domenica 24 luglio 2016

CORPO E CITTA’: spazialità e corporeità dei dispositivi disciplinari in occasione del G8 genovese. 15 years later* - Paolo F. Peloso


Parte I.                                       Genova non ha scordato. Perché è difficile dimenticare.  F. Guccini, Piazza Alimonda, 2004 (https://www.youtube.com/watch?v=KbfIscqYKOE

2001-2016. 15 anni dopo: another word was possible?

Sono passati 15 anni da quelle tumultuose giornate del luglio 2001 e una domanda mi pare che oggi s’imponga: un altro mondo è stato possibile? Credo di no, o se sì, è decisamente un mondo peggiore. Credo che questo dimostri come la domanda di un altro mondo, migliore, che la moltitudine scesa in piazza a Genova rivolgeva agli otto grandi fosse una domanda colma di urgenza e di significato. La scelta di non prenderla neppure in considerazione ha avuto le conseguenze devastanti che ci sono ogni giorno sotto gli occhi.
Nei giorni del G8 sono accadute a Genova cose che, ragionandoci a 15 anni di distanza, paiono surreali, incredibili. Appare incredibile, ripercorrendo oggi quelle strade dove “viaggia il traffico solito, scorrendo rapido e irregolare” (Guccini), che esse - automobili, bancomat, vetrine - siano state per due giornate abbandonate al saccheggio della (piccola) parte più adolescenziale, superomista e irresponsabile del movimento, in un’ubriacante illusione di anarchia. Mentre “un pensionato ed un vecchio cane” magari passeggiavano lì accanto, senza timore. Ancora più surreale e angosciante si avverte la carica di ferocia che dal seno delle forze dell’ordine di una Repubblica europea nata dalla Resistenza ha potuto sprigionarsi per le strade, alla scuola Diaz-Pertini e a Bolzaneto. La foga, la rabbia e la passione con le quali si vedono nei video alcuni poliziotti, carabinieri, finanzieri accanirsi a picchiare persone intrappolate, inermi, spesso già sanguinanti lasciano allibiti. Come pure il fatto che l’accertamento dei fatti e delle responsabilità sia stato ostacolato in modo così pervicace e arrogante e reso solo in minima parte possibile, nonostante il nobile e ostinato impegno della Procura genovese, e ricordo il PM Enrico Zucca in particolare.
Questa impudente impunità, che ha riguardato anche il personale medico al cui coinvolgimento abbiamo già fatto riferimento, oltre a dimostrare un’incapacità dello Stato a criticare se stesso (che in democrazia non è mai buona cosa), costituisce una grave insidia in primo luogo proprio per chi apparentemente se ne è avvantaggiato, e poi per la società nel suo complesso; la straordinaria capacità di approfondire aspetti psicologici e ricadute sociali di questo fenomeno, che Dostoëvskij dimostrava scrivendone nelle Memorie di una casa di morti del 1862, dovrebbero essere di monito:

«Chi ha provato una volta questo potere, questa illimitata signoria sul corpo, il sangue e lo spirito di un altro uomo come lui, fatto allo stesso modo, suo fratello secondo la legge di Cristo; chi ha provato il potere e la possibilità senza limiti di infliggere il supremo avvilimento a un altro essere che porta su di sé l'immagine di Dio, costui, senza volere, cessa in certo qual modo di essere padrone delle proprie sensazioni. La tirannia è un'abitudine; essa è capace di sviluppo, e si sviluppa fino a diventare malattia. Io sostengo che il migliore degli uomini può, in forza dell'abitudine, farsi ottuso e brutale fino al livello della bestia.  Il sangue e il potere ubriacano: si sviluppano la durezza di cuore, la depravazione; all'intelligenza e al sentimento si fanno accessibili e infine riescono dolci le manifestazioni più anormali.  L'uomo e il cittadino periscono nel tiranno per sempre, e il ritorno alla dignità umana, al pentimento, alla rigenerazione diviene ormai quasi impossibile per lui. Inoltre l'esempio, la possibilità di siffatta licenza agisce in modo contagioso anche su tutta la società: un simile potere è tentatore. La società che assiste con indifferenza a un simile fenomeno è già infetta essa stessa nelle sue fondamenta. Insomma il diritto della punizione corporale concesso a un uomo su di un altro è una delle piaghe della società, e uno dei più forti mezzi per distruggere in essa ogni germe, ogni tentativo di civile libertà, ed è premessa sicura del suo immancabile e ineluttabile sfacelo».

venerdì 22 luglio 2016

Critica della società e critica dell'economia. Domande e appunti su una assenza negli scritti sul "sessantotto", vent'anni dopo* - Riccardo Bellofiore

*scritto nel marzo 1989, e pubblicato nel 1990 in Il Sessantotto: l’evento, la storia (Annali della Fondazione Luigi Micheletti, vol. 4, a cura di Pier Paolo Poggio, Brescia, pp. 155-169)                 https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova-148198901904582/?fref=ts 

          "la lotta operaia è venuta assumendo caratteri tali per cui essa non è stata più né semplicemente redistributiva né semplicemente normativa, ma è diventata politica in un senso più stretto, in quanto cioè ha indebolito spesso profondamente, una delle condizioni necessarie alla realizzazione del rapporto capitalistico, ossia la subordinazione, la mancanza di autonomia, della classe operaia all'interno del processo produttivo [...] la crisi economica, e sociale, è dovuta essenzialmente a questa spinta operaia, nel senso che il processo accumulativo, già colpito dai successi ottenuti, al principio degli anni '60, sul terreno della distribuzione, è stato poi ancor più duramente colpito da quella conquista di autonomia operaia che ha fortemente limitato la possibilità di risposta del capitale in termini tradizionali, in termini cioè di aumento del grado di sfruttamento"  (Claudio Napoleoni)

"Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l'avarizia". (da Lettera a una professoressa)


Un non protagonista  

Del "sessantotto" sono stato uno spettatore, e pure ha segnato in qualche misura quello che sono diventato. Ne sono stato uno spettatore, innanzitutto, per ragioni di spazio e di tempo. Tra la fine del sessantasette e l'estate del sessantotto - l'arco di tempo in cui il "sessantotto" più vero si sviluppa a Torino come a Trento, a Pisa come a Roma - ero difatti molto giovane, e vivevo altrove: del "sessantotto" mi giungeva un' eco un po' vaga, e ricordo che mi dava un certo fastidio, come di una moda tra le tante dei ruggenti anni sessanta. Ero piccolo, ma tremendamente moralista già allora.

domenica 17 luglio 2016

Colonialismo, neocolonialismo e balcanizzazione: tre epoche di una dominazione* - Saïd Bouamama

*Da:     Le blog de Saïd Bouamama        https://traduzionimarxiste.wordpress.com/ 




Iraq, Libia, Sudan, Somalia ecc. , la lista di nazioni ridotte in pezzi a seguito di una guerra e di un intervento militare statunitense e/o europeo continua a allungarsi. Al colonialismo diretto di una «prima fase» del capitalismo e al neocolonialismo di una «seconda fase» sembrerebbe succedere la «terza fase», quella della balcanizzazione. Contemporaneamente, si può constatare una mutazione nelle forme del razzismo. A quello biologico ha fatto seguito, dopo la Seconda guerra mondiale, un razzismo culturalista, quest’ultimo da alcuni decenni tende a declinarsi, a partire dal fattore religioso, sotto la forma dominante, al momento, dell’islamofobia. Ci troviamo, a nostro modo di vedere, in presenza di tre storicità strettamente articolate: quella del sistema economico, quella delle forme politiche della dominazione e quella delle ideologie di legittimazione.


