È trascorso ormai un secolo dalla pubblicazione di L’imperialismo,
fase suprema del capitalismo (1916) di Lenin e L’economia
mondiale e l’imperialismo (1915) di Bucharin, i quali, insieme a L’accumulazione
del capitale (1913) di Rosa Luxemburg, identificavano l’imperialismo
come una forza e uno strumento del capitalismo. Era l’epoca della guerra
mondiale, dei monopoli, delle leggi antitrust, degli scioperi per gli aumenti
salariali, dello sviluppo da parte di Ford della linea di assemblaggio, della
Rivoluzione d’Ottobre, di quella messicana e di quella, fallita, tedesca, e
tanto altro ancora. Un momento storico che ha registrato la diffusione e
l’approfondirsi della sfida globale al capitalismo.
Questo articolo si pone l’obiettivo di esaminare la
divisione internazionale del lavoro attraverso le classiche concezioni
marxiste dell’imperialismo, estendendo tali idee alla divisione
internazionale del lavoro nell’ambito della produzione di informazioni e
tecnologie dell’informazione odierne. Argomenterò la tesi secondo la quale il
lavoro digitale, in quanto nuova frontiera dell’innovazione e dello
sfruttamento capitalisti, ha un ruolo centrale nelle strutture
dell’imperialismo contemporaneo. Attingendo a questi concetti classici la mia
analisi mostra come, nel nuovo imperialismo, le industrie dell’informazione
formino uno dei settori economici più concentrati; come
iper-industrializzazione, finanza e informazionalismo vadano di pari passo;
come le società multinazionali dell’informazione siano radicate negli
stati-nazione ma operino globalmente; e infine, quanto le tecnologie
dell’informazione siano divenute uno strumento di guerra.(1)
Definire l’imperialismo
Nel suo “Saggio Popolare”, così è sottotitolato il suo
scritto del 1916, Lenin definisce l’imperialismo come
il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si
è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di
capitali ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del
mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera
superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici.(2)
Bucharin e Preobrazenskij intendono l’imperialismo come “La
politica di conquista, che il capitalismo finanziario conduce nella sua lotta
per i mercati, delle fonti di materie prime e dei territori dove il capitale
possa investire le sue riserve”.(3) Bucharin, contemporaneo di Lenin e
redattore della Pravda dal 1917 al 1929, ha tratto delle
conclusioni simili alla lista delle caratteristiche chiave dell’imperialismo
stilata da Lenin, identificando l’imperialismo come “un prodotto del
capitalismo finanziario” e sostenendo che “il capitale finanziario non può
perseguire altra politica che quella imperialista”.(4)
Secondo Bucharin, l’imperialismo è anche, necessariamente,
una forma di capitalismo di stato, un concetto difficile da applicare nel
contesto del neoliberalismo, il quale è basato più su un dominio a livello
mondiale da parte delle grandi società che sugli stati-nazione. Egli vede le
nazioni come “trust capitalisti di stato” bloccati in una “lotta mondiale” che
conduce a una guerra globale.(5) Per Bucharin, l’imperialismo è semplicemente
“l’espressione della competizione tra” questi trust, i quali mirano tutti a
“centralizzare e concentrare il capitale nelle loro mani”.(6) Lenin, al
contrario, scrive “per l’imperialismo è caratteristica la gara di alcune grandi
potenze in lotta per l’egemonia, cioè per la conquista di terre, diretta non
tanto al proprio beneficio, quanto a indebolire l’avversario e a minare la sua egemonia”.(7)
La formula leniniana di una competizione tra “grandi potenze” è molto più
accurata del concetto di trust capitalisti di stato elaborato da Bucharin,
poiché comprende sia le grandi società che gli stati.
