà di uno” è affetta comunque da “Naturzufall” ed “arbitrio” (62=46 Ms); in Grecia vi è coscienza della libertà, ma non è ancora presente l’unità della natura divina e umana secondo il suo con­cetto (ibid. e WG 577-8): in tal modo la libertà è solo di “alcuni” e, oltre a compor­tare “una dura schiavitù dell’umano”, è essa stessa “una fioritura accidentale [zufällig], elementare [unaus­gearbeitet], caduca e limitata” (ancora 62=46 Ms); quanto a Roma, è proprio la tensione tra i lati della sua polarità strutturale (astratta universalità politica e astratta libertà dell’individuo: WG 662) a far sì che finisca col prendere il potere “la forza d’arbitrio [willkürliche Gewalt], nella forma della soggettività accidentale” (VG 252=285). H. tenta di mostrare come a partire dall’avvento del cristianesimo e dall’unità della natura umana e divina che esso introduce nella storia (WG 821 sgg.), si produca - anche se non immedia­tamente - la coscienza della libertà dell’uomo in quanto tale, e dunque vengano progressivamente eliminati i limiti la cui presenza nei “mondi” precedenti era segnalata dall’importanza dell’“accidentale”.
Per poter giudicare correttamente questo tentativo di eliminazione diacronica del caso, occorre però in primo luogo chiarire quali rapporti in generale intercor­rano tra i vari livelli di significato che H. prende in considerazione nelle sue le­zioni e in che misura essi possano ritenersi invarianti. Tali livelli sono tre:
1) lo “spirito del mondo”, che è soggetto della storia, e la cui comprensione è appannaggio della storia filosofica (ragion per cui cui secondo H. soltanto essa è in grado di occuparsi con esaustività della storia universale);
2) i popoli-stati di rilievo storico-mondiale;
3) i singoli individui.


5. La relazione dello “spirito del mondo” coi singoli “Volks­geister” come rap­porto tra universale e sue determina­­zioni

Come abbiamo già potuto osservare, secondo la concezione hegeliana l’“idea” non è una generalità astrat­ta, una determinazione semplice, ma deve essere resa dal filosofo nel suo particolarizzarsi. Questo rilievo è assai importante per com­prendere il rapporto tra il primo ed il secondo livello della storia. Per discuterne è utile prendere le mosse dal luogo in cui H. sostiene che “dobbiamo considerare la storia del mondo secondo il suo scopo finale [Endzweck]: e questo è ciò che è vo­luto nel mondo” (53=36); ora, non è difficile identificare il soggetto che vuole “ciò che è voluto nel mondo” col (1) “Weltgeist”; ma a sua volta questo “indivi­duo”, questo primo livello di significato è nel suo complesso costituito da un insieme di “individui”, ossia dai (2) popoli-stati di interesse storico-mondiale,  ed in ogni momento della storia si identifica col “Volksgeist” del popolo che in quel periodo svolge un ruolo-guida (59=43).
In tal modo ha luogo un rapporto necessario tra (1) l’universale ed i (2) prin­cipi particolari. Non si può dunque affermare che i singoli popoli siano in senso stretto “contingenti” rispetto al corso della storia; però la stessa distinzione che H. mantiene tra lo “spirito del mondo” e i vari “spiriti dei popoli” ci indica entro quali limiti si possa comunque parlare di relativa “contingenza” dei vari popoli rispetto al corso storico nel suo complesso: infatti tale distinzione è funzionale alla comprensione del senso (ossia del perché e della direzione) dei momenti di trapasso epocale; questi sono segnati da un conflitto di universali, “quello che forma la base del sussistere di un popolo o di uno stato”, e quello della “grande storia” (96-7=86-8): quest’ultimo risulta di volta in volta vittorioso rispetto al primo, il cui limite è il limite del principio naturale e particolare dei vari popoli. In definitiva, nel secondo livello di significato della storia la “contingenza” ci si fa incontro come caducità , come diretta conseguenza della particolare determi­natezza dei vari “Volksgeister”, la quale trova la sua ragione nella naturalità del principio stesso. Né va dimenticato, a questo proposito, che il famoso modello dell’“astuzia della ragione” è operante anche riguardo ai popoli: H. afferma più volte che la provvidenza realizza il suo scopo  attraverso la “inconsapevole vo­lontà dei popoli”.