Ancora su Cristoforo Colombo

La visione eurocentrica dominante spiega l’emergere e il diffondersi del capitalismo a partire da fattori interni alle società europee. Ne deriva la nota tesi che vorrebbe alcune società (alcune culture, religioni ecc.) dotate di una storicità, laddove altre ne sarebbero prive. Quando Nikolas Sarkozy afferma nel 2007 «il dramma dell’Africa è che l’uomo africano non è realmente entrato nella storia» (1), non fa che riprendere un ritornello delle ideologie di giustificazione dello schiavismo e della colonizzazione:

«La «destoricizzazione» gioca un ruolo decisivo nelle strategie di colonizzazione. Essa legittima la presenza dei colonizzatori e certifica l’inferiorità dei colonizzati. La tradizione delle storie universali, poi le «scienze coloniali» hanno imposto un postulato sul quale si è costruita la storiografia coloniale: l’Europa è «storica» mentre «l’astoricità» caratterizza le società colonizzate definite come tradizionali e immobili. […] L’Europa, guidata dai suoi valori intellettuali e spirituali compie, attraverso l’espansione coloniale, una missione storica, portando nella Storia popoli che ne erano stati privati o rimasti fissi a uno staio di evoluzione della storia superato dagli europei (stato di natura, medioevo, ecc.).» (2)

Carla Maria Fabiani: Aporie del moderno. Riconoscimento e plebe nella Filosofia del diritto di G.W.F. Hegel* - Georgia Zeami


Rileggere la filosofia politico-giuridica di Hegel alla luce di una categoria strettamente teoretica e logica, qual è quella del riconoscimento (die Anerkerkennung), se per un verso significa muovere dal formalismo della ragione alla concretezza della fattualità, per l’altro coincide con l’ambizioso tentativo di rintracciare delle «aperture nella sistemica hegeliana» (p. 19), una sistemica apparentemente chiusa. Chiave di volta per compiere un simile percorso è la categoria della plebe (die Pöbel), ben distinta da Hegel dalla semplice povertà – ovvero dalla nullatenenza di beni che accompagna le società precapitalistiche – e intesa dall’autrice come giuntura strategica delle analisi economico-politiche hegeliane. Il saggio della Fabiani, articolato in due macrosezioni, dedicate l’una all’analisi della genesi dello stato nelle lezioni jenesi (1803-1806) e l’altra all’emersione della specificità della categoria di plebe nella Filosofia del diritto, propone un’indagine volta all’individuazione di un carattere intrinsecamente problematico del pensiero hegeliano che, lungi dal poter essere ridotto a un sistema filosoficamente compiuto e perciò speculativamente sterile, si rivela quale controverso e complesso snodo aporetico della modernità. L’insorgenza di una sostanziale dinamicità nel ragionamento politico hegeliano mostra poi, per contrasto, l’insufficienza di certa lettura marxista e neomarxista che, attestandosi miopemente sull’immagine inveterata di una filosofia reazionaria e statalista, non è riuscita a rendere conto della complessità di un sistema che piuttosto che fuggire le aporie le contempla, invece, al proprio interno come nodi  inestricabili di una realtà eccedente, ad ogni passo, il formalismo della ragione. Da qui l’originalità della lettura della Fabiani – seppure in linea con le posizioni di Weil e con il versante italiano costituito da Salvucci e Valentini  – che, contrariamente a molti eccellenti tentativi, teoreticamente ineccepibili ma storicamente discutibili, rende ragione del profondo radicamento delle riflessioni hegeliane nella temperie politico-culturale del suo tempo, una lettura attuata non tanto forzando arbitrariamente i contenuti, quanto rivelandone una vitalità interna quasi insospettabile. Al fianco di una puntuale analisi dei testi, il saggio della Fabiani contiene infine un interessante compendio dedicato alla disamina delle posizioni critiche (pp. 161-192), un compendio che a mio avviso potrebbe fungere da guida alla lettura dell’intero volume.

Il saggio si apre con un attento esame del termine plebe nell’alveo delle riflessioni hegeliane. Determinato come status sì economico, ma anche sociale e politico – contrariamente alla povertà che invece indica una condizione strettamente finanziaria –, la plebe sorge con il sorgere della modernità: per un verso essa è il frutto compiuto del liberismo economico, ovvero dell’imporsi dell’idea del lavoro come autosussistenza, per l’altro è la deriva incontrollata del liberalismo politico, e cioè il luogo sociale in cui domina un certo sentimento dell’ingiustizia subita (p. 16). Dalle analisi politiche emerge, tuttavia, un’ulteriore accezione che inerisce tanto alla sfera etica quanto, o forse proprio perciò, a quella teoretica. Hegel, ci dice Fabiani, usa il termine sia nell’accezione di volgo o senso comune, sia in quella di intelletto negativo astratto (p. 17). Così intesa, la categoria di plebe richiama immediatamente – pur sottraendosi, come vedremo, ad essa – la dialettica del riconoscimento. Il filosofo di Jena sembra insomma, fin da subito, connotare la plebe come un che di destabilizzante. Comprendendone la perniciosa natura rispetto alla stabilità dello Stato – inteso sia come organismo politico-giuridico sia come espressione dello Spirito –, ne ignora quasi l’esistenza, come giustamente sottolinea Marx, nella logica sistematica. Allo stesso tempo, però, dissemina i suoi scritti di riferimenti strategici che, se correttamente intesi, possono svelare l’intrinseco paradosso che mina la logica ferrea del riconoscimento. È necessario perciò, avverte l’autrice, non solo tornare a rilevare analiticamente un legame, non proprio esplicitato da Hegel (cfr. p. 19), ma addirittura accentuare l’intreccio tra plebe e riconoscimento.

sabato 16 luglio 2016

L’uscita dall’euro non è un tema da “oracoli”* - Nadia Garbellini**



La controversia sulla possibile implosione dell’attuale eurozona e sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica risulta tuttora pervasa da un diffuso dogmatismo. I fautori dell’uscita dall’euro sono accusati di semplificare il problema e di restare volutamente nell’ambiguità per non affrontare la questione decisiva inerente a quale politica economica adottare e quali interessi sociali difendere una volta fuori dall’Unione. In alcuni casi si tratta di una critica assolutamente fondata. Tuttavia, è soprattutto tra i sostenitori della permanenza nell’euro che sembra prevalere una retorica banalizzatrice, che in alcune circostanze rasenta la superstizione. Molti di questi, infatti, continuano ad agitare lo spauracchio della catastrofe economica in caso di uscita dall’euro senza prendersi la briga di fornire la minima evidenza scientifica a sostegno delle loro predizioni. Questa tendenza all’oracolismo caratterizza non solo i giornalisti ma sembra diffondersi anche tra alcuni economisti e policymakers coinvolti nella discussione. Un celebre esempio è fornito dal Presidente della BCE Mario Draghi, che in un’intervista del 2011 sostenne che «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» (Draghi 2011). Da queste poche parole diversi commentatori hanno tratto l’implicazione che uscire dall’eurozona determinerebbe una violenta caduta del potere d’acquisto dei redditi fissi, in particolare dei salari dei lavoratori. Nessuno, per quel che ci risulta, si è posto il problema di verificarle empiricamente.

In due studi realizzati con Emiliano Brancaccio e pubblicati sulla Rivista di Politica Economica e sullo European Journal of Economics and Economic Policies, abbiamo cercato di affrontare il tema dei possibili effetti di un’uscita dall’euro alla luce delle evidenze storiche disponibili. Basate su una statistica descrittiva e un’analisi inferenziale di un campione di 28 episodi di uscita da regimi di cambio fisso tra il 1980 e il 2013, le nostre ricerche si sono soffermate sulle ripercussioni di tali eventi su tre variabili: l’inflazione, i salari reali e le quote di reddito nazionale spettante ai lavoratori (Brancaccio e Garbellini 2014; 2015). Più di recente, da una applicazione di quella metodologia è scaturito il contributo di Realfonzo e Viscione (2015) i quali hanno esteso l’analisi ad altre variabili macroeconomiche, tra cui le esportazioni nette, la crescita del Pil e l’occupazione. La conclusione di Realfonzo e Viscione è la seguente: “ […] a meno di un auspicabile cambiamento in senso espansivo e redistributivo delle politiche europee, l’uscita dall’euro potrebbe essere la soluzione scelta da alcuni paesi in un futuro non lontano. E ciò potrebbe anche rianimare l’economia. Ma non è sufficiente un ritorno alla sovranità monetaria e alle manovre di cambio per cancellare, come d’incanto, i problemi legati alle inadeguatezze degli apparati produttivi o alla sottodotazione di infrastrutture materiali e immateriali. La lezione più importante che possiamo trarre dall’esperienza storica è che i risultati in termini di crescita, distribuzione e occupazione dipendono […] più che dall’abbandono del vecchio sistema di cambio in sé, dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali”. Tali considerazioni hanno dato avvio a un interessante dibattito su questa rivista. Alcune delle repliche a Realfonzo e Viscione, però, sembrano avere eluso lo sforzo dei due autori, che condividiamo, di legare ogni giudizio sull’euro a precisi riferimenti analitici. In questo senso tali repliche rischiano anch’esse di assecondare una retorica di tipo “oracolistico”. A valle della discussione può dunque essere utile tornare sul terreno della ricerca, approfondendo ulteriormente alcuni aspetti salienti dei due studi la cui metodologia ha ispirato il recente contributo di Realfonzo e Viscione.

