Le rivoluzioni borghesi "passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l'un l'altro; gli uomini e le cose sembrano illuminati da fuochi di bengala; l'estasi è lo stato d'animo d'ogni giorno. Ma hanno una vita effimera, presto raggiungono il punto culminante: e allora una lunga nausea si impadronisce della società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre e di tempesta.
Le rivoluzioni proletarie invece, quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompendo a ogni istante il loro proprio corso, ritornando su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi", "si ritraggono continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: hic rodhus, hic salta". (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)
Rodi oggi sta ancora nel lontano futuro. Ma tutto ci dice che soltanto la via tracciata da Marx vi può condurre. Se e fino a che punto i comunisti saranno in grado di percorrerla è cosa che dipende dalla loro perspicacia e dal loro coraggio.
"Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta". (K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito comunista, in Opere, VI, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 486)
Il grande processo evolutivo dell'umanità, del formarsi del
genere umano, del divenir uomo dell'uomo.
"Il borghese si
comporta verso le istituzioni del suo regime come l'ebreo verso la legge. Le
elude, ogni volta che sia possibile, in ogni caso particolare, ma vuole che tutti
gli altri le osservino" (K. Marx, F. Engels, L'ideologia tedesca)
Quel che oggi si usa chiamare libertà è il risultato della
vittoria indiscussa delle forze interne del capitalismo.
La democrazia odierna - attuale culmine di uno sviluppo
capitalistico secolare - è la democrazia di un imperialismo manipolato, il cui
dominio si regge mediante manipolazioni. So di violare l'etichetta della
scientificità oggi considerata rispettabile quando scrivo senza virgolette
parole come imperialismo o colonialismo. Il disprezzo per il XIX secolo che
regna universale in ogni scienza sociale, il dominio di dogmi secondo cui il
presente costituisce qualcosa di qualitativamente nuovo e, sotto ogni profilo,
di migliore nei confronti di quel secolo, hanno appunto sul piano ideologico in
primo luogo il compito sociale di segnalare l'opposta qualità del presente
assetto socio-economico rispetto a quelli del passato. Così è stato messo al
mondo e propagandato il concetto di società "pluralistica" in
contrapposizione a "totalitarismo", termine con cui si è mirato a
trasformare in patrimonio intellettuale comune l'idea che fascismo e comunismo
fossero intimamente affini.
Così si è detto che nella moderna "società
industriale" è scomparsa ogni traccia di quelle che un tempo erano le
lotte di classe, e a ciò molto hanno contribuito i partiti socialdemocratici, i
quali in effetti si sono radicalmente staccati dal marxismo per divenire membri
attivi dell'establishment manipolato.
Come nel mercato con la propaganda pubblicitaria ogni individuo
viene indotto a comprare "liberamente" quella merce che, si afferma,
corrisponde benissimo ai suoi bisogni di consumatore, così quello stesso
individuo dovrebbe comportarsi nella vita politica, durante le elezioni, nel
votare ecc.
La manipolazione fine consiste per l'appunto nel suggerire
ai compratori l'acquisto di una determinata merce in maniera tale che ciascuno
s'immagini che tale acquisto, il possesso di quella merce, sia il risultato di
una libera decisione, anzi che sia l'espressione della propria personalità.
Questo principio manipolativo può essere applicato tanto più
facilmente alla partecipazione delle persone alla zona "ideale" della
vita dello Stato.
Quel che conta è appurare con chiarezza come tale invasione
delle sfere "ideali" libertà ed eguaglianza da parte del materialismo
egoista della società borghese sia un fatto universale.
La libertà e l'eguaglianza non scompaiono affatto in questo
processo di graduale svuotamento delle rispettive forme per far loro assumere
come contenuto gli interessi sempre più concreti del burgeois. All'opposto: quanto meno la libertà è
connessa, per il contenuto, con gli ideali (e le illusioni) dell'origine, tanto
più se ne glorifica il feticcio cavo; quanto più la vita reale è dominata dalle
grandi lobby, tanto maggiori gli
onori che si tributano a questo feticcio aprendo e chiudendo ogni atto di
propaganda.
La rivoluzione proletaria non fu in Russia un'incarnazione
"classica" (nel senso di Marx) di tale passaggio storico mondiale.
Secondo la premessa teorica di Marx, tale rivoluzione sarebbe dovuta scoppiare
dapprima nei paesi capitalistici più sviluppati. Inoltre, Marx supponeva che
una rivoluzione proletaria sarebbe stata per sua natura un fatto internazionale
del mondo civilizzato.
Lenin non mise mai in dubbio che la Rivoluzione russa fosse
qualcosa di eccezionale, non del tutto conforme alle previsioni del marxismo.
La trasformazione di una società capitalistica in una
società socialista si presenta soprattutto e in prima istanza come una
questione economica. Quanto più sviluppato è il capitalismo in un paese dove
abbia vinto la rivoluzione, tanto più immediato, risoluto, adeguato potrà
essere nella sua economia il raggiungimento degli obiettivi specifici del
socialismo. In un paese, invece, che sotto questo profilo sia rimasto indietro,
per forza di cose dovrà essere posta all'ordine del giorno una serie di
problemi che sul piano puramente economico, cioè a dire nella normalità delle
cose, sarebbero stati per loro natura ancora obiettivi dello sviluppo
capitalistico. E si tratta (ma le due questioni formano nella realtà economica
un complesso compatto), per un verso, del grado di sviluppo quantitativo e
qualitativo della grande industria nei settori determinanti, a seconda dei
casi, della produzione di massa, per l'altro verso di una distribuzione della
popolazione fra i rami decisivi della produzione tale da garantire il
necessario equilibrio dinamico, l'interazione e lo sviluppo, il funzionamento
normale di agricoltura e industria nelle diverse branche della vita economica.
Ebbene, nel 1917 non c'era nessuno che mettesse in dubbio che la produzione
capitalistica dell'impero russo era ancora molto lontana da questo stadio.
Solamente dopo la fine vittoriosa della guerra civile la
problematicità economica della forma "non classica" dell'origine
venne esplicitamente al centro della vita sovietica.
"Il compito fondamentale della nuova politica
economica, il compito decisivo che subordina a se tutto il resto, è di
stabilire un legame fra la nuova economia, che abbiamo cominciato a edificare
(malissimo, in modo molto stentato, ma che tuttavia abbiamo cominciato a
edificare sulla base di una economia socialista completamente nuova, di una
nuova produzione, di una nuova distribuzione), e l'economia contadina, da cui
traggono di che vivere milioni di contadini" (V.I.Lenin, rapporto politico del comitato centrale del
Pcr(b) 27/03/1922)
Il primo grande atto del passaggio al socialismo, la
socializzazione dei mezzi di produzione, la loro concentrazione nelle mani
della classe operaia, ha come conseguenza necessaria che gli atti sociali
riferentisi alla totalità dell'economia
ubbidiscano all'imperativo sociale di divenire consapevoli. Proprio per questa
via essi sono obbligati a trasformarsi da padroni in servitori dello sviluppo
sociale dell'uomo.
La tesi che l'educatore, cioè lo strato sociale dirigente
della rivoluzione socialista, debba esso stesso venir educato va, per un verso,
contro ogni utopismo, contro l'idea secondo cui l'evoluzione dell'umanità, ad
opera di chissà quale almanaccata visione sedicente superiore, verrà
rimpiazzata da uno stato di perfezione, del tutto privo di problemi. Per
l'altro verso, Va contro il materialismo storico concepito in termini
meccanicistici, dove ogni soluzione viene spacciata come un semplice prodotto,
spontaneo e necessario, dello sviluppo produttivo. Per Marx il mondo
dell'economia ("il regno della necessità") è per sempre,
ineliminabilmente, la base di quella
auto-creazione della specie umana che egli chiama "regno della
libertà". Ma indicando poi come contenuto essenziale di quest'ultimo "lo
sviluppo delle capacità umane che è fine a se stesso", egli viene
chiaramente a dire che tale prassi non può non differenziarsi qualitativamente
da quella economica (pur intesa nel senso più lato), ciò che è impossibile che
essa venga in vita come semplice prodotto spontaneo, necessario, di
quest'ultima, anche se - ed è una contraddizione viva, produttrice di cose
nuove, della vita storico-sociale - può "fiorire soltanto sulla base di
quel regno della necessità". (K.Marx, Il
capitale, 1, III, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 933)
Il carattere non classico della Rivoluzione del 1917 nasce
quindi soprattutto dal fatto che si è obbligati ad attuare il socialismo in uno
stadio dello sviluppo nel quale l'oggettivo livello economico della produzione
e della distribuzione è ancora molto lontano dal costituire una base, non solo
per il "regno della libertà", ma addirittura per la sua preparazione
concreta. Occorre quindi intromettere un periodo intermedio nel quale rimontare
questo ritardo economico, un periodo nel quale al centro del governo, ora
consapevole della vita sociale, deve stare un pronto e radicale esplodere
dell'economia.