Rosa Luxemburg, d’altra parte, concepisce l’imperialismo
come la violenta espansione geografica e politica dell’accumulazione del
capitale, la
lotta di concorrenza intorno ai residui di ambienti
non-capitalistici non ancora posti sotto sequestro… Dati l’alto sviluppo e la
sempre più accesa concorrenza dei paesi capitalistici per la conquista di zone
non-capitalistiche, l’imperialismo cresce in energia e forza d’urto, sia nella
sua aggressività contro il mondo non-capitalistico, sia nell’inasprimento dei
contrasti fra i paesi capitalistici concorrenti. Ma con quanta maggiore
energia, potenza d’urto e sistematicità l’imperialismo opera all’erosione delle
civiltà non-capitalistiche, tanto più rapidamente toglie il terreno sotto i
piedi all’accumulazione del capitale.(8)
La Luxemburg sostiene che il capitale punta a estendere
globalmente lo sfruttamento, “ha bisogno di poter disporre senza limiti di
tutte le braccia del mondo per mobilitare tutte le forze produttive del
globo”.(9)
Quali che siano le loro divergenze, Lenin, Bucharin e la
Luxemburg condividono la convinzione che l’imperialismo sia la “fase terminale
del capitalismo”,(10) o una forma di “putrefazione del capitalismo”,(11) per
cui “è fatale il tramonto della borghesia”.(12) Simili affermazioni riflettono
non soltanto l’ottimismo politico dei rivoluzionari dell’epoca, ma anche
un’interpretazione strutturalista e funzionalista del capitalismo, allora
comune, la quale assumeva come scontato l’inevitabile declino del sistema. In
effetti, tutti e tre scrivevano allo scoppio della Prima guerra mondiale, che
sarebbe stata seguita, dopo un breve periodo di prosperità, dalla Grande
depressione e dalla Seconda guerra mondiale – il che forniva un adeguato
supporto ai loro argomenti circa l’instabilità globale del sistema. A distanza
di cento anni il capitalismo perdura. Ma per quanto possa aver assunto
qualità inedite, esso può ancora essere caratterizzato come imperialismo, e continua
a sperimentare gravi focolai della sue inerenti tendenze alla crisi.(13)
Lavoro e imperialismo
Lenin, Bucharin e la Luxemburg hanno visto nella divisione
internazionale del lavoro un elemento centrale dell’imperialismo. Lenin fa
ricorso alla nozione di divisione del lavoro nel senso di divisione tra le
industrie sulle quali determinate banche concentrano le loro attività di
investimento. (14) Egli considera l’esportazione di capitali, a differenza di
quella di merci, come una caratteristica fondamentale dell’imperialismo:
Finché il capitalismo resta tale, l’eccedenza dei
capitali non sarà impiegata a elevare il tenore di vita delle masse del
rispettivo paese, perché ciò importerebbe diminuzione dei profitti dei
capitalisti, ma ad elevare tali profitti mediante l’esportazione all’estero,
nei paesi meno progrediti. In questi ultimi il profitto ordinariamente è assai
alto, poiché colà vi sono pochi capitali, il terreno è relativamente a buon
mercato, i salari bassi e le materie prime a poco prezzo.(15)
Analogamente, Bucharin sostiene, basandosi su Marx, che una
divisione sociale del lavoro tra città e campagna e tra imprese, settori,
suddivisioni economiche, e nazioni – appunto la divisione internazionale del
lavoro – è una proprietà distintiva del capitalismo. (16) Una divisione che
dipende in parte da cause naturali (per esempio “il cacao può essere prodotto
solo nei paesi tropicali”(17)), e in parte da cause sociali, “lo sviluppo
ineguale delle forze produttive” il quale “crea diverse tipologie economiche,
differenti sfere di produzione, aumentando in tal modo la portata della
divisione sociale internazionale del lavoro”.(18) Il “lavoro di ogni singolo
paese diviene parte di questo lavoro sociale mondiale attraverso lo scambio che
si svolge su scala internazionale”. (19) Dati un mercato mondiale e una
produttività diseguale, i paesi meno produttivi sono costretti a vendere merci
a un prezzo inferiore al loro valore così da poter competere, il che si traduce
in un sistema di scambio ineguale.
