La lotta di classe allora è solo il genus, la categoria generale del conflitto sociale che proviene dai rapporti capitalistici di produzione e dalla conseguente divisione del lavoro; essa investe ogni società e tutta la società nel senso, esplicitato dal Manifesto, che tutte le lotte della storia sono lotte tra classi sociali. La pluralità invocata non rinvia però alla mera successione storica, nella quale si ripeterebbe lo stesso schema polarizzante e meccanico tra classi dominanti e classi oppresse con il conseguente auspicato rovesciamento, ma significa che le lotte assumono species, cioè forme diverse e spesso contraddittorie (lotte del proletariato nelle metropoli, lotte anticoloniali o di liberazione nazionale, lotte contro la schiavitù domestica), impegnando nello scontro i soggetti sociali che auspicano l’emancipazione e quelli che al contrario intendono bloccarla.
Ciò che le unisce nel genus è il tentativo di scardinare la
divisione del lavoro vigente tra le nazioni, nella nazione, nella famiglia e i
relativi rapporti di coercizione servili imposti dai borghesi ai proletari, da
un popolo a un altro popolo, dall’uomo alla donna.
Anche la lotta per l’emancipazione delle donne fa parte
della lotta di classe ed è un’altra forma in cui essa si manifesta. A
differenza di altri intellettuali che militarono per la liberazione della donna
(Condorcet, Mill), Marx e Engels, ma com’è noto soprattutto quest’ultimo,
individuano la genesi di tale soggezione nell’ordinamento sociale capitalistico
dove all’oppressione del borghese sull’operaio coincide quella del maschio
padrone sulla donna ridotta in condizione di servitù materiale, psicologica e
politica.
Il comune denominatore delle tre lotte di classe è quindi
sia economico-politico: modificare la divisione del lavoro sul piano
internazionale tra i popoli, su quello nazionale nella fabbrica, su quello
familiare tra i generi; sia politico-morale: superare la deumanizzazione e
conseguire il riconoscimento.
Né il paradigma liberale del contratto, che presuppone una
libertà solo formale e teorica che finisce per sancire forme legali di
subordinazione, né quello giusnaturalistico che non si mostrava all’altezza di
includere quali titolari di diritti lo schiavo, l’operaio e la donna, possono
essere giudicati da Marx adeguati a comprendere le ingiustizie della società
capitalistica.
Più adatto si rivela invece il paradigma del riconoscimento che
proviene dalla lezione di Hegel (dalla Fenomenologia ai Lineamenti, passando
per la Logica), già chiara a Marx e Engels, sebbene essi vi abbiano impresso
due mutamenti dialettici. Come ci fa notare Losurdo, in Hegel il modello del
riconoscimento è sviluppato secondo due linguaggi. Il linguaggio della
dialettica signoria-servitù, dove la dialettica del riconoscersi implica che
ciascuno è libero solo quando riconosce e rispetta l’altro quale individuo
libero. Il linguaggio della logica, dove si osserva che «il giudizio negativo
infinito» è una specie singolare di negazione in cui ad essere negato non è un
particolare o un diritto particolare, come nel caso di un torto subito
(giudizio negativo semplice), ma è una categoria generale, un diritto
universale («il diritto come diritto»), il diritto a essere uomo come nel caso
del delitto. Il giudizio negativo infinito può essere pronunciato tanto sullo
schiavo, nella misura in cui il negativo, la sua non umanità diventa infinita,
piena, perpetua, misconoscimento assoluto; quanto sul povero, che rischiando la
morte per inedia non è riconosciuto come titolare di diritti e cioè come uomo.
Anche in Marx e Engels operano questi due linguaggi, quello
che celebra il concetto universale di uomo e quindi l’unità del genere umano
sulla base dell’eguaglianza; quello della lotta per il riconoscimento e il
superamento della degradazione cui conduce l’uomo come mezzo. E tuttavia, come
si diceva, con una fondamentale doppia variante dialettica. La prima riguarda
il riconoscimento reciproco da parte degli schiavi e degli operai come membri
di una classe sfruttata, quale precondizione della lotta per il riconoscimento;
la seconda riguarda l’estensione del paradigma al rapporto tra i popoli: perché
se l’individuo è libero solo quando riconosce l’altro come libero (Hegel),
allora nessun popolo è libero se non riconosce l’altro popolo come libero.