Quale debba essere in un cosiffatto periodo di transizione
il rapporto fra la prassi meramente economica, destinata semplicemente a
recuperare il ritardo, e gli atti, gli istituti, ecc. direttamente intenzionati
al contenuto socialista, intesi a promuovere la democrazia proletaria.
Quel che è stato visto - fatto di decisiva importanza quanto
all'ontologia della società - è che la meta da raggiungere, il "regno della
libertà", è bensì alcunché di qualitativamente diverso dall'economico
"regno della necessità", ma può venir instaurato soltanto sulla base
di quest'ultimo. Affermando ciò, si enuncia sia la dipendenza sociale della
sovrastruttura dalla base, sia al medesimo tempo la differenza qualitativa fra
il primo e il secondo modo di definirle. Infatti il "regno della
libertà" è assai più di quanto nelle società di classe assolveva le
funzioni della sovrastruttura. Il salto ontologico si prepara già nel fatto che
nel socialismo le posizioni teleologiche che stanno a fondamento della prassi
economica non possono non acquisire, con nettezza sempre maggiore, un unitario
e diretto carattere sociale.
La consapevolezza di trovarsi a compiere un esperimento
ideale entro circostanze il cui carattere teorico-normativo non è ancora venuto
in luce a sufficienza.
Ciò tuttavia non toglie nulla al carattere del salto che
viene compiuto socializzando i mezzi di produzione: in primo luogo, si elimina
così il fenomeno sociale di singoli o gruppi che riescono a porre le funzioni
sociali dell'economia al servizio dei loro interessi privati egoistici; in
secondo luogo, e in connessione stretta con il primo punto, si ha la
possibilità oggettiva di porre consapevolmente lo sviluppo economico anche al
servizio dei superiori interessi del genere umano.
L'intera struttura del diritto nelle società di classe è,
per necessità oggettiva, fatta in modo che gli uomini si abituino
spontaneamente a comportamenti che noi, seguendo Marx, abbiamo descritto in
questi termini: i comandi e i divieti delle leggi devono per lo più e fin dove
è possibile limitare le azioni degli altri, non le nostre, che rientrano invece
nell'"egoismo economico" di ciascun singolo. L'abitudine ad agire
legalmente, quindi, consolida per forza di cose anche l'egoismo della vita
quotidiana, cioè la persuasione che il prossimo sia soltanto un limite per la
nostra esistenza e prassi.
Noi sappiamo inoltre che, secondo Marx, il diritto borghese
resta in vigore - magari con certe modificazioni - anche nel periodo del
socialismo. Perciò, affinché l'abitudine alla società ormai così formata, così
funzionante, susciti negli uomini - tendenzialmente: in tutti gli uomini -
proprio quelle abitudini, deve intervenire nella realtà sociale qualcosa che
non sorge spontaneamente per via economica. Occorre, cioè, che vengano
rivoluzionati a fondo non semplicemente l'ideologia, ma soprattutto l'essere e
l'operare materiali della vita quotidiana.
Per Lenin gli impulsi alla convivenza e alla cooperazione
umana che caratterizzano la democrazia socialista non sono affatto orientamenti
di vita radicalmente nuovi, formatisi soltanto in quel decorso delle cose, ma
invece forze elementari, operanti da millenni, che però solo nel socialismo
possono raggiungere la loro autentica universalità sociale. Sta qui quella
metodologia di Lenin che profondamente lo unisce a Marx e in maniera
altrettanto radicale lo separa da Stalin e dai suoi successori: il legame
organico fra riconoscimento della continuità di determinate tendenze storiche e
riconoscimento del loro necessario radicale mutamento di funzione nei passaggi
e sovvertimenti rivoluzionari. La vera confutazione metodologica di ogni
utopismo poggia per l'appunto su questa concezione della continuità nella
storia del mondo: per gli utopisti si fa entrare nel mondo qualcosa di
radicalmente nuovo che corrisponde alle leggi della "ragione", per il
marxismo invece è lo stesso svolgersi storico della società che in determinati
punti di svolta si fa nuovo, per il che non occorre che venga al mondo nulla di
inedito, nel senso umano più profondo, ma "semplicemente" che
determinati atteggiamenti, comportamenti, ecc. umani, che fino a quel momento
avevano potuto realizzarsi, inefficacemente, solo come"eccezioni",
ora pervengano alla universalità sociale totale.
E' questo il processo che Lenin descrive parlando
dell'abitudine. E si tratta appunto della metodologia generale del marxismo.
"Il marxismo ha
acquisito il suo significato storico mondiale, in quanto ideologia del
proletariato rivoluzionario, perché, invece di respingere le conquiste più
preziose dell'epoca borghese, ha al contrario assimilato e rielaborato quanto
vi era di più valido nello sviluppo più che bimillenario della cultura e del
pensiero umani". (V.I.Lenin, Sulla
cultura proletaria, in Opere
complete, 31 , Editori Riuniti, Roma 1967, p. 301)
Qui viene in luce, per due versi, il contrasto con
importanti ma false correnti contemporanee. Per un verso, con coloro che
pensano nella storia ci sia soltanto l'alternativa fra vecchio e nuovo, tra ristagno
e nascita di qualcosa che è radicalmente, senza mediazioni, nuovo. Per l'altro
verso, e al medesimo tempo, in Stalin e fra i suoi successori teorici, che oggi
spesso si immaginano di aver rotto con il "culto della personalità",
è largamente diffusa la feticizzazione della continuità. Si crede (o perlomeno
si afferma) che determinate conquiste, reali, indubbie, di questo periodo
escludono una rottura di principio con i suoi metodi. Ma si tratta di una
posizione antistorica, non-marxista, tanto quanto la prima.
Di qui naturalmente, errore oggettivamente non minore,
l'illusione di aver proseguito nelle intenzioni più profonde di Lenin.
Per Lenin le decisioni tattiche non costituivano mai
qualcosa di primario.
Le decisioni tattiche però erano ai suoi occhi - in termini
autenticamente marxisti - sempre e solamente momenti particolari del grande
corso storico della specie umana, e solamente per aver condotto lo studio
scientifico di questo gli divenne possibile sintetizzare le tendenze storiche
del suo presente come fondamenti di una strategia da cui derivare la prassi.
Nei suoi successori scomparve in larghissima misura questo
primato delle prospettive storiche.
Le cose comunque andavano, ma di conseguenza nella direzione
che davano loro ogni volta le decisioni tattiche del momento.
La priorità di fatto della tattica assunse la veste elevata
di teoria marxiana autentica.
Stalin non fu altro che un tattico molto intelligente,
estremamente sottile.
La base pratica più importante di questa tattica fu la graduale
concentrazione di ogni apparato di potere (partito, Stato e mezzi di
comunicazione di massa per l'opinione pubblica).
Dopo la morte di Lenin divenne centrale il problema di chi
doveva beneficiare del processo di ricostruzione economica e a spese di chi
doveva essere attuato nella pratica. L'ala sinistra (Trodkij, Preobrazenskij)
rivendicava una "accumulazione originaria socialista", vale a dire
una energica e rapida edificazione della grande industria a spese dei
contadini; per l'ala destra (Bucharin), invece, il punto economico centrale
della ricostruzione era proprio che l'industria fornisse alle campagne le merci
necessarie. (Parola d'ordine "Arricchitevi").
(Stalin) lasciò che le due ali si logorassero reciprocamente
e, raggiunto il loro annientamento politico, attuò lui l'"accumulazione
originaria socialista" con grande energia, con mezzi estremamente brutali.
Il problema del "socialismo in un paese solo" si
ridusse alla domanda se fosse possibile semplicemente esistere e andare avanti.
Perfino Trockij, pur credendo alla prospettiva
internazionale, era personalmente molto lontano
dal vedere tale dilemma nella forma di una alternativa così brutalmente
semplificata. Eppure fu inevitabile che, in assenza di una teoria dello
sviluppo rivoluzionario teoricamente ben fondata, Questa alternativa, pur così
grossolana, finisse per essere molto presente fra l'opinione pubblica e nei
dibattiti su tali temi.
Stalin, allora, da tattico consumato, spinse al centro dei
dibattiti proprio queste conclusioni distorte, che accettare la possibilità
della completa edificazione del socialismo in un paese solo fosse l'unica risposta marxista possibile
alla domanda.