Rosa Luxemburg si è focalizzata nel suo concetto di
imperialismo sulla relazione tra capitalismo e modi di produzione
non-capitalistici, nei quali
Dominano qui come metodi la politica coloniale, il
sistema dei prestiti internazionali, la politica delle sfere di interesse, le
guerre. Appaiono qui apertamente e senza veli la violenza, la frode,
l’oppressione, la rapina, la guerra, e costa fatica identificare sotto questo
groviglio di atti politici di forza e di violenza esplicita le leggi del
processo economico.(20)
Secondo la Luxemburg, le relazioni internazionali
dell’imperialismo richieono la rapina e lo sfruttamento del lavoro: “Il
capitale non può fare a meno dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro dell’intero
globo; ha, per l’illimitato svolgimento del suo moto di accumulazione, bisogno
delle ricchezze naturali e delle forze-lavoro di tutta la terra… Il capitale
non soltanto nasce «sudando da tutti i pori sangue e fango», ma s’impone
gradatamente come tale in tutto il mondo”.(21)
Sebbene Lenin, Bucharin e la Luxemburg conservassero
divergenze politiche su alcuni aspetti dell’imperialismo, specialmente riguardo
al ruolo del nazionalismo nella lotta di classe e nell’emancipazione,
nell’autodeterminazione nazionale, e sul ricorso ai mercati esteri nel
capitalismo, è evidente che per tutti e tre i teorici, la periferia non è solo
una fonte di risorse e un mercato dove vendere merci, ma è anche uno spazio
integrato nella divisione internazionale del lavoro. (22) In quanto parte di
tale suddivisione, lo sfruttamento dei lavoratori nella periferia consente
l’esportazione e l’appropriazione del plusvalore da parte delle grandi società.
La divisione internazionale del lavoro digitale
Le comunicazioni globali, nelle forme del telegrafo e delle
agenzie di stampa internazionali, hanno già svolto un ruolo nell’imperialismo,
sin dai tempi della Prima guerra mondiale, agevolando e coordinando il
commercio, gli investimenti, l’accumulazione, lo sfruttamento e la
guerra.(23) Cento anni dopo, mezzi di informazione e comunicazione
qualitativamente differenti quali super-computer, l’internet, laptop, tablet,
telefoni cellulari e i social-media sono emersi. Ma proprio come il lavoro
della manodopera della periferia nelle prime fasi dell’imperialismo, la
produzione di informazioni e tecnologie dell’informazione sono parte di una
divisione internazionale del lavoro, la quale continua a plasmare il modo di
produzione, distribuzione e consumo.(24)
La nozione di nuova divisione internazionale del lavoro
(NIDL) è stata introdotta negli anni Ottanta al fine di sottolineare che i
paesi in via di sviluppo sono diventati fonti di lavoro manifatturiero a basso
costo, oltreché per tracciare l’ascesa delle grandi multinazionali.(25) Nel
volume The Endless Crisis John Bellamy Foster e Robert W.
