martedì 31 marzo 2015

LA DEMOCRAZIA DELLA VITA QUOTIDIANA - Gyorgy Lukacs

 Le rivoluzioni borghesi "passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l'un l'altro; gli uomini e le cose sembrano illuminati da fuochi di bengala; l'estasi è lo stato d'animo d'ogni giorno. Ma hanno una vita effimera, presto raggiungono il punto culminante: e allora una lunga nausea si impadronisce della società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre e di tempesta.
 Le rivoluzioni proletarie invece, quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompendo a ogni istante il loro proprio corso, ritornando su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi""si ritraggono continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: hic rodhus, hic salta". (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)


Rodi oggi sta ancora nel lontano futuro. Ma tutto ci dice che soltanto la via tracciata da Marx vi può condurre. Se e fino a che punto i comunisti saranno in grado di percorrerla è cosa che dipende dalla loro perspicacia e dal loro coraggio.




"Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta". (K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito comunista, in Opere, VI, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 486)  

Il grande processo evolutivo dell'umanità, del formarsi del genere umano, del divenir uomo dell'uomo.

"Il borghese si comporta verso le istituzioni del suo regime come l'ebreo verso la legge. Le elude, ogni volta che sia possibile, in ogni caso particolare, ma vuole che tutti gli altri le osservino" (K. Marx, F. Engels, L'ideologia tedesca)

Quel che oggi si usa chiamare libertà è il risultato della vittoria indiscussa delle forze interne del capitalismo.
La democrazia odierna - attuale culmine di uno sviluppo capitalistico secolare - è la democrazia di un imperialismo manipolato, il cui dominio si regge mediante manipolazioni. So di violare l'etichetta della scientificità oggi considerata rispettabile quando scrivo senza virgolette parole come imperialismo o colonialismo. Il disprezzo per il XIX secolo che regna universale in ogni scienza sociale, il dominio di dogmi secondo cui il presente costituisce qualcosa di qualitativamente nuovo e, sotto ogni profilo, di migliore nei confronti di quel secolo, hanno appunto sul piano ideologico in primo luogo il compito sociale di segnalare l'opposta qualità del presente assetto socio-economico rispetto a quelli del passato. Così è stato messo al mondo e propagandato il concetto di società "pluralistica" in contrapposizione a "totalitarismo", termine con cui si è mirato a trasformare in patrimonio intellettuale comune l'idea che fascismo e comunismo fossero intimamente affini.
Così si è detto che nella moderna "società industriale" è scomparsa ogni traccia di quelle che un tempo erano le lotte di classe, e a ciò molto hanno contribuito i partiti socialdemocratici, i quali in effetti si sono radicalmente staccati dal marxismo per divenire membri attivi dell'establishment manipolato.
Come nel mercato con la propaganda pubblicitaria ogni individuo viene indotto a comprare "liberamente" quella merce che, si afferma, corrisponde benissimo ai suoi bisogni di consumatore, così quello stesso individuo dovrebbe comportarsi nella vita politica, durante le elezioni, nel votare ecc.
La manipolazione fine consiste per l'appunto nel suggerire ai compratori l'acquisto di una determinata merce in maniera tale che ciascuno s'immagini che tale acquisto, il possesso di quella merce, sia il risultato di una libera decisione, anzi che sia l'espressione della propria personalità.
Questo principio manipolativo può essere applicato tanto più facilmente alla partecipazione delle persone alla zona "ideale" della vita dello Stato.
Quel che conta è appurare con chiarezza come tale invasione delle sfere "ideali" libertà ed eguaglianza da parte del materialismo egoista della società borghese sia un fatto universale.
La libertà e l'eguaglianza non scompaiono affatto in questo processo di graduale svuotamento delle rispettive forme per far loro assumere come contenuto gli interessi sempre più concreti del burgeois.    All'opposto: quanto meno la libertà è connessa, per il contenuto, con gli ideali (e le illusioni) dell'origine, tanto più se ne glorifica il feticcio cavo; quanto più la vita reale è dominata dalle grandi lobby, tanto maggiori gli onori che si tributano a questo feticcio aprendo e chiudendo ogni atto di propaganda.
La rivoluzione proletaria non fu in Russia un'incarnazione "classica" (nel senso di Marx) di tale passaggio storico mondiale. Secondo la premessa teorica di Marx, tale rivoluzione sarebbe dovuta scoppiare dapprima nei paesi capitalistici più sviluppati. Inoltre, Marx supponeva che una rivoluzione proletaria sarebbe stata per sua natura un fatto internazionale del mondo civilizzato.
Lenin non mise mai in dubbio che la Rivoluzione russa fosse qualcosa di eccezionale, non del tutto conforme alle previsioni del marxismo.
La trasformazione di una società capitalistica in una società socialista si presenta soprattutto e in prima istanza come una questione economica. Quanto più sviluppato è il capitalismo in un paese dove abbia vinto la rivoluzione, tanto più immediato, risoluto, adeguato potrà essere nella sua economia il raggiungimento degli obiettivi specifici del socialismo. In un paese, invece, che sotto questo profilo sia rimasto indietro, per forza di cose dovrà essere posta all'ordine del giorno una serie di problemi che sul piano puramente economico, cioè a dire nella normalità delle cose, sarebbero stati per loro natura ancora obiettivi dello sviluppo capitalistico. E si tratta (ma le due questioni formano nella realtà economica un complesso compatto), per un verso, del grado di sviluppo quantitativo e qualitativo della grande industria nei settori determinanti, a seconda dei casi, della produzione di massa, per l'altro verso di una distribuzione della popolazione fra i rami decisivi della produzione tale da garantire il necessario equilibrio dinamico, l'interazione e lo sviluppo, il funzionamento normale di agricoltura e industria nelle diverse branche della vita economica. Ebbene, nel 1917 non c'era nessuno che mettesse in dubbio che la produzione capitalistica dell'impero russo era ancora molto lontana da questo stadio.
Solamente dopo la fine vittoriosa della guerra civile la problematicità economica della forma "non classica" dell'origine venne esplicitamente al centro della vita sovietica.
"Il compito fondamentale della nuova politica economica, il compito decisivo che subordina a se tutto il resto, è di stabilire un legame fra la nuova economia, che abbiamo cominciato a edificare (malissimo, in modo molto stentato, ma che tuttavia abbiamo cominciato a edificare sulla base di una economia socialista completamente nuova, di una nuova produzione, di una nuova distribuzione), e l'economia contadina, da cui traggono di che vivere milioni di contadini" (V.I.Lenin, rapporto politico del comitato centrale del Pcr(b) 27/03/1922)
Il primo grande atto del passaggio al socialismo, la socializzazione dei mezzi di produzione, la loro concentrazione nelle mani della classe operaia, ha come conseguenza necessaria che gli atti sociali riferentisi  alla totalità dell'economia ubbidiscano all'imperativo sociale di divenire consapevoli. Proprio per questa via essi sono obbligati a trasformarsi da padroni in servitori dello sviluppo sociale dell'uomo.
La tesi che l'educatore, cioè lo strato sociale dirigente della rivoluzione socialista, debba esso stesso venir educato va, per un verso, contro ogni utopismo, contro l'idea secondo cui l'evoluzione dell'umanità, ad opera di chissà quale almanaccata visione sedicente superiore, verrà rimpiazzata da uno stato di perfezione, del tutto privo di problemi. Per l'altro verso, Va contro il materialismo storico concepito in termini meccanicistici, dove ogni soluzione viene spacciata come un semplice prodotto, spontaneo e necessario, dello sviluppo produttivo. Per Marx il mondo dell'economia ("il regno della necessità") è per sempre, ineliminabilmente,  la base di quella auto-creazione della specie umana che egli chiama "regno della libertà". Ma indicando poi come contenuto essenziale di quest'ultimo "lo sviluppo delle capacità umane che è fine a se stesso", egli viene chiaramente a dire che tale prassi non può non differenziarsi qualitativamente da quella economica (pur intesa nel senso più lato), ciò che è impossibile che essa venga in vita come semplice prodotto spontaneo, necessario, di quest'ultima, anche se - ed è una contraddizione viva, produttrice di cose nuove, della vita storico-sociale - può "fiorire soltanto sulla base di quel regno della necessità". (K.Marx, Il capitale, 1, III, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 933)
Il carattere non classico della Rivoluzione del 1917 nasce quindi soprattutto dal fatto che si è obbligati ad attuare il socialismo in uno stadio dello sviluppo nel quale l'oggettivo livello economico della produzione e della distribuzione è ancora molto lontano dal costituire una base, non solo per il "regno della libertà", ma addirittura per la sua preparazione concreta. Occorre quindi intromettere un periodo intermedio nel quale rimontare questo ritardo economico, un periodo nel quale al centro del governo, ora consapevole della vita sociale, deve stare un pronto e radicale esplodere dell'economia.
