Questo ottimo lavoro può spingere qualcuno a interessarsi a questioni difficili ma che
sono presenti in modo determinante anche nel pensiero di Marx, come ben
sappiamo.
Il progressivo affermarsi
(secondo Hegel) della libertà come motore della storia non può avverarsi senza
che l’uomo ne abbia coscienza (illuminismo). Ma è chiaro che questo concetto di
libertà va tenuto ben distinto da qualsiasi connotazione arbitraria: insomma
non si tratta tanto del fatto che “l’uomo fa ciò che vuole” bensì del fatto che
“l’uomo vuole ciò che fa”: e poiché, anche secondo Hegel, l’uomo è un essere
razionale, questo permette di rintracciare i moventi razionali della storia
stessa. Marx dirà, concordando con Hegel, che l’uomo è il creatore della
propria storia, ma aggiungerà che questa storia l’uomo la costruisce
all’interno di condizioni date (limiti naturali, sviluppo delle forze
produttive ecc.): sono questi ultimi elementi quelli che Hegel considererebbe
“accidentali” o “contingenti”? Inoltre, dove noi scriviamo “uomo” Hegel scrive
“Spirito del mondo” e questo va tenuto presente: perché è proprio
l’affermazione dell’essenza spirituale della storia che porta Hegel a dire
che “il reale è razionale ecc.” Ma sono questi i caratteri idealistici
del pensiero di Hegel?
Certamente la "costruzione" della Storia che fa
Hegel, come storia di emancipazione umana non può fermarsi al suo sistema come
Marx ha evidenziato. Ma è poi
vero che Hegel intendesse realmente ciò - contraddicendo se stesso e la sua "opera"-
?
- Il collettivo di formazione marxista Stefano Garroni -
----------------------------------------------------
*Quaderni del Ponte, 1-2 , gennaio-giugno 1993
1. Cenni sul concetto hegeliano di
contingenza
Nella sua Scienza
della logica Hegel ci offre la seguente definizione di “contingente”:
“l’accidentale
[Zufälliges] è un reale [Wirkliches], che in pari tempo è determinato solo
come possibile, un reale di cui l’altro o l’opposto è anch’esso. Questa realtà
è quindi semplice essere o esistenza, posti però nella loro verità, di avere
cioè il valore di un esser posto o della possibilità” (HW 6.205 = tr. Moni-Cesa
614);
ad ideale
completamento di questo passo possiamo aggiungere un luogo delle lezioni
hegeliane sulla logica:
“noi
consideriamo il contingente come qualcosa che può essere o non essere, che può
essere così o essere altrimenti, e il cui essere o non essere, essere così o
essere altrimenti non è fondato in lui stesso, ma in altro” (E § 145 Z, HW
8.285= tr. Verra 357; cfr. Gdl § 15 e Handbemerkung);
è evidente in
questo luogo la ripresa della trattazione aristotelica dell’argomento: si pensi
soprattutto alla seconda delle tre accezioni di contingente distinte da
Aristotele nella Metafisica, secondo cui “l’accidente si produce ed esiste, ma
non in virtù di se stesso, bensì in virtù di un’altra cosa” (Metaph. D, 1025 a
27). Ma se il contesto del discorso aristotelico si riferiva a due catene
causali indipendenti che danno luogo ad un risultato non voluto, H. attribuisce
invece immediato valore ontologico al concetto di “contingenza”: in altre
parole, esistono realtà ed enti che possono dirsi, a differenza di altri,
“contingenti”, ossia imperfetti.
In pari
tempo, H. stabilisce anche riguardo al problema della contingenza una precisa
corrispondenza tra la gerarchia delle forme di natura e spirito e il procedere
del conoscere. Infatti, da un lato nel corso dell’esposizione del sistema
possiamo osservare una progressiva depurazione delle forme dalla casualità,
ossia da isolamento, esteriorità e dipendenza da altro, insomma dalla finitezza;
ciò risulta particolarmente evidente nel passare dalla natura inorganica alla
natura organica, e da questa allo spirito. D’altro lato, ciò vale anche per
quel che riguarda lo sviluppo dei momenti del conoscere: infatti anche il percorso
che, attraverso la sensazione e la percezione, conduce all’intelletto e da
ultimo alla ragione, vede un incremento progressivo della necessità, ossia una
graduale liberazione dello “spirito” dalla casualità.