Nonostante le oscillazioni, secondo Losurdo, la
consapevolezza che i conflitti di classe presenti nelle rivoluzioni moderne non
coincidessero con la semplice lotta tra oppressi e oppressori fu però
abbastanza chiara in Marx e Engels.
La borghesia, per esempio, come classe
oppressa dall’aristocrazia è detentrice di un potere economico e di un
prestigio sociale che in nessun modo possono collocarla dalla parte degli
sfruttati, né questa classe si esime in determinate circostanze dal lottare
dalla stessa parte dell’aristocrazia. Coloro che lottano per la liberazione
delle donne possono essere anche borghesi e quindi estranei alla categoria
degli oppressi. Le stesse donne che soffrono della schiavitù domestica
appartengono tanto alla borghesia quanto alle classi subalterne.
Lenin seppe tradurre nella concreta realtà storica il doppio
mutamento dialettico operato da Marx e Engels, orientandolo in due precise
dinamiche di riconoscimento.
Nel riconoscimento della dignità dei contadini, e quindi nel
riscatto dalla loro condizione di miseria materiale e morale, di sfruttamento
disumano ad opera di una ristretta élite aristocratica, riconoscimento che si
estende anche agli operai (lotta per l’emancipazione delle classi oppresse).
Nel riconoscimento della dignità di un popolo e quindi nel
suo riscatto dal giogo coloniale, cui le potenze occidentali tentarono di
sottoporre nel corso della Prima guerra mondiale. È una rivendicazione che
accomuna tutto il movimento anticolonialista successivo, rivolto a quelle
nazioni che si arrogano il diritto di sottomettere altri popoli disconoscendo
la loro civiltà, la loro autonomia politica e la loro nazionalità (lotta
nazionale, anticoloniale e internazionale).
Consapevole della sproporzione tra potere politico e potere
economico che la Russia stava vivendo nella fase postrivoluzionaria, Lenin
comprese che la dialettica di classe, quella che aveva visto la borghesia
avvalersi della collaborazione della classe aristocratico-feudale espropriata
del potere ma pur sempre funzionale all’amministrazione e consolidamento dello
Stato, doveva ripetersi ora nel rapporto tra proletariato e borghesia, nel
senso che solo da questa classe il proletariato poteva sperare di apprendere la
gestione amministrativa e lo sviluppo economico. Quest’obiettivo di riscatto,
crescita e indipendenza economica richiedeva come sappiamo il sacrificio seppur
transitorio degli interessi della classe operaia. Richiedeva cioè la creazione
di un margine di diseguaglianza retributiva all’interno della nazione, tra i
tecnici qualificati chiamati a dare una spinta alla produzione (nepman) e il
resto dei lavoratori, che accentuava il divario tra regioni avanzate e
arretrate. Se poi l’apertura al mercato e ai capitali stranieri aiutava a
potenziare le risorse del paese, era pur sempre sottoposta alla cruda logica
del profitto. Ciononostante, agli occhi realistici della teoria della lotta di
classe storicamente determinata, anche questa prassi rappresenta una nuova
forma politica per proseguire la lotta di classe, e l’unica chance che la nuova
classe ha di consolidare il potere proletario. La difficile fase che la
rivoluzione attraversa con il passaggio alla Nep, più che attestare il fallimento
del progetto rivoluzionario, come lamentarono gli oppositori interni e i
critici europei (Kautscky) di Lenin, dimostra invece che il sacrificio
transitorio dell’eguaglianza economica serve piuttosto a realizzarlo. Sotto
questo aspetto Losurdo fa notare come il comunismo sovietico abbia sempre
rimarcato, sulla scia di Marx, la propria distanza dalla populistica
esaltazione della povertà, dal collettivismo della miseria come condizione di
pienezza spirituale.
Quel che occorre considerare, se si vuole seguire Losurdo
nel suo ragionamento, è che le politiche di incentivi materiali e di
incoraggiamento dello sviluppo tecnologico-industriale, che siano quelle di
Lenin o di Deng Xiaoping alla fine degli anni ‘70, confermano il nesso storico
che la lotta di classe intrattiene con la diseguaglianza tra le nazioni che
bisogna superare. Obiettivo che le stesse condizioni storico-oggettive
impongono come primario, rispetto a quello delle inevitabili diseguaglianze
economiche che la sua realizzazione comporta.