Quale debba essere in un cosiffatto periodo di transizione il rapporto fra la prassi meramente economica, destinata semplicemente a recuperare il ritardo, e gli atti, gli istituti, ecc. direttamente intenzionati al contenuto socialista, intesi a promuovere la democrazia proletaria.
Quel che è stato visto - fatto di decisiva importanza quanto all'ontologia della società - è che la meta da raggiungere, il "regno della libertà", è bensì alcunché di qualitativamente diverso dall'economico "regno della necessità", ma può venir instaurato soltanto sulla base di quest'ultimo. Affermando ciò, si enuncia sia la dipendenza sociale della sovrastruttura dalla base, sia al medesimo tempo la differenza qualitativa fra il primo e il secondo modo di definirle. Infatti il "regno della libertà" è assai più di quanto nelle società di classe assolveva le funzioni della sovrastruttura. Il salto ontologico si prepara già nel fatto che nel socialismo le posizioni teleologiche che stanno a fondamento della prassi economica non possono non acquisire, con nettezza sempre maggiore, un unitario e diretto carattere sociale.
La consapevolezza di trovarsi a compiere un esperimento ideale entro circostanze il cui carattere teorico-normativo non è ancora venuto in luce a sufficienza.
Ciò tuttavia non toglie nulla al carattere del salto che viene compiuto socializzando i mezzi di produzione: in primo luogo, si elimina così il fenomeno sociale di singoli o gruppi che riescono a porre le funzioni sociali dell'economia al servizio dei loro interessi privati egoistici; in secondo luogo, e in connessione stretta con il primo punto, si ha la possibilità oggettiva di porre consapevolmente lo sviluppo economico anche al servizio dei superiori interessi del genere umano.
L'intera struttura del diritto nelle società di classe è, per necessità oggettiva, fatta in modo che gli uomini si abituino spontaneamente a comportamenti che noi, seguendo Marx, abbiamo descritto in questi termini: i comandi e i divieti delle leggi devono per lo più e fin dove è possibile limitare le azioni degli altri, non le nostre, che rientrano invece nell'"egoismo economico" di ciascun singolo. L'abitudine ad agire legalmente, quindi, consolida per forza di cose anche l'egoismo della vita quotidiana, cioè la persuasione che il prossimo sia soltanto un limite per la nostra esistenza e prassi.
Noi sappiamo inoltre che, secondo Marx, il diritto borghese resta in vigore - magari con certe modificazioni - anche nel periodo del socialismo. Perciò, affinché l'abitudine alla società ormai così formata, così funzionante, susciti negli uomini - tendenzialmente: in tutti gli uomini - proprio quelle abitudini, deve intervenire nella realtà sociale qualcosa che non sorge spontaneamente per via economica. Occorre, cioè, che vengano rivoluzionati a fondo non semplicemente l'ideologia, ma soprattutto l'essere e l'operare materiali della vita quotidiana.
Per Lenin gli impulsi alla convivenza e alla cooperazione umana che caratterizzano la democrazia socialista non sono affatto orientamenti di vita radicalmente nuovi, formatisi soltanto in quel decorso delle cose, ma invece forze elementari, operanti da millenni, che però solo nel socialismo possono raggiungere la loro autentica universalità sociale. Sta qui quella metodologia di Lenin che profondamente lo unisce a Marx e in maniera altrettanto radicale lo separa da Stalin e dai suoi successori: il legame organico fra riconoscimento della continuità di determinate tendenze storiche e riconoscimento del loro necessario radicale mutamento di funzione nei passaggi e sovvertimenti rivoluzionari. La vera confutazione metodologica di ogni utopismo poggia per l'appunto su questa concezione della continuità nella storia del mondo: per gli utopisti si fa entrare nel mondo qualcosa di radicalmente nuovo che corrisponde alle leggi della "ragione", per il marxismo invece è lo stesso svolgersi storico della società che in determinati punti di svolta si fa nuovo, per il che non occorre che venga al mondo nulla di inedito, nel senso umano più profondo, ma "semplicemente" che determinati atteggiamenti, comportamenti, ecc. umani, che fino a quel momento avevano potuto realizzarsi, inefficacemente, solo come"eccezioni", ora pervengano alla universalità sociale totale.
E' questo il processo che Lenin descrive parlando dell'abitudine. E si tratta appunto della metodologia generale del marxismo.
"Il marxismo ha acquisito il suo significato storico mondiale, in quanto ideologia del proletariato rivoluzionario, perché, invece di respingere le conquiste più preziose dell'epoca borghese, ha al contrario assimilato e rielaborato quanto vi era di più valido nello sviluppo più che bimillenario della cultura e del pensiero umani". (V.I.Lenin, Sulla cultura proletaria, in Opere complete, 31 , Editori Riuniti, Roma 1967, p. 301)
Qui viene in luce, per due versi, il contrasto con importanti ma false correnti contemporanee. Per un verso, con coloro che pensano nella storia ci sia soltanto l'alternativa fra vecchio e nuovo, tra ristagno e nascita di qualcosa che è radicalmente, senza mediazioni, nuovo. Per l'altro verso, e al medesimo tempo, in Stalin e fra i suoi successori teorici, che oggi spesso si immaginano di aver rotto con il "culto della personalità", è largamente diffusa la feticizzazione della continuità. Si crede (o perlomeno si afferma) che determinate conquiste, reali, indubbie, di questo periodo escludono una rottura di principio con i suoi metodi. Ma si tratta di una posizione antistorica, non-marxista, tanto quanto la prima.
Di qui naturalmente, errore oggettivamente non minore, l'illusione di aver proseguito nelle intenzioni più profonde di Lenin.
Per Lenin le decisioni tattiche non costituivano mai qualcosa di primario.
Le decisioni tattiche però erano ai suoi occhi - in termini autenticamente marxisti - sempre e solamente momenti particolari del grande corso storico della specie umana, e solamente per aver condotto lo studio scientifico di questo gli divenne possibile sintetizzare le tendenze storiche del suo presente come fondamenti di una strategia da cui derivare la prassi.
Nei suoi successori scomparve in larghissima misura questo primato delle prospettive storiche.
Le cose comunque andavano, ma di conseguenza nella direzione che davano loro ogni volta le decisioni tattiche del momento.
La priorità di fatto della tattica assunse la veste elevata di teoria marxiana autentica.
Stalin non fu altro che un tattico molto intelligente, estremamente sottile.
La base pratica più importante di questa tattica fu la graduale concentrazione di ogni apparato di potere (partito, Stato e mezzi di comunicazione di massa per l'opinione pubblica).
Dopo la morte di Lenin divenne centrale il problema di chi doveva beneficiare del processo di ricostruzione economica e a spese di chi doveva essere attuato nella pratica. L'ala sinistra (Trodkij, Preobrazenskij) rivendicava una "accumulazione originaria socialista", vale a dire una energica e rapida edificazione della grande industria a spese dei contadini; per l'ala destra (Bucharin), invece, il punto economico centrale della ricostruzione era proprio che l'industria fornisse alle campagne le merci necessarie. (Parola d'ordine "Arricchitevi").
(Stalin) lasciò che le due ali si logorassero reciprocamente e, raggiunto il loro annientamento politico, attuò lui l'"accumulazione originaria socialista" con grande energia, con mezzi estremamente brutali.
Il problema del "socialismo in un paese solo" si ridusse alla domanda se fosse possibile semplicemente esistere e andare avanti.
Perfino Trockij, pur credendo alla prospettiva internazionale, era personalmente molto lontano  dal vedere tale dilemma nella forma di una alternativa così brutalmente semplificata. Eppure fu inevitabile che, in assenza di una teoria dello sviluppo rivoluzionario teoricamente ben fondata, Questa alternativa, pur così grossolana, finisse per essere molto presente fra l'opinione pubblica e nei dibattiti su tali temi.