L’opinione pubblica mercificata* - Giovanna Cracco


 È difficile avere oggi un’idea della dimensione di quella che possiamo genericamente chiamare ‘area antagonista’, inserendo nella definizione ogni realtà culturale o movimentista della società civile che si muove in senso critico rispetto al pensiero dominante neoliberista; da quella più ‘radicale’, che si oppone al capitalismo, di cui il neoliberismo è solo l’attuale fase, a quella ‘socialdemocratica’, che non mette in discussione il sistema economico ma mira semplicemente a mitigarne le caratteristiche di sfruttamento dell’uomo e delle risorse ambientali, attraverso la difesa di uno stato sociale in fase di smantellamento e dei cosiddetti beni comuni. Difficile perché le lotte sono frammentate, ciascuna chiusa nella propria singola identità – per la casa, per l’acqua pubblica, contro l’Expo, la riforma della scuola, la Tav... – e non fa eccezione nemmeno la battaglia per il lavoro, che pur avendo un unico tema si divide in tanti terreni di scontro quante sono le aziende che licenziano, delocalizzano, impongono ricatti ai lavoratori in termini di retribuzione e orario per non chiudere gli stabilimenti.

La debolezza delle lotte, intesa come incapacità di incidere sull’esistente, modificandolo, è evidente. Sconta sicuramente la frammentazione, l’incapacità di comprendere che la lotta è una, sebbene articolata su più campi, perché dietro le singole tematiche vi è un ‘nemico’ comune, ossia il sistema capitalistico: privatizzazioni e riduzione del welfare rispondono alla necessità del Capitale di espandersi in nuovi ambiti, il maggior sfruttamento, ossia bassi salari e lavoro precario a uso e consumo delle oscillazioni della domanda del mercato, risponde al bisogno di recuperare maggiori margini di profitto, ed entrambe le operazioni servono al capitalismo per salvarsi dall’attuale crisi – fino alla prossima, ovviamente.

Ma l’area antagonista sconta anche l’esclusione dal dibattito pubblico, che si muove sui canali mainstream, televisione su tutti e poi grandi giornali, e quando riesce a esservi presente fa i conti con la difficoltà di spostare l’opinione pubblica dalla propria parte.

Non è una questione che possa essere elusa, perché i mezzi a disposizione per cambiare l’esistente sono ben pochi; non è più il tempo di rivoluzioni, e non si vede all’orizzonte un partito che possa dare rappresentanza concreta al pensiero critico, ancor meno a quello radicale. Non resta quindi che la pubblica opinione, in teoria un potere ‘dal basso’ in grado di imporre cambiamenti alla politica. O almeno questo era quando è nata.

venerdì 15 luglio 2016

Il paradosso del riformismo (1993)*- Robert Brenner**

**Robert Brenner è professore di storia e direttore del Center for Social Theory and Comparative History dell’UCLA 

La differenza tra riforma e rivoluzione non è una questione di programmi. In realtà il riformismo è incapace di ottenere autonomamente le riforme. In questo testo del 1993, destinato ai quadri dell’organizzazione Solidarity, Robert Brenner espone le ragioni sociologiche di questo paradosso, traendone le conseguenze strategiche riguardo al caso degli Stati Uniti. Il riformismo è l’ideologia spontanea di un determinato ceto sociale: i funzionari sindacali e i politici socialdemocratici. Brenner sostiene che la socialdemocrazia è una vera e propria “forma di vita”, la cui riuscita non dipende dalle sconfitte o dalle vittorie della lotta di classe, bensì dalle negoziazioni sindacali o dai risultati elettorali. Il compito dei rivoluzionari non è combattere i “programmi riformisti” quanto opporsi a un orientamento, interno alle lotte, che rende inevitabile la difesa dell’ordine stabilito.

Mi è stato chiesto di parlare delle lezioni storiche da trarre dalle rivoluzioni del XX secolo. Ma poiché il nostro principale interesse si rivolge a insegnamenti che possano essere rilevanti per il XI secolo, ho ritenuto più opportuno soffermarmi sulle esperienze delle riforme e del riformismo. “Il riformismo”, infatti, è ben presente tra di noi, sebbene raramente compaia sotto quest’etichetta, preferendo mostrarsi sotto una luce più favorevole. Resta il fatto che si tratta del nostro principale concorrente politico, è quindi necessario comprenderlo meglio. Per iniziare, è chiaro che il tratto distintivo del riformismo non consiste nel suo obbiettivo di attuare delle riforme. Rivoluzionari e riformisti mirano entrambi a delle riforme. In effetti, la lotta per ottenere delle riforme rimane la principale preoccupazione dei primi. I riformisti condividono, in buona parte, il nostro programma, o perlomeno è ciò che affermano. Anch’essi sono a favore di salari più alti, per la piena occupazione, uno stato sociale migliore, sindacati più forti e  una qualche forma di partito operaio.

Ora, se puntiamo a guadagnare i riformisti alla nostra politica non vi perverremo giocando al rialzo rispetto alle proposte del loro programma. Noi non possiamo portare dalla nostra parte i riformisti che tramite la nostra teoria (la nostra comprensione del mondo) e, ancora più importante, il nostro metodo e la nostra pratica. Ciò che distingue il riformismo, nell’azione quotidiana, è il suo metodo politico e la sua teoria, non il programma. Schematicamente, i riformisti ritengono che anche se l’economia capitalista porta in sé la tendenza verso la crisi, l’intervento dello stato può aiutare il capitalismo a raggiungere la stabilità e la crescita a lungo termine. D’altra parte, lo stato rappresenta per loro uno strumento che può essere utilizzato da qualsiasi gruppo, compresa la classe operaia, per servire i propri interessi.

Il metodo politico e la strategia del riformismo sono conseguenza diretta di tali premesse. I lavoratori, le lavoratrici, gli oppressi, possono, e dovrebbero, impegnarsi nella battaglia elettorale, al fine di conquistare il controllo dello stato e assicurasi una legislazione che regoli il capitalismo, e su questa base migliorare le proprie condizioni di lavoro e, più in generale, il loro livello di vita.

La base materiale del riformismo

giovedì 14 luglio 2016

Introduzione a Hans Heinz Holz: Marx, la storia, la dialettica* - Stefano Garroni

*Da:    Marx, la storia, la dialettica, Ed. Laboratorio politico 1996

E’ possibile ascoltare le registrazioni audio degli incontri in collaborazione con Stefano Garroni andando su questo canale di Youtube:    http://www.youtube.com/user/mirkobe79 
          https://www.youtube.com/watch?v=1mPJkeqriSc&list=PL80AE147F16251D4B (i primi 4 minuti si sentono male)

Perché presentiamo questi scritti di H. H. Holz – rispettivamente già pubblicati dalla rivista “Dialektik” 1991 n. 2 e 1992 n.1? La risposta sta nella paradossale situazione teorica, culturale e politica, in cui ci tocca attualmente vivere.
Voglio dire che, probabilmente, si dovrebbe risalire molto indietro nel tempo, per trovare un’altra epoca in cui, come nella nostra, sia tanto marcata la distanza fra livello teorico – cioè, della riflessione scientifica e di quella filosofica, più strettamente a contatto con gli sviluppi delle scienze e le loro conseguenze anche morali – ed i livelli CULTURALE E IDEOLOGICO – dunque, i piani, che mediano, variamente, consapevolezza teorica e credenze funzionali all’assetto sociale dato. Le conseguenze di tale marcato distacco sono – com’è facile capire e constatare – devastanti: il passaggio, oggi, dalla lettura di un libro importante a quella di un giornale o, più limitatamente, della sua “terza pagina”, autenticamente significa non solo né tanto trascorrere da un livello ad un altro, quanto piuttosto passare da un mondo – raffinato, complesso, difficile, ma probabilmente e parzialmente vero –, ad un universo onirico, la cui difficoltà è data da un fitto intreccio di semplificazioni aberranti ed ipocrisia stupefacente.