2. La filosofia della storia non è
casuale rispetto al corso della storia
Se in
generale possiamo osservare, quanto alla progressiva liberazione dalla
casualità, un parallelismo tra il procedere del conoscere e la “Stufenfolge” degli
enti di cui H. si occupa nell’Enciclopedia, nell’ambito della trattazione della
“Weltgeschichte” dobbiamo parlare addirittura di un rapporto di coimplicazione
e complicità tra corso della storia e filosofia della storia. E questo per
almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, la filosofia della storia secondo
H. non può per definizione essere “casuale” (nel duplice senso di
“semplicemente soggettiva” ed “esterna”) rispetto al corso della storia (VG 3
Ms, 22=205). D’altronde, neppure la storiografia lo è: a questo proposito H.
non si limita ad addurre la nascita contemporanea di storia [Geschichte] e
storiografia [Historie] (5 Ms), ponendo entrambe in corrispondenza col sorgere
dello stato (164=167 Ms), ma suggerisce addirittura una sorta di generazione
della storia ad opera della storiografia. In secondo luogo, dal momento che la
storia, come vedremo presto, può secondo H. intendersi soltanto come
progressivo sviluppo della coscienza della libertà, allora la filosofia (e
dunque anche la filosofia della storia), nel suo stesso chiarire tale
caratteristica, non si limita ad osservarne il compimento ma vi contribuisce
attivamente; il fatto che l’“occhio del concetto” (32=11, 259 Z) non sia affatto
esterno al processo osservato, ma anzi collabori alla sua effettuazione, e la
complicità tra storia e filosofia della storia che così si verifica,
costituiscono non solo elementi fondamentali per intendere fino in fondo i
caratteri dell’“oggettivismo storico” hegeliano, ma ci pongono anche in
condizione di comprendere il pathos di molte affermazioni particolari contenute
in queste lezioni.
3. I due aspetti del rapporto tra
necessità e contingenza in storia
Volendo dare
una prima caratterizzazione del rapporto tra “caso” e “necessità” nella
ricostruzione hegeliana della storia, ci imbattiamo in due fondamentali accezioni
del concetto di “caso” e del suo opposto complementare:
a) “Caso”
come particolarità, elementi dispersi, in opposizione a “necessità” come
“regolarità, legalità comprensibile”;
b) “Caso”
come “necessità naturale, esteriore”, in opposizione a “necessità” come
“direzione razionale, finalismo”.
E’ da notare
che la prima accezione dei due termini (a) comprende nel suo campo semantico la
seconda; in altre parole, quando H. parla della “necessità” come dell’obiettivo
che lo storico ed il filosofo della storia devono perseguire, egli ha in mente
un’esigenza metodologica che include sia la “necessità dell’intelletto”
(semplicemente conforme al principio della causalità) che la (b) “necessità
della ragione” (la quale comporta invece un principio finalistico di
spiegazione). Questo rilievo ha la sua importanza: infatti tutta una serie di
asseverazioni hegeliane concernenti il caso, l’esigenza di un suo superamento
ed i limiti di questo vanno intese come affermazioni generali, che prescindono
intenzionalmente dal tipo di necessità a cui H. poi intende fare privilegiato
riferimento nel corso delle sue Lezioni.