McChesney collocano tale ascesa all’interno del tentativo del capitale di
superare la stagnazione economica di lungo termine e ottenere profitti
monopolistici globali.(26) Le multinazionali mirano a ridurre la quota dei
salari a livello globale e aumentare i propri profitti installando un sistema
globale di competizione fra i lavoratori. La conseguenza è un aumento a livello
mondiale del tasso di sfruttamento che Foster e McChesney, attingendo al lavoro
di Stephen Hymer, chiamano una “strategia del divide et impera”.(27)
La tabella 1 mostra una comparazione tra le 2.000 maggiori
multinazionali del mondo negli anni 2004 e 2014. Le entrate di queste società
rappresentano oltre il 50% del PIL mondiale, evidenziando come le
multinazionali competano per il monopolio a livello mondiale. In entrambi gli
anni, circa tre quarti dei beni capitali di queste società erano collocati nel
settore FIRE – finanza, assicurazioni e immobiliare – il che conferma
l’asserzione di Foster e McChesney secondo la quale si può parlare con
accuratezza di un sistema globale di capitalismo monopolistico-finanziario.(28)
Tuttavia, tali attività includono anche quote significative nelle industrie
della mobilità (infrastrutture dei trasporti, petrolio e gas, veicoli),
manifattura e informazione (dagli hardware per le telecomunicazioni, i software
e i semiconduttori alla pubblicità, fin all’internet, l’editoria e la
produzione televisiva). Tutto ciò indica che, in misura diversa, il capitalismo
globale significa non solo capitalismo monopolistico-finanziario, ma anche
capitale monopolistico della mobilità, capitalismo monopolistico
iper-industriale, e capitalismo monopolistico dell’informazione.(29)
Tabella 1. Le 2000 maggiori multinazionali del mondo,
2004-2014
Un importante cambiamento avvenuto tra il 2004 e il 2014 è
l’ascesa delle multinazionali cinesi, la cui quota di attività, entrate e
profitti si è enormemente accresciuta. Le multinazionali nord americane e
europee ormai non controllano più i circa tre quarti, bensì i due terzi del
capitale globale, il che significa che nonostante tutto continuano a essere
dominanti. Il ruolo di maggior prominenza giocato dalle multinazionali cinesi
non si traduce in una rottura fondamentale, mostra invece che la Cina imita il
capitalismo occidentale, per cui si può affermare che è emerso un “capitalismo
con caratteristiche cinesi”.
La NIDL è al cuore dell’economia digitale e dell’informazione, la quale produce le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) e l’informazione stessa. Svariate forme di lavoro fisico producono le tecnologie dell’informazione utilizzate in seguito dai lavoratori delle industrie dei media e della cultura per creare contenuti digitali, come musica, film, dati, statistiche, multimedia, immagini, video, animazioni, testi e articoli. Tecnologia e contenuto sono in tal modo dialetticamente interconnessi, a tal punto che l’economia dell’informazione è al contempo fisica e non-fisica. Essa non è né una sovrastruttura né immateriale, piuttosto una specifica forma dell’organizzazione delle forze produttive trasversale alla divisione tra base-sovrastruttura.
La figura 1 mostra un modello dei principali processi di produzione coinvolti nella divisione internazionale del lavoro digitale. Ogni fase della produzione comporta dei soggetti umani (S) i quali si servono di tecnologie del lavoro (T) applicandole agli oggetti del lavoro (O), ottenendo un nuovo prodotto. Il fondamento del lavoro digitale globale consiste nel ciclo del lavoro agricolo attraverso il quale i minatori estraggono i minerali. Minerali che divengono gli oggetti della successiva fase di produzione, nella quale vengono trasformati in componenti TIC, i quali a loro volta entrano nel susseguente processo di lavoro come oggetti: i lavoratori addetti all’assemblaggio costruiscono le tecnologie dei media digitali usando i componenti TIC come input. Il risultato di tutto questo lavoro sono tali tecnologie dei media digitali, le quali gestiscono la produzione, la distribuzione, la circolazione e il consumo di diversi tipi di informazione.
Figura 1. La divisione internazionale del lavoro digitale
“Lavoro digitale”, per tanto, non denota soltanto la
produzione di contenuti digitali. Si tratta, invece, di una categoria che
abbraccia l’intero modo di produzione digitale, una rete di lavoro agricolo,
industriale e informazionale che rende possibile l’esistenza e l’utilizzo dei
media digitali. I soggetti (S) coinvolti nel modo di produzione digitale –
minatori, addetti alla trasformazione e all’assemblaggio, lavoratori
dell’informazione – sono inseriti in specifici rapporti di produzione. Dunque
ciò che viene designato con S nella figura 1 e in realtà un rapporto, S1–S2,
fra differenti soggetti o gruppi di soggetti.