Stalin, allora, da tattico consumato, spinse al centro dei dibattiti proprio queste conclusioni distorte, che accettare la possibilità della completa edificazione del socialismo in un paese solo  fosse l'unica risposta marxista possibile alla domanda.
La priorità della tattica ha continuato ad aver corso anche al tempo del preteso superamento del "culto della personalità". Chruscev ha criticato spesso e con passione Stalin, ma anch'egli da determinati provvedimenti economici adottati per promuovere la produzione traeva la conseguenza che a un certo stadio della loro riuscita (sopravanzamento degli Usa) sarebbe divenuta d'attualità l'"itroduzione" del comunismo.
Si venne così all'autocrazia di Stalin, alla kolchozazione e dekulakizzazione  del 1929, allo sviluppo forzato dell'industria pesante, ecc.
La base metodologica fu, come abbiamo visto, il predominio assoluto della visione tattica e la piena subordinazione, anzi l'accantonamento, di qualsiasi strategia e, tanto più, di qualsiasi teoria marxista circa la totalità del processo. Sul piano oggettivo la vittoria di Stalin venne facilitata dal fatto che i suoi avversari erano, esattamente come lui, molto lontani dal problema marxiano-leniniano  di dare una fondazione teorica alla propria tattica.
Trockij partiva sempre da prospettive generali che rimanevano retorica rivoluzionaria, Bucharin da considerazioni ricavate per via dogmatica, mai realmente pensate in temini dialettici, le sue erano considerazioni semipositivistiche.
Essi senza acquistare profondità di visione, ne derivavano tendenze alla rigidità, le quali a loro volta agivano in senso negativo sulle loro, in se minori, capacità tattiche.
Di fatto accadde che il distacco fra le scienze prodotto dalla divisione del lavoro fra di esse e l'"autonomia" reciproca fra i loro oggetti, fra le loro leggi rispettive, vennero accolti, con talune variazioni, nell'ideologia del movimento operaio. Per cui l'economia, da base materiale del processo storico unitario, venne trasformata in semplice scienza particolare, più o meno "esatta", cosicché ad esempio Hilferding dichiarò che l'economia marxiana in questa visione metodologica, era conciliabile con qualunque "concezione del mondo". L'economia però, una volta trasformata in scienza particolare, anche se inserita in una concezione complessiva che vuol essere marxista, perde il legame organico con l'insieme del destino storico del genere umano e, allora, isolata sul piano scientifico e allo stesso modo applicata nella pratica, può già essere trattata in termini di pura tattica.
Con il passaggio dell'economia a scienza particolare si ha dunque la base metodologica della sua manipolabilità.
La distorsione di adattamento alla società borghese aveva condotto la socialdemocrazia, attraverso il revisionismo, a rompere del tutto con la dottrina marxiana. La sua distorsione, invece, a strumento della manipolazione brutale staliniana dello sviluppo socialista si compie soltanto nell'attività teorica dello Stalin stesso. Anche se non va dimenticato che già prima Bucharin, con il suo lavorio di tono positivistico, aveva per sempre trasformato il concetto marxiano di forza produttiva in quello di tecnica.
Per Bucharin la schiavitù dell'antichità sarebbe stata effetto dell'arretratezza tecnica, mentre Marx esplicitamente fa risalire questa arretratezza appunto al fatto che base economica di tale formazione fosse la schiavitù.
Fu proprio questa metodologia (considerare l'economia una scienza "esatta" scissa dal grande processo storico del divenir-uomo dell'uomo) a offrire l'appiglio per costruire un sistema di manipolazione burocratica dove la società andava verso il socialismo sotto l'apparenza dell'ortodossia nel campo economico.
Il fatto economico base della crescita della società, cioè la tendenziale, costante diminuzione del lavoro socialmente necessario per la riproduzione della vita dell'individuo e la crescita tendenzialmente altrettanto costante del plus-lavoro, che - tramite mediazioni diverse nelle diverse formazioni - può anche servire allo scopo sociale generale della crescita della personalità, questo fatto è per Marx anch'esso un'immutabile legge del progresso socio-economico.
La socializzazione dei mezzi di produzione rende impossibile l'appropriazione del pluslavoro mediante possesso personale, ma non sopprime affatto questa struttura di base della riproduzione economica; semplicemente introduce forme radicalmente nuove di mediazione che rendono possibile l'utilizzazione socialmente progressiva del pluslavoro.
Nella Critica al programma di Gotha Marx , conformemente, prende netta posizione contro l'idea volgarizzante di Lasalle  secondo cui per l'operaio socialismo significherebbe appropriazione del "reddito integrale del lavoro". In primo luogo, sottolinea Marx, il pluslavoro deve innanzi tutto coprire per intero i costi necessari a garantire e sviluppare la produzione stessa. Ma inoltre esso deve far sì che risultino coperte le spese non economiche per l'amministrazione della società e i suoi bisogni generali (scuola, sanità, ecc. E Marx giustamente osserva che queste nel socialismo vengono a incrementarsi molto più che nel passato). Lo stesso vale per il fondo a favore degli inabili al lavoro: Tali necessità definiscono secondo Marx la cornice economica del consumo individuale, dell'autoriproduzione individuale dei lavoratori nel socialismo.
Stalin non fa dunque che mettere sulla testa la costruzione del tutto fallace di Lasalle: questa volta per poter dichiarare non esistente nel socialismo la categoria del pluslavoro.
Stalin semplicemente parifica i momenti mediati dall'economia con quelli immediati. Ambedue  falsificano i fatti economici fondamentali dell'autoriproduzione sociale. Lo fanno a prima vista in maniera antitetica, ma questa antitecità poggia per tutt'e due sul medesimo sistematico ignorare le mediazioni socio-economiche reali, nel tentativo di individuare le differenze fra capitalismo e socialismo nel processo economico immediato, dove non sono.
Nella prefazione a Per la critica dell'economia politica le forme ideologiche vengono definite come il medium sociale che serve a portare alla coscienza i problemi prodotti dallo sviluppo dell'economia e a lottare in essi. In questa definizione colpisce la duplicità della sua interna dialettica. Da una parte i conflitti da risolvere nascono in virtù della normativa fattasi oggettiva per cui vengono aperti dalle contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione, dall'altra parte e contemporaneamente ogni ideologia è un complesso di mezzi attraverso cui gli uomini vengono messi in grado di prendere coscienza dei conflitti così sorti e di combattere in essi praticamente.
Ciò viene a dire che, agli occhi di Lenin, l'eliminazione dell'analfabetismo era un problema che scaturiva bensì oggettivamente dalla condizione economica della Russia, ma la sua ideologica soluzione, giacché passava attraverso la coscienza dei lavoratori, finiva per essere oggetto della loro stessa prassi fattasi consapevole. Quindi, una volta spezzato il dominio della classe sfruttatrice  socializzando tutti i mezzi di produzione, risultava aperta la strada per porre il popolo lavoratore nello stato di chi porta da se a soluzione tutti i problemi della propria vita quotidiana.
La scolarizzazione,  - per esempio -, da sovrastruttura prodotta per così dire automaticamente dallo sviluppo economico, può in tal modo diventare fattore di ampliamento e approfondimento della vita individuale di ogni singola persona, può diventare una energia sociale creata dall'uomo per sé, la quale appunto nella sua connaturata socialità fa sì che la riduzione del tempo di lavoro necessario per la propria riproduzione metta ciascuno in grado di produrre, al fine di costruire e perfezionare se stesso, ciò che Marx chiamava il "superfluo" e farlo proprio.
Questi risultati sociali possono ottenersi solo quando la loro produzione ad opera dell'attività sociale dei singoli simultaneamente sviluppi questi ultimi a personalità, simultaneamente promuova, arricchisca, renda più profondo il loro farsi individualità.
L'osservazione di Marx secondo cui "regno della libertà" significa che lo sviluppo delle capacità umane diviene fine a se stesso, implica che quel tipo di prassi va oltre la sfera economica (oltre il "regno della necessità" pur ineliminabile come base), il che nella Critica al programma di Ghota viene formulato in questi termini: il lavoro diviene non soltanto un mezzo per vivere, ma il primo bisogno della vita.