È il caso,
in primo luogo, della richiamata inevitabilità di un asse centrale della
narrazione storica, a cui è relativo ed opposto il contingente. A questo proposito
infatti H. nota come già per il conoscere dell’intelletto sia decisivo distinguere
ciò che è essenziale da quello che non lo è (168-9=173 Ms), e proprio tale capacità
è da lui considerata carattere distintivo dello storico rispetto al cronista
(260 Z); tutto questo però presuppone la conoscenza dell’essenziale stesso, o
quantomeno una “familiarità con le idee” (168-9=172-3 Ms). Tentando di
sistemare gli aspetti e le implicazioni principali di questa posizione
hegeliana si possono fissare i seguenti punti: (1) H. ritiene fondamentale per
la comprensione storica un modello che potremmo definire di “causalità
gerarchica”, ossia una distinzione delle cause ed eventi decisivi (il cui
insieme configura il “corso della storia”) rispetto ad eventi accessori e
contingenti; questo assunto metodologico, da lui espresso con esemplare
chiarezza (cfr. 33-34=13!), lo accomuna alla più parte degli storici e filosofi
della storia del XVIII e del XIX secolo, ed è indifferente rispetto alle
differenti cause e forme che al “corso della storia” vengono attribuite dai
vari autori: in generale, esso non può essere identificato, come pure in recenti
riflessioni sulla storia si è tentato di fare, con una “concezione teleologica”
della storia. (2) Inoltre H. considera che per effettuare tale distinzione sia
necessario presupporre uno schema teorico, e dunque che neppure in ambito storico
possa esistere il “puro empirico” (31=10-11 Ms, E § 549 A); a questo riguardo
(è un punto su cui torneremo a proposito del significato dell’a priori) il suo
atteggiamento diverge da quello fichtiano. (3) Infine, egli ritiene che il
“caso” costituisca il limite negativo, ma reale della conoscenza storica; i
confini della razionalizzabilità del contingente sono ben espressi da H. in un
luogo che possiamo connettere al parallelismo realtà-conoscenza visto sopra:
“è
completamente giusto dire che compito della scienza, e più precisamente della
filosofia, è quello, in generale, di conoscere la necessità nascosta sotto
l’apparenza della contingenza; ma questo non va inteso come se il contingente
appartenesse soltanto al nostro modo soggettivo di rappresentare le cose e
perciò fosse del tutto da accantonare per giungere alla verità” (E § 145 Z, HW
8.286-7=359).
Dopo aver
passato in rassegna (a) i vari versanti del più generale rapporto che H.
stabilisce tra “necessità” e “contingenza” in storia, possiamo addentrarci
nella seconda, particolare accezione di tale rapporto in H.: (b) il rifiuto di
concepire la storia come “caso”, ossia come necessità esteriore, assenza di
razionalità e legalità (29=8, 263 Z, 36=16 sgg. Ms). Il primo punto da mettere
in rilievo è il seguente: il progetto filosofico di Beseitigung del caso in
questo significato è comune a gran parte delle filosofie della storia
post-kantiane: l’intreccio di razionalizzabilità (conoscibilità) e finalità può
infatti esser fatto risalire alla kantiana Idea di una storia universale dal
punto di vista cosmopolitico. E lo H. che interpreta la storia sulla base della
fiducia aprioristica (in quanto ottenibile dalla Logica e a cui sul terreno
storico va data una “riprova”: 29=9) nella razionalità degli eventi (26=5 sgg.,
partic. 30-1=10-11 Ms, 32=12, e 258-9 Z, 38-39=18-19 Ms) non fa insomma che
continuare una consolidata tradizione filosofica.
Se questo è
vero, solo la risposta a due domande ulteriori può renderci lo specifico della
posizione hegeliana. In primo luogo, in che senso il procedimento di H. può dirsi
“aprioristico”? In secondo luogo: di quali contenuti effettivi H. riempie la
generica opposizione di caso e necessità, sulla base della sua fiducia nel
fatto che “la ragione governi il mondo”? Alla seconda questione è dedicato
tutto il seguito del presente lavoro. Alla prima cercherò di rispondere subito,
discutendone in rapporto a quanto H. afferma su a priori ed a posteriori nella
lunga annotazione al § 12 dell’Enciclopedia. In particolare, se prendiamo sul
serio l’opinione hegeliana secondo cui la filosofia è in senso forte “debitrice
del proprio sviluppo alle scienze empiriche”, ma “dà al loro contenuto la
figura essenziale della libertà (dell’a priori) del pensiero e l’inveramento della
necessità” (HW 8.58 = 139), e proviamo a metterla a confronto con la filosofia
della storia, risulta che dobbiamo parlare di almeno due a priori, anziché di
uno solo: il primo è la fiducia nella razionalità del reale; dall’indagine del
molteplice storico (l’a posteriori) sulla base di quel presupposto (e degli strumenti
concettuali approntati nella Scienza della logica), scaturisce poi un
risultato, ossia una ricostruzione sintetica del significato del percorso
storico, che in quanto individua la necessità dei suoi vari passaggi può ben
definirsi un secondo a priori, e che sta a quel postulato iniziale come la
verità della certezza sta alla semplice certezza. Tale risultato è poi a
priori anche nel senso banale che esso viene anticipato da H. ai suoi uditori
nell’introduzione generale alle lezioni, ossia è, al pari di tutto ciò che
tale introduzione contiene, un mero “presupposto” che riceverà la propria
“plausibilità” nel corso stesso della trattazione (30=10 Ms e 54=36 Ms). Ma
vediamo in concreto qual è questo risultato.