Oggi gran parte di queste rapporti digitali di produzione
assumono forma di lavoro salariato, lavoro schiavistico, lavoro non pagato,
lavoro precario, lavoro freelance, rendendo la divisione internazionale dl
lavoro digitale una vasta e complessa rete di processi globali di sfruttamento
interconnessi. Si va dai minatori congolesi in stato di schiavitù che
estraggono i minerali per i componenti TIC, ai salariati ultra-sfruttati delle
fabbriche Foxconn, dagli ingegneri del software sottopagati in India, sino agli
strapagati, ultra-stressati ingegneri del software di Google e di altre grandi
società occidentali, dai freelance digitali precari che creano e disseminano
cultura, ai lavoratori addetti ai rifiuti che disassemblano componenti TIC,
esponendosi a materiali tossici.
Vediamo un esempio di lavoro digitale. nel 2015, secondo la
lista delle più grandi multinazionali stilata da Fotune, Apple si è
piazzata dodicesima tra le maggiori compagnie mondiali.(30) I suoi profitti
sono cresciuti da 37 miliardi di dollari nel 2013 a 39,5 miliardi nel 2014 e
44,5 miliardi nel 2015.(31) Quell’anno gli iPhone hanno rappresentato il 56
percento delle vendite nette di Apple, gli iPad il 17 percento, i Mac il 13
percento, e iTunes, software e altri servizi il 10 percento.(32) La manodopera
cinese impiegata nella produzione di iPhone ha costituito solo l’1,8 percento
del loro prezzo, mentre i profitti di Apple tratti dalla loro vendita sono
stati il 58,5 percento, e i fornitori di Apple, come la società taiwanese
Fofconn, hanno ottenuto un 14,3 percento di profitti.(33) Così un iPhone 6 Plus
non costa 299 dollari a causa del costo del lavoro, bensì perché per ogni
telefono Apple guadagna in media 175 dollari di profitto e Foxconn 43 dollari,
laddove i lavoratori che assemblano i cellulari nelle fabbriche Foxconn
ricevono solo 5 dollari. Gli alti prezzi degli iPhone e di altri prodotti sono
una conseguenza dell’alto tasso di profitto e dell’altrettanto alto tasso di
sfruttamento – risultati diretti della divisione internazionale del lavoro
digitale. La Cina, come scrivono Foster e McChesney, è il “centro mondiale di
assemblaggio” in un sistema di “arbitraggio globale del lavoro e…
super-sfruttamento”.(34)
In base alla lista di Fortune Global 500,
Foxconn è il terzo più grande datore di lavoro al mondo fra le grandi società,
con oltre un milione di lavoratori, in gran parte giovani migranti dalle
campagne.(35) Foxconn assembla gli iPad, i Mac, gli iPhone, e il Kindle di
Amazon, così come le consolle per videogame della Sony, Nintendo e Microsoft.
Quando diciassette lavoratori Foxconn hanno tentato il suicidio tra il gennaio
e l’agosto 2010, e la maggior parte ci sono riusciti, la questione delle
pessime condizioni di lavoro nell’industria cinese dell’assemblaggio di
componenti TIC ha iniziato a attirare una maggiore attenzione. Un certo numero
di studi accademici ha in seguito documentato la realtà quotidiana delle
fabbriche Foxconn, dove i lavoratori devono sottostare a bassi salari, orari
lunghi, frequenti disagi nella pianificazione del lavoro; dispositivi di
protezione inadeguati; alloggi sovraffollati più simili a prigioni; sindacati
gialli gestiti da funzionari della società sfiduciati dai lavoratori; divieto
di parlare durante il lavoro; pestaggi e molestie da parte delle guardie di
sicurezza; cibo disgustoso.(36)
Eppure Apple nel suo Supplier Responsibility 2014 Progress
Report si vanta di pretendere dai propri “fornitori di raggiungere una
conformità media del 95 percento col nostro massimo costituito da una settimana
lavorativa di 60 ore”.(37) La Convenzione C030 dell’Organizzazione
internazionale del lavoro sull’orario di lavoro raccomanda un limite massimo di
quarantotto ore settimanali, e non più di otto ore giornaliere. Che la Apple
sia orgogliosa di far rispettare una settimana lavorativa di sessanta ore,
nelle sue catene di fornitura, dimostra che la divisione internazionale del
lavoro digitale, nell’imperialismo contemporaneo, non solo è caratterizzata
dallo sfruttamento, ma che di fatto è anche razzista: Apple da come scontato
che per i cinesi sessanta ore di lavoro sia uno standard adeguato.