Ad aggravar le cose, si aggiunge la novità, per cui – oggi – è proprio la “sinistra”, che si fa portatrice – addirittura paladina – sia di quel distacco, che di quell’intreccio di ipocrisia e semplificazioni deliranti.
Insomma, la nostra è l’epoca in cui – poniamo – ci si batte per la “memoria storica” (così detta); il che ovviamente significa che in primo luogo la “sinistra” – la grande laudatrice delle “radici storiche” – mentre lamenta e denuncia con feroce cipiglio la “smemoratezza” attuale, contemporaneamente accetta la mistificazione di fondo – che consiste esattamente nel ricacciare, nel confinare, storia e radici nel PASSATO, appunto, in ciò che sta dietro le nostre spalle e che, dunque, ATTUALMENTE non ci occupa più. Ma è proprio questo che serve fondamentalmente all’attuale capitalismo neo-malthusiano: cancellare dall’orizzonte mentale delle masse cose – storiche, passate, da album di famiglia, per dirla con il linguaggio della sinistra – come contraddizione di classe, intreccio fra lotta per la democrazia partecipativa e lotta contro il capitalismo, rapporto fra imperialismo e guerra, ecc., ecc.

mercoledì 13 luglio 2016

LOTTA TEORICA È PRASSI* - Francesco Schettino

*Da:     http://www.lacittafutura.it/

“Solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può adempiere la funzione di combattente di avanguardia” 
(V.I. Lenin, Che fare? 1902) : brevi riflessioni sul ruolo della teoria rivoluzionaria.

Lotta teorica e socialismo scientifico

Nella storia del pensiero marxista – o più in generale all’interno dei movimenti o partiti ispiratisi almeno vagamente all’idea del comunismo (o del socialismo) nell’ultimo secolo – il rapporto tra teoria e prassi rivoluzionaria ha senza dubbio ottenuto un posto di primaria importanza nel dibattito che negli anni si è svolto, per quanto spesso con esiti abbastanza avvilenti. In questo breve articolo non si vuole proporre una rassegna di quelli che sono stati gli ultimi, tra l’altro spesso poco incisivi, sviluppi della questione: al contrario, prendendo a riferimento l’esempio cubano, oltre che quello dei paesi a capitalismo avanzato, si tenterà di proporre un contributo che possa consentire una riflessione su questioni che, oramai, sono solo di rado tenute in adeguata considerazione.

Punto di partenza per affrontare una discussione di questo genere, evitando di scivolare su posizioni che in fin dei conti hanno dimostrato tutta la loro velleità e sterilità, è la considerazione, fin troppo distorta o aggirata, di Lenin che, nel Che fare? giustamente sosteneva che “senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario”. Questa, che tutto è fuorché una “semplice” locuzione affabulatrice, è esattamente il frutto della riflessione filosofica del rivoluzionario russo che coerentemente con Marx e Engels, e pertanto con la dialettica hegeliana, attualizzata dallo stesso Moro di Treviri, individuava l’identità dialettica tra teoria e prassi, ossia tra pensiero astratto e sua concretizzazione materiale.

domenica 10 luglio 2016

LE RADICI STORICO-ANTROPOLOGICHE DELLA NOZIONE DI FETICISMO*- Alessandra Ciattini


La nozione di feticismo nasce all'interno della riflessione sulla “religiosità primitiva” ma da questa è trasferita ad altri ambiti culturali. Contiene in sé una prospettiva critica che consente di scomporre i nostri “feticci” nel sistema di relazioni che in essi si cristallizzano.

In una fase storica in cui alcuni sentono la nostalgia di rapporti uomo / natura improntati alle antiche e simbiotiche concezioni animistiche [1], forse è opportuno ricostruire brevemente la storia di una nozione centrale del pensiero moderno. Mi riferisco alla nozione di feticismo usata da HegelMarxComteFreud per citare solo i pensatori più grandi, anche se in contesti diversi e con obiettivi differenti. E ciò non per amore di pura erudizione, ma cercare di far chiarezza - per quanto è possibile nel breve spazio concessomi in questa sede - su due punti: 1) cosa suscita l'interesse per leforme religiose extra-occidentali ? 2) perché guardare ad altre forme di vita sociale per comprendere alcuni elementi costitutivi della propria società e cultura?

L'interesse per nozioni coniate per definire un'esperienza storica “altra” o direttamente provenienti dalle forme sociali extra-occidentali non è ovviamente isolato al feticismo; si pensi ad esempio al concetto di tabù - reso noto da James Cooknei suoi diari di bordo alla fine del '700 - che pure ha avuto tanto successo e che è un parola di origine polinesiana, il cui significato è “marcato con una foglia”. Tale marcatura indicava che l'oggetto così segnato non poteva essere violato, altrimenti sarebbe scattata sul violatore una punizione automatica di origine sovrannaturale, la quale si sarebbe quindi realizzata anche nel caso in cui il trasgressore non fosse stato scoperto. Nell'analisi freudiana tale processo, contrassegnato dalla contraddizione tra l'impulso a realizzare un desiderio proibito e il terrore di cedere ad esso, conduce all'insorgere del senso di colpa e alla creazione di pratiche ossessive che soddisfano in qualche maniera la pulsione proibita. Ma torniamo al feticismo e a colui che ha elaborato questo termine, ossia Charles de Brosses (1709- 1777).

Questi era presidente del Parlamento di Borgogna, un illuminista di provincia che coltivava numerosi interessi che vanno dallo studio delle nuove forme di vita sociale e culturale scoperte fino a quel momento, dalla storia comparativa delle religioni al problema dell'origine del linguaggio. È anche noto per le brillanti lettere che scrisse durante un viaggio in Italia, esperienza fondamentale degli intellettuali europei interessati alla scoperta degli antichi monumenti e al godimento delle opere d'arte presenti nel nostro paese (Viaggio in Italia, Bari 1992).

Benché in un opera precedente egli già menzioni il termine feticismo, a questa nozione dedica una ricerca specifica intitolata Sul culto degli dei feticci o parallelo dell'antica religione egiziana con la religione attuale della Nigrizia, parola con la quale si intende l'Africa subsahariana. Questo libro, il cui scopo principale è polemizzare con le credenze e le pratiche religiose del tempo, viene pubblicato anonimo a Ginevra nel 1760, perché de Brosses non voleva rischiare la Bastiglia, e successivamente viene ripubblicato durante la Rivoluzione Francese. Non esisteva di esso una versione italiana, fino a quando nel 2000 è uscita l'edizione curata daStefano Garroni e da me con l'aggiunta di un'introduzione e di un apparato di note (Bulzoni, Roma 2000), il cui scopo è quello di identificare tutti gli autori (antichi e moderni) che de Brosses cita e che hanno dato un significativo contributo alla millenaria riflessione sulla religione.

venerdì 8 luglio 2016

Pace: una storia lunga e tormentata, tra idee e realtà*- Emiliano Alessandroni intervista Domenico Losurdo

*In un’intervista esclusiva per il nostro sito (http://www.marx21.it/), Domenico Losurdo, Presidente dell’Associazione Politico-Culturale Marx XXI, presenta il suo nuovo libro, “Un mondo senza guerre”.


Iniziamo da un nesso immediato: il tema centrale del tuo nuovo libro (D. Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma) non può che richiamare alla mente, a quel lettore che ha seguito un poco il tuo percorso intellettuale, un altro tema a cui hai dedicato attenzione nel corso dei tuoi studi: quello della non-violenza (cfr. La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari 2010). Esiste un filo conduttore tra questi argomenti e tra queste due ricerche?

Il libro sulla non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace. Tale pace doveva includere i popoli coloniali, dalle grandi potenze imperialistiche razziati a guisa di schiavi e costretti a combattere e a morire a migliaia di chilometri dalla loro terra per una causa che certamente non era la loro. In questo senso il libro sulla non-violenza ha gettato le basi per l’odierno libro su pace e guerra.