La priorità della tattica ha continuato ad aver corso anche
al tempo del preteso superamento del "culto della personalità".
Chruscev ha criticato spesso e con passione Stalin, ma anch'egli da determinati
provvedimenti economici adottati per promuovere la produzione traeva la
conseguenza che a un certo stadio della loro riuscita (sopravanzamento degli Usa)
sarebbe divenuta d'attualità l'"itroduzione" del comunismo.
Si venne così all'autocrazia di Stalin, alla kolchozazione e dekulakizzazione del 1929,
allo sviluppo forzato dell'industria pesante, ecc.
La base metodologica fu, come abbiamo visto, il predominio assoluto
della visione tattica e la piena subordinazione, anzi l'accantonamento, di
qualsiasi strategia e, tanto più, di qualsiasi teoria marxista circa la
totalità del processo. Sul piano oggettivo la vittoria di Stalin venne
facilitata dal fatto che i suoi avversari erano, esattamente come lui, molto
lontani dal problema marxiano-leniniano
di dare una fondazione teorica alla propria tattica.
Trockij partiva sempre da prospettive generali che
rimanevano retorica rivoluzionaria, Bucharin da considerazioni ricavate per via
dogmatica, mai realmente pensate in temini dialettici, le sue erano
considerazioni semipositivistiche.
Essi senza acquistare profondità di visione, ne derivavano
tendenze alla rigidità, le quali a loro volta agivano in senso negativo sulle
loro, in se minori, capacità tattiche.
Di fatto accadde che il distacco fra le scienze prodotto
dalla divisione del lavoro fra di esse e l'"autonomia" reciproca fra
i loro oggetti, fra le loro leggi rispettive, vennero accolti, con talune
variazioni, nell'ideologia del movimento operaio. Per cui l'economia, da base
materiale del processo storico unitario, venne trasformata in semplice scienza
particolare, più o meno "esatta", cosicché ad esempio Hilferding
dichiarò che l'economia marxiana in questa visione metodologica, era
conciliabile con qualunque "concezione del mondo". L'economia però,
una volta trasformata in scienza particolare, anche se inserita in una
concezione complessiva che vuol essere marxista, perde il legame organico con
l'insieme del destino storico del genere umano e, allora, isolata sul piano
scientifico e allo stesso modo applicata nella pratica, può già essere trattata
in termini di pura tattica.
Con il passaggio dell'economia a scienza particolare si ha
dunque la base metodologica della sua manipolabilità.
La distorsione di adattamento alla società borghese aveva
condotto la socialdemocrazia, attraverso il revisionismo, a rompere del tutto
con la dottrina marxiana. La sua distorsione, invece, a strumento della
manipolazione brutale staliniana dello sviluppo socialista si compie soltanto
nell'attività teorica dello Stalin stesso. Anche se non va dimenticato che già
prima Bucharin, con il suo lavorio di tono positivistico, aveva per sempre
trasformato il concetto marxiano di forza produttiva in quello di tecnica.
Per Bucharin la schiavitù dell'antichità sarebbe stata
effetto dell'arretratezza tecnica, mentre Marx esplicitamente fa risalire
questa arretratezza appunto al fatto che base economica di tale formazione
fosse la schiavitù.
Fu proprio questa metodologia (considerare l'economia una
scienza "esatta" scissa dal grande processo storico del divenir-uomo
dell'uomo) a offrire l'appiglio per costruire un sistema di manipolazione
burocratica dove la società andava verso il socialismo sotto l'apparenza
dell'ortodossia nel campo economico.
Il fatto economico base della crescita della società, cioè
la tendenziale, costante diminuzione del lavoro socialmente necessario per la
riproduzione della vita dell'individuo e la crescita tendenzialmente altrettanto
costante del plus-lavoro, che - tramite mediazioni diverse nelle diverse
formazioni - può anche servire allo scopo sociale generale della crescita della
personalità, questo fatto è per Marx anch'esso un'immutabile legge del
progresso socio-economico.
La socializzazione dei mezzi di produzione rende impossibile
l'appropriazione del pluslavoro mediante possesso personale, ma non sopprime
affatto questa struttura di base della riproduzione economica; semplicemente
introduce forme radicalmente nuove di mediazione che rendono possibile
l'utilizzazione socialmente progressiva del pluslavoro.
Nella Critica al
programma di Gotha Marx , conformemente, prende netta posizione contro
l'idea volgarizzante di Lasalle secondo
cui per l'operaio socialismo significherebbe appropriazione del "reddito
integrale del lavoro". In primo luogo, sottolinea Marx, il pluslavoro deve
innanzi tutto coprire per intero i costi necessari a garantire e sviluppare la
produzione stessa. Ma inoltre esso deve far sì che risultino coperte le spese
non economiche per l'amministrazione della società e i suoi bisogni generali
(scuola, sanità, ecc. E Marx giustamente osserva che queste nel socialismo
vengono a incrementarsi molto più che nel passato). Lo stesso vale per il fondo
a favore degli inabili al lavoro: Tali necessità definiscono secondo Marx la
cornice economica del consumo individuale, dell'autoriproduzione individuale
dei lavoratori nel socialismo.
Stalin non fa dunque che mettere sulla testa la costruzione
del tutto fallace di Lasalle: questa volta per poter dichiarare non esistente
nel socialismo la categoria del pluslavoro.
Stalin semplicemente parifica i momenti mediati
dall'economia con quelli immediati. Ambedue falsificano i fatti economici fondamentali
dell'autoriproduzione sociale. Lo fanno a prima vista in maniera antitetica, ma
questa antitecità poggia per tutt'e due sul medesimo sistematico ignorare le
mediazioni socio-economiche reali, nel tentativo di individuare le differenze
fra capitalismo e socialismo nel processo economico immediato, dove non sono.
Nella prefazione a Per la
critica dell'economia politica le forme ideologiche vengono definite come
il medium sociale che serve a portare alla coscienza i problemi prodotti dallo
sviluppo dell'economia e a lottare in essi. In questa definizione colpisce la
duplicità della sua interna dialettica. Da una parte i conflitti da risolvere
nascono in virtù della normativa fattasi oggettiva per cui vengono aperti dalle
contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione, dall'altra parte
e contemporaneamente ogni ideologia è un complesso di mezzi attraverso cui gli
uomini vengono messi in grado di prendere coscienza dei conflitti così sorti e
di combattere in essi praticamente.
Ciò viene a dire che, agli occhi di Lenin, l'eliminazione
dell'analfabetismo era un problema che scaturiva bensì oggettivamente dalla
condizione economica della Russia, ma la sua ideologica soluzione, giacché
passava attraverso la coscienza dei lavoratori, finiva per essere oggetto della
loro stessa prassi fattasi consapevole. Quindi, una volta spezzato il dominio
della classe sfruttatrice socializzando
tutti i mezzi di produzione, risultava aperta la strada per porre il popolo
lavoratore nello stato di chi porta da se a soluzione tutti i problemi della
propria vita quotidiana.
La scolarizzazione, -
per esempio -, da sovrastruttura prodotta per così dire automaticamente dallo
sviluppo economico, può in tal modo diventare fattore di ampliamento e
approfondimento della vita individuale di ogni singola persona, può diventare
una energia sociale creata dall'uomo per sé, la quale appunto nella sua
connaturata socialità fa sì che la riduzione del tempo di lavoro necessario per
la propria riproduzione metta ciascuno in grado di produrre, al fine di costruire
e perfezionare se stesso, ciò che Marx chiamava il "superfluo" e
farlo proprio.
Questi risultati sociali possono ottenersi solo quando la
loro produzione ad opera dell'attività sociale dei singoli simultaneamente
sviluppi questi ultimi a personalità, simultaneamente promuova, arricchisca,
renda più profondo il loro farsi individualità.
L'osservazione di Marx secondo cui "regno della
libertà" significa che lo sviluppo delle capacità umane diviene fine a se
stesso, implica che quel tipo di prassi va oltre la sfera economica (oltre il
"regno della necessità" pur ineliminabile come base), il che nella Critica al programma di Ghota viene
formulato in questi termini: il lavoro diviene non soltanto un mezzo per
vivere, ma il primo bisogno della vita.
Naturalmente l'estensione, l'intensità, il contenuto.
l'indirizzo, ecc. anche di questa prassi sono ogni volta determinati e
circoscritti dal grado di sviluppo economico della rispettiva condizione
sociale.
Appunto perché, nell'ammontare totale del tempo di lavoro
socialmente necessario, la quota di pluslavoro
socialmente liberato dalla rivoluzione proletaria per essere usato a
tale scopo è un prodotto dello sviluppo economico, la rivoluzione russa, nata
in maniera "non- classica", venne a trovarsi oggettivamente in grandi
difficoltà.