4. Il filo conduttore della storia
hegeliana. Il “caso” come indicatore dell’insufficienza delle forme pre-moderne
di libertà. I tre livelli di significato della storia
Per H. nella
storia ciò che è essenziale è la “coscienza della libertà e le determinazioni
assunte da tale coscienza nel suo processo evolutivo [Entwicklung]” (169=172
Ms); l’accento qui posto sulle varie tappe del percorso permette di assolvere
al requisito richiesto da H. stesso, per il quale la “ragione”, e la
“provvidenza” sono concetti di per sé vuoti, e viceversa “solo la ragione concepita
nel suo determinarsi [Bestimmung] è la cosa [Sache]” (49=31 Ms). In questo modo
H. non solo fa propria l’insofferenza schellinghiana nei confronti del semplice
richiamo alla “provvidenza” o al “destino”, ma aggira anche l’obiezione di
Humboldt contro la provvidenza come pseudo-principio esplicativo che in realtà
“sbarra la strada ad ogni indagine ulteriore”.
Nel contesto
dello schema hegeliano di sviluppo della libertà nella storia è assai evidente
il ruolo di nozione negativa giocato dal caso: i termini “Zufall” e “Zufälligkeit”
demarcano regolarmente i confini delle varie forme di libertà che precedono
quella propria del “mondo cristiano-germanico”, denunciandone i limiti
strutturali.
Così, in
Asia la libertà è solo “in sé” (WG 572), ossia l’uomo non ha coscienza del
proprio esser libero, e la stessa “libertà di uno” è affetta comunque da “Naturzufall”
ed “arbitrio” (62=46 Ms); in Grecia vi è coscienza della libertà, ma non è
ancora presente l’unità della natura divina e umana secondo il suo concetto (ibid.
e WG 577-8): in tal modo la libertà è solo di “alcuni” e, oltre a comportare
“una dura schiavitù dell’umano”, è essa stessa “una fioritura accidentale [zufällig],
elementare [unausgearbeitet], caduca e limitata” (ancora 62=46 Ms); quanto a
Roma, è proprio la tensione tra i lati della sua polarità strutturale (astratta
universalità politica e astratta libertà dell’individuo: WG 662) a far sì che
finisca col prendere il potere “la forza d’arbitrio [willkürliche Gewalt], nella
forma della soggettività accidentale” (VG 252=285). H. tenta di mostrare come a
partire dall’avvento del cristianesimo e dall’unità della natura umana e divina
che esso introduce nella storia (WG 821 sgg.), si produca - anche se non
immediatamente - la coscienza della libertà dell’uomo in quanto tale, e dunque
vengano progressivamente eliminati i limiti la cui presenza nei “mondi”
precedenti era segnalata dall’importanza dell’“accidentale”.
Per poter
giudicare correttamente questo tentativo di eliminazione diacronica del caso,
occorre però in primo luogo chiarire quali rapporti in generale intercorrano
tra i vari livelli di significato che H. prende in considerazione nelle sue lezioni
e in che misura essi possano ritenersi invarianti. Tali livelli sono tre:
1) lo
“spirito del mondo”, che è soggetto della storia, e la cui comprensione è
appannaggio della storia filosofica (ragion per cui cui secondo H. soltanto
essa è in grado di occuparsi con esaustività della storia universale);
2) i popoli-stati
di rilievo storico-mondiale;
3) i singoli
individui.
5. La relazione dello “spirito del
mondo” coi singoli “Volksgeister” come rapporto tra universale e sue
determinazioni
Come abbiamo
già potuto osservare, secondo la concezione hegeliana l’“idea” non è una
generalità astratta, una determinazione semplice, ma deve essere resa dal
filosofo nel suo particolarizzarsi. Questo rilievo è assai importante per comprendere
il rapporto tra il primo ed il secondo livello della storia. Per discuterne è
utile prendere le mosse dal luogo in cui H. sostiene che “dobbiamo considerare
la storia del mondo secondo il suo scopo finale [Endzweck]: e questo è ciò che
è voluto nel mondo” (53=36); ora, non è difficile identificare il soggetto che
vuole “ciò che è voluto nel mondo” col (1) “Weltgeist”; ma a sua volta questo
“individuo”, questo primo livello di significato è nel suo complesso
costituito da un insieme di “individui”, ossia dai (2) popoli-stati di
interesse storico-mondiale, ed in ogni
momento della storia si identifica col “Volksgeist” del popolo che in quel
periodo svolge un ruolo-guida (59=43).
