*Da: http://www.economiaepolitica.it/
Leggi il Monito: http://www.theeconomistswarning.com/2013/09/il-monito-degli-economisti.html
Leggi il Monito: http://www.theeconomistswarning.com/2013/09/il-monito-degli-economisti.html
Già nel giugno 2010, ai primi segni di crisi
dell’eurozona, una
lettera pubblicata daeconomiaepolitica.it e sottoscritta da
trecento economisti italiani e stranieri, lanciò un allarme sul modo in cui
i governi europei reagivano alla crisi e soprattutto sui pericoli insiti nelle
politiche di “austerità” imposte dai Trattati, che avrebbero ulteriormente
depresso l’occupazione e i redditi, rendendo ancora più difficili i rimborsi
dei debiti, pubblici e privati. Ma quell’allarme rimase inascoltato.
Nel novembre 2013 il Financial Times pubblicò
il “monito
degli economisti”, con il quale insieme ad alcuni celebri studiosi di tutto
il mondo sostenevamo che in assenza di una svolta espansiva e di uno sforzo
concertato per la ricomposizione dei crescenti squilibri macroeconomici,
l’Unione Europea non avrebbe potuto reggere, e la stessa esperienza della
moneta unica si sarebbe esaurita. Il “monito” sottolineava il “carattere
asimmetrico” della crisi, evidenziava i processi di divergenza impetuosi tra
Paesi che traevano vantaggio dal quadro di regole europee (Germania in testa) e
paesi che invece ne subivano le conseguenze. Il “monito” puntava il dito anche
contro “le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere
l’avanzo commerciale, che hanno contribuito per anni all’accumulo di enormi
squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi”.
Le tesi del “monito” sono state riprese più volte all’estero
e in Italia (si veda, tra l’altro, Eurocrisi:
il conto alla rovescia non si è fermato) e anche innescando un dibattito
teso a valutare gli effetti
di una uscita dall’euro[1].
Ma nonostante questi allarmi, la politica europea, complice
la cecità degli economisti più liberisti, ha brillato per ignavia, non pensando
mai neppure di ipotizzare una revisione dei Trattati e un cambiamento in senso
espansivo delle politiche fiscali.
Ci siamo già occupati di chiarire le ragioni
economiche fondamentali della Brexit. In questi anni, il principale problema
del Regno Unito è stato la crescita impetuosa del disavanzo commerciale, che ha
reso il Paese sempre più dipendente dai capitali stranieri. Lo squilibrio dei
conti con l’estero britannico è dipeso in buona misura del surplus della
bilancia commerciale tedesca, che lo scorso anno ha superato addirittura l’8%
del pil, ancora una volta sforando i limiti posti dalla stessa Commissione
Europea. Un avanzo commerciale tedesco reso possibile, si badi bene, dalla
presenza dell’euro. Infatti, quell’avanzo è stato compensato dai disavanzi
dei Paesi periferici dell’eurozona e ciò ha tenuto relativamente stabile l’euro
e pesantemente danneggiato gli altri partner commerciali, Gran Bretagna in
testa. La politica deflazionista e “neo-mercantilista” tedesca, dunque, ha
agito sotto l’ombrello del quadro delle regole europee e della moneta unica,
accentuando gli squilibri nell’eurozona e in tutta l’Unione Europea.
Ora la Brexit darà una spinta a tutte le forze politiche
anti-euro. E ciò mentre il quadro macroeconomico dell’area euro appare più nero
che mai. Infatti, al contrario di quanto sostenuto dalla Commissione Europea,
il combinato di moneta unica e politiche di austerità ha continuato a
intensificare gli squilibri e le divergenze tra le aree centrali e quelle periferiche.
Per verificare quanto appena affermato, misuriamo la
disomogeneità nelle performancemacroeconomiche all’interno della
zona euro mediante il coefficiente di variazione del tasso di crescita del Pil
pro capite. Si osserva che i Paesi dell’euro sono sempre più distanti fra loro.
Dal 1990 a oggi, infatti, il coefficiente passa da 0.30 a 0.42 con una marcata
accelerazione dopo lo scoppio della crisi e l’intensificarsi delle politiche di
austerità.
Fonte: nostre elaborazioni su dati Ameco – Commissione
Europea
Ancora, possiamo effettuare delle comparazioni
sull’andamento del Pil, ponendo pari a cento il valore registrato da
alcuni Paesi nel 2007, anno precedente lo scoppio della crisi. Si vede
bene in quale macroscopica misura le aree periferiche si siano allontanate dai
valori medi dell’eurozona e naturalmente in particolare dalla Germania (ma
anche dalla Francia).
Fonte: nostre elaborazioni su dati Ameco – Commissione
Europea
Queste analisi, confermano la tesi secondo cui i processi di
centralizzazione dei capitali e di crescita della divergenza territoriale,
favoriti dalla moneta unica, risultano aggravati dalle politiche di austerità e
finiscono per pesare maggiormente proprio sulle aree periferiche d’Europa.
Per controllare anche quest’ultima affermazione è
sufficiente esaminare la dinamica degli investimenti pubblici, sempre ponendo
il dato registrato da ciascun paese nel 2007 pari a cento.
Fonte: nostre elaborazioni su dati Ameco – Commissione
Europea
Il primo aspetto da rilevare, e che conferma il segno
generale delle politiche economiche nell’Unione Europea, è che dopo lo scoppio
della crisi la spesa pubblica per investimenti nell’eurozona è diminuita in
media del 15%. Il secondo aspetto è dato dalle importantissime differenze
esistenti tra centri e periferie: in Germania, ad esempio, si registra un
incremento degli investimenti pubblici del 16% rispetto al 2007, mentre in
Italia si ha un calo del 29%[2].
Alla luce di queste evidenze, la nostra conclusione non può
che essere ancora quella del “monito degli economisti”: il destino dell’euro è
drammaticamente segnato. Solo una positiva e repentina svolta verso politiche
fiscali coordinate ed ampiamente espansive, redistributive sul piano
territoriale e pienamente assecondate dalle autorità monetarie, potrà arrestare
il conto alla rovescia dell’euro.
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[1] Sul piano scientifico si
vedano i seguenti contributi: Realfonzo R. e Viscione A., “The Real Effects of
a Euro Exit: Lessons from the Past”, International Journal of Political
Economy, 2015, vol. 44, n. 3, pp. 161-173; Realfonzo R. e Viscione A., “The
Effecs of a Euro Exit on Growth, Employment and Wages”, Levy Economics
Institute, working paper n. 840, giugno 2015, pp. 1-14.
[2] Persino il Fondo Monetario
Internazionale e l’Ocse cominciano a domandare maggiori investimenti pubblici.
Mi riferisco, ad esempio, alle raccomandazioni del FMI alla Germania in un
recente G20, oltre che agli studi contenuti nel World Economic Outlook,
Chapter 3: Is it time for an infrastructure push? The macroeconomic effects of public investment,
2014, pp. 75-114 ed al recente Outlook dell’Ocse, Interim Economic Outlook –
Stronger growth remains elusive: Urgent policy response is needed, 2016, p. 7. Si
tratta di aperture ancora prudenti, ma da quando è scoppiata la crisi nel 2008
è la prima volta che Fmi ed Ocse riconoscono le proprietà espansive della spesa
pubblica.
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