Fin da quando al centro della prassi vi fu nell'immediato la
conquista e la difesa della rivoluzione, l'entusiasmo, esteso e profondo fra le
masse popolari insorte, potè temporaneamente nascondere questa condizione
problematica.
Questa spontaneità delle masse, in apparenza irresistibile,
venne, in termini nell'immediato ancora organizzativi, perfezionata,
consolidata, guidata verso obiettivi stabili, mediante il movimento dei
consigli.
Sorto a Parigi durante la Comune del 1871, risvegliatosi
spontaneamente in Russia nel 1905, esso divenne la nuova sintesi della
democrazia socialista durante e dopo il 1917.
Il movimento consiliare sorse dappertutto spontaneamente e
passo passo andò acquistando consapevolezza sempre maggiore.
Il periodo di Stalin si servì della controversia fra Lenin e
Luxemburg, - dopo averla deformata in termini di manipolazione demagogica,
spingendo cioè quello che chiamò 'agire consapevole' ad essere l'esclusione
assoluta della spontaneità, - per sminuire l'importanza sociale di
quest'ultima.
Lenin però, che viene di solito presentato come l'autorità
di questo atteggiamento sbagliato, burocratico, a dire il vero vedeva nella
spontaneità "la forma embrionale della coscienza"
Il fatto è che la conoscenza effettiva della realtà
oggettiva, del campo di manovra che essa effettivamente offre, può da tali
movimenti spontanei svilupparsi fino al massimo delle possibilità soggettive e
oggettive, per poi trasformarsi sempre più in coscienza dei fini, se e solo se
negli uomini della vita quotidiana diviene reale e vivo questo collegamento fra
gli immediati interessi del giorno e le grandi questioni generali che li
riguardano.
La rivoluzione del 1917 - grazie alla circostanza che fosse
Lenin a dirigere il partito comunista - fu capace di fissare questo cammino
dalla quotidianità ai problemi decisivi della società e dello Stato, cosicché
il governo dei consigli che in quel tempo esisteva non perse il proprio
radicamento nella quotidianità della vita popolare.
Sebbene la fase acuta della guerra civile portasse a
un'altezza notevole questi aspetti del movimento consiliare, allo stesso tempo
però i fattori economici derivanti dall'arretratezza dell'impero russo, anche
se di tanto in tanto sembravano dimenticati, in realtà finirono per scalzare
sotterraneamente la spontaneità consiliare, per spingere verso la deformazione
burocratica.
Lenin vide bene questo pericolo fin dall'inizio, quando
decise la svolta che introduceva la Nep e rifiutava sul piano teorico e pratico
il comunismo di guerra.
Egli vide - e qui stava secondo lui il principale pericolo
sociale insito nella burocratizzazione - che la spontanea (anche se compresa e
consapevolmente e correttamente promossa dal partito) unità rivoluzionaria del
popolo, l'alleanza fra operai e contadini per la loro comune liberazione dal
giogo del capitalismo imperialistico, entrava su un terreno minato, con il
pericolo di una rottura.
Il semplice ritorno allo slancio veemente e spontaneo del
sistema consiliare come nei momenti acuti della rivoluzione era oggettivamente
impossibile. Il lavoro di consolidamento e avanzamento pacifico della
democrazia socialista poneva alle masse lavoratrici problemi di qualità del
tutto nuova, per risolvere i quali non era sufficiente l'entusiasmo
rivoluzionario, anche quello più sincero e risoluto.
Per la repubblica sovietica non si trattava di semplice
ricostruzione economica; occorreva invece spingere l'economia fino a un livello
inedito, tale da costituire la base adeguata per edificare una società
socialista in ogni suo aspetto.
Nella realtà sociale, però, è nettamente diverso,
qualitativamente diverso, se è una generazione ad essere tenuta impegnata per
anni (che possono magari arrivare a un decennio) o se sono più generazioni che vengono chiamate a concentrare il loro
interesse primo, i loro sforzi decisivi, non nella vera e propria, genuina,
edificazione del socialismo, ma nella realizzazione materiale delle sue sole
premesse economiche.
Quindi la vera alternativa storica per le persone allora
attive era in concreto questa: se associare, e in qualche modo, questo problema
centrale, ineludibile per il socialismo perché lo fonda oggettivamente, con
quelle forme di sviluppo che - a quel dato stadio economico, da quest'ultimo
delimitate nello spazio reale - rappresentavano le precondizioni sociali di una
democrazia socialista, oppure se, in nome del mero progresso economico, queste
non dovessero essere respinte in secondo piano, anzi, non dovessero divenire un
momento messo proprio da parte.
Abbiamo fatto cenno ai problemi che fecero venire alla luce
del giorno le battaglie intestine fra i successori di Lenin, abbiamo già
rilevato come questa alternativa non fu tirata in campo da nessuno dei gruppi
in lotta, i quali invece sollevarono soltanto questioni economiche, che
ammettevano esclusivamente una regolazione statale centralizzata,
"dall'alto".
Al contrario, come abbiamo anche detto, per Lenin l'ultimo
tratto di vita, entro i limiti in cui fu ancora in grado di influire
teoricamente e praticamente sul corso delle cose, al centro del suo "che
fare?" fu sempre per l'appunto questa alternativa.
E abbiamo inoltre cercato di mettere in luce un punto che
ora forse può risultare più chiaro, cioè che la posizione assolutamente
centrale della tattica in quella particolare prassi sociale e statale era una
conseguenza necessaria di questo orientamento degli eredi di Lenin.
Per cui abbiamo visto anche che, manifestamente, sotto
questo profilo Stalin rientra senz'altro nel gruppo e per nessun aspetto che
abbia a che fare con tale complesso di questioni sia lecito dirlo
perfezionatore dei metodi di Lenin.
Sarebbe uno dei più importanti compiti ideologici di questo
nostro tempo di transizione, nei nostri sforzi di restaurare il marxismo
autentico, di contestare e criticare punto per punto questa legenda storica
costruita con sistematicità da Stalin e dal suo apparato
In questa direzione fino a oggi non si è in pratica fatto
nulla quantunque il tema sia (o forse proprio perché è) di estrema importanza,
essendo stato rimodellato il metodo di Lenin e per suo tramite quello di Marx
in qualcosa di diametralmente opposto ma nell'apparenza accuratamente coltivata
di una coerente, assoluta continuità.
Occorre raccogliere insieme e inquadrare in un contesto
metodologico sistematico le tesi staliniane che caratterizzano la realtà del
nuovo metodo così da mostrare come su tale base venne introdotta e rinsaldata
l'onnipotenza della tattica, il suo dominio teorico.
Il primo passo in tale senso fu la semplificazione e anzi la
volgarizzazione dei principi di Marx, Engels e Lenin.
E' a questo che mira la staliniana priorità della tattica e
la corrispondente volgarizzazione generale del metodo, dei risultati del
marxismo, il loro appiattimento sui bisogni giornalieri.
Per radicare stabilmente la volgarizzazione della
dialettica, occorreva escludere il fondante e fecondante influsso della
dialettica di Hegel sul marxismo. Ora per argomentare
"teoricamente"tale esclusione, Zdanov fece figurare la filosofia hegeliana
come una risposta reazionaria alla Rivoluzione francese.
Vediamo così, sul piano puramente teorico, fin dove possa
arrivare la tendenza a volgarizzare: il marxismo doveva risultare qualcosa di
"radicalmente nuovo", il più possibile privo di precursori, privo di
collegamenti con la precedente storia del mondo.
La coerenza interna del metodo di Stalin: a un certo
complesso di fatti si reagisce tatticamente così o così, la teoria ha
semplicemente la funzione di presentare a
posteriori la rispettiva decisione tattica come risultato necessario del
metodo marx-leniniano. In questo modo l'ideologia non può che trasformarsi nel
campo primario della manipolazione e perde quell'enorme spazio di manovra,
quella contraddittoria mutevolezza e irregolarità che aveva in Marx in quanto
mezzo per "combattere" nei conflitti sorti sul terreno
economico-sociale.
Una ideologia risulta così, da un lato, il prodotto
meccanico di una data situazione economica, dall'altro lato, una materia senza
contenuto proprio, che infatti può essere reinterpretato a piacere.
(per Marx) La scomparsa di una ideologia è un processo
socialmente determinato, ma che, all'interno di tale determinismo, viene mosso,
spesso con irregolarità, dallo sviluppo sociale, ed è quindi - relativamente -
specifico. Per Stalin invece l'ideologia viene "liquidata" e basta,
cioè è semplicemente oggetto di una dinamica sociale: per l'appunto la
manipolazione staliniana.