6. Il terzo livello di significato della storia: individui e contingenza

L’indagine del terzo livello di significato della storia per sé preso è assai meno rilevante, ai fini della comprensione della storia nel suo complesso, dei primi due. Su questo punto, ossia sulla accidentalità dell’azione individuale rispetto al processo storico, H. è assai deciso:
“le individualità... scompaiono per noi; noi attribuiamo loro valore solo in quanto traducono in realtà ciò che vuole lo spirito del popolo... Gli individui scompaiono innanzi a ciò ch’è universalmente sostanziale... Gli individui non impediscono che avvenga ciò che deve avvenire (60=44).
Lo scomparire degli individui rispetto all’universale esprime proprio la loro co­stitutiva accidentalità, secondo un assioma generale espresso con la massima chiarezza nei Lineamenti di filosofia del diritto:
“a quel che ha la natura dell’accidentale capita l’accidentale, e questo destino appunto è quindi la necessità, - come in genere il concetto e la filosofia fa dile­guare il punto di vista della mera accidentalità e in essa... conosce la di lei es­senza, la necessità” (Gdl § 324 A).
In base a questo principio H. parla del “potere”, che “il caso, la particolarità ri­cevono dal concetto”, di far valere i loro “enormi diritti” contro la “particolarità empirica” (VG 76=64); questo principio gioca un ruolo importante nella teodi­cea hegeliana, in quanto consente di minimizzare la portata del negativo nella storia; a questo stesso fine serve anche (i due aspetti non sembrano sempre coin­cidere) la concezione del rapporto tra i fini degli individui e l’universale come una relazione di mezzo e fine. Da questo secondo punto di vista “gli individui cosmico-storici”, ossia coloro la cui azione permette il trapasso da un’epoca della storia all’epoca successiva e superiore, non solo non costituiscono un’eccezione, ma sono considerati da H. addirittura emblematici (v. 97=88 sgg., cfr. WG 877).
Né sembra possibile far valere contro la “accidentalità” degli individui la con­siderazione che essi sono comunque mezzo necessario, ossia che “l’universale deve farsi reale mediante il particolare”: infatti, nella cornice del discorso hege­liano, tale affermazione significa soltanto che l’“Accidentale in quanto tale” (ad es., le passioni umane in generale) è necessario, in quanto mezzo e materia, all’universale, non che lo siano questo o quell’individuo particolari.
Il punto meritevole di discussione è semmai un altro: in che senso gli indivi­dui possono essere “fine” a loro volta? Esso è sicuramente pertinente rispetto alla trattazione hegeliana, e questo per almeno due motivi: in primo luogo è H. stesso a dirci che gli individui sono “fini a se stessi non solo formalmente” (ossia sem­plice­­mente autorelativi come gli esseri viventi in generale), “ma anche secondo il contenuto del fine”: lo sono certamente nel loro rapporto con “moralità, eticità e religiosità”, le quali appunto vivono negli e tramite gli individui, parteci­pano della ragione, e sono perciò sottratte all’“esteriore necessità ed accidenta­lità” (106=99 Ms); inoltre H. nega esplicitamente che il rapporto tra stato e cittadini vada inteso come una relazione tra fine esterno e mezzo, e lo paragona invece alla “vita organica” (112=105-6). Ma d’altro lato egli afferma che nella loro pecu­liare “configurazione” popoli e forme etiche sono “di specie limitata” e perciò si trovano “nel sistema della natura esterna e sotto l’impero del caso [in äußerm Natur­zusammenhang und unter der Zufällig­keit]” (109=101 Ms, e sg.); ed ab­biamo già visto come la contrap­posizione dell’universale etico particolare all’universale della storia universale veda il primo soccombere regolarmente.
Ora, proprio questa circostanza, se permette di relativizzare drasticamente la “autofinalità” di individui ed insiemi etici, pone un secondo problema, ossia quello del rapporto tra l’individuo ed il progresso del “Welt­geist”: infatti, se lo spirito universale va comunque distinto (come mostrano in particolare i mo­menti di trapasso epocale) dall’universale etico, è difficile riferire affermazioni come quella secondo cui “lo spirito universale [der allgemeine Geist] esiste essen­zialmente come coscienza umana” (113=106) esclusivamente ai singoli “Volksgeister”; e d’altro lato, se il superamento di una forma etica particolare ed il passaggio alla successiva costituiscono un progresso per lo spirito del mondo, è necessario porre gli stessi “spiriti dei popoli” - a cui gli individui sono necessa­riamente relati - su una scala graduata di livelli di perfezione; in ogni caso, in base allo stesso progetto filosofico hegeliano dovrebbe essere in qualche modo possibile valutare il progresso del “Weltgeist” nelle coscienze individuali.