Nel tuo libro presenti, in relazione al tema della pace, un quadro della storia più complesso e intrecciato di quello che, di consuetudine, tende ad offrire il manicheismo della logica binaria: il cammino dell'umanità più che da scontri tra ideali di pace e ideali di guerra, appare scandito, soprattutto dopo l'avvento dell'età moderna, da conflitti tra diversi ideali di pace. Potresti illustrarci concretamente questo tipo di dialettica?

Alcuni decenni prima della rivoluzione francese a parlare di «pace perpetua» era l’abate di Saint-Pierre, che però intendeva far valere tale ideale solo per le potenze civili e cristiane dell’Europa. Esse erano chiamate a rappacificarsi e ad allearsi in modo da fronteggiare meglio i «turchi», i «corsari d'Africa» e i «tartari»; combattendo contro i barbari, esse potevano persino trovare «le occasioni per coltivare il genio e i talenti militari». Facciamo un salto di quasi due secoli. Nel 1907 il Premio Nobel per la pace era assegnato a Ernesto Teodoro Moneta (l’unico italiano insignito di tale riconoscimento), che quattro anni dopo non aveva difficoltà a dare il suo appoggio alla guerra dell’Italia contro la Libia, trasfigurata, nonostante i consueti massacri coloniali, quale intervento civilizzatore e benefica operazione di polizia internazionale. Peraltro, nel rivendicare la sua coerenza di «pacifista», Moneta aveva il merito di esprimersi con chiarezza: ciò che veramente importava era la pace tra le «nazioni civili», che legittimamente scaricavano «le loro energie esuberanti nel continente africano», e ciò «nell’interesse stesso della pace europea» (e occidentale). Ecco la prima distinzione che s’impone: si tratta di vedere se l’ideale della pace perpetua sia declinato in modo universalistico. In caso contrario esso può divenire una micidiale ideologia della guerra: negli USA della seconda metà dell’Ottocento, i campioni del Manifest Destiny e dell’espansionismo coloniale nel Far West si sentivano legittimati a decimare o annientare i nativi, considerati razze inguaribilmente bellicose che ostacolavano l’avvento della pace perpetua. Non si tratta di un capitolo di storia remota e senza alcun rapporto con il presente: ancora ai giorni nostri le infami guerre coloniali o neocoloniali che in Medio Oriente hanno distrutto interi paesi, provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi sono state presentate come operazioni di «peace-keeping» ovvero di «polizia internazionale»! Ma per avere un’idea di cosa si tratta, vediamo in che modo un filosofo di fama internazionale (Todorov) ha descritto il regime change imposto in Libia nel 2011: «Oggi sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della repressione iniziale» rimproverate al regime che i macellai della NATO erano decisi a rovesciare. Una brillante operazione di «mantenimento della pace»!

mercoledì 6 luglio 2016

Il programma minimo. Per la classe e i comunisti in una fase non rivoluzionaria* - Enzo Gamba, Gianfranco Pala


Il Programma minimo indica quali elementi possa contenere un programma di partito comunista per l’intera classe, reputato e definito minimo giacché è impensabile raggiungere, al momento, la costruzione della società comunista (ma nemmeno la transizione a un modo di produzione socialistico), poiché tutto ciò compete al
programma massimo del comunismo. Oggi è palese la mancanza di ogni presa di conoscenza di massa dell’analisi marxiana, pratica e teorica; questo è il significato da dare alla perdurante fase non rivoluzionaria, in un’attesa di lotta profonda per ritrovare tempi meno bui.
Qui si mette implicitamente a confronto la strategia del programma massimo del “partito” comunista, per cui è essenziale l’appendice che include la Critica al programma di Gotha di Marx, perché quel partito aveva progettato una strategia “operaia” con un programma inadeguato. Similmente, Engels, elaborò una critica di opportunismo che riaffiorava nell’incoerente programma del partito operaio tedesco di Erfurt. La distinzione fra un programma strategico comunista e uno tattico di rivendicazioni così“minime”che sono tutte interne alle regole capitalistiche borghesi, ma che nonostante ciò sono irrealizzabili con i rapporti di forza esistenti, è quindi centrale. Marx e Engels chiamarono “minimo” quello del Partito operaio francese del 1880, scrivendone le considerazioni introduttive: in tale circostanza Marx – di fronte alle parole di un “massimalista” ante litteram, Guesde, che negava l’importanza delle lotte per le riforme da parte dei comunisti, entro e contro il potere borghese – sbottò spazientito esclamando che se quella politica rappresentava il marxismo, “tutto quel che so, è che io non sono marxista”.


[...]Come narrava il mito dell’Araba fenice, che risorse dalle proprie ceneri, è possibile che nel punto di maggiore arretramento dei rapporti di forza del proletariato mondiale, Marx stia assumendo un nuovo fascino? Già dal 2008 le vendite [per la lettura e lo studio è un altro affare – gli anni 1960-70 in Italia o Francia lo attestano] dei suoi testi più noti sono aumentate sensibilmente ovunque e, secondo un sondaggio del 2005 commissionato dalla Bbc, egli è risultato essere il filosofo-rivoluzionario più importante della storia nell’opinione degli interessati. Questo risultato, alquanto stupefacente [... sit venia verbo!] va analizzato tenendo anche in considerazione il fatto che, le nuove generazioni, nate dopo la fine dell’Urss, hanno svincolato gli scritti del tedesco dall’esperienza politica dei paesi appartenenti all’area ex sovietica. Peraltro, la recente pubblicazione del testo di Piketty – che, sia chiaro, del Capitale mantiene solamente il titolo, assumendo una impostazione teorica palesemente keynesiana – deve una gran parte del successo planetario proprio al mercanteggiamento (nei fatti ogni riferimento effettuale è del tutto insussistente) degli scritti del materialista dialettico di Treviri. [Nel nostro ambito, l’uscita del volume Perla critica – dell’economia politica, secondo Marx (a cura di Gianfranco Pala), ed. la Città del Sole, 2014, ha incontrato un interesse significativamente superiore alle attese, stimolando dibattiti e presentazioni in meno di un anno in decine di sedi, di partito, di collettivi varii, o anche attraverso emittenti radiofoniche].

La crisi e la sua negazione

lunedì 4 luglio 2016

Classi e lotta di classe dopo la “crisi del marxismo”?* - Alessandro Mazzone

Da:   http://www.proteo.rdbcub.it/ [1]  

1. In nessun Paese europeo quanto in Inghilterra il senso della gerarchia sociale è presente immediatamente nel medium di ogni incontro e comunicazione - la lingua. Non solo diversa ricchezza di sintassi, vocabolario, registri espressivi distinguono i ceti, ma già la pronuncia di ogni parola e frase (pronuncia, le cui differenze “verticali”, appunto di appartenenza a strati superiori o inferiori, sono più importanti di quelle “orizzontali”, di regione). Questo biglietto da visita che si manifesta col solo aprir bocca, immediatamente, è un tratto tipico, che, nel centro primo del capitalismo e del maggiore impero moderno (anche se ora subordinato al cugino-nemico statunitense), si chiama appunto class; e poiché è evidente e onnipresente, non c’è - di solito - alcun bisogno di dirlo.