La spinta intrinseca alla manipolazione ci si rivela nella
maniera più evidente davanti alla questione vitale dello smantellamento
staliniano della struttura consiliare dello Stato socialista.
In precedenza abbiamo
tentato di mettere in luce come un connotato fortemente innovativo del sistema
consiliare fosse proprio il superamento sociale dell'idealismo del citoyen, caratteristico della società
borghese. Il cittadino attivizzato - secondo l'essenza del socialismo - dalla
pratica democratica dei problemi generali della società non doveva più essere
una entità "ideale" separata dall'uomo reale (l'homme delle costituzioni democratiche), alla quale entità
corrispondeva nella vita quotidiana, come sua fondazione, l'uomo materiale,
egoista, della società civile, ma al contrario doveva essere un uomo teso a
realizzare materialmente, fattualmente, in cooperazione collettiva con i suoi
consimili la propria socialità nella vita quotidiana, dalle immediate questioni
del giorno fino agli affari di Stato generali.
La soluzione tattica dei problemi di quel tempo perseguita
da Stalin fu la smantellamento radicale, burocratico, di ogni propensione che
potesse trasformarsi in atto preparatorio di una democrazia socialista. Il
sistema dei consigli cessò in pratica di esistere. I massimi organi dello
Stato, rimasti - formalmente - democratici, ricevettero un assetto che li
faceva straordinariamente simili, salvo il sistema del partito unico, ai
parlamenti delle democrazie borghesi; i gradini inferiori si ridussero a organi
di amministrazione locale, eletti in modo analogo.
Svanirono così tutti i tentativi degli ultimi anni di Lenin,
i suoi preparativi ideologici per costruire una reale democrazia socialista. La
partecipazione alla vita politica, alla vita sociale in genere, poteva ormai -
nel migliore dei casi - indurre i singoli all'idealismo del citoyen. La tendenza imperante nella
vita dei cittadini divenne universalmente la burocratizzazione della prassi
politica e amministrativa.
Va sottolineato: la democrazia socialista, non il socialismo
in generale. Si può e si deve, infatti, riscontrare e criticare questo
restringimento del problema in tutti coloro che si sentirono vocati ad adire
l'eredità di Lenin. Al medesimo tempo, però, va precisato che anche Stalin, cui
le lotte intestine di partito consegnarono il governo per decenni, riuscì ad
ottenere risultati estremamente importanti per un aspetto decisivo,
ineludibile, dello sviluppo del socialismo, quello della costruzione di una
base economica che mirasse a superare gli svantaggi della sua genesi "non
classica".
Proprio quando si critica aspramente, come stiamo facendo
ora, il periodo staliniano - oltre che per molti fatti specifici - per i suoi
punti centrali, non si devono perdere di vista le conseguenze generali,
attinenti la storia del mondo, di questo coerente mantenimento e sviluppo delle
oggettive basi economiche del socialismo.
Si arriverebbe a un giudizio del tutto distorto se non si
dicesse al medesimo tempo che il mondo deve prima di tutto all'Unione sovietica
se l'Europa non si è trasformata in un Reich
hitleriano.
Possiamo comunque dire che quel recupero sull'avvio
"non classico" che negli anni venti fu da più parti definito
"accumulazione originaria" è ormai vicino a concludersi (1968). Ed è
ovvio che il processo di cui qui si tratta ha soltanto il nome di quella
"accumulazione originaria" di cui a suo tempo Marx descrisse e chiarì
le dinamiche. (http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/01/la-cosiddetta-accumulazione-originaria.html)
Marx ci dà l'analisi della storia e della sua normativa
(dell'accumulazione originaria), come si sono presentate nella realtà inglese. E'
dunque chiaro che, se si fosse trattato della [normale] costruzione del
socialismo in un paese ad alto sviluppo capitalistico, non sarebbe venuto in
discorso il confronto storico con quella transizione.
Nel processo storico russo, invece, si ha che un assetto
arretrato, ma nella sua essenza economica già capitalistico, deve portarsi a un
livello di produzione tale da essere adatto a funzionare da base di un sistema
economico socialista. Per cui la violenza, il cui ruolo è innegabile, vi assume
una funzione fondamentalmente diversa: è certamente, spesso, un veicolo per
distruggere rapporti di produzione primitivi (la kolchozazione), ma il suo scopo fondamentale resta quello di agire
direttamente affinché si formino condizioni di produzione quantitative e qualitative
fortemente evolute che rendano possibile sul piano economico oggettivo la reale
costruzione del socialismo.
Qui - in contrasto con la genesi del capitalismo - l'impiego
della violenza è sempre dominato da intenzioni meramente di tipo economico, ma
una volta compiutasi tale fondazione i momenti specifici del socialismo. che
non sono più soltanto economici, finiscono - di nuovo in contrasto con l'altro
processo - per esercitare i loro diritti di momenti sociali. Nel capitalismo,
cioè, si instaura un processo riproduttivo, nel socialismo invece ci si troova
davanti a complicati compiti nuovi da governare consapevolmente.
Nel capitalismo, perfino in quello molto sviluppato, tutto
ciò che usiamo definire cultura è solo un sottoprodotto dell'economia che si
dispiega e quindi per forza di cose rivela disparità permanenti rispetto a
quest'ultima.
Al contrario, l'"accumulazione originaria" del
socialismo, pur nel modo staliniano di realizzarsi, ha tutto sommato rispettato
il principio della promozione sociale (cioè non determinata dall'economia)
della cultura.
Cioè che il risultato del passaggio alla formazione
capitalistica è, come abbiamo tratteggiato poco sopra rifacendoci a Marx, per
legge spontanea il dominio senza residui dell'economia capitalistica, per così
dire dell'economia pura, autonoma, con le parole di Marx stesso, del
"regno della necessità".
Il socialismo invece, si distingue da tutte le formazioni
precedenti per il fatto che, mentre in queste ultime è il mero sviluppo
economico che produce con un certo automatismo interno le condizioni delle fasi
successive, addirittura delle formazioni sociali successive (persino i tipi
umani che per forza di cose saranno predominanti sono prodotti spontanei della
dialettica interna all'economia), ciò non vale più per il passaggio del
socialismo alla fase evolutiva superiore, al comunismo.
Abbiamo già accennato che Marx stabilisce bensì che
l'economia ("il regno della necessità") è la base inevitabile del
comunismo ("il regno della libertà"), in tal modo mettendo per
l'appunto molta distanza fra sé e ogni utopismo, ma al medesimo tempo egli
dice, già all'inizio, che il secondo è "al di là" del primo.
Gli uomini nello stadio del "regno della libertà"
eseguono il lavoro "nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e
più degne di essa". Marx qui indica, con piena ragione e con chiara
intelligenza delle cose, nella totalità reale dei modi umani di lavorare un
problema centrale della evoluzione del lavoro.
Adattare la produzione stessa alle condizioni più adeguate
alla natura umana e più degne di essa. Una tale finalità e la sua traduzione in
prassi non possono che travalicare i principi dell'intera sfera economica, né
cambia le cose il fatto che anche soltanto la pensabilità reale di tale
adattamento presuppone (come sua base, per usare la terminologia di Marx)
un'economia ad altissimo sviluppo.
Da un'angolazione un po' diversa il medesimo tema viene
affrontato nella Critica al programma di
Gotha. Quando parla delle condizioni del comunismo ("da ognuno secondo
le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni") Marx, come sostanza
della svolta che si verifica nella condotta di vita delle persone, mette al
centro il fatto che "il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma
anche primo bisogno della vita".
Gli "alleggerimenti", gli
"abbellimenti", ecc. del lavoro, fatti per aumentarne la
produttività, non hanno nulla a che vedere con questo problema. Sono abili e
spesso efficaci adattamenti delle persone a un processo lavorativo un po' modificato
in alcuni dettagli, ma, nel fondo, deciso esclusivamente dall'economia.
Per un verso, rileva il generale carattere lavorativo anche
delle attività massime degli uomini, anche di quelle non più economiche:
"Un lavoro realmente libero, per esempio comporre, è al tempo stesso la
cosa maledettamente più seria di questo mondo, lo sforzo più intenso che ci
sia". E, in polemica con Adam Smith, integra questo concetto, in
riferimento all'ambito complessivo del lavoro, nei termini seguenti: "Il
lavoro considerato come sacrificio e
perciò come creatore di valore, come prezzo
che viene pagato per le cose e che perciò da loro un prezzo a seconda che
costino più o meno lavoro, è una determinazione puramente negativa". (K.