7. La “contingenza” degli individui tra naturalità e particolarità

La domanda circa il carattere di “autofinalità” degli individui ha dunque un rilievo centrale e può essere riformulata, nel contesto della presente ricerca, in rapporto al problema della “contingenza” degli individui. Sulla base di quanto ab­biamo visto sinora è intanto possibile stabilire, in prima approssima­zione, che cosa è “casuale” degli individui: a) l’individuo in quanto naturale, e b) l’individuo in quanto particolare. Se quanto ho detto riguardo alla necessità di un rapporto tra progresso del “Weltgeist” e “coscienza individuale” è vero, ne se­gue che la storia ha un senso soltanto in quanto sia possibile verificare un pro­gressivo (seppure non totale) affrancamento dalla naturalità e dalla particolarità negli individui che fanno parte del mondo cristiano-germanico rispetto, poniamo, agli individui che costi­tuivano la “bella eticità” greca.
Dare una risposta a quel quesito centrale è però possibile solo sulla base di un’indagine attenta dei rapporti che intercorrono tra a) naturalità e b) particola­rità nel loro concorrere a definire il concetto di “casualità” degli individui. A que­sto fine possiamo trarre alcuni spunti da un’importante annotazione dell’Enciclopedia in cui gli “impulsi” vengono discussi nel contesto del passaggio dallo “spirito soggettivo” allo “spirito oggettivo”:
“è la riflessione immanente dello spirito stesso di andar oltre la loro particola­rità come [wie] oltre la loro immediatezza naturale, e dare al loro contenuto razionalità ed oggettività, in cui essi stanno come rapporti necessari, diritti e doveri... La questione dunque: quali siano le inclinazioni [Neigungen] buone e razionali e la loro subordinazione, si converte nell’esposizione dei rapporti [Darstellung, welche Verhältnisse] che lo spirito produce quando si svolge come spirito oggettivo: - uno svolgimento in cui il contenuto dell’autodeter­minazione perde l’accidentalità e l’arbitrio. La trattazione degli impulsi, inclinazioni e passioni secondo il loro contenuto [Gehalt] vero è, per­ciò, essenzialmente, la dottrina dei doveri giuridici, morali ed etici” (E § 474 A, HW 10.297 = Croce 469).
Ecco quello che possiamo ricavare da questo passo:
1) innanzitutto H. pone le passioni e - ciò che per il nostro problema più conta - l’arbitrio in un campo semantico delimitato da naturalità e particolarità; che l’arbitrio sia intrinsecamente accidentale, è quanto d’altronde già si ricava da un paragrafo cruciale dell’introduzione ai Lineamenti di filosofia del diritto, in cui esso è definito come “l’accidentalità, quand’essa è come volontà [die Zufälligkeit, wie sie als Wille ist]” (Gdl § 15). Né mancano, nell’ambito delle Lezioni sulla filosofia della storia, ulteriori testimonianze del nesso arbitrio-particolarità-caso: si veda ad esempio il luogo in cui H. descrive il “contenuto spirituale” dello stato come “un che di saldo [Festes] e compatto, completa­mente sottratto all’arbitrio, ai particolarismi [Partikulari­­täten], ai capricci, all’individualità, all’acciden­talità (VG 115=109); e l’arbitrio, nel senso più specifico di “potere arbitrario”, si affianca alla casualità nella caratterizzazione dei limiti delle forme statuali asiatica, greca e romana (v. WG 369, 547 sgg., 714).