Se quindi la Nep, ma poi anche le successive politiche di
rilancio dell’agricoltura e dell’industria, vengono ancora lette come
espressioni di restaurazione borghese, di tradimento del socialismo e della
rivoluzione da parte di una nuova classe sfruttatrice, la causa va ricercata da
qualche altra parte. Per esempio nell’«idealismo della prassi» o nelle visioni
populistiche del futuro comunista, che qualche volta Marx e Engels, ma più
spesso gli stessi leader rivoluzionari (Lenin, Trotskij, Stalin) hanno incoraggiato.
E cioè quelle speranze solo teoriche e ideali che si richiamavano alla
scomparsa delle classi, al dileguare del mercato, all’estinzione dello Stato,
della religione, della nazione e persino alla pacificazione del conflitto tra
le nazioni del campo socialista.
Nonostante tali aspettative siano smentite dalle scelte
politiche e le forze in campo siano consapevoli della distanza che le separa
dalla prassi socialista, esse continuano ad essere proclamate.
Perché alla
prova dei fatti, sostiene Losurdo, è la prassi e non la teoria a mostrare
maggiore maturità e pregnanza storica, proprio laddove al contrario si tratta
di salvare lo Stato sovietico, di rinforzare lo spirito nazionale, tutt’altro
che superato in un’eventuale federazione mondiale dei soviet, ma edificato e
rinvigorito soprattutto con Stalin. Sebbene sul piano teorico la teoria
dell’estinzione dello Stato non sia messa in discussione, ma sia spesso
rinviata ad un futuro a venire, la prassi ci mostra una classe rivoluzionaria
rappresentata da un’«aristocrazia di statisti» che smentisce la teoria e
accentua la componente nazionalista, patriottica e statalista, senza la quale
la Russia rivoluzionaria non si sarebbe salvata dalla capitolazione.
Occorre riconoscere alla Cina, protagonista di una lotta dal
duplice carattere nazionale e internazionale, un ruolo di grande propulsore
globale. Con la sua ascesa economica, grazie alle riforme economiche di Deng
Xiaoping, essa ha contribuito alla fine della prima grande divergenza
(diseguaglianza tra le nazioni), e quindi al predominio mondiale dell’Occidente
o, per usare un’espressione più nota, alla fine dell’«epoca colombiana»
(Mackinder).
La politica di apertura al mercato, l’appropriazione delle
tecnologie avanzate, la formazione all’estero dei futuri dirigenti e tecnici
hanno consentito alla Cina di mettersi al passo con la ricchezza delle grandi
nazioni occidentali.
Più controverso è lo scenario della seconda grande
divergenza (diseguaglianze sociali), che contro tutte le aspettative in
Occidente si accentua dopo la crisi del 2008 e in Cina permane. Mentre infatti
l’Occidente capitalistico vede accentuarsi la divaricazione tra ricchi e poveri
ed un’ineguale distribuzione della ricchezza, anche la Cina, protagonista della
fine della prima grande divergenza, continua a distribuire la ricchezza in
maniera diseguale. Ma agli occhi della teoria della lotta di classe le due
diseguaglianze (occidentale e cinese) non sono uguali. Mentre la prima è una
diseguaglianza regressiva che ci parla di un ritorno alla povertà che sembrava
superato per sempre, con la conseguente erosione dei diritti sociali ed
economici acquisiti. la diseguaglianza cinese è ancora il prodotto del
programma ideologico e economico che impegna il socialismo a portare avanti il
progetto di liberazione dal giogo coloniale e dalla miseria a cui la Cina era
stata sottoposta a partire dalle guerre dell’oppio, e quindi a risolvere la
questione sociale che da tale progetto dipende.