Marx, Lineamenti fondamentali della
critica della economia politica, II, cit. pp 278, 279.) Non va però
dimenticato che, quale che sia l'ambito, la caratterizzazione in negativo non
può non essere valida per ogni lavoro se definito in termini economici.
"Il libero sviluppo delle individualità, e dunque non
la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in
generale la riduzione di lavoro necessario della società ad un minimo, a cui
corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico, ecc. degli
individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti
loro" (Ivi, p. 402. Qualche riga più avanti, dopo questo passo, Marx
chiama "superfluo" il tempo di lavoro eccedente il tempo di lavoro
socialmente necessario per l'auto produzione soltanto economica della società.)
Dove, naturalmente, il termine "superfluo" acquisisce un contenuto
reale soltanto come contrario alla sensatezza puramente economica, come lavoro
che semplicemente non serve più alla reale autoriproduzione materiale della
società e dei singoli che la formano; la sua superfluità economica non lo rende
affatto superfluo in senso sociale, al contrario ne fonda l'utilità sociale
generale, anzi l'indispensabilità.
Affinché il lavoro divenga "il primo bisogno della
vita", una delle premesse importanti è la liberazione degli uomini dalla
"subordinazione asservitrice" alla divisione del lavoro. (K.Marx, Critica al programma di Gotha)
Questo asservimento, però, non è affatto un residuo di
condizioni primitive che l'economia moderna, con la sua perfezione tecnica,
saprebbe benissimo superare, ma al contrario è in un primo momento un prodotto
dell'economia giunta ad un alto grado di sviluppo, la quale se ne serve per i
suoi scopi nelle forme più diverse, ma poi è una dinamica che non può non
investire sempre più anche le sfere della scienza, dell'arte, ecc.
Marx non si limita semplicemente a contrapporre all'economia
le tensioni che vanno al di là di essa. Al contrario, egli vuole dimostrare che
la preparazione sociale del comunismo (per l'appunto il socialismo come
formazione economica) può aver luogo realmente solo allorché in una economia
assai sviluppata sul piano della produzione iniziano ad agire impulsi sociali
di questo tipo, tale cioè che siano per loro natura capaci e ora nella
condizione di modificare a fondo determinate tendenze, fino a quel momento
dominanti, dell'economia, ovviamente senza mettere in pericolo il funzionamento
di questa nella sua totalità, ma all'opposto promuovendolo.
Abbiamo visto che Marx pone un particolare accento su due
momenti: l'adattamento del modo dei processi economici alle condizioni più adeguate
alla natura umana e più degne di esse e, connesso molto strettamente a questo
primo aspetto, il superamento del carattere asservitore della divisione del
lavoro. Non c'è bisogno di dire che in ambedue i casi è impossibile introdurre
tali cambiamenti di colpo, per decreto. Devono essere il risultato di lunghi
processi sociali, in cui a poco a poco, facendo leva sul rispettivo stato dello
sviluppo economico, vengono introdotte modificazioni che possono favorire la
realizzazione sia oggettiva sia soggettiva di tali tendenze.
Perché l'intera storia dell'umanità di aspirazioni simili di
prassi umana che conducesse alla promozione del vero essere-uomo dell'uomo,
alla sua piena e consapevole genericità, ce ne sono sempre state sotto forma di
casi singoli, eccezionalità, aneliti che hanno portato in vicoli ciechi, ecc.
ma, essendo in società classiste, non riuscivano mai ad arrivare ad influire sull'azione contraria
esercitata dall'economia ogni volta dominante.
Potranno invece diventare bene comune del genere umano solo
quando la vita media della quotidianità (anzitutto il lavoro, la prassi
economica) sarà oggettivamente, socialmente, strutturata a promuovere queste
tendenze negli uomini, non a reprimerle, non a piegarle in negatività delle
specie più diverse, come per l'appunto fino ad oggi è accaduto e accade in tutti gli ordinamenti sociali.
Quando l'uomo nel suo agire sociale si creerà le condizioni
che lo rendono nella realtà autenticamente uomo, questo periodo - appunto, il
socialismo come formazione sociale - si trasformerà nel preludio di quella
grande svolta che Marx ha chiamato fine della preistoria dell'umanità.
In contrasto con l'idealistico citoyen della democrazia borghese, il soggetto di quella socialista
- perfino nel momento alto degli inizi rivoluzionari - è l'uomo materiale della
quotidianità. Ovviamente non come canonizzazione dell'homme materiale tratto dalla struttura dualistica - insuperabile in
quel contesto - della vita degli uomini nella società borghese. La
democratizzazione socialista, come forma sociale del passaggio al "regno
della libertà", ha proprio il compito di superare questo dualismo.
(Con) Stalin, dando saldezza definitiva alla regolazione
burocratica, in pratica (demolendo) l'intero sistema consiliare, andò perduto
il carattere di soggetto delle masse lavoratrici nella vita della società, le
quali divennero nuovamente oggetti regolamentati dalla burocrazia, che poi andò
costruendosi sempre più compatta e sempre più onnilaterale, in vista della
totalità dei problemi della vita concreta.
L'aspetto di maggior rilievo è che l'autoattività delle
masse è praticamente del tutto scomparsa non soltanto nella cosiddetta grande
politica, ma anche - anzi prima di tutto - nella regolazione della propria vita
quotidiana.
Questa metamorfosi sotto Stalin venne dichiarata condizione
normale del socialismo. E la (pretesa) base teorica di questa prassi, la prassi
della manipolazione brutale, fu procurata con il già ricordato e spesso
criticato (mai a fondo però) dogma storico del socialismo manipolato, quello
secondo cui durante la dittatura del proletariato la lotta di classe non può
che inasprirsi. Stalin cioè trasformava la condizione e il modo d'agire delle
fasi acute della guerra civile nel metodo pratico di ogni periodo, anche di
quello in cui la guerra civile non era
ormai più, storicamente, all'ordine del giorno.
Insufficiente si è rivelata al XX congresso e in seguito
un'altra critica al periodo staliniano: la denuncia del cosiddetto culto della
personalità. Anche in questo caso la critica in sé non era sbagliata, era
insufficiente. Così come insufficiente fu integrarla sostenendo che i metodi del
potere staliniano erano stati pieni di violazioni della legalità.
Con tali metodi non si poteva affrontare in maniera
soddisfacente la crisi di fatto che vigeva e che era a tutti visibile al
momento della morte di Stalin. Anche in questo caso, così come nelle lotte per
il potere dopo la morte di Lenin, si trattava di un punto di portata generale,
di grande peso per la collettività, e che in sostanza aveva fondamento
economico: la fine della cosiddetta accumulazione originaria.
Una volta raggiunto, comechessia, un dato livello
produttivo, non poteva non venire spontaneamente al centro dell'interesse delle
masse la richiesta della qualità, di un vero sistema dei servizi per i
consumatoti,ecc. insomma vennero in primo piano problemi socio-economici
rispetto a cui i metodi che fin lì avevano in qualche modo parzialmente
funzionato erano destinati a fallire.
Era diventato sempre meno possibile, sul piano sia economico
che politico, concentrare lo sviluppo produttivo in pratica del tutto o almeno
in gran parte sull'industria pesante. Il consumo orientato all'ascetismo può,
in dimensione sociale, essere politicamente tollerabile nel migliore dei casi
come fatto transitorio. E' chiaro perciò che i metodi della pianificazione
accentrata per via burocratica, manipolata dal centro, i quali nei casi da noi
in precedenza evidenziati erano riusciti a funzionare con successo, a costruire
un apparato industriale relativamente, qua e là, molto avanzato, ora, posti di
fronte ai problemi economici dell'insieme, erano destinati a incepparsi.
Quanto maggiore è l'esattezza con cui un apparato di
pianificazione viene costruito con criteri burocratici centralizzati, tanto
maggiore è la difficoltà con cui esso riesce ad adeguarsi, sia
quantitativamente che qualitativamente, ai bisogni del consumo, anzi queste
carenze vengono in luce già quando si tratta di approntare i mezzi produttivi
ora appropriati. In questo caso non può applicarsi il modello perfettamente
funzionale alla produzione bellica, perché il "criterio" di controllo
lì appropriato, nella vita quotidiana civile non riesce a funzionare.
Il punto è piuttosto di far luce sui termini in cui,
divenute necessarie le riforme economiche, per le società socialiste viene ad
aprirsi il problema della propria democrazia in quanto prospettiva reale.
Al medesimo modo di Lenin il quale, al momento di introdurre
la Nep, venne a trovarsi a un medesimo nodo di problemi teorici.