Naturalmente l'estensione, l'intensità, il contenuto. l'indirizzo, ecc. anche di questa prassi sono ogni volta determinati e circoscritti dal grado di sviluppo economico della rispettiva condizione sociale.
Appunto perché, nell'ammontare totale del tempo di lavoro socialmente necessario, la quota di pluslavoro  socialmente liberato dalla rivoluzione proletaria per essere usato a tale scopo è un prodotto dello sviluppo economico, la rivoluzione russa, nata in maniera "non- classica", venne a trovarsi oggettivamente in grandi difficoltà.
Fin da quando al centro della prassi vi fu nell'immediato la conquista e la difesa della rivoluzione, l'entusiasmo, esteso e profondo fra le masse popolari insorte, potè temporaneamente nascondere questa condizione problematica.
Questa spontaneità delle masse, in apparenza irresistibile, venne, in termini nell'immediato ancora organizzativi, perfezionata, consolidata, guidata verso obiettivi stabili, mediante il movimento dei consigli.
Sorto a Parigi durante la Comune del 1871, risvegliatosi spontaneamente in Russia nel 1905, esso divenne la nuova sintesi della democrazia socialista durante e dopo il 1917.
Il movimento consiliare sorse dappertutto spontaneamente e passo passo andò acquistando consapevolezza sempre maggiore.
Il periodo di Stalin si servì della controversia fra Lenin e Luxemburg, - dopo averla deformata in termini di manipolazione demagogica, spingendo cioè quello che chiamò 'agire consapevole' ad essere l'esclusione assoluta della spontaneità, - per sminuire l'importanza sociale di quest'ultima.
Lenin però, che viene di solito presentato come l'autorità di questo atteggiamento sbagliato, burocratico, a dire il vero vedeva nella spontaneità "la forma embrionale della coscienza"
Il fatto è che la conoscenza effettiva della realtà oggettiva, del campo di manovra che essa effettivamente offre, può da tali movimenti spontanei svilupparsi fino al massimo delle possibilità soggettive e oggettive, per poi trasformarsi sempre più in coscienza dei fini, se e solo se negli uomini della vita quotidiana diviene reale e vivo questo collegamento fra gli immediati interessi del giorno e le grandi questioni generali che li riguardano.
La rivoluzione del 1917 - grazie alla circostanza che fosse Lenin a dirigere il partito comunista - fu capace di fissare questo cammino dalla quotidianità ai problemi decisivi della società e dello Stato, cosicché il governo dei consigli che in quel tempo esisteva non perse il proprio radicamento nella quotidianità della vita popolare.
Sebbene la fase acuta della guerra civile portasse a un'altezza notevole questi aspetti del movimento consiliare, allo stesso tempo però i fattori economici derivanti dall'arretratezza dell'impero russo, anche se di tanto in tanto sembravano dimenticati, in realtà finirono per scalzare sotterraneamente la spontaneità consiliare, per spingere verso la deformazione burocratica.
Lenin vide bene questo pericolo fin dall'inizio, quando decise la svolta che introduceva la Nep e rifiutava sul piano teorico e pratico il comunismo di guerra.
Egli vide - e qui stava secondo lui il principale pericolo sociale insito nella burocratizzazione - che la spontanea (anche se compresa e consapevolmente e correttamente promossa dal partito) unità rivoluzionaria del popolo, l'alleanza fra operai e contadini per la loro comune liberazione dal giogo del capitalismo imperialistico, entrava su un terreno minato, con il pericolo di una rottura.
Il semplice ritorno allo slancio veemente e spontaneo del sistema consiliare come nei momenti acuti della rivoluzione era oggettivamente impossibile. Il lavoro di consolidamento e avanzamento pacifico della democrazia socialista poneva alle masse lavoratrici problemi di qualità del tutto nuova, per risolvere i quali non era sufficiente l'entusiasmo rivoluzionario, anche quello più sincero e risoluto.
Per la repubblica sovietica non si trattava di semplice ricostruzione economica; occorreva invece spingere l'economia fino a un livello inedito, tale da costituire la base adeguata per edificare una società socialista in ogni suo aspetto.
Nella realtà sociale, però, è nettamente diverso, qualitativamente diverso, se è una generazione ad essere tenuta impegnata per anni (che possono magari arrivare a un decennio) o se sono più generazioni  che vengono chiamate a concentrare il loro interesse primo, i loro sforzi decisivi, non nella vera e propria, genuina, edificazione del socialismo, ma nella realizzazione materiale delle sue sole premesse economiche.
Quindi la vera alternativa storica per le persone allora attive era in concreto questa: se associare, e in qualche modo, questo problema centrale, ineludibile per il socialismo perché lo fonda oggettivamente, con quelle forme di sviluppo che - a quel dato stadio economico, da quest'ultimo delimitate nello spazio reale - rappresentavano le precondizioni sociali di una democrazia socialista, oppure se, in nome del mero progresso economico, queste non dovessero essere respinte in secondo piano, anzi, non dovessero divenire un momento messo proprio da parte.
Abbiamo fatto cenno ai problemi che fecero venire alla luce del giorno le battaglie intestine fra i successori di Lenin, abbiamo già rilevato come questa alternativa non fu tirata in campo da nessuno dei gruppi in lotta, i quali invece sollevarono soltanto questioni economiche, che ammettevano esclusivamente una regolazione statale centralizzata, "dall'alto".
Al contrario, come abbiamo anche detto, per Lenin l'ultimo tratto di vita, entro i limiti in cui fu ancora in grado di influire teoricamente e praticamente sul corso delle cose, al centro del suo "che fare?" fu sempre per l'appunto questa alternativa.
E abbiamo inoltre cercato di mettere in luce un punto che ora forse può risultare più chiaro, cioè che la posizione assolutamente centrale della tattica in quella particolare prassi sociale e statale era una conseguenza necessaria di questo orientamento degli eredi di Lenin.
Per cui abbiamo visto anche che, manifestamente, sotto questo profilo Stalin rientra senz'altro nel gruppo e per nessun aspetto che abbia a che fare con tale complesso di questioni sia lecito dirlo perfezionatore dei metodi di Lenin.
Sarebbe uno dei più importanti compiti ideologici di questo nostro tempo di transizione, nei nostri sforzi di restaurare il marxismo autentico, di contestare e criticare punto per punto questa legenda storica costruita con sistematicità da Stalin e dal suo apparato
In questa direzione fino a oggi non si è in pratica fatto nulla quantunque il tema sia (o forse proprio perché è) di estrema importanza, essendo stato rimodellato il metodo di Lenin e per suo tramite quello di Marx in qualcosa di diametralmente opposto ma nell'apparenza accuratamente coltivata di una coerente, assoluta continuità.
Occorre raccogliere insieme e inquadrare in un contesto metodologico sistematico le tesi staliniane che caratterizzano la realtà del nuovo metodo così da mostrare come su tale base venne introdotta e rinsaldata l'onnipotenza della tattica, il suo dominio teorico.
Il primo passo in tale senso fu la semplificazione e anzi la volgarizzazione dei principi di Marx, Engels e Lenin.
E' a questo che mira la staliniana priorità della tattica e la corrispondente volgarizzazione generale del metodo, dei risultati del marxismo, il loro appiattimento sui bisogni giornalieri.
Per radicare stabilmente la volgarizzazione della dialettica, occorreva escludere il fondante e fecondante influsso della dialettica di Hegel sul marxismo. Ora per argomentare "teoricamente"tale esclusione, Zdanov fece figurare la filosofia hegeliana come una risposta reazionaria alla Rivoluzione francese.
Vediamo così, sul piano puramente teorico, fin dove possa arrivare la tendenza a volgarizzare: il marxismo doveva risultare qualcosa di "radicalmente nuovo", il più possibile privo di precursori, privo di collegamenti con la precedente storia del mondo.
La coerenza interna del metodo di Stalin: a un certo complesso di fatti si reagisce tatticamente così o così, la teoria ha semplicemente la funzione di presentare a posteriori la rispettiva decisione tattica come risultato necessario del metodo marx-leniniano. In questo modo l'ideologia non può che trasformarsi nel campo primario della manipolazione e perde quell'enorme spazio di manovra, quella contraddittoria mutevolezza e irregolarità che aveva in Marx in quanto mezzo per "combattere" nei conflitti sorti sul terreno economico-sociale.