Ma nello stesso tempo, l’uso della parola class, nell’inglese corrente, ricorda anche che in quel Paese il movimento operaio, pur forte e glorioso in certe fasi, è rimasto quasi sempre subalterno; e che il concetto e sentimento dell’autonomia di classe dei lavoratori, morale prima ancora che politica, è rimasto, colà, marginale. Il senso proprio di “classe”, che appunto non significa appartenenza a un certo gruppo, categoria, ambiente, ma si riferisce ai rapporti di produzione e alla forma capitalistica della riproduzione sociale complessiva [2], non è entrato, là, nel senso comune. [3] E proprio perciò, che ci siano “classi” - nel senso di stratificazioni, di un alto e un basso a lor volta graduati, e di una potenza e miglior qualità inerente all’ “alto” è, invece, fortissimamente, nel senso comune, (di cui massimo e miglior testimonio è appunto la lingua). Infatti, “class” tutto significa, dalla evidente e ammessa superiorità dei ricchi e potenti - la upper class (noi diciamo talvolta “i padroni”, ma quest’espressione non riconosce superiorità!), alle classificazioni più o meno fondate di varie teorie sociologiche, e poi anche giù giù fino a quelle vanità sciocchistico-pubblicitarie, per cui una certa automobile o un paio di scarpe esprimerebbe la vostra “classe” (buon pro’ vi faccia...) - E non è un caso, probabilmente, che sempre l’inglese corrente, solo fra le lingue europee (dall’italiano al francese al tedesco al russo...) non abbia due termini per dire “popolo” e, invece “gente”. Tutto quanto è people, “la gente” “gli individui al plurale” - in buona armonia, a pensarci bene, con quell’altro aspetto: poiché dove tutto è class, insieme gerarchia, strato, ceto, stile di vita, come può esserci e agire, ed esser soggetto politico in opposizione ai suoi dominatori, un’ entità che sia non lower class, o plebe, ma davvero “popolo”? [4] - Così. anche in questi tratti del linguaggio si manifesta la egemonia plurisecolare della borghesia inglese [5].

domenica 3 luglio 2016

Critica della retorica democratica - L. Canfora, A. Burgio

"Storia della democrazia tra la Rivoluzione francese e la fine dell'Unione Sovietica" 

Leggi anche:  http://www.linkiesta.it/it/article/2016/07/01/luciano-canfora-la-tentazione-dei-liberali-e-togliere-il-voto-alla-gen/31033/
                        http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/marx-e-la-rivoluzione-del-1848-irene.html

LA FORMA-VALORE - Stefano Garroni


Sul termine Erscheinung: manifestazione fenomenica. Sul termine Elementarform. La merce: valore e valore d'uso. Valore di scambio e merce in quanto cosa sociale. Il principio di non contraddizione aristotelico: perché Marx non viola questo principio? Kant e il problema del rapporto tra intelletto e tempo. Quando la merce diventa valore di scambio? Sincronia e diacronia: opposizione o equilibrio frutto di movimento? Kant e il termine Verstand, e gesund Verstand: differenza tra intelletto e sano intelletto. La scienza della natura come scienza dell'intelletto: la separazione degli ambiti. Hegel e il dominio del sano intelletto. Della Volpe e l'astrazione determinata. Merceologia e economia. L'oggettività delle merci. Valore relativo della merce. L'unità data dall'unione degli opposti. Tempo di lavoro e valore della cosa. 

Leggi anche:     https://ilcomunista23.blogspot.it/2013/09/la-formavalore-capitale-libro-1.html
                             https://www.facebook.com/notes/ermanno-semprebene/denaro-capitale-plusvalore-ernest-mandel/997311033646495?pnref=story 

sabato 2 luglio 2016

Il filosofo della domenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève - Marco Filoni

Leggi anchehttps://www.academia.edu/9890147/Marco_Filoni_il_filosofo_della_domenica_la_vita_e_il_pensiero_di_Alexandre_Koj%C3%A8ve
Ascolta anche: BODEI E FILONI su Alexandre Kojève: un pensatore di confine ( https://www.youtube.com/watch?v=8sFjwDOS5Vk )

Alexandre Kojève (1902-1968), aristocratico russo rifugiatosi in Francia, entrò nell’amministrazione francese subito dopo la fine della guerra. Da quel momento dirà di aver tempo per la filosofia soltanto la domenica. E infatti “il filosofo della domenica” era il nome con il quale lo scrittore Raymond Queneau era solito chiamarlo, a partire dagli anni Cinquanta. Kojève passò felicemente gli ultimi vent’anni della sua vita fra l’elite della diplomazia mondiale e dell’alta finanza. Così la sua fu un’attività filosofica
“semiclandestina”, riservata ai fine settimana, una circostanza che unitamente al fascino del personaggio ha determinato un singolare destino della ricezione kojèviana. 

Kojève è diventato una sorta di citazione obbligata per gli studi hegeliani, così come per gli esiti della fenomenologia e dell’esistenzialismo in Francia. Ma solo diversi anni dopo la sua morte, in seguito alla pubblicazione di molti suoi testi inediti, vennero alla luce opere con le quali il dibattito contemporaneo ancora si confronta. Il libro ricostruisce gli ambienti culturali di provenienza, gli studi, le scelte teoriche fondamentali e la rete intellettuale entro cui presero forma i primi scritti di Kojève.




venerdì 1 luglio 2016

L’imperialismo nel XXI secolo* - John Smith**

**John Smith insegna politica economica internazionale alla Kingston University di Londra. Il presente saggio è un estratto dal suo libro Imperialism in the Twenty-First Century, Monthly Review Press, 2016.

Introduzione

La globalizzazione della produzione e il suo spostamento verso i paesi a basso reddito costituiscono una delle più significative e dinamiche trasformazioni dell’era neoliberista. La sua forza trainante fondamentale consiste in quello che numerosi economisti chiamano “arbitraggio globale del lavoro”: lo sforzo compiuto dalle imprese in Europa, Nord America e Giappone al fine di tagliare i costi e aumentare i profitti rimpiazzando il relativamente ben pagato lavoro domestico con manodopera estera a basso costo, ciò sia attraverso l’emigrazione della produzione (la cosiddetta “esternalizzazione”) sia tramite l’emigrazione dei lavoratori. La riduzione dei dazi e la rimozione delle barriere ai flussi di capitali hanno stimolato la migrazione della produzione in direzione dei paesi a basso reddito, ma la militarizzazione delle frontiere e il crescere della xenofobia hanno creato l’effetto opposto sulla migrazione dei lavoratori provenienti da questi stessi paesi – non fermandoli del tutto, bensì inibendo il loro flusso e aggravando il già vulnerabile status di serie B dei migranti. 

Di conseguenza, le fabbriche attraversano liberamente il confine USA-Messico e passano agevolmente i muri della fortezza Europa, così come le merci in esse prodotte e i capitalisti  che le possiedono, mentre gli esseri umani che vi lavorano non godono del diritto di passaggio. Si tratta di una parodia di globalizzazione – un mondo senza frontiere per tutto e tutti a esclusione dei lavoratori.

I differenziali salariali globali, in larga misura derivanti dalla soppressione della libertà di movimento del lavoro, forniscono un riflesso distorto delle differenze globali nel tasso di sfruttamento (in parole semplici, la differenza tra il valore generato dai lavoratori e ciò che viene loro pagato). Lo spostamento verso sud della produzione significa che i profitti delle aziende con sede in Europa, Nord America e Giappone, il valore di tutte le tipologie di attività finanziarie provenienti da tali profitti, e i livelli di vita dei cittadini di queste nazioni, sono divenuti fortemente dipendenti dagli alti tassi di sfruttamento dei lavoratori nelle cosiddette “nazioni emergenti”. È necessario, dunque, riconoscere nella globalizzazione neo-liberale una nuova e imperialista fase dello sviluppo capitalistico, laddove “l’imperialismo” è caratterizzato dalla sua essenza economica: lo sfruttamento del lavoro vivo del Sud da parte dei capitalisti del Nord.

Nella prima parte verranno esposti i risultati di un’analisi empirica del trasferimento globale della produzione verso le nazioni a basso reddito, nonché identificato la sua caratteristica fondamentale: il super-sfruttamento imperialista (1); la seconda parte cercherà di spiegare tale fenomeno nei termini della teoria del valore di Marx, innanzitutto ripercorrendo il dibattito degli anni Sessanta e Settanta tra la teoria della dipendenza e i suoi critici marxisti “ortodossi”, successivamente riflettendo sulla teoria dell’imperialismo di Lenin e, per concludere, offrendo una rilettura critica delCapitale di Marx.