Per un verso sembra essersi completamente bloccato il motore
sociale dei movimenti consiliari, cioè la spinta delle larghe masse a spostare
i loro fatti collettivi dal basso, dove sono parte diretta dell'esistenza
quotidiana di ogni persona, in alto, là dove le grandi questioni della società
sfociano in iniziative, reazioni, ecc. di massa.
Anche quando sembrano essere rimaste giuridicamente in
vigore, le forme vuote di soluzione sociale dei problemi suscitano nelle masse
profonda indifferenza, magari mascherata da adattamento, e talora si arriva
fino all'apatia.
Per l'altro verso, è vero che non manca mai una
"opinione pubblica", la quale, pur esprimendosi appieno, in sostanza,
solo nei discorsi privati, prende posizione su tutti i problemi della vita
sociale, anche se in maniera non ordinata, tanto più che, essendo parecchio
spontanea, solo per caso passa attraverso il confronto della discussione.
Mobilitare l'opinione pubblica, che oggi - se considerata in
termini di dinamica sociale - è prevalentemente "muta",
"clandestina", e portarla a essere una prassi pubblica sistematica mi
sembra il primo passo verso una democratizzazione socialista.
Il lungo periodo del sistema staliniano ha per forza di cose
avuto effetti profondi sull'atteggiamento delle persone, soprattutto quanto alla
possibilità di un proprio intervento personale nella società. Mentre il
movimento consiliare che sorse in maniera esplosiva e spontanea in quelle
rivoluzioni abituò le masse ad agire autonomamente negli affari pubblici.
Al tempo del dominio di Stalin si andò nella direzione tutta
opposta, e in qualche modo ci si è abituati. La sottolineatura dell'abitudine
in Lenin è tanto vera e illuminante proprio perché contiene questo doppio
volto. Implica cioè un'alternativa: l'abitudine può essere un elemento sociale
di profonda trasformazione, ma utile o nocivo a seconda della cosa cui abitua.
Quando la priorità staliniana della tattica divenne
manipolazione burocratica e abbracciò e compenetrò l'intera società, le persone
che ne furono investite, attivamente o passivamente, finirono, quanto alle
forme della propria condotta di vita, per abituarsi a tale ordinamento.
La punta di queste osservazioni non è rivolta contro la
disciplina in generale. Senza di essa, infatti, non sarebbe possibile nessuna
prassi collettiva. Decisivo però - e proprio nel senso qui importante del
formarsi collettivo dei tipi umani e dei tipi di prassi - è il modo differente,
anzi antitetico, in cui la disciplina può nascere e funzionare: se, cioè, colui
che si assoggetta alla disciplina ha partecipato attivamente al formarsi delle
decisioni, se dopo egli esegue disciplinatamente la decisione con la
possibilità di criticarla, di partecipare a correggerla, a trasformarla, magari
a cassarla, oppure se si tratta semplicemente di esecuzione disciplinata, cieca
e muta.
Accanto a quello ora descritto, si è avuto però anche il
tipo, con esso contrastante, che utilizzava la posizione sociale (magari anche)
allo scopo di elevare il proprio personale tenore di vita con mezzi leciti, ma
pure con raggiri e talvolta con mezzi illeciti.
Com'è ovvio, qui non centra la legittima aspirazione ad
elevare il proprio tenore di vita con il proprio lavoro, ma solo la pratica di
chi si adopera a utilizzare per tali fini le lacune, l'interpretabilità, ecc.
delle leggi oppure determinate vecchie abitudini ancora esistenti o nuove
abitudini avanzanti.
Ci importa solo e soltanto di indicare quelle tendenze
sociali soggettive che sono state conseguenza necessaria dell'ordinamento
produttivo impostato da Stalin, dell'abitudine ad esso. Il nostro obiettivo
primo è stato, da una parte, di distinguere questa critica al sistema
staliniano dalle critiche borghesi di ogni sorta, le quali - già a partire
dall'introduzione della Nep - hanno continuato a dire che il socialismo andava
realizzando sul piano socio economico qualcosa di analogo al capitalismo,
ovverosia che stava nascendo su scala mondiale la "società
industriale" entro cui le diversità fra queste due formazioni sociali sono
destinate a scomparire. Al contrario, dall'essere economico di tutti gli Stati
socialisti risulta chiaro (ed è un fatto al quale abbiamo già ripetutamente
accennato) che la socializzazione dei mezzi di produzione crea, per forza di
cose, rapporti oggettivi che restano qualitativamente differenti da quelli che
si hanno nelle società classiste.
Dall'altra parte, però, una più puntuale e approfondita
analisi delle società socialiste ... mostrerebbe che esse hanno bensì
oggettivamente liquidato, reso impossibile ogni sfruttamento dell'uomo da parte
dell'uomo, e tuttavia il loro sviluppo socio-economico è stato tale che la vita
economica pratica non è (non è [stata]) in grado di produrre quelle situazioni,
tendenze, in seguito alle quali i lavoratori, con i mezzi della riproduzione
economica della propria vita individuale e di quella della società, trasformino
quest'ultima nella sua totalità in termini tali che essa, per quanto concerne
la propria soggettività, vada svolgendosi nel senso di rendere in futuro i
lavoratori stessi adatti a divenire uomini liberi della formazione sociale
comunista.
Il dubbio circa l'oggettivo carattere socialista del
socialismo esistente rientra, quindi, nella rubrica delle insensatezze e
calunnie borghesi. La costruzione e la rifinitura del carattere socialista
soggettivo della società restano invece il grande compito, presente e futuro,
di tutti coloro che accettano francamente il socialismo come unica via d'uscita
dalle contraddizioni del capitalismo.
A guardare le cose in termini obiettivi, abbiamo dunque la
situazione seguente: L'ordinamento economico e sociale introdotto al tempo di
Stalin è stato bensì in grado di superare di gran lunga, in termini economici
immanenti, la inaudita arretratezza sul terreno economico stesso, e lo ha fatto
anche senza intaccare la propria struttura socialista di fondo.
Non è stato invece in
grado di rimuovere l'assetto da formazione capitalistica, che riesce a ottenere
uno sviluppo fino a ora inimmaginabile delle forze produttive e con ciò fornisce
una base oggettiva per il "regno della libertà", per il vero divenir
uomo dell'uomo, lo fa però in maniera tale da frapporre nella vita concreta a
questo divenir uomo ostacoli sociali oggettivi insormontabili.
La base economica di questo rapporto umano universale è
stata messa in luce da Marx già nel Manifesto
comunista. Dove a proposito della prassi della borghesia come classe
dominante, prassi obbligatoriamente prodotta dall'economia capitalistica, si
dice: "Ha fatto della dignità personale un semplice valore di
scambio", e poi: "Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il
poeta, lo scienziato in suoi operai salariati"
La domanda che, nella prospettiva del divenir-uomo
dell'uomo, viene posta alla rivoluzione socialista perciò, come in ogni passaggio
da una formazione sociale a un'altra superiore, è sempre una: come vengono
socialmente prodotti quegli uomini che nella loro prassi spontanea saranno in
grado di assolvere i compiti che, dato questo cambiamento, socialmente nascono?
Il passaggio dal capitalismo al socialismo esibisce modi,
radicalmente diversi, che sembrano addirittura paradossali. Da un lato, qui la
svolta è di parecchio più profonda. Nel passaggio dal feudalesimo al
capitalismo si trattava, in fondo, semplicemente di andare da una società
classista sfruttatrice, ad un'altra che poggiava anch'essa sullo sfruttamento,
anche se a un livello più alto di produttività. Adesso invece il punto è la
revoca di ogni sfruttamento.
Dall'altro lato, quel precedente passaggio ha provocato una
svolta radicale in tutti i campi della produzione materiale (basta ricordare,
il cambiamento nella divisione del lavoro che intercorre fra corporazione e
manifattura), mentre adesso, soprattutto quanto agli aspetti tecnici della
produzione, non si ha alcun cambiamento che sia anche lontanamente paragonabile con
quella svolta. (Una fabbrica costruita per il capitalismo può in definitiva
lavorare tranquillamente, senza grandi cambiamenti, anche nel socialismo e
viceversa.)
Certo, si è avuto un sovvertimento, la socializzazione dei
mezzi di produzione. ... Tuttavia, essa sola non riesce di per sé a riplasmare
materialmente il modo di lavorare e quindi il modo di vivere la quotidianità da
parte delle persone, tanto da produrre quel mutamento radicale che è ormai necessario
nel rapporto dell'uomo con il proprio lavoro e con i propri umani congeneri.Il
che poi costituisce per l'appunto la premessa dello specifico svolgersi del
socialismo come fase di passaggio, di preparazione, al comunismo.
