Rivolgeremo qui alcune domande a Domenico Losurdo,
professore emerito presso l’Università degli Studi di Urbino, a partire dalle
sue due più recenti pubblicazioni La lotta di classe. Una storia politica e
filosofica, Laterza, Roma–Bari 2013 (abbreviato “LC” e seguito dal numero di
pagina dopo la virgola) e La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo,
guerra, Carocci, Roma 2014 (abbreviato “SA” e seguito dal numero di pagina dopo
la virgola).
Intervista
Gargani:
Nel marxismo italiano,
dal secondo dopoguerra, si possono – con le dovute cautele storiografiche –
rintracciare tre filoni fondamentali. Il primo è quello storicista, ossia il
canone interpretativo del PCI, impostato nelle sue linee essenziali da
Togliatti e ispirato a una lettura di Gramsci quale culmine di un’ideale linea
De Sanctis-Labriola-Croce. Il secondo è quello operaista, la cui simbolica data
d’inizio può esser fatta risalire alla fondazione nel 1961 della rivista
«Quaderni Rossi» e che ha annoverato tra le sue fila personalità differenti per
formazione e provenienza politica come Tronti, Panzieri, Asor Rosa, Negri e
Cacciari. Il terzo è quello del cosiddetto “dellavolpismo” che, attraverso
soprattutto la produzione di della Volpe e Colletti, ha cercato di dare una
lettura in chiave scientifica della Critica dell’economia politica di Marx,
marginalizzandone la produzione giovanile e accentuandone allo stesso tempo la
distanza da Hegel. In che modo ha letto Marx negli anni della sua formazione?
Come colloca la sua interpretazione di Marx rispetto a questi tre filoni?
Losurdo:
Non metterei sullo
stesso piano i tre filoni. Il richiamo a Labriola e ancor prima al Risorgimento
non impedisce a Togliatti di mettere l’accento sulla questione coloniale
(ignorata da Labriola, che celebra l’espansione italiana in Libia) e di
denunciare (con Lenin) la «barbara discriminazione tra le creature umane»,
propria del capitalismo e dello stesso liberalismo. Prendendo le mosse dal
Risorgimento e dalle sue correnti più radicali, Togliatti per un verso respinge
la visione cara a Gobetti per il cui il fascismo sarebbe «l’autobiografia di
una nazione», per un altro verso critica la tesi di Croce, secondo cui
l’avvento della dittatura fascista farebbe pensare a un’improvvisa e
inspiegabile esplosione di barbarie e di follia, sarebbe da paragonare
all’«invasione degli Hyksos».
Nella lettura del fascismo l’essenzialismo di Gobetti non è
meno ingenuo dell’autoassoluzione dell’Italia liberale cui procede Croce.
Entrambe le «spiegazioni» del fascismo qui citate hanno il torto di ignorare la
lotta di classe e tra progresso e reazione che caratterizzano la storia
dell’Italia come degli altri paesi. Ed è alla luce di tale lotta che si possono
comprendere l’accettazione in Italia dei risultati della rivoluzione d’ottobre
e la formazione del partito comunista, che non è l’importazione artificiosa di
un’ideologia straniera, come pretendeva la propaganda reazionaria.
In modo analogo, a Cuba, prima ancora che a Fidel Castro, ci
si richiama a José Martí che, pur non avendo conosciuto Marx, ha compreso la
necessità della lotta contro il neocolonialismo, oltre che contro il dominio
coloniale classico, e ha intuito la dimensione anche economico-sociale della
lotta di liberazione nazionale. Oppure in Cina si prendono le mosse da Sun
Yat-Sen che, senza mai essere stato marxista, ha salutato nella rivoluzione d’ottobre
il momento iniziale della rivoluzione anticolonialista mondiale che egli
auspicava e contribuiva a promuovere. In tutti questi casi si sottolineano le
radici nazionali del movimento rivoluzionario che, in questo o quel paese, si
richiama a Marx e a Lenin; resta fermo però che la piattaforma teorica è
costituita dal marxismo-leninismo. È in questa tradizione di pensiero che io mi
riconosco.
Che dire allora della scuola che fa capo a Galvano della
Volpe? Mi sembra che in essa la questione coloniale svolga un ruolo ben
ridotto. Quando nel 1954 Norberto Bobbio comincia a contrapporre negativamente
il campo socialista all’Occidente liberale, Togliatti risponde mettendo
l’accento sulla «barbara discriminazione tra le creature umane» di cui ho già
parlato e rinviando alla condizione dei popoli non solo coloniali ma anche di
origine coloniale (agli afroamericani oppressi dal regime di white supremacy).
Della Volpe, invece, si limita a distinguere tra libertas major (quella
socialista) e libertas minor (quella liberale), senza peraltro chiarire perché
la seconda dovrebbe essere annullata dalla prima. Significativamente, al
momento della sua rottura con il marxismo e il comunismo, Lucio Colletti
traccia un bilancio catastrofico della vicenda storica iniziata con la
rivoluzione d’ottobre senza fare parola dell’impulso da essa scaturito per la
rivoluzione anticolonialista mondiale.
L’atteggiamento a tale proposito assunto dall’operaismo
forse è ancora più discutibile o più inquietante. Nel 1966, Mario Tronti
pubblica Operai e capitale. Vi si immagina «Lenin in Inghilterra» (come suona
il titolo di un capitolo centrale), ma non già per analizzare dall’interno
l’Impero impegnato in una guerra coloniale dopo l’altra e pronto allo scontro
per l’egemonia mondiale, ovvero la «nazione che sfrutta il mondo intero»
(Engels) e nell’ambito della quale, secondo la denuncia di Marx, gli stessi
operai, contagiati dall’ideologia dominante, considerano e trattano alla
stregua di niggers gli irlandesi (gli abitanti della colonia selvaggiamente
sfruttata e oppressa). No, in Inghilterra Lenin si occupa esclusivamente della
fabbrica e della condizione operaia: in altre parole, il grande rivoluzionario
viene letto nella chiave trade-unionista da lui aspramente criticata. È da
aggiungere un’ulteriore considerazione: in Operai e capitale Tronti chiama a
«sopprimere il lavoro», lanciando così una parola d’ordine o una «frase» (nel
senso leniniano del termine) che di fatto esprime la rinuncia a edificare
concretamente una società diversa da quella esistente e comporta la riduzione
del marxismo a (impotente) «teoria critica» ovvero ad attesa messianica.
Credo di aver chiarito le ragioni di fondo e il senso della
mia presa di posizione a favore del primo filone. Per quanto riguarda la mia
«formazione», ritenendola di interesse ridotto, mi limito a un particolare: ho
iniziato pubblicando nel 1970, su «Studi Urbinati» un saggio