Il succitato report della Apple, inoltre, sostiene che la
compagnia ha monitorato le condizioni di lavoro di oltre un milione di
lavoratori. Tuttavia, tali verifiche non vengono condotte in modo indipendente,
né i loro risultati riportati autonomamente. Dal momento che Apple non si
affida a organizzazioni indipendenti, come Students and Scholars against Corporate
Misbehavior (SACOM), le sue relazioni sono da considerarsi intrinsecamente di
parte: i lavoratori venendo osservati dai datori di lavoro di certo non
andranno a riferire le loro rimostranze, per l’ovvio timore di perdere il
lavoro.
Riguardo alle numerose violazioni dei diritti dei lavoratori
elencate sopra, lo stile e il linguaggio del report suggeriscono che le carenze
dei fornitori e degli enti locali sono il problema: “I nostri fornitori sono
tenuti a rispettare i rigorosi standard del Codice di condotta dei fornitori
della Apple, e ogni anno alziamo il livello di ciò che ci aspettiamo…
Controlliamo ogni fornitore finale del settore assemblaggio ogni anno”. Il
report non ammetterà mai che simili comportamenti derivano, in realtà, dalla
continua richiesta da parte delle stesse multinazionali di produrre a basso
costo e sempre più rapidamente. La strategia ideologica della Apple mira a
sviare l’attenzione dalle proprie responsabilità nello sfruttamento dei
lavoratori cinesi.
Conclusioni: ideologia e resistenza
La Apple ha commercializzato l’iPhone 5 ricorrendo allo
slogan “for the colorful” e per l’iPhone 6 “bigger than big”. Slogan che
implicano una rivoluzione tecnologica digitale che avrebbe portato a una
società nuova e migliore dalla quale tutti traggono beneficio. Simili promesse
e pretese ideologiche si possono trovare nel contesto dei social media, del
cloud computing, dei big data, del crowdsourcing e fenomeni correlati.
Asserzioni di questo genere non sono altro che forme di feticismo tecnologico,
le quali assumono che la tecnologia favorisca di per sé una buona società senza
analizzare i rapporti sociali in cui si trova incorporata. Nel feticismo
tecnologico, esattamente come Marx scrive a proposito del carattere di feticcio
della merce, il “rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini
stessi” assume “la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose”.(38) p.88
Confrontare la divisione internazionale del lavoro digitale
con i classici concetti di imperialismo di Lenin, Luxemburg e Bucharin ci aiuta
a smascherare tale feticismo tecnologico. L’esempio della Apple dimostra come
le tecnologie digitali, e le ideologie che fanno loro da cornice nella
pubblicità e nella politica, siano offuscate da una fascinazione per il nuovo
la quale ignora le continuità dello sfruttamento globale.
Apple realizza enormi profitti nella divisione
internazionale del lavoro digitale attraverso l’esternalizzazione della parte
manifatturiera del lavoro in Cina, dove la strategia occidentale di
“esportazione dei capitali all’estero” porta alti profitti perché i salari sono
bassi e il tasso di sfruttamento alto.(39) Lo sfruttamento dei lavoratori alla
Foxconn, alla Pegatron e in altre società dimostra che “Il capitale non
soltanto nasce «sudando da tutti i pori sangue e fango», ma s’impone
gradatamente come tale in tutto il mondo”.(40) Nel complesso, le analisi di
Lenin e della Luxemburg sono calzanti nel XXI secolo come lo erano un centinaio
di anni fa.