Si dispiega, così, davanti a noi la situazione paradossale
cui già più volte abbiamo fatto cenno: la produzione materiale - naturalmente
non senza la mediazione delle risposte ideologiche ad essa - anche in questo
caso è obbligata a produrre un cambiamento negli uomini, il loro trasformarsi
in adeguati portatori della formazione che viene - che deve essere guidato a
risvegliare negli uomini, come risposta, quelle qualità e quelle relazioni
reciproche che li rendano capaci di essere nella realtà autentici uomini.
Si tratta di adattare il modo di lavorare all'adeguata
essenza dell'uomo, alla sua dignità, alla sua capacità di esplicitazione umana.
Queste cose devono andare d'accordo con le esigenze della produzione per essere
realizzabili nella pratica; non sono però direttamente deducibili da essa, ma,
come Lenin era solito dire, vi devono essere portate da fuori, dall'esterno della
produzione in quanto tale.
Lo sappiamo: quell'impegno è andato frustrato.
Si tratterà dunque di un lungo processo contraddittorio da
avviare e condurre con grande consapevolezza. Infatti, da una parte non va mai
persa di vista la feconda contraddizione di fondo che ci si trova davanti, vale
a dire che devono essere incorporati nell'economia fattori attivi di tipo
economico che da ultimo servono a scopi non economici e, ciò non di meno, sono
lì non solo non per arrestare lo sviluppo economico, ma al contrario per
promuoverlo in conformità, anche sul piano strettamente economico, ai bisogni
sociali di una data situazione.
Dall'atra parte, il fatto che il processo sarà lungo implica
la necessità di accordare al rispettivo grado di sviluppo produttivo, alle
esigenze economiche di ogni fase, la consapevolezza teorica da acquisire circa
il contenuto sociale della sua prospettiva, e di farlo ininterrottamente, punto
per punto, per così dire giorno dopo giorno.
E' però, possibile oggi farlo applicando semplicemente le
teorie correnti negli ultimi decenni?
Le omissioni, le confusioni, le deformazioni, ecc. di
decenni possono essere eliminate soltanto con un lungo lavoro di ricerca, con
discussioni concrete sulle questioni di principio nel campo della teoria, della
storia, ecc.
Della rinascita del marxismo il movimento ha bisogno in
tutti i casi, per tutti i problemi da risolvere. Ed è un bisogno che si fa
sentire con intensità maggiore quando si tratta di risvegliare la
democratizzazione socialista.
Vale in larga misura quanto Lenin diceva introducendo la Nep
e cioè che i classici del marxismo sono morti senza lasciarci in eredità linee
guida univoche.
Oggi un moto verso la democratizzazione in senso socialista
non può arrivare alle coscienze spontaneamente, ma solo, secondo l'espressione
di Lenin, guidato "dall'esterno".
Per un marxista bastano questi pochi fatti, ma fondamentali,
per aver chiaro come in questo caso si tratti di un attivismo la cui naturale
forza motrice e guida non possa che essere proprio il partito comunista.
La profonda destinazione, da Lenin attribuita all'abitudine
può davvero farsi operativa solo quando
l'essere sociale, anzitutto quello economico ma naturalmente non questo
soltanto, s'impossessa a poco a poco di un contenuto tale e a poco a poco
conquista forme tali che le persone, abituandovisi, con l'abitudine e
nell'abitudine, cominciano ad abbandonare i loro affetti, convincimenti, modi
d'agire, non veramente umani, anzi spesso antiumani, nei confronti di se stesse
e del loro prossimo, per costruire invece la propria vita e le relazioni con
gli altri membri del genere umano (due cose ontologicamente inscindibili) nello
spirito di un autentico essere-uomo.
Il divenir uomo
dell'uomo può esser soltanto opera sua, e però opera sua sociale. Quest'operare,
d'altronde, non è altro che tentare di dare risposta a quei problemi, a quelle
loro possibilità di soluzione, il cui spazio reale può essere creato,
determinato e delimitato appunto solo dall'oggettivo processo riproduttivo
concreto.
I grandi movimenti consiliari del passato recente, nella
loro immediatezza rivoluzionaria, ebbero la tendenza istintiva a mettere questi
complessi problematici all'ordine del giorno. Ma date le condizioni reali da
cui emergevano, data la situazione oggettiva, quei movimenti non furono capaci
di arrivare nel concreto a contenuti così generali, così onnilaterali, non
parliamo poi di tradurli in realtà, tuttavia il fatto che tra le larghe masse
il loro ricordo sia rimasto sempre vivo, incancellabile, ci dice che viene nutrita
una speranza, - pur spesso erroneamente motivata in termini idealistici,
utopistici, - la speranza che, a causa della tendenza di fondo ad essi
intrinseca, basterebbe semplicemente riproporli per aprire all'umanità una via
d'uscita, una via per la realizzazione di se.
Ci si accorgerà che l'economia socialista, sebbene avere una
relazione duttile con il consumo sia divenuto per essa un problema vitale, non
sarà tuttavia in grado di risolverlo "introducendo" semplicemente un "modello"
capitalistico. Quel che nel capitalismo il mercato è capace di fare, in
sostanza, spontaneamente, qui deve essere integrato da una multidimensionale,
plurivariata democratizzazione del processo produttivo, dal momento della
pianificazione a quello della sua pratica reale. Una democratizzazione che da
principio avrà per forza di cose mero carattere economico.
Nel 1917 e negli anni che lo seguirono moltissime persone
del mondo capitalistico - da Anatole France ai semplici uomini e donne del
mondo del lavoro - sentivano che tutto quanto accadeva sul terreno sovietico
era qualcosa che contribuiva alla propria liberazione umana, che cioè in tutto
quanto si faceva là era presente una lotta per la propria causa, per la propria
umana salvezza. Il passaggio staliniano al predominio assoluto della tattica in
tutti i campi teorici e pratici spezzò in gran parte questi fili di
collegamento. Naturalmente in tale estraniarsi dal socialismo ebbero un peso
rilevante fatti come i processi degli anni trenta, ma ogni singolo gesto
sfavorevole avrebbe potuto essere superato se non si fosse avuto un durevole trend ideologico di distanziamento, di
divergenza sempre maggiore fra la direzione verso cui muoveva l'Unione
sovietica e, nel capitalismo, l'anelito in apparenza sempre meno appagabile
delle persone a superare quelle tendenze che vanificano l'essere-uomo.
L'effetto provocato dal generale elevarsi del livello della
vita economica o dai singoli risultati in ambito tecnico non poteva e non può,
nonostante tutta l'ammirazione spesso suscitata, far ritornare per incantesimo
a quel legame emotivo degli inizi. In ogni società capitalistica infatti si dà
questa possibilità generale di pervenire a risultati economici e tecnici di
quel tipo. L'attrazione, il fascino del divenir-uomo, invece, lo possiede
soltanto - potenzialmente - la società socialista.
La tradizione leniniana è: possibilità di lottare in comune
contro l'avversario comune, distinguendosi con nettezza ed esercitando una
critica di principio su tutti i punti in cui si abbiano deviazioni dal
marxismo.
Quella staliniana è: ogni posizione che non coincida
esattamente con le decisioni prese per
tattica e praticate punto per punto giudicarla avversa o addirittura opera
diretta di agenti dell'imperialismo e adoperarsi per annullarla con tutti i
mezzi organizzativi dell'apparato. Questo fu il metodo dei grandi processi.
Marx, più di cento anni fa, descrisse il contrasto fra i
percorsi delle rivoluzioni borghesi e i percorsi di quelle socialiste, in base
ai conflitti di classe che le muovono e alle possibilità sociali che ne
derivano, nei termini seguenti:
le rivoluzioni
borghesi "passano tempestosamente di
successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l'un l'altro; gli
uomini e le cose sembrano illuminati da fuochi di bengala; l'estasi è lo stato
d'animo d'ogni giorno. Ma hanno una vita effimera, presto raggiungono il punto
culminante: e allora una lunga nausea si impadronisce della società, prima che
essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre
e di tempesta. Le rivoluzioni proletarie invece, quelle del secolo decimonono,
criticano continuamente se stesse; interrompendo a ogni istante il loro proprio
corso, ritornando su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare
daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure,
delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi", "si ritraggono continuamente,
spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la
situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze
stesse gridano: hic rodhus, hic salta". (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)
Rodi oggi sta ancora nel lontano futuro. Ma tutto ci dice
che soltanto la via tracciata da Marx vi può condurre. Se e fino a che punto i
comunisti saranno in grado di percorrerla è cosa che dipende dalla loro
perspicacia e dal loro coraggio.
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