In tal modo
ha luogo un rapporto necessario tra (1) l’universale ed i (2) principi
particolari. Non si può dunque affermare che i singoli popoli siano in senso
stretto “contingenti” rispetto al corso della storia; però la stessa
distinzione che H. mantiene tra lo “spirito del mondo” e i vari “spiriti dei
popoli” ci indica entro quali limiti si possa comunque parlare di relativa
“contingenza” dei vari popoli rispetto al corso storico nel suo complesso:
infatti tale distinzione è funzionale alla comprensione del senso (ossia del
perché e della direzione) dei momenti di trapasso epocale; questi sono segnati
da un conflitto di universali, “quello che forma la base del sussistere di un
popolo o di uno stato”, e quello della “grande storia” (96-7=86-8):
quest’ultimo risulta di volta in volta vittorioso rispetto al primo, il cui
limite è il limite del principio naturale e particolare dei vari popoli. In
definitiva, nel secondo livello di significato della storia la “contingenza” ci
si fa incontro come caducità , come diretta conseguenza della particolare
determinatezza dei vari “Volksgeister”, la quale trova la sua ragione nella
naturalità del principio stesso. Né va dimenticato, a questo proposito, che il
famoso modello dell’“astuzia della ragione” è operante anche riguardo ai
popoli: H. afferma più volte che la provvidenza realizza il suo scopo attraverso la “inconsapevole volontà dei
popoli”.
6. Il terzo livello
di significato della storia: individui e contingenza
L’indagine
del terzo livello di significato della storia per sé preso è assai meno
rilevante, ai fini della comprensione della storia nel suo complesso, dei primi
due. Su questo punto, ossia sulla accidentalità dell’azione individuale
rispetto al processo storico, H. è assai deciso:
“le
individualità... scompaiono per noi; noi attribuiamo loro valore solo in quanto
traducono in realtà ciò che vuole lo spirito del popolo... Gli individui
scompaiono innanzi a ciò ch’è universalmente sostanziale... Gli individui non
impediscono che avvenga ciò che deve avvenire (60=44).
Lo
scomparire degli individui rispetto all’universale esprime proprio la loro costitutiva
accidentalità, secondo un assioma generale espresso con la massima chiarezza
nei Lineamenti di filosofia del diritto:
“a quel che
ha la natura dell’accidentale capita l’accidentale, e questo destino appunto è
quindi la necessità, - come in genere il concetto e la filosofia fa dileguare
il punto di vista della mera accidentalità e in essa... conosce la di lei essenza,
la necessità” (Gdl § 324 A).
In base a
questo principio H. parla del “potere”, che “il caso, la particolarità ricevono
dal concetto”, di far valere i loro “enormi diritti” contro la “particolarità
empirica” (VG 76=64); questo principio gioca un ruolo importante nella teodicea
hegeliana, in quanto consente di minimizzare la portata del negativo nella
storia; a questo stesso fine serve anche (i due aspetti non sembrano sempre
coincidere) la concezione del rapporto tra i fini degli individui e
l’universale come una relazione di mezzo e fine. Da questo secondo punto di
vista “gli individui cosmico-storici”, ossia coloro la cui azione permette il
trapasso da un’epoca della storia all’epoca successiva e superiore, non solo
non costituiscono un’eccezione, ma sono considerati da H. addirittura
emblematici (v. 97=88 sgg., cfr. WG 877).
Né sembra
possibile far valere contro la “accidentalità” degli individui la considerazione
che essi sono comunque mezzo necessario, ossia che “l’universale deve farsi
reale mediante il particolare”: infatti, nella cornice del discorso hegeliano,
tale affermazione significa soltanto che l’“Accidentale in quanto tale” (ad
es., le passioni umane in generale) è necessario, in quanto mezzo e materia,
all’universale, non che lo siano questo o quell’individuo particolari.