2) In secondo luogo, è possibile scorgere, nell’annotazione all’Enciclopedia ci­tata sopra, una tendenza all’identificazione di naturalità e particolarità: essa risulta con chiarezza dal fatto che la contestualizzazione degli impulsi è di per sé al tempo stesso (e senza ulteriori precisazioni) denaturalizzazione e perdita di particolarità.
Ora, quando nelle Lezioni sulla filosofia della storia questo stesso modello è applicato agli individui, non può che emergere con prepotenza una specifica dif­ficoltà: infatti la “particolarità” di cui H. parla a proposito degli individui non solo non è sempre connessa alla naturalità, ma in alcuni casi rilevanti è deri­vante dalla “Bildung” e dunque direttamente proporzionale alla perdita di natu­ralità ed esteriorità, insomma strettamente apparentata alla nozione di “soggettività” a partire dal suo sorgere.
Tutto ciò si può osservare in concreto nella raffigurazione hegeliana del dis­solversi dell’eticità greca, tanto più importante in quanto essa nell’introduzione alle Lezioni sulla filosofia della storia funge di fatto da modello del trapasso da un “Volksgeist” all’altro. Ora, in questo caso per quel che riguarda la particolarità abbiamo a che fare con una sorta di doppio movimento. Da un lato la naturalità-particolarità costituisce il limite dell’eticità greca: lo “spirito” è ancora “inficiato di natura, e perciò particolare”; dunque si ha la schiavitù, e la libertà dell’uomo solo in quanto particolare (WG 610-11). Per un altro verso, però, la dissoluzione di quella forma di eticità passa proprio per la non controllabilità del principio della soggettività, dell’interiorità, per il dispiegarsi della “coscienza del particolare, e con ciò del male” (WG 602 sgg., cfr. 654); credo che quest’ultimo passaggio sia illuminante nella sua ambiguità: conoscere il particolare è conoscere il male, ma non va d’altra parte di­menticato che proprio di questa scissione - della conoscenza del bene e del male, del riconoscersi come “altro” rispetto al proprio mondo - l’uomo ha bisogno per elevarsi dalla propria naturalità originaria, e, appunto, dall’eticità naturale.
L’ambizione del tentativo hegeliano consiste nel mostrare come all’interno dell’eticità moderna il particolare sia operante, non annullato ma sussunto nell’universale. Ed è facile osservare come tra gli strumenti di quel tentativo vi sia, da subito, una sorta di addomesticazione del principio della particolarità e della soggettività: essa si serve della presupposizione di un ideale di soggettività e della già vista identificazione di fatto della residuale particolarità e della natura; in base a ciò è rigettato nel naturale-particolare-casuale tutto ciò che da quell’ideale di soggettività si differenzia.