In Cina è presente un dinamico movimento operaio che sembra
aver maturato una coscienza di classe consapevole che i principali suoi
antagonisti sono tanto i capitalisti occidentali, quanto il ceto politico
dirigente. Quest’ultimo se ha tratto dalle riforme di mercato di Deng l’occasione
per arricchirsi e aumentare il proprio potere attraverso la privatizzazione di
risorse pubbliche, continua tuttavia a godere di un certo prestigio per il
fatto di sostenere con coerenza la causa cinese dell’emancipazione. Di
conseguenza la dialettica sociale che si esprime nelle lotte contro le
diseguaglianze, per l’aumento dei salari e per migliori condizioni di lavoro
non sono finalizzate al rovesciamento del regime, ma a politiche di compromesso
che incentivino lo sviluppo dell’economia nazionale piegandolo ai bisogni
locali. In una situazione politica che continua a condizionare fortemente il
potere economico della borghesia locale, sia stimolandola a reinvestire una
parte considerevole dei profitti nelle imprese o in interventi di carattere sociale,
sia attraverso il controllo statale del credito e della ricchezza.
Per queste
sue caratteristiche, con la sua crescita economica la Cina rimane per Losurdo
l’unica forza in grado sia di contrastare l’essenza dell’economia capitalistica
che si esprime nella concentrazione e centralizzazione del capitale,
nell’esclusione della maggior parte della popolazione mondiale all’accesso alla
ricchezza, sia di favorire un cambiamento epocale nella divisione
internazionale del lavoro, nel processo di ridistribuzione della ricchezza e di
emancipazione planetaria.
Va inoltre rimarcato che i successi economici cinesi,
nonostante provengano dalle riforme con le quali si intendeva chiudere l’epoca
fallimentare del Grande Balzo e della Rivoluzione culturale, non sarebbero
comunque stati possibili senza le conquiste sociali dell’epoca di Mao (riforme
sulla proprietà della terra, creazione di infrastrutture per l’agricoltura e
l’istruzione, assistenza medica). Essi rimangono fortemente dipendenti
dall’ideologia rivoluzionaria del partito avanguardia che nel corso della sua
storia ha privilegiato i contadini come propria base sociale, ne ha quindi
assorbito valori e aspirazioni, e che per governare bene deve curare gli
interessi del popolo. Questi fattori spiegano il ruolo che la tutela degli
interessi dei contadini riveste nel percorso di crescita dell’economia cinese
che caratterizza anche le riforme successive di Hu Jintao e Wen Jiabao, perché
la modernizzazione cinese abbia puntato non alla distruzione ma al miglioramento
economico, culturale e sociale dei contadini.
Ma se la Rivoluzione culturale ha
rafforzato le radici contadine della rivoluzione cinese e reso possibile gli
sviluppi successivi, è però vero che la crescita economica della Cina matura
anche attraverso il ripudio della Rivoluzione culturale, sia perché essa
minacciava di distruggere le conquiste rivoluzionarie, sia perché aveva messo
in discussione il potere e i privilegi della classe dirigente e combattuto
contro l’imborghesimento dei quadri di partito e dei funzionari di Stato.
Ne
consegue una dialettica tra spinte alla modernizzazione e tradizione
rivoluzionaria dagli esiti incerti, ma che a fronte delle diseguaglianze o
dell’insuccesso di alcune riforme ci mostra un movimento operaio cinese
spontaneo e dinamico, che porta avanti lotte nelle aree urbane e rurali contro
la diseguaglianza, la corruzione dei funzionari di partito, la pressione
fiscale, il degrado ambientale che hanno prodotto riforme per uno sviluppo più
equilibrato tra zone rurali e urbane, maggiori diritti dei lavoratori, garanzie
sociali. Questa forte combattività proviene dalla tradizione rivoluzionaria che
a partire da Mao ha dotato gli strati subalterni di una forte coscienza di sé. Le
caratteristiche dell’economia cinese, nonostante tutte le contraddizioni,
secondo Arrighi (Adam Smith a Pechino) permettono di interpretare il suo
decollo come sintomo della possibile costruzione di una società del mercato
globale preconizzata da Adam Smith, caratterizzata da maggiore equità e
rispetto tra i popoli. La crescente influenza esercitata nei paesi dell’Estremo
Oriente attesta la crisi del dominio americano, seguita alla guerra
fallimentare contro il terrorismo, e la nascita di un Beijing Consensus che
potrebbe far convergere le nazioni del Sud del mondo verso un modello di
sviluppo sensibile ai bisogni e alle specificità locali, caratterizzato da
indipendenza e autonomia politica, cooperazione interstatale, rispetto delle
differenze politiche.