Il punto
meritevole di discussione è semmai un altro: in che senso gli individui
possono essere “fine” a loro volta? Esso è sicuramente pertinente rispetto alla
trattazione hegeliana, e questo per almeno due motivi: in primo luogo è H.
stesso a dirci che gli individui sono “fini a se stessi non solo formalmente”
(ossia semplicemente autorelativi come gli esseri viventi in generale), “ma
anche secondo il contenuto del fine”: lo sono certamente nel loro rapporto con
“moralità, eticità e religiosità”, le quali appunto vivono negli e tramite gli
individui, partecipano della ragione, e sono perciò sottratte all’“esteriore
necessità ed accidentalità” (106=99 Ms); inoltre H. nega esplicitamente che il
rapporto tra stato e cittadini vada inteso come una relazione tra fine esterno
e mezzo, e lo paragona invece alla “vita organica” (112=105-6). Ma d’altro lato
egli afferma che nella loro peculiare “configurazione” popoli e forme etiche
sono “di specie limitata” e perciò si trovano “nel sistema della natura esterna
e sotto l’impero del caso [in äußerm Naturzusammenhang und unter der Zufälligkeit]”
(109=101 Ms, e sg.); ed abbiamo già visto come la contrapposizione
dell’universale etico particolare all’universale della storia universale veda
il primo soccombere regolarmente.
Ora, proprio
questa circostanza, se permette di relativizzare drasticamente la
“autofinalità” di individui ed insiemi etici, pone un secondo problema, ossia
quello del rapporto tra l’individuo ed il progresso del “Weltgeist”: infatti,
se lo spirito universale va comunque distinto (come mostrano in particolare i
momenti di trapasso epocale) dall’universale etico, è difficile riferire
affermazioni come quella secondo cui “lo spirito universale [der allgemeine
Geist] esiste essenzialmente come coscienza umana” (113=106) esclusivamente ai
singoli “Volksgeister”; e d’altro lato, se il superamento di una forma etica
particolare ed il passaggio alla successiva costituiscono un progresso per lo
spirito del mondo, è necessario porre gli stessi “spiriti dei popoli” - a cui
gli individui sono necessariamente relati - su una scala graduata di livelli
di perfezione; in ogni caso, in base allo stesso progetto filosofico hegeliano
dovrebbe essere in qualche modo possibile valutare il progresso del “Weltgeist”
nelle coscienze individuali.
7. La “contingenza” degli individui
tra naturalità e particolarità
La domanda
circa il carattere di “autofinalità” degli individui ha dunque un rilievo
centrale e può essere riformulata, nel contesto della presente ricerca, in
rapporto al problema della “contingenza” degli individui. Sulla base di quanto
abbiamo visto sinora è intanto possibile stabilire, in prima approssimazione,
che cosa è “casuale” degli individui: a) l’individuo in quanto naturale, e b)
l’individuo in quanto particolare. Se quanto ho detto riguardo alla necessità
di un rapporto tra progresso del “Weltgeist” e “coscienza individuale” è vero,
ne segue che la storia ha un senso soltanto in quanto sia possibile verificare
un progressivo (seppure non totale) affrancamento dalla naturalità e dalla
particolarità negli individui che fanno parte del mondo cristiano-germanico
rispetto, poniamo, agli individui che costituivano la “bella eticità” greca.
Dare una
risposta a quel quesito centrale è però possibile solo sulla base di
un’indagine attenta dei rapporti che intercorrono tra a) naturalità e b)
particolarità nel loro concorrere a definire il concetto di “casualità” degli
individui. A questo fine possiamo trarre alcuni spunti da un’importante
annotazione dell’Enciclopedia in cui gli “impulsi” vengono discussi nel
contesto del passaggio dallo “spirito soggettivo” allo “spirito oggettivo”:
“è la
riflessione immanente dello spirito stesso di andar oltre la loro particolarità
come [wie] oltre la loro immediatezza naturale, e dare al loro contenuto
razionalità ed oggettività, in cui essi stanno come rapporti necessari, diritti
e doveri... La questione dunque: quali siano le inclinazioni [Neigungen] buone e
razionali e la loro subordinazione, si converte nell’esposizione dei rapporti [Darstellung,
welche Verhältnisse] che lo spirito produce quando si svolge come spirito oggettivo:
- uno svolgimento in cui il contenuto dell’autodeterminazione perde
l’accidentalità e l’arbitrio. La trattazione degli impulsi, inclinazioni e
passioni secondo il loro contenuto [Gehalt] vero è, perciò, essenzialmente, la
dottrina dei doveri giuridici, morali ed etici” (E § 474 A, HW 10.297 = Croce
469).