8. Conclusioni: la rivincita della naturalità

Ora possiamo volgerci, con qualche elemento in più, alla domanda circa il ca­rattere di “autofinalità” del­l’individuo nella storia. Riassumiamo brevemente i termini della questione: in base a quanto abbiamo visto sopra (6), sino all’epoca moderna il principio della particolarità individuale è funzionale alle ragioni del processo della “Weltgeschichte” contro i principi limitati dei singoli popoli; la novità costituita dallo stato moderno consisterebbe, all’inverso, proprio nella sua ca­pacità di contenere il principio della coscienza soggettiva senza esserne dissolto. In altri termini, la storia come “progresso nella coscienza della libertà” dovrebbe sboccare - almeno in certa misura - in un’armonizzazione tra i tre livelli della storia stessa, ossia tra (1) la razionalità del processo storico e la razionalità propria (2) del contesto etico e (3) della riflessione soggettiva.
Il compimento di questo aspetto del progetto filosofico hegeliano è di impor­tanza decisiva nell’economia dell’intera sua filosofia della storia, se pensiamo che H. assegna un ruolo centrale al “presente” - inteso come epoca, anzi come “absolute Epoche”, a far data dall’avvento del cristianesimo (VG 45=27) -, nella riprova della razionalità della storia (v. 45=26-7 Ms e la nota autografa in margine al testo). Ma è lo stesso utilizzo del modello dell’“astuzia della ragione” a denun­ziare la permanenza di uno iato insanabile tra intenzione ed operare individuali ed i loro risultati “macrostorici”, d’altronde espressamente ammesso da H. e rife­rito non soltanto ai singoli individui ma anche ai popoli ed agli stati (Gdl § 344). Diverse sono le conseguenze, tra loro strettamente connesse, di ciò:
a) l’impossibilità della trasparenza del processo storico, in altre parole l’irridu­ci­bi­­lità di significato dei vari livelli di intelligibilità della storia: questo non si­gnifica altro che l’ineliminabilità del “caso”. Beninteso, ciò di per sé non costitui­rebbe un problema in base ai presupposti di H., il quale non ritiene che il caso sia totalmente eliminabile; però non risulta in ultima analisi chiaro neppure in quale senso  a questo riguardo possa aversi un progresso relativo nella storia mo­derna e contemporanea.
b) Ma il modello dell’”astuzia della ragione”, se poniamo mente ai contesti ed alle modalità del suo uso, ci dice qualcosa di più preciso: ci parla di un persistente carattere di naturalità della storia. O meglio: di una rivincita della “natura” sulla particolarità e sulla coscienza. Insomma, per un verso H. sembra rifiutare alcune accezioni del principio della soggettività proiettandole sulla particolarità, e denunciando a sua volta questa (in maniera piuttosto sbrigativa) come naturale; d’altro lato proprio la naturalità, che è per definizione ciò che nella storia lo spirito deve superare, fini­sce col rivalersi esplicitamente sul principio della particolarità. È facile compren­dere come l’uso dell’“astuzia della ragione” comporti questa conseguenza: si pensi, oltreché al movente passionale delle azioni umane, al carattere sempre istintuale-intuitivo della “coscienza” nei popoli, ed al fatto che gli stessi “individui cosmico-sto­rici”, i quali guidano il mutamento storico, sono a loro volta guidati da “una spe­cie di istinto, quasi animale” (101=93; cfr. 171=176 Ms); infine va ricordato un caso di particolare importanza, in quanto concerne direttamente la società con­tempo­ranea: l’uso dell’”astuzia della ragione” nei paragrafi della Filosofia del diritto ri­guardanti il “sistema dei bisogni”, ed il significativo titolo (“il regno animale dello spirito”) che portavano già nella Fenomenologia le pagine dedicate allo stesso argomento.
Più in generale, come è noto, il riemergere della naturalità nei Lineamenti di filosofia del diritto ha attratto assai presto l’attenzione degli interpreti: si pensi al giovane Marx, che nel suo commento critico alla filosofia hegeliana del diritto statuale ne scorgeva due momenti cruciali nella giustificazione della monarchia ereditaria e del maggiorascato.
Ma possiamo porre ad epilogo di questa breve rassegna dei significati di “caso” nella storia hegeliana il passo delle Lezioni sulla filosofia della storia in cui si trova la più esplicita e significativa testimonianza della rivincita della naturalità (e immediatezza) sulla particolarità: 

“lo stato organizzato può esser raffigurato come un individuo, la sua estrema volontà risolutiva non può quindi essere che una. Ma se è a un individuo che deve spettare la decisione ultima, esso dev’essere designato in modo imme­diato e naturale, e non per elezione, per opinione, o simili.” (WG 900, corsivi miei).

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