Una ideologia risulta così, da un lato, il prodotto meccanico di una data situazione economica, dall'altro lato, una materia senza contenuto proprio, che infatti può essere reinterpretato a piacere.
(per Marx) La scomparsa di una ideologia è un processo socialmente determinato, ma che, all'interno di tale determinismo, viene mosso, spesso con irregolarità, dallo sviluppo sociale, ed è quindi - relativamente - specifico. Per Stalin invece l'ideologia viene "liquidata" e basta, cioè è semplicemente oggetto di una dinamica sociale: per l'appunto la manipolazione staliniana.
La spinta intrinseca alla manipolazione ci si rivela nella maniera più evidente davanti alla questione vitale dello smantellamento staliniano della struttura consiliare dello Stato socialista.
 In precedenza abbiamo tentato di mettere in luce come un connotato fortemente innovativo del sistema consiliare fosse proprio il superamento sociale dell'idealismo del citoyen, caratteristico della società borghese. Il cittadino attivizzato - secondo l'essenza del socialismo - dalla pratica democratica dei problemi generali della società non doveva più essere una entità "ideale" separata dall'uomo reale (l'homme delle costituzioni democratiche), alla quale entità corrispondeva nella vita quotidiana, come sua fondazione, l'uomo materiale, egoista, della società civile, ma al contrario doveva essere un uomo teso a realizzare materialmente, fattualmente, in cooperazione collettiva con i suoi consimili la propria socialità nella vita quotidiana, dalle immediate questioni del giorno fino agli affari di Stato generali.
La soluzione tattica dei problemi di quel tempo perseguita da Stalin fu la smantellamento radicale, burocratico, di ogni propensione che potesse trasformarsi in atto preparatorio di una democrazia socialista. Il sistema dei consigli cessò in pratica di esistere. I massimi organi dello Stato, rimasti - formalmente - democratici, ricevettero un assetto che li faceva straordinariamente simili, salvo il sistema del partito unico, ai parlamenti delle democrazie borghesi; i gradini inferiori si ridussero a organi di amministrazione locale, eletti in modo analogo.
Svanirono così tutti i tentativi degli ultimi anni di Lenin, i suoi preparativi ideologici per costruire una reale democrazia socialista. La partecipazione alla vita politica, alla vita sociale in genere, poteva ormai - nel migliore dei casi - indurre i singoli all'idealismo del citoyen. La tendenza imperante nella vita dei cittadini divenne universalmente la burocratizzazione della prassi politica e amministrativa.
Va sottolineato: la democrazia socialista, non il socialismo in generale. Si può e si deve, infatti, riscontrare e criticare questo restringimento del problema in tutti coloro che si sentirono vocati ad adire l'eredità di Lenin. Al medesimo tempo, però, va precisato che anche Stalin, cui le lotte intestine di partito consegnarono il governo per decenni, riuscì ad ottenere risultati estremamente importanti per un aspetto decisivo, ineludibile, dello sviluppo del socialismo, quello della costruzione di una base economica che mirasse a superare gli svantaggi della sua genesi "non classica".
Proprio quando si critica aspramente, come stiamo facendo ora, il periodo staliniano - oltre che per molti fatti specifici - per i suoi punti centrali, non si devono perdere di vista le conseguenze generali, attinenti la storia del mondo, di questo coerente mantenimento e sviluppo delle oggettive basi economiche del socialismo.
Si arriverebbe a un giudizio del tutto distorto se non si dicesse al medesimo tempo che il mondo deve prima di tutto all'Unione sovietica se l'Europa non si è trasformata in un Reich hitleriano.
Possiamo comunque dire che quel recupero sull'avvio "non classico" che negli anni venti fu da più parti definito "accumulazione originaria" è ormai vicino a concludersi (1968). Ed è ovvio che il processo di cui qui si tratta ha soltanto il nome di quella "accumulazione originaria" di cui a suo tempo Marx descrisse e chiarì le dinamiche. (http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/01/la-cosiddetta-accumulazione-originaria.html)
Marx ci dà l'analisi della storia e della sua normativa (dell'accumulazione originaria), come si sono presentate nella realtà inglese. E' dunque chiaro che, se si fosse trattato della [normale] costruzione del socialismo in un paese ad alto sviluppo capitalistico, non sarebbe venuto in discorso il confronto storico con quella transizione.
Nel processo storico russo, invece, si ha che un assetto arretrato, ma nella sua essenza economica già capitalistico, deve portarsi a un livello di produzione tale da essere adatto a funzionare da base di un sistema economico socialista. Per cui la violenza, il cui ruolo è innegabile, vi assume una funzione fondamentalmente diversa: è certamente, spesso, un veicolo per distruggere rapporti di produzione primitivi (la kolchozazione), ma il suo scopo fondamentale resta quello di agire direttamente affinché si formino condizioni di produzione quantitative e qualitative fortemente evolute che rendano possibile sul piano economico oggettivo la reale costruzione del socialismo.
Qui - in contrasto con la genesi del capitalismo - l'impiego della violenza è sempre dominato da intenzioni meramente di tipo economico, ma una volta compiutasi tale fondazione i momenti specifici del socialismo. che non sono più soltanto economici, finiscono - di nuovo in contrasto con l'altro processo - per esercitare i loro diritti di momenti sociali. Nel capitalismo, cioè, si instaura un processo riproduttivo, nel socialismo invece ci si troova davanti a complicati compiti nuovi da governare consapevolmente.
Nel capitalismo, perfino in quello molto sviluppato, tutto ciò che usiamo definire cultura è solo un sottoprodotto dell'economia che si dispiega e quindi per forza di cose rivela disparità permanenti rispetto a quest'ultima.
Al contrario, l'"accumulazione originaria" del socialismo, pur nel modo staliniano di realizzarsi, ha tutto sommato rispettato il principio della promozione sociale (cioè non determinata dall'economia) della cultura.
Cioè che il risultato del passaggio alla formazione capitalistica è, come abbiamo tratteggiato poco sopra rifacendoci a Marx, per legge spontanea il dominio senza residui dell'economia capitalistica, per così dire dell'economia pura, autonoma, con le parole di Marx stesso, del "regno della necessità".
Il socialismo invece, si distingue da tutte le formazioni precedenti per il fatto che, mentre in queste ultime è il mero sviluppo economico che produce con un certo automatismo interno le condizioni delle fasi successive, addirittura delle formazioni sociali successive (persino i tipi umani che per forza di cose saranno predominanti sono prodotti spontanei della dialettica interna all'economia), ciò non vale più per il passaggio del socialismo alla fase evolutiva superiore, al comunismo.
Abbiamo già accennato che Marx stabilisce bensì che l'economia ("il regno della necessità") è la base inevitabile del comunismo ("il regno della libertà"), in tal modo mettendo per l'appunto molta distanza fra sé e ogni utopismo, ma al medesimo tempo egli dice, già all'inizio, che il secondo è "al di là" del primo.
Gli uomini nello stadio del "regno della libertà" eseguono il lavoro "nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa". Marx qui indica, con piena ragione e con chiara intelligenza delle cose, nella totalità reale dei modi umani di lavorare un problema centrale della evoluzione del lavoro.
Adattare la produzione stessa alle condizioni più adeguate alla natura umana e più degne di essa. Una tale finalità e la sua traduzione in prassi non possono che travalicare i principi dell'intera sfera economica, né cambia le cose il fatto che anche soltanto la pensabilità reale di tale adattamento presuppone (come sua base, per usare la terminologia di Marx) un'economia ad altissimo sviluppo.
Da un'angolazione un po' diversa il medesimo tema viene affrontato nella Critica al programma di Gotha. Quando parla delle condizioni del comunismo ("da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni") Marx, come sostanza della svolta che si verifica nella condotta di vita delle persone, mette al centro il fatto che "il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche primo bisogno della vita".
Gli "alleggerimenti", gli "abbellimenti", ecc. del lavoro, fatti per aumentarne la produttività, non hanno nulla a che vedere con questo problema. Sono abili e spesso efficaci adattamenti delle persone a un processo lavorativo un po' modificato in alcuni dettagli, ma, nel fondo, deciso esclusivamente dall'economia.