Ecco quello
che possiamo ricavare da questo passo:
1)
innanzitutto H. pone le passioni e - ciò che per il nostro problema più conta -
l’arbitrio in un campo semantico delimitato da naturalità e particolarità; che
l’arbitrio sia intrinsecamente accidentale, è quanto d’altronde già si ricava
da un paragrafo cruciale dell’introduzione ai Lineamenti di filosofia del
diritto, in cui esso è definito come “l’accidentalità, quand’essa è come
volontà [die Zufälligkeit, wie sie als Wille ist]” (Gdl § 15). Né mancano,
nell’ambito delle Lezioni sulla filosofia della storia, ulteriori testimonianze
del nesso arbitrio-particolarità-caso: si veda ad esempio il luogo in cui H.
descrive il “contenuto spirituale” dello stato come “un che di saldo [Festes] e
compatto, completamente sottratto all’arbitrio, ai particolarismi [Partikularitäten],
ai capricci, all’individualità, all’accidentalità (VG 115=109); e l’arbitrio,
nel senso più specifico di “potere arbitrario”, si affianca alla casualità
nella caratterizzazione dei limiti delle forme statuali asiatica, greca e
romana (v. WG 369, 547 sgg., 714).
2) In
secondo luogo, è possibile scorgere, nell’annotazione all’Enciclopedia citata
sopra, una tendenza all’identificazione di naturalità e particolarità: essa
risulta con chiarezza dal fatto che la contestualizzazione degli impulsi è di
per sé al tempo stesso (e senza ulteriori precisazioni) denaturalizzazione e
perdita di particolarità.
Ora, quando
nelle Lezioni sulla filosofia della storia questo stesso modello è applicato
agli individui, non può che emergere con prepotenza una specifica difficoltà:
infatti la “particolarità” di cui H. parla a proposito degli individui non solo
non è sempre connessa alla naturalità, ma in alcuni casi rilevanti è derivante
dalla “Bildung” e dunque direttamente proporzionale alla perdita di naturalità
ed esteriorità, insomma strettamente apparentata alla nozione di “soggettività”
a partire dal suo sorgere.
Tutto ciò si
può osservare in concreto nella raffigurazione hegeliana del dissolversi
dell’eticità greca, tanto più importante in quanto essa nell’introduzione alle Lezioni
sulla filosofia della storia funge di fatto da modello del trapasso da un “Volksgeist”
all’altro. Ora, in questo caso per quel che riguarda la particolarità abbiamo a
che fare con una sorta di doppio movimento. Da un lato la
naturalità-particolarità costituisce il limite dell’eticità greca: lo “spirito”
è ancora “inficiato di natura, e perciò particolare”; dunque si ha la
schiavitù, e la libertà dell’uomo solo in quanto particolare (WG 610-11). Per
un altro verso, però, la dissoluzione di quella forma di eticità passa proprio
per la non controllabilità del principio della soggettività, dell’interiorità,
per il dispiegarsi della “coscienza del particolare, e con ciò del male” (WG
602 sgg., cfr. 654); credo che quest’ultimo passaggio sia illuminante nella sua
ambiguità: conoscere il particolare è conoscere il male, ma non va d’altra
parte dimenticato che proprio di questa scissione - della conoscenza del bene
e del male, del riconoscersi come “altro” rispetto al proprio mondo - l’uomo ha
bisogno per elevarsi dalla propria naturalità originaria, e, appunto,
dall’eticità naturale.
L’ambizione
del tentativo hegeliano consiste nel mostrare come all’interno dell’eticità
moderna il particolare sia operante, non annullato ma sussunto nell’universale.
Ed è facile osservare come tra gli strumenti di quel tentativo vi sia, da
subito, una sorta di addomesticazione del principio della particolarità e della
soggettività: essa si serve della presupposizione di un ideale di soggettività
e della già vista identificazione di fatto della residuale particolarità e
della natura; in base a ciò è rigettato nel naturale-particolare-casuale tutto
ciò che da quell’ideale di soggettività si differenzia.