Prima parte: globalizzazione e imperialismo

DIALETTICA E TEMPORALITÀ, l’immagine di Hegel nella Dialettica della natura di Engels* - Vladimiro Giacché



1. Hegel secondo Engels: le “tre leggi della dialettica” e la dinamicità delle categorie
2. Dialettica e temporalità
3. Storia e concetto in Hegel un’alternativa teorica
4. Le ragioni di un equivoco (ipotesi per una ricerca)
5. Conclusioni su Hegel ed Engels

Lo scopo del presente lavoro è quello di seguire i momenti principali del dialogo che Friedrich Engels intrattiene con Hegel nella sua Dialettica della natura.. Il rapporto di Engels col pensiero hegeliano presenta un immediato motivo di interesse: la lettura engel­siana di Hegel è stata il canale principale della ricezione del pensiero di questo per buona parte della tradizione marxista (Lenin, Lukács e “diamat”, ma anche Gramsci e Bloch). Lo Hegel di Engels è il pensatore che ha formulato le “leggi della dialettica”, ed introdotto in filosofia un modo di pensare dinamico che si adatta perfettamente agli sviluppi delle scienze naturali e storiche, e può favorirne ulteriori progressi se consapevolmente adottato dagli scienziati. Ora, l’immagine della dialettica hegeliana che Engels trasmette ai suoi lettori ha come ingrediente fondamentale la dimensione della temporalità. È un’immagine, questa, che ha avuto un’enorme fortuna praticamente sino ai nostri giorni, e che Engels d’altronde condivide con molti esponenti della cultura filosofica del secondo Ottocento. Nelle prossime pagine tenterò di dimostrare che si tratta di un’immagine so­stanzialmente falsa, che pone in ombra aspetti decisivi del pensiero di Hegel.


1. Hegel secondo Engels: le “tre leggi della dialettica” e la dinamicità delle categorie

mercoledì 29 giugno 2016

La merce* - Roberto Fineschi

*Da:    http://win.ospiteingrato.org/

Il concetto di merce è la chiave della teoria marxiana del “capitale”. La sua complessa definizione implica una serie di nozioni di carattere filosofico ed economico che trovano poi pieno sviluppo nello svolgimento della teoria nella sua interezza. Essa è, infatti, detta “forma economica cellulare”. 
La merce è unità immediata di valore d’uso e valore. Essa è, dunque, da una parte un oggetto utile, caratteristica che non la distingue dal più generico “prodotto”, in quanto l’utilità è presupposto comune a qualunque forma del risultato del processo lavorativo – il prodotto – in qualsiasi forma di organizzazione della riproduzione umana. Questo è il suo “contenuto materiale”, condizione necessaria ma non sufficiente alla definizione di merce.
L’indistinzione di prodotto e merce, ovvero di produzione in genere e forme storicamente determinate di essa, è uno dei limiti fondamentali dei pensatori che precedono Marx, nonché uno degli assiomi più controversi, ma più o meno indiscussi della dominante ideologia/teoria economica ufficiale.

Torniamo alla merce. Oltre che valore d’uso, essa deve essere anche valore, ovvero avere “forma sociale” storicamente specifica. Se pare meno controversa la definizione del valore d’uso, da sempre si discute su quella di valore. Marx la articola in tre passaggi: sostanza, grandezza e forma di valore. I primi due punti sono affrontati nel § 1 del I capitolo del I libro del Capitale, il terzo nel § 3. 

Una lunga traduzione interpretativa, che risale, in parte, allo stesso Engels, ha conferito maggiore importanza al § 1, dove Marx afferma essere il lavoro astrattamente umano la sostanza del valore ed il tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di una merce la sua grandezza di valore. Lavoro astrattamente umano implica che non si tratti di un genere determinato di lavoro concreto a creare il valore, vale a dire che non sono la sartoria in quanto sartoria, o la tessitura in quanto tessitura a farlo; sartoria e tessitura pongono il valore in quanto figure particolari di lavoro astrattamente umano, di lavoro umano in genere. Sulla base di queste pagine parrebbe poter emergere una definizione puramente tecnica del valore, che si ridurrebbe a una certa quantità di “lavoro contenuto” nel prodotto, da misurarsi attraverso il dispendio di forza-lavoro ovvero il tempo di lavoro. Questo tipo di lettura era in qualche modo suggerito dal modo in cui Marx imposta la questione della “trasformazione dei valori in prezzi” nel IX capitolo (ma non nel X) del III volume. È più o meno questo che si intende comunemente con “teoria del valore-lavoro”.

martedì 28 giugno 2016

IL CAPITALE, LIBRO I* - Karl Marx



PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Quest'opera della quale consegno al pubblico il primo volume, costituisce il seguito del mio scritto Per la critica dell'economia politica, pubblicato nel 1859. Il lungo intervallo fra l'inizio e la continuazione è dovuto a una malattia durata molti anni, che ha interrotto a più riprese il mio lavoro.

Il contenuto di quello scritto anteriore è riassunto nel primo capitolo di questo volume; e non solo per mantenere il nesso e per completezza: l'esposizione è migliorata; ogni volta che è stato possibile, molti punti, prima semplicemente accennati, ora sono stati ulteriormente sviluppati mentre, viceversa, cose che là erano state sviluppate per esteso qui sono solo accennate. Le sezioni sulla storia della teoria del valore e del denaro sono state ora soppresse del tutto, com'è ovvio; tuttavia il lettore dello scritto precedente troverà nelle note al primo capitolo nuove fonti per la storia di quella teoria.
Il detto « ogni inizio è difficile » vale per tutte le scienze. Perciò la comprensione del primo capitolo e specialmente della sezione che contiene l'analisi della merce presenterà maggior difficoltà degli altri. Però ho svolto nella maniera più divulgativa possibile ciò che riguarda più da vicino l'analisi della sostanza di valore e della grandezza di valore[1]La forma di valore, della quale la forma di denaro è la figura perfetta, è poverissima di contenuto e semplicissima. 

Tuttavia, invano l'umanità da più di duemila anni ha cercato di scandagliarla a fondo, mentre d'altra parte l'analisi di forme molto più ricche di contenuto e molto più complicate è riuscita per lo meno approssimativamente. Perché? Perché il corpo già formato è più facile da studiare che la cellula del corpo. Inoltre, all'analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici: l'uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza d'astrazione. Ma per quanto riguarda la società borghese la forma di merce del prodotto del lavoro, ossia la forma di valore della merce, è proprio la forma economica corrispondente alla forma di cellula. Alla persona incolta, l'analisi di tale forma sembra aggirarsi fra pure e semplici sottigliezze: e di fatto si tratta di sottigliezze, soltanto che si tratta di sottigliezze come quelle dell'anatomia microscopica.

lunedì 27 giugno 2016

KARL MARX, ZUR KRITIK DER POLITISCHEN ÖKONOMIE* - Stefano Garroni

*Da:     http://www.terzapagina.eu/




L’analisi della merce, come lavoro in doppia forma, di valore d’uso – quale risultato di un lavoro reale o di una attività <produttiva> finalizzata – e di valore di scambio, o tempo lavoro o lavoro sociale indifferenziato, è il risultato critico finale della ricerca quasi secolare dell’economia politica classica, che in Inghilterra inizia con W. Petty, in Francia, con Boisguillebert e si chiude, in Inghilterra, con Ricardo, in Francia con Sismondi.
Solo apparentemente la pagina di Marx è chiara: che significa, infatti, lavoro produttivo o finalizzato? Non è questa la caratteristica di ogni lavoro, che non sia un mero passatempo?
In un senso generalissimo, certamente le cose stanno così, ma appunto alla condizione di attenersi ad un senso generalissimo dei termini, dunque, ad un senso impreciso, vago ed in questo senso estraneo ad un linguaggio, che si voglia almeno comprensibile, se non addirittura scientifico.

Ed allora cominciamo a notare che il lavoro, produttore di valore d’uso, è finalizzato a realizzare una situazione di jouissance o di Nutznißung, ovvero di piacere, godimento o utilità. Mentre il lavoro produttore di valore di scambio, sia pure en principe, ha lo scopo, mediante lo scambio, di realizzare profitto – ed alla nozione di profitto, si badi, non appartengono di necessità logica né quella di godimento/jouissance né quella di utilizzabilità immediata/Nutznißung.