Se il capitalismo occidentale, industriale, estroverso,
espansionista-militarista deve il suo successo all’esclusione della maggior
parte della popolazione mondiale dalla ricchezza, chiamata piuttosto a pagarne
soprattutto i costi, la sfida della Cina (e dell’India) deve partire dalla
consapevolezza che il modello americano di produzione e consumo, ad alta
intensità di consumi energetici, non può essere adottato a livello planetario,
né tanto meno dalla sola popolazione cinese. Di conseguenza, se di converso i
benefici della crescita vogliono essere estesi alla maggioranza della
popolazione mondiale occorre allora che il percorso di sviluppo occidentale
converga su quello asiatico e non viceversa.
Occorre insomma, conclude Arrighi,
che la Cina si mostri strategicamente capace di non appiattirsi eccessivamente
sul modello occidentale di sviluppo e quindi di saper consolidare il proprio.
Il paradosso in cui persiste il rapporto tra capitalismo e
diritti sociali in Europa, mutatis mutandis non sarebbe molto diverso da quello
che persiste nella Cina socialista, dove al paternalismo liberale dello Stato
sociale ora in crisi, si sostituisce il paternalismo oligarchico della classe
dirigente al potere, che farebbe crescere le politiche sociali. Mentre in
Europa lo Stato sociale non scalfisce il paradigma liberista
capitalisticoindustriale che infatti resiste alle influenze sociali, a scapito
dell’autonomia politica dei cittadini che se lo vedono gradualmente sottrarre;
in Cina il capitalismo è fronteggiato attraverso un addomesticamento socialista
che non cambia la sostanza del problema riguardo ai costi che i cittadini
pagano in termini di accesso alle libertà fondamentali e di godimento dei
diritti politici. In entrambi i casi, la prova storica della possibilità di
controllare il capitalismo, anche un capitalismo di Stato, rimane vincolata a
concreti diritti di partecipazione politica, che prima o poi dovranno essere
riconosciuti anche in Cina. Tali diritti rappresentano il grimaldello per
eventualmente approdare ad una democrazia più socialista o a un socialismo più
democratico.
La lotta di classe c’è, ma i diversi soggetti e le diverse
forme di lotta si trovano pressati da una frantumazione che impedisce alle
varie forze, come accade in momenti epici della storia (Lenin, Mao), di
coagularsi in un grande movimento emancipatore. I motivi sono molti.
L’interesse delle classi dominanti a rompere i vari fronti delle lotte, e
quindi a strumentalizzare la lotta in senso reazionario, può per esempio
spezzare il rapporto tra condizione operaia e anticolonialismo, quando si
mascherano le nuove politiche coloniali sotto la bandiera dei diritti umani che
il popolo aggredito violerebbe e che occorre ripristinare in spregio della
sovranità nazionale (imperialismo dei diritti umani). La divisione può avvenire
anche tra movimento operaio e movimento femminile, oppure tra quest’ultimo e
movimento anticolonialista.
Se la lotta di classe non supera la sua frammentazione e non
riesce a produrre un nuovo processo storico, nonostante l’acutizzarsi delle
diseguaglianze a partire dalla crisi iniziata nel 2008 e la reazione
imperialistica dell’Occidente rispetto alla crescita economica dei paesi
asiatici, ciò dipende anche dal debole e carente sguardo analitico sulle
dinamiche storiche e sociali che accompagna i sentimenti di protesta. E qui
Losurdo chiama in causa le diverse forme di populismo di sinistra, espresse con
particolare enfasi da Simone Weil nella sua versione moralistica del conflitto
che vede contrapposti tutti coloro che sono oppressi (poveri, impotenti) a
tutti gli oppressori (ricchi, potenti). Una visione che dipende da quella
lettura binaria già confutata, ma che ha la colpa di non comprendere ancora una
volta il nesso tra lotta contro la borghesia capitalistica e lotta contro il
colonialismo, quindi le lotte di liberazione contro l’imperialismo tedesco e
quello giapponese che intanto si manifestavano ai tempi di Weil, e che oggi si
manifestano contro l’imperialismo americano e occidentale.
In tutte le sue forme il populismo è smentito dalla storia,
mentre la sua diffusione ostacola la ricomposizione dell’unità della lotta di
classe, distoglie dalle vere cause dello sfruttamento che vanno rintracciate
nella divisione del lavoro, finisce per relegare la lotta di classe
nell’anacronismo.