Foster e McChesney affermano che le “contraddizioni
capitalistiche con caratteristiche cinesi” includono sovra-investimento nelle
costruzioni e nell’immobiliare, debolezza dei consumi, sfruttamento estremo,
crescenti diseguaglianze, infrastrutture inutilizzate, discriminazioni
contro i lavoratori migranti dalle aree rurali, inquinamento e degrado
ambientale.(41) Ciononostante, i resoconti dei media sulla Cina, in occidente,
tendono a ignorare l’attiva cultura politica di lotte operaie e sociali del
paese asiatico derivanti da tali contraddizioni. Secondo i dati forniti dal China
Labor Bulletin, 1.276 scioperi hanno avuto luogo in Cina nel 2014.(42) La
Cina non è una società monolitica, può infatti vantare attive e vivaci lotte
dei lavoratori contro lo sfruttamento. Nell’ottobre del 2014, dopo precedenti
agitazioni operaie nel mese di giugno, un migliaio di lavoratori sono scesi in
sciopero per ottenere aumenti salariali nella fabbrica Foxconn di
Chongqing.(43)
L’obiettivo a breve e medio termine delle lotte dei
lavoratori del settore digitale dovrebbe essere la costituzione di società
controllate dai lavoratori delle industrie del digitale e della cultura, a ogni
livello di organizzazione e su tutto il globo, a prescindere dal fatto che ciò
disturbi i social media, il software engineering, l’economia freelance,
l’estrazione di minerali o l’assemblaggio di componenti TIC. Sul lungo termine,
l’obiettivo dovrebbe essere il rovesciamento dell’organizzazione capitalistica
di queste sfere, insieme alla società capitalistica stessa. Circa il ruolo
delle dimensioni nazionale e internazionale delle lotte sociali contro il
capitalismo digitale, è questione di dibattiti politico-strategici. In un
indirizzo del 1867 all’Associazione internazionale dei lavoratori, Marx ha
scritto “al fine di opporsi ai loro lavoratori, i datori di lavoro o importano
mano d’opera dall’estero o trasferiscono la manifattura in paesi dove vi è una
forza lavoro a basso costo”.(44) È vero oggi come allora che se “la classe
lavoratrice vuole proseguire la propria lotta con qualche possibilità di
successo”, allora la sola risposta adeguata al dominio capitalista globale è
“che le organizzazioni nazionali diventino internazionali”. (45)
Note
- Per un’analisi più dettagliata, si vedano: Christian Fuchs, “Media, War and Information Technology,” in Des Freedman and Daya Kishan Thussu, eds., Media and Terrorism: Global Perspectives (London: Sage, 2012), 47–62; Christian Fuchs, “Critical Globalization Studies: An Empirical and Theoretical Analysis of the New Imperialism,”Science & Society 74, no. 2 (2010): 215–47; Christian Fuchs, “Critical Globalization Studies and the New Imperialism,” Critical Sociology 36, no. 6 (2010): 839–67; e Christian Fuchs, “New Imperialism: Information and Media Imperialism?” Global Media and Communication 6, no. 1 (2010): 33–60.
- V.I.Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, in Opere scelte(Edizioni Progress) 234.
- Nikolai Bukharin e Evgenii Preobrazhensky, L’A.B.C. del Comunismohttps://www.marxists.org/italiano/bucharin/1919/abc/abc-index.htm
- Nikolai Bukharin, Imperialism
and World Economy (New York: Monthly Review Press, 1973), 140.
- Ibid., 158.
- Ibid., 158.
- Lenin, 2L’imperialismo”, 236.
- Rosa Luxemburg, Laccumulazione del capitale (Einaudi, 1974), 447.
- Ibid., 357.
- Ibid., 447.