Per un verso, rileva il generale carattere lavorativo anche delle attività massime degli uomini, anche di quelle non più economiche: "Un lavoro realmente libero, per esempio comporre, è al tempo stesso la cosa maledettamente più seria di questo mondo, lo sforzo più intenso che ci sia". E, in polemica con Adam Smith, integra questo concetto, in riferimento all'ambito complessivo del lavoro, nei termini seguenti: "Il lavoro considerato come sacrificio e perciò come creatore di valore, come prezzo che viene pagato per le cose e che perciò da loro un prezzo a seconda che costino più o meno lavoro, è una determinazione puramente negativa". (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica della economia politica, II, cit. pp 278, 279.) Non va però dimenticato che, quale che sia l'ambito, la caratterizzazione in negativo non può non essere valida per ogni lavoro se definito in termini economici.
"Il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione di lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico, ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro" (Ivi, p. 402. Qualche riga più avanti, dopo questo passo, Marx chiama "superfluo" il tempo di lavoro eccedente il tempo di lavoro socialmente necessario per l'auto produzione soltanto economica della società.) Dove, naturalmente, il termine "superfluo" acquisisce un contenuto reale soltanto come contrario alla sensatezza puramente economica, come lavoro che semplicemente non serve più alla reale autoriproduzione materiale della società e dei singoli che la formano; la sua superfluità economica non lo rende affatto superfluo in senso sociale, al contrario ne fonda l'utilità sociale generale, anzi l'indispensabilità.
Affinché il lavoro divenga "il primo bisogno della vita", una delle premesse importanti è la liberazione degli uomini dalla "subordinazione asservitrice" alla divisione del lavoro. (K.Marx, Critica al programma di Gotha)
Questo asservimento, però, non è affatto un residuo di condizioni primitive che l'economia moderna, con la sua perfezione tecnica, saprebbe benissimo superare, ma al contrario è in un primo momento un prodotto dell'economia giunta ad un alto grado di sviluppo, la quale se ne serve per i suoi scopi nelle forme più diverse, ma poi è una dinamica che non può non investire sempre più anche le sfere della scienza, dell'arte, ecc.
Marx non si limita semplicemente a contrapporre all'economia le tensioni che vanno al di là di essa. Al contrario, egli vuole dimostrare che la preparazione sociale del comunismo (per l'appunto il socialismo come formazione economica) può aver luogo realmente solo allorché in una economia assai sviluppata sul piano della produzione iniziano ad agire impulsi sociali di questo tipo, tale cioè che siano per loro natura capaci e ora nella condizione di modificare a fondo determinate tendenze, fino a quel momento dominanti, dell'economia, ovviamente senza mettere in pericolo il funzionamento di questa nella sua totalità, ma all'opposto promuovendolo.
Abbiamo visto che Marx pone un particolare accento su due momenti: l'adattamento del modo dei processi economici alle condizioni più adeguate alla natura umana e più degne di esse e, connesso molto strettamente a questo primo aspetto, il superamento del carattere asservitore della divisione del lavoro. Non c'è bisogno di dire che in ambedue i casi è impossibile introdurre tali cambiamenti di colpo, per decreto. Devono essere il risultato di lunghi processi sociali, in cui a poco a poco, facendo leva sul rispettivo stato dello sviluppo economico, vengono introdotte modificazioni che possono favorire la realizzazione sia oggettiva sia soggettiva di tali tendenze.
Perché l'intera storia dell'umanità di aspirazioni simili di prassi umana che conducesse alla promozione del vero essere-uomo dell'uomo, alla sua piena e consapevole genericità, ce ne sono sempre state sotto forma di casi singoli, eccezionalità, aneliti che hanno portato in vicoli ciechi, ecc. ma, essendo in società classiste, non riuscivano mai  ad arrivare ad influire sull'azione contraria esercitata dall'economia ogni volta dominante.
Potranno invece diventare bene comune del genere umano solo quando la vita media della quotidianità (anzitutto il lavoro, la prassi economica) sarà oggettivamente, socialmente, strutturata a promuovere queste tendenze negli uomini, non a reprimerle, non a piegarle in negatività delle specie più diverse, come per l'appunto fino ad oggi è accaduto  e accade in tutti gli ordinamenti sociali.
Quando l'uomo nel suo agire sociale si creerà le condizioni che lo rendono nella realtà autenticamente uomo, questo periodo - appunto, il socialismo come formazione sociale - si trasformerà nel preludio di quella grande svolta che Marx ha chiamato fine della preistoria dell'umanità.
In contrasto con l'idealistico citoyen della democrazia borghese, il soggetto di quella socialista - perfino nel momento alto degli inizi rivoluzionari - è l'uomo materiale della quotidianità. Ovviamente non come canonizzazione dell'homme materiale tratto dalla struttura dualistica - insuperabile in quel contesto - della vita degli uomini nella società borghese. La democratizzazione socialista, come forma sociale del passaggio al "regno della libertà", ha proprio il compito di superare questo dualismo.
(Con) Stalin, dando saldezza definitiva alla regolazione burocratica, in pratica (demolendo) l'intero sistema consiliare, andò perduto il carattere di soggetto delle masse lavoratrici nella vita della società, le quali divennero nuovamente oggetti regolamentati dalla burocrazia, che poi andò costruendosi sempre più compatta e sempre più onnilaterale, in vista della totalità dei problemi della vita concreta.
L'aspetto di maggior rilievo è che l'autoattività delle masse è praticamente del tutto scomparsa non soltanto nella cosiddetta grande politica, ma anche - anzi prima di tutto - nella regolazione della propria vita quotidiana.
Questa metamorfosi sotto Stalin venne dichiarata condizione normale del socialismo. E la (pretesa) base teorica di questa prassi, la prassi della manipolazione brutale, fu procurata con il già ricordato e spesso criticato (mai a fondo però) dogma storico del socialismo manipolato, quello secondo cui durante la dittatura del proletariato la lotta di classe non può che inasprirsi. Stalin cioè trasformava la condizione e il modo d'agire delle fasi acute della guerra civile nel metodo pratico di ogni periodo, anche di quello  in cui la guerra civile non era ormai più, storicamente, all'ordine del giorno.
Insufficiente si è rivelata al XX congresso e in seguito un'altra critica al periodo staliniano: la denuncia del cosiddetto culto della personalità. Anche in questo caso la critica in sé non era sbagliata, era insufficiente. Così come insufficiente fu integrarla sostenendo che i metodi del potere staliniano erano stati pieni di violazioni della legalità.
Con tali metodi non si poteva affrontare in maniera soddisfacente la crisi di fatto che vigeva e che era a tutti visibile al momento della morte di Stalin. Anche in questo caso, così come nelle lotte per il potere dopo la morte di Lenin, si trattava di un punto di portata generale, di grande peso per la collettività, e che in sostanza aveva fondamento economico: la fine della cosiddetta accumulazione originaria.
Una volta raggiunto, comechessia, un dato livello produttivo, non poteva non venire spontaneamente al centro dell'interesse delle masse la richiesta della qualità, di un vero sistema dei servizi per i consumatoti,ecc. insomma vennero in primo piano problemi socio-economici rispetto a cui i metodi che fin lì avevano in qualche modo parzialmente funzionato erano destinati a fallire.
Era diventato sempre meno possibile, sul piano sia economico che politico, concentrare lo sviluppo produttivo in pratica del tutto o almeno in gran parte sull'industria pesante. Il consumo orientato all'ascetismo può, in dimensione sociale, essere politicamente tollerabile nel migliore dei casi come fatto transitorio. E' chiaro perciò che i metodi della pianificazione accentrata per via burocratica, manipolata dal centro, i quali nei casi da noi in precedenza evidenziati erano riusciti a funzionare con successo, a costruire un apparato industriale relativamente, qua e là, molto avanzato, ora, posti di fronte ai problemi economici dell'insieme, erano destinati a incepparsi.
Quanto maggiore è l'esattezza con cui un apparato di pianificazione viene costruito con criteri burocratici centralizzati, tanto maggiore è la difficoltà con cui esso riesce ad adeguarsi, sia quantitativamente che qualitativamente, ai bisogni del consumo, anzi queste carenze vengono in luce già quando si tratta di approntare i mezzi produttivi ora appropriati. In questo caso non può applicarsi il modello perfettamente funzionale alla produzione bellica, perché il "criterio" di controllo lì appropriato, nella vita quotidiana civile non riesce a funzionare.
Il punto è piuttosto di far luce sui termini in cui, divenute necessarie le riforme economiche, per le società socialiste viene ad aprirsi il problema della propria democrazia in quanto prospettiva reale.