A partire da qui il j'accuse di Losurdo procede ad una
critica serrata che ripete lo stesso adagio rivolto a tutti quegli
intellettuali (Castoriadis, Hard e Negri, Žižek) che fermandosi ad una lettura
binaria e quindi non marxiana del conflitto di classe, offrono letture incapaci
di interpretare la storia del Novecento o di fornirne una versione troppo
selettiva (Harvey). Letture che cedono il passo a categorie indistinte e
indeterminate, come la lotta tra una moltitudine globalizzata che si
contrapporrebbe a una borghesia altrettanto unificata a livello planetario.
Letture che trascurano la globalità dei processi storici dove accanto alle
lotte sociali, alle lotte di fabbrica, agli scioperi, la lotta di classe riesce
a realizzare eventi di portata macrostorica come la Rivoluzione cinese che, ancora
coinvolta in una lotta di liberazione internazionale, ha intrapreso un cammino
di riscatto economico che non può in alcun modo essere assimilato
all’assimilazione di politiche neoliberiste (Harvey). Oppure letture che
enfatizzando, sotto la spinta di una sorta di foucoultismo populista, il nesso
potere-dominio e la contraddizione masse-potere, finiscono per idealizzare le
masse, e per ignorare il ruolo progressivo svolto in determinati momenti
storici dalle lotte di liberazione nazionale e coloniale, per realizzare le
quali esse hanno dovuto conquistare il potere e conservarlo anche a costo di
tralasciare le altre contraddizioni sociali.
La crisi scoppiata nel 2008 è la prova storica di un
conflitto di classe oggettivamente presente nella storia, ma che ancora non
riesce a superare la frammentazione, sia perché quest’ultima è fortemente
condizionata dalla stessa borghesia capitalistica, sia perché non ci sono
partiti di sinistra in grado di proporre una visione globale delle
contraddizioni e quindi di organizzare i movimenti di protesta.
Succede, tuttavia, che la lotta di classe combatta anche
contro la falsa coscienza. Le condizioni storico-oggettive che le impongono di
assumere diverse forme e conflittualità, di diramarsi in diverse
interconnessioni, di coinvolgere diversi soggetti storici, dimostra che anche
nelle fasi di sconfitta essa ha saputo trasformarsi in nuovi processi di
liberazione ed emancipazione.
La consapevolezza dell’intreccio delle diverse forme di
lotta di classe è forse più evidente nelle metropoli dove cresce il conflitto
sociale tra coloro che soffrono le conseguenze della crisi economica, in
termini di impoverimento, perdita di garanzie sociali, emarginazione e coloro
che migrano dai paesi più poveri del mondo in cerca di un riscatto economico e
sociale. Interagiscono qui le due grandi divergenze: quella internazionale,
imposta dal capitalismo, dal neocolonialismo e dalle sue guerre che impedendo
lo sviluppo economico, producendo diseguaglianza tra le nazioni, spinge i
popoli a processi forzati di migrazione; quella nazionale che vede all’interno
della popolazione crescere la polarizzazione economico-sociale.
Rispetto alle analisi che circolano sulla lotta di classe,
il libro di Losurdo ha il grande merito di cogliere lo scenario di
interconnessione globale nel quale essa è inserita, entro il quale i movimenti
di protesta potrebbero muoversi e a partire dal quale i partiti di sinistra
dovrebbero riappropriarsi dello spazio politico. È un libro che ricostruisce
uno spaccato storico sul quale si fondano anche le conquiste della modernità e
del suo progetto di emancipazione, e sorprende che proprio la sinistra europea
vi abbia abdicato facendosi travolgere dal crollo del comunismo sovietico,
senza reagire e provare a riconnettersi a quel progetto con spinte nuove, ma al
contrario rendendosi complice del passaggio allo svuotamento della democrazia,
della partecipazione politica e della dialettica democratica che si nutrono
della conflittualità, degli antagonismi e delle lotte. Questo libro di Losurdo,
allora, rappresenta l’occasione per un radicale ripensamento a cui la sinistra
è chiamata se vuole ripristinare il proprio legame con la trasformazione del
reale e con i soggetti sociali che in maniera consapevole, organizzata e
solidale possano assecondarla.
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