- Lenin, “L’imperialismo”, 243.
- L’A.B.C. del Comunismo https://www.marxists.org/italiano/bucharin/1919/abc/abc-index.htm
- Si pragonino, per esempio, John Bellamy Foster e Robert W. McChesney,The Endless Crisis: How Monopoly-Finance Capitalism Produces Stagnation and Upheaval from the USA to China (New York: Monthly Review Press, 2012); David Harvey, La guerra perpetua, Analisi del nuovo imperialismo (Il Saggiatore, 2006); e Ellen Meiksins Wood, Imperi del capitale (Meltemi, 2007).
- Lenin, “L’imperialismo”.
- Ibid., 212.
- Bukharin, Imperialism
and World Economy, 18, 21.
- Ibid., 19.
- Ibid., 20.
- Ibid., 22.
- Luxemburg, l’accumulazione del capitale, 454.
- Ibid., 360-454.
- Si veda il saggio di Paul Mattick del 1935 “Luxemburg versus Lenin,” in Anti-Bolshevik Communism (Monmouth, UK: Merlin Press, 1978).
- Christian Fuchs,Digital
Labor and Karl Marx (New York: Routledge, 2014).
- Ibid.
- Folker Fröbel, Jürgen Heinrichs
e Otto Kreye, The New International Division of Labor (Cambridge:
Cambridge University Press, 1981).
- Foster and McChesney, The
Endless Crisis.
- Ibid., 114–15, 119.
- Ibid.
- Ibid.
- Fortune Global 500 list 2015, reperibile in http://fortune.com.
- Apple Inc., 10-K Report 2014. Reperibile in http://sec.gov.
- Ibid.
- Jenny Chan, Ngai Pun e Mark
Selden, “The Politics of Global Production: Apple, Foxconn and China’s New
Working Class,” New Technology, Work and Employment28, no. 2
(2013): 100–15.
- Foster e McChesney, The
Endless Crisis, 172.
- Si veda Christian Fuchs, Culture
and Economy in the Age of Social Media (New York: Routledge,
2015).
- Vedi Jenny Chan, “A Suicide
Survivor: The Life of a Chinese Worker,” New Technology, Work and
Employment 2, no. 2 (2013): 84–99; Chan, Pun, e Selden, “The
Politics of Global Production”; Foster e McChesney, The Endless
Crisis, 119–20, 139–40, 173; Ngai Pun e Jenny Chan, “Global Capital,
the State, and Chinese Workers: The Foxconn Experience,” Modern
China 38, no. 4 (2012): 383–410; Jack L. Qiu, “Network Labor:
Beyond the Shadow of Foxconn,” in Larissa Hjorth, Jean Burgess e Ingrid
Richardson, eds., Studying Mobile Media: Cultural Technologies,
Mobile Communication, and the iPhone (New York: Routledge, 2012),
173–89; Jack L. Qiu, Goodbye iSlave: Rethinking Labor, Capitalism,
and Digital Media (Champaign, IL: University of Illinois Press,
2016); e Marisol Sandoval, “Foxconned: Labor as the Dark Side of the
Information Age,” tripleC 11, no. 2 (2013): 318–47.
- Apple Inc., Supplier
Responsibility 2014 Progress Report, reperibile in http://apple.com.
- Karl Marx, Il capitale, volume I (Einaudi, 1975), 88.
- Lenin, “L’imperialismo”.
- Luxemburg, L’accumulazione del capitale, 454.
- Foster e McChesney, The
Endless Crisis, 157.
- China Labor Bulletin Strike Map, reperibile in http://strikemap.clb.org.hk.
- “Thousands of Foxconn Workers
Strike Again in Chongqing for Better Wages, Benefits,” China Labor Watch,
October 8, 2014, http://chinalaborwatch.org.
- Karl Marx, “On the Lausanne
Congress,” in MECW, vol. 20 (London: Lawrence and Wishart
1984), 421–423.
- Ibid., 422.
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