Al medesimo modo di Lenin il quale, al momento di introdurre la Nep, venne a trovarsi a un medesimo nodo di problemi teorici.
Per un verso sembra essersi completamente bloccato il motore sociale dei movimenti consiliari, cioè la spinta delle larghe masse a spostare i loro fatti collettivi dal basso, dove sono parte diretta dell'esistenza quotidiana di ogni persona, in alto, là dove le grandi questioni della società sfociano in iniziative, reazioni, ecc. di massa.
Anche quando sembrano essere rimaste giuridicamente in vigore, le forme vuote di soluzione sociale dei problemi suscitano nelle masse profonda indifferenza, magari mascherata da adattamento, e talora si arriva fino all'apatia.
Per l'altro verso, è vero che non manca mai una "opinione pubblica", la quale, pur esprimendosi appieno, in sostanza, solo nei discorsi privati, prende posizione su tutti i problemi della vita sociale, anche se in maniera non ordinata, tanto più che, essendo parecchio spontanea, solo per caso passa attraverso il confronto della discussione.
Mobilitare l'opinione pubblica, che oggi - se considerata in termini di dinamica sociale - è prevalentemente "muta", "clandestina", e portarla a essere una prassi pubblica sistematica mi sembra il primo passo verso una democratizzazione socialista.
Il lungo periodo del sistema staliniano ha per forza di cose avuto effetti profondi sull'atteggiamento delle persone, soprattutto quanto alla possibilità di un proprio intervento personale nella società. Mentre il movimento consiliare che sorse in maniera esplosiva e spontanea in quelle rivoluzioni abituò le masse ad agire autonomamente negli affari pubblici.
Al tempo del dominio di Stalin si andò nella direzione tutta opposta, e in qualche modo ci si è abituati. La sottolineatura dell'abitudine in Lenin è tanto vera e illuminante proprio perché contiene questo doppio volto. Implica cioè un'alternativa: l'abitudine può essere un elemento sociale di profonda trasformazione, ma utile o nocivo a seconda della cosa cui abitua.
Quando la priorità staliniana della tattica divenne manipolazione burocratica e abbracciò e compenetrò l'intera società, le persone che ne furono investite, attivamente o passivamente, finirono, quanto alle forme della propria condotta di vita, per abituarsi a tale ordinamento.
La punta di queste osservazioni non è rivolta contro la disciplina in generale. Senza di essa, infatti, non sarebbe possibile nessuna prassi collettiva. Decisivo però - e proprio nel senso qui importante del formarsi collettivo dei tipi umani e dei tipi di prassi - è il modo differente, anzi antitetico, in cui la disciplina può nascere e funzionare: se, cioè, colui che si assoggetta alla disciplina ha partecipato attivamente al formarsi delle decisioni, se dopo egli esegue disciplinatamente la decisione con la possibilità di criticarla, di partecipare a correggerla, a trasformarla, magari a cassarla, oppure se si tratta semplicemente di esecuzione disciplinata, cieca e muta.
Accanto a quello ora descritto, si è avuto però anche il tipo, con esso contrastante, che utilizzava la posizione sociale (magari anche) allo scopo di elevare il proprio personale tenore di vita con mezzi leciti, ma pure con raggiri e talvolta con mezzi illeciti.
Com'è ovvio, qui non centra la legittima aspirazione ad elevare il proprio tenore di vita con il proprio lavoro, ma solo la pratica di chi si adopera a utilizzare per tali fini le lacune, l'interpretabilità, ecc. delle leggi oppure determinate vecchie abitudini ancora esistenti o nuove abitudini avanzanti.
Ci importa solo e soltanto di indicare quelle tendenze sociali soggettive che sono state conseguenza necessaria dell'ordinamento produttivo impostato da Stalin, dell'abitudine ad esso. Il nostro obiettivo primo è stato, da una parte, di distinguere questa critica al sistema staliniano dalle critiche borghesi di ogni sorta, le quali - già a partire dall'introduzione della Nep - hanno continuato a dire che il socialismo andava realizzando sul piano socio economico qualcosa di analogo al capitalismo, ovverosia che stava nascendo su scala mondiale la "società industriale" entro cui le diversità fra queste due formazioni sociali sono destinate a scomparire. Al contrario, dall'essere economico di tutti gli Stati socialisti risulta chiaro (ed è un fatto al quale abbiamo già ripetutamente accennato) che la socializzazione dei mezzi di produzione crea, per forza di cose, rapporti oggettivi che restano qualitativamente differenti da quelli che si hanno nelle società classiste.
Dall'altra parte, però, una più puntuale e approfondita analisi delle società socialiste ... mostrerebbe che esse hanno bensì oggettivamente liquidato, reso impossibile ogni sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, e tuttavia il loro sviluppo socio-economico è stato tale che la vita economica pratica non è (non è [stata]) in grado di produrre quelle situazioni, tendenze, in seguito alle quali i lavoratori, con i mezzi della riproduzione economica della propria vita individuale e di quella della società, trasformino quest'ultima nella sua totalità in termini tali che essa, per quanto concerne la propria soggettività, vada svolgendosi nel senso di rendere in futuro i lavoratori stessi adatti a divenire uomini liberi della formazione sociale comunista.
Il dubbio circa l'oggettivo carattere socialista del socialismo esistente rientra, quindi, nella rubrica delle insensatezze e calunnie borghesi. La costruzione e la rifinitura del carattere socialista soggettivo della società restano invece il grande compito, presente e futuro, di tutti coloro che accettano francamente il socialismo come unica via d'uscita dalle contraddizioni del capitalismo.
A guardare le cose in termini obiettivi, abbiamo dunque la situazione seguente: L'ordinamento economico e sociale introdotto al tempo di Stalin è stato bensì in grado di superare di gran lunga, in termini economici immanenti, la inaudita arretratezza sul terreno economico stesso, e lo ha fatto anche senza intaccare la propria struttura socialista di fondo.
 Non è stato invece in grado di rimuovere l'assetto da formazione capitalistica, che riesce a ottenere uno sviluppo fino a ora inimmaginabile delle forze produttive e con ciò fornisce una base oggettiva per il "regno della libertà", per il vero divenir uomo dell'uomo, lo fa però in maniera tale da frapporre nella vita concreta a questo divenir uomo ostacoli sociali oggettivi insormontabili.
La base economica di questo rapporto umano universale è stata messa in luce da Marx già nel Manifesto comunista. Dove a proposito della prassi della borghesia come classe dominante, prassi obbligatoriamente prodotta dall'economia capitalistica, si dice: "Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio", e poi: "Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati"
La domanda che, nella prospettiva del divenir-uomo dell'uomo, viene posta alla rivoluzione socialista perciò, come in ogni passaggio da una formazione sociale a un'altra superiore, è sempre una: come vengono socialmente prodotti quegli uomini che nella loro prassi spontanea saranno in grado di assolvere i compiti che, dato questo cambiamento, socialmente nascono?
Il passaggio dal capitalismo al socialismo esibisce modi, radicalmente diversi, che sembrano addirittura paradossali. Da un lato, qui la svolta è di parecchio più profonda. Nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo si trattava, in fondo, semplicemente di andare da una società classista sfruttatrice, ad un'altra che poggiava anch'essa sullo sfruttamento, anche se a un livello più alto di produttività. Adesso invece il punto è la revoca di ogni sfruttamento.
Dall'altro lato, quel precedente passaggio ha provocato una svolta radicale in tutti i campi della produzione materiale (basta ricordare, il cambiamento nella divisione del lavoro che intercorre fra corporazione e manifattura), mentre adesso, soprattutto quanto agli aspetti tecnici della produzione, non si ha alcun cambiamento  che sia anche lontanamente paragonabile con quella svolta. (Una fabbrica costruita per il capitalismo può in definitiva lavorare tranquillamente, senza grandi cambiamenti, anche nel socialismo e viceversa.)
Certo, si è avuto un sovvertimento, la socializzazione dei mezzi di produzione. ... Tuttavia, essa sola non riesce di per sé a riplasmare materialmente il modo di lavorare e quindi il modo di vivere la quotidianità da parte delle persone, tanto da produrre quel mutamento radicale che è ormai necessario nel rapporto dell'uomo con il proprio lavoro e con i propri umani congeneri.Il che poi costituisce per l'appunto la premessa dello specifico svolgersi del socialismo come fase di passaggio, di preparazione, al comunismo.