Dunque, la distinzione a cui l’economia politica è giunta, appunto, è quella tra lavoro come produttore di jouisance o Nutznißung (lavoro concreto, reale, finalizzato) e lavoro come lavoro sociale indifferenziato[1], il quale, almeno en principe, è produttore di profitto (e, ripeto, nel concetto di profitto né è compreso quello di jouissance, né quello di utilità).Passiamo ora ad un’altra interessante notazione.
Petty, sottolinea Marx, non si interroga circa la condizionatezza materiale della natura creativa del lavoro, ma lo considera subito nella sua forma sociale generale, in quanto divisione del lavoro ed è da questa concezione che Petty può giungere a scrivere una Aritmetica politica, che è la prima forma in cui l’economia politica si distingue come scienza a se stante.

domenica 26 giugno 2016

Brexit e fine dell’euro. Il “monito degli economisti” aveva visto giusto* - Riccardo Realfonzo



L’affermazione dell’“exit” al referendum britannico apre una crisi che oggi vede uscire il Regno Unito dall’Unione Europea e che in breve tempo potrebbe vedere sgretolarsi l’eurozona. È il caso di dire che i nodi vengono sempre al pettine, e per una volta nessuno potrà dire che gli economisti non avevano avvertito.

Già nel giugno 2010, ai primi segni di crisi dell’eurozona, una lettera pubblicata daeconomiaepolitica.it e sottoscritta da trecento economisti italiani e stranieri, lanciò un allarme sul modo in cui i governi europei reagivano alla crisi e soprattutto sui pericoli insiti nelle politiche di “austerità” imposte dai Trattati, che avrebbero ulteriormente depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi dei debiti, pubblici e privati. Ma quell’allarme rimase inascoltato.
Nel novembre 2013 il Financial Times pubblicò il “monito degli economisti”, con il quale insieme ad alcuni celebri studiosi di tutto il mondo sostenevamo che in assenza di una svolta espansiva e di uno sforzo concertato per la ricomposizione dei crescenti squilibri macroeconomici, l’Unione Europea non avrebbe potuto reggere, e la stessa esperienza della moneta unica si sarebbe esaurita. Il “monito” sottolineava il “carattere asimmetrico” della crisi, evidenziava i processi di divergenza impetuosi tra Paesi che traevano vantaggio dal quadro di regole europee (Germania in testa) e paesi che invece ne subivano le conseguenze. Il “monito” puntava il dito anche contro “le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale, che hanno contribuito per anni all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi”.

Crisi si, ma quale teoria della crisi? - Marco Veronese Passarella

Vedi anche:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/01/keynes-ma-chi-era-costui-marco-veronese.html




mercoledì 22 giugno 2016

«Una teoria generale del conflitto sociale». Lotte di classe, marxismo e relazioni internazionali.* - Matteo Gargani intervista Domenico Losurdo

*Da:    http://www.filosofia-italiana.net/ 



 Premessa
Rivolgeremo qui alcune domande a Domenico Losurdo, professore emerito presso l’Università degli Studi di Urbino, a partire dalle sue due più recenti pubblicazioni La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma–Bari 2013 (abbreviato “LC” e seguito dal numero di pagina dopo la virgola) e La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma 2014 (abbreviato “SA” e seguito dal numero di pagina dopo la virgola).


 Intervista

Gargani:
Nel marxismo italiano, dal secondo dopoguerra, si possono – con le dovute cautele storiografiche – rintracciare tre filoni fondamentali. Il primo è quello storicista, ossia il canone interpretativo del PCI, impostato nelle sue linee essenziali da Togliatti e ispirato a una lettura di Gramsci quale culmine di un’ideale linea De Sanctis-Labriola-Croce. Il secondo è quello operaista, la cui simbolica data d’inizio può esser fatta risalire alla fondazione nel 1961 della rivista «Quaderni Rossi» e che ha annoverato tra le sue fila personalità differenti per formazione e provenienza politica come Tronti, Panzieri, Asor Rosa, Negri e Cacciari. Il terzo è quello del cosiddetto “dellavolpismo” che, attraverso soprattutto la produzione di della Volpe e Colletti, ha cercato di dare una lettura in chiave scientifica della Critica dell’economia politica di Marx, marginalizzandone la produzione giovanile e accentuandone allo stesso tempo la distanza da Hegel. In che modo ha letto Marx negli anni della sua formazione? Come colloca la sua interpretazione di Marx rispetto a questi tre filoni?

Losurdo:
Non metterei sullo stesso piano i tre filoni. Il richiamo a Labriola e ancor prima al Risorgimento non impedisce a Togliatti di mettere l’accento sulla questione coloniale (ignorata da Labriola, che celebra l’espansione italiana in Libia) e di denunciare (con Lenin) la «barbara discriminazione tra le creature umane», propria del capitalismo e dello stesso liberalismo. Prendendo le mosse dal Risorgimento e dalle sue correnti più radicali, Togliatti per un verso respinge la visione cara a Gobetti per il cui il fascismo sarebbe «l’autobiografia di una nazione», per un altro verso critica la tesi di Croce, secondo cui l’avvento della dittatura fascista farebbe pensare a un’improvvisa e inspiegabile esplosione di barbarie e di follia, sarebbe da paragonare all’«invasione degli Hyksos».

martedì 21 giugno 2016

Dialoghi di profughi XVII.* - Bertolt Brecht

*Da:   https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/dialoghi-di-profughi-xvii-bertolt-brecht/10151316552073348?pnref=story
Cos'è "Dialoghi di Profughi":    http://www.controappuntoblog.org/2013/10/18/quando-si-parla-di-umorismo-io-penso-sempre-al-filosofo-hegel-fluchtlingsgesprache-dialoghi-di-profughi-brecht-bertolt/ 



ZIFFEL DICHIARA LA SUA AVVERSIONE A TUTTE LE VIRTU’. - LA CONCLUSIONE DI KALLE. – UN VAGO ACCENNO DI BRINDISI.

 Verso l’autunno, con pioggia e freddo. La dolce Francia era prostrata. I popoli si nascondevano sotto terra. Ziffel sedeva al ristorante della stazione di H., staccando un tagliando dalla sua tessera del pane.

ZIFFEL     Kalle, Kalle, che dobbiamo fare noi, poveri uomini? Dappertutto si pretende superumanità: dove possiamo più andare? Non solo un popolo o due stanno vivendo una Grande Epoca, ma questa avanza irresistibile per tutti i popoli, e nessuno le può sfuggire. Ad alcuni farebbe comodo di non dover passare attraverso la Grande Epoca, e che ci passassero solo gli altri: e invece niente, se lo devono togliere dalla testa. In tutto il continente aumentano le azioni eroiche; le imprese dell’uomo comune diventano sempre più gigantesche; ogni giorno s’inventa una nuova virtù. Per procurarsi un sacco di farina ci vuole ora l’energia con cui prima si sarebbe potuto dissodare il suolo d’un intera provincia. Per appurare se bisogna fuggire già oggi o se si potrà fuggire solo domani, è necessaria l’intelligenza con cui ancora un paio di decenni fa si sarebbe potuta creare un’opera immortale. Per scendere in strada ci vuole la forza di un eroe omerico, e l’ascetismo d’un Budda per essere semplicemente tollerati. Solo possedendo lo spirito d’umanità di San Francesco ci si può trattenere dal compiere un delitto. Il mondo diventa una dimora d’eroi, e noi allora dove andiamo? Per un po’ di tempo sembrò che il mondo potesse diventare abitabile: l’umanità respirava di sollievo. La vita era diventata più facile. Erano arrivati il telaio meccanico, la macchina a vapore, l’automobile, l’aeroplano, la chirurgia, l’elettricità, la radio, il piramidone, e l’uomo poteva essere più pigro, più vile, più sensibile al dolore, più amante dei piaceri, in breve: più felice. Tutte quelle macchine servivano a far si che ognuno potesse far tutto. Si contava infatti su gente comune, di media grandezza. Che ne è stato di questa promettente evoluzione? Il mondo è nuovamente pieno delle più vane e folli pretese ed esigenze. Noi abbiamo bisogno di un mondo in cui si possa vivere con un minimo di intelligenza, di coraggio, amor patrio, senso dell’onore, senso della giustizia, ecc., e invece cosa abbiamo? Glielo dico chiaro e tondo: sono stufo di dover essere virtuoso perché niente funziona a dovere; di essere disposto a tutte le rinunce perché regna una penuria non necessaria; diligente come un’ape perché manca l’organizzazione; coraggioso perché il mio regime mi coinvolge in guerre. Kalle, uomo, amico, io sono stufo di tutte le virtù e mi rifiuto di diventare un eroe.