8. Conclusioni: la rivincita della
naturalità
Ora possiamo
volgerci, con qualche elemento in più, alla domanda circa il carattere di
“autofinalità” dell’individuo nella storia. Riassumiamo brevemente i termini
della questione: in base a quanto abbiamo visto sopra (6), sino all’epoca
moderna il principio della particolarità individuale è funzionale alle ragioni
del processo della “Weltgeschichte” contro i principi limitati dei singoli
popoli; la novità costituita dallo stato moderno consisterebbe, all’inverso,
proprio nella sua capacità di contenere il principio della coscienza
soggettiva senza esserne dissolto. In altri termini, la storia come “progresso
nella coscienza della libertà” dovrebbe sboccare - almeno in certa misura - in
un’armonizzazione tra i tre livelli della storia stessa, ossia tra (1) la
razionalità del processo storico e la razionalità propria (2) del contesto
etico e (3) della riflessione soggettiva.
Il
compimento di questo aspetto del progetto filosofico hegeliano è di importanza
decisiva nell’economia dell’intera sua filosofia della storia, se pensiamo che
H. assegna un ruolo centrale al “presente” - inteso come epoca, anzi come “absolute
Epoche”, a far data dall’avvento del cristianesimo (VG 45=27) -, nella riprova
della razionalità della storia (v. 45=26-7 Ms e la nota autografa in margine al
testo). Ma è lo stesso utilizzo del modello dell’“astuzia della ragione” a
denunziare la permanenza di uno iato insanabile tra intenzione ed operare
individuali ed i loro risultati “macrostorici”, d’altronde espressamente
ammesso da H. e riferito non soltanto ai singoli individui ma anche ai popoli
ed agli stati (Gdl § 344). Diverse sono le conseguenze, tra loro strettamente
connesse, di ciò:
a)
l’impossibilità della trasparenza del processo storico, in altre parole
l’irriducibilità di significato dei vari livelli di intelligibilità della
storia: questo non significa altro che l’ineliminabilità del “caso”.
Beninteso, ciò di per sé non costituirebbe un problema in base ai presupposti
di H., il quale non ritiene che il caso sia totalmente eliminabile; però non
risulta in ultima analisi chiaro neppure in quale senso a questo riguardo possa aversi un progresso relativo
nella storia moderna e contemporanea.
b) Ma il
modello dell’”astuzia della ragione”, se poniamo mente ai contesti ed alle
modalità del suo uso, ci dice qualcosa di più preciso: ci parla di un
persistente carattere di naturalità della storia. O meglio: di una rivincita della
“natura” sulla particolarità e sulla coscienza. Insomma, per un verso H. sembra
rifiutare alcune accezioni del principio della soggettività proiettandole sulla
particolarità, e denunciando a sua volta questa (in maniera piuttosto
sbrigativa) come naturale; d’altro lato proprio la naturalità, che è per
definizione ciò che nella storia lo spirito deve superare, finisce col
rivalersi esplicitamente sul principio della particolarità. È facile comprendere
come l’uso dell’“astuzia della ragione” comporti questa conseguenza: si pensi,
oltreché al movente passionale delle azioni umane, al carattere sempre
istintuale-intuitivo della “coscienza” nei popoli, ed al fatto che gli stessi
“individui cosmico-storici”, i quali guidano il mutamento storico, sono a loro
volta guidati da “una specie di istinto, quasi animale” (101=93; cfr. 171=176
Ms); infine va ricordato un caso di particolare importanza, in quanto concerne
direttamente la società contemporanea: l’uso dell’”astuzia della ragione” nei
paragrafi della Filosofia del diritto riguardanti il “sistema dei bisogni”, ed
il significativo titolo (“il regno animale dello spirito”) che portavano già
nella Fenomenologia le pagine dedicate allo stesso argomento.
Più in
generale, come è noto, il riemergere della naturalità nei Lineamenti di
filosofia del diritto ha attratto assai presto l’attenzione degli interpreti:
si pensi al giovane Marx, che nel suo commento critico alla filosofia hegeliana
del diritto statuale ne scorgeva due momenti cruciali nella giustificazione
della monarchia ereditaria e del maggiorascato.
Ma possiamo
porre ad epilogo di questa breve rassegna dei significati di “caso” nella
storia hegeliana il passo delle Lezioni sulla filosofia della storia in cui si
trova la più esplicita e significativa testimonianza della rivincita della
naturalità (e immediatezza) sulla particolarità:
“lo stato
organizzato può esser raffigurato come un individuo, la sua estrema volontà
risolutiva non può quindi essere che una. Ma se è a un individuo che deve
spettare la decisione ultima, esso dev’essere designato in modo immediato e naturale,
e non per elezione, per opinione, o simili.” (WG 900, corsivi miei).
Nessun commento:
Posta un commento