Si dispiega, così, davanti a noi la situazione paradossale cui già più volte abbiamo fatto cenno: la produzione materiale - naturalmente non senza la mediazione delle risposte ideologiche ad essa - anche in questo caso è obbligata a produrre un cambiamento negli uomini, il loro trasformarsi in adeguati portatori della formazione che viene - che deve essere guidato a risvegliare negli uomini, come risposta, quelle qualità e quelle relazioni reciproche che li rendano capaci di essere nella realtà autentici uomini.
Si tratta di adattare il modo di lavorare all'adeguata essenza dell'uomo, alla sua dignità, alla sua capacità di esplicitazione umana. Queste cose devono andare d'accordo con le esigenze della produzione per essere realizzabili nella pratica; non sono però direttamente deducibili da essa, ma, come Lenin era solito dire, vi devono essere portate da fuori, dall'esterno della produzione in quanto tale.
Lo sappiamo: quell'impegno è andato frustrato.
Si tratterà dunque di un lungo processo contraddittorio da avviare e condurre con grande consapevolezza. Infatti, da una parte non va mai persa di vista la feconda contraddizione di fondo che ci si trova davanti, vale a dire che devono essere incorporati nell'economia fattori attivi di tipo economico che da ultimo servono a scopi non economici e, ciò non di meno, sono lì non solo non per arrestare lo sviluppo economico, ma al contrario per promuoverlo in conformità, anche sul piano strettamente economico, ai bisogni sociali di una data situazione.
Dall'atra parte, il fatto che il processo sarà lungo implica la necessità di accordare al rispettivo grado di sviluppo produttivo, alle esigenze economiche di ogni fase, la consapevolezza teorica da acquisire circa il contenuto sociale della sua prospettiva, e di farlo ininterrottamente, punto per punto, per così dire giorno dopo giorno.
E' però, possibile oggi farlo applicando semplicemente le teorie correnti negli ultimi decenni?
Le omissioni, le confusioni, le deformazioni, ecc. di decenni possono essere eliminate soltanto con un lungo lavoro di ricerca, con discussioni concrete sulle questioni di principio nel campo della teoria, della storia, ecc.
Della rinascita del marxismo il movimento ha bisogno in tutti i casi, per tutti i problemi da risolvere. Ed è un bisogno che si fa sentire con intensità maggiore quando si tratta di risvegliare la democratizzazione socialista.
Vale in larga misura quanto Lenin diceva introducendo la Nep e cioè che i classici del marxismo sono morti senza lasciarci in eredità linee guida univoche.
Oggi un moto verso la democratizzazione in senso socialista non può arrivare alle coscienze spontaneamente, ma solo, secondo l'espressione di Lenin, guidato "dall'esterno".
Per un marxista bastano questi pochi fatti, ma fondamentali, per aver chiaro come in questo caso si tratti di un attivismo la cui naturale forza motrice e guida non possa che essere proprio il partito comunista.
La profonda destinazione, da Lenin attribuita all'abitudine può davvero farsi operativa solo quando l'essere sociale, anzitutto quello economico ma naturalmente non questo soltanto, s'impossessa a poco a poco di un contenuto tale e a poco a poco conquista forme tali che le persone, abituandovisi, con l'abitudine e nell'abitudine, cominciano ad abbandonare i loro affetti, convincimenti, modi d'agire, non veramente umani, anzi spesso antiumani, nei confronti di se stesse e del loro prossimo, per costruire invece la propria vita e le relazioni con gli altri membri del genere umano (due cose ontologicamente inscindibili) nello spirito di un autentico essere-uomo.
Il divenir uomo dell'uomo può esser soltanto opera sua, e però opera sua sociale. Quest'operare, d'altronde, non è altro che tentare di dare risposta a quei problemi, a quelle loro possibilità di soluzione, il cui spazio reale può essere creato, determinato e delimitato appunto solo dall'oggettivo processo riproduttivo concreto.
I grandi movimenti consiliari del passato recente, nella loro immediatezza rivoluzionaria, ebbero la tendenza istintiva a mettere questi complessi problematici all'ordine del giorno. Ma date le condizioni reali da cui emergevano, data la situazione oggettiva, quei movimenti non furono capaci di arrivare nel concreto a contenuti così generali, così onnilaterali, non parliamo poi di tradurli in realtà, tuttavia il fatto che tra le larghe masse il loro ricordo sia rimasto sempre vivo, incancellabile, ci dice che viene nutrita una speranza, - pur spesso erroneamente motivata in termini idealistici, utopistici, - la speranza che, a causa della tendenza di fondo ad essi intrinseca, basterebbe semplicemente riproporli per aprire all'umanità una via d'uscita, una via per la realizzazione di se.
Ci si accorgerà che l'economia socialista, sebbene avere una relazione duttile con il consumo sia divenuto per essa un problema vitale, non sarà tuttavia in grado di risolverlo "introducendo" semplicemente un "modello" capitalistico. Quel che nel capitalismo il mercato è capace di fare, in sostanza, spontaneamente, qui deve essere integrato da una multidimensionale, plurivariata democratizzazione del processo produttivo, dal momento della pianificazione a quello della sua pratica reale. Una democratizzazione che da principio avrà per forza di cose mero carattere economico.
Nel 1917 e negli anni che lo seguirono moltissime persone del mondo capitalistico - da Anatole France ai semplici uomini e donne del mondo del lavoro - sentivano che tutto quanto accadeva sul terreno sovietico era qualcosa che contribuiva alla propria liberazione umana, che cioè in tutto quanto si faceva là era presente una lotta per la propria causa, per la propria umana salvezza. Il passaggio staliniano al predominio assoluto della tattica in tutti i campi teorici e pratici spezzò in gran parte questi fili di collegamento. Naturalmente in tale estraniarsi dal socialismo ebbero un peso rilevante fatti come i processi degli anni trenta, ma ogni singolo gesto sfavorevole avrebbe potuto essere superato se non si fosse avuto un durevole trend ideologico di distanziamento, di divergenza sempre maggiore fra la direzione verso cui muoveva l'Unione sovietica e, nel capitalismo, l'anelito in apparenza sempre meno appagabile delle persone a superare quelle tendenze che vanificano l'essere-uomo.
L'effetto provocato dal generale elevarsi del livello della vita economica o dai singoli risultati in ambito tecnico non poteva e non può, nonostante tutta l'ammirazione spesso suscitata, far ritornare per incantesimo a quel legame emotivo degli inizi. In ogni società capitalistica infatti si dà questa possibilità generale di pervenire a risultati economici e tecnici di quel tipo. L'attrazione, il fascino del divenir-uomo, invece, lo possiede soltanto - potenzialmente - la società socialista.
La tradizione leniniana è: possibilità di lottare in comune contro l'avversario comune, distinguendosi con nettezza ed esercitando una critica di principio su tutti i punti in cui si abbiano deviazioni dal marxismo.
Quella staliniana è: ogni posizione che non coincida esattamente con le decisioni  prese per tattica e praticate punto per punto giudicarla avversa o addirittura opera diretta di agenti dell'imperialismo e adoperarsi per annullarla con tutti i mezzi organizzativi dell'apparato. Questo fu il metodo dei grandi processi.
Marx, più di cento anni fa, descrisse il contrasto fra i percorsi delle rivoluzioni borghesi e i percorsi di quelle socialiste, in base ai conflitti di classe che le muovono e alle possibilità sociali che ne derivano, nei termini seguenti:
le rivoluzioni borghesi "passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l'un l'altro; gli uomini e le cose sembrano illuminati da fuochi di bengala; l'estasi è lo stato d'animo d'ogni giorno. Ma hanno una vita effimera, presto raggiungono il punto culminante: e allora una lunga nausea si impadronisce della società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre e di tempesta. Le rivoluzioni proletarie invece, quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompendo a ogni istante il loro proprio corso, ritornando su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi", "si ritraggono continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: hic rodhus, hic salta". (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)
Rodi oggi sta ancora nel lontano futuro. Ma tutto ci dice che soltanto la via tracciata da Marx vi può condurre. Se e fino a che punto i comunisti saranno in grado di percorrerla è cosa che dipende dalla loro perspicacia e dal loro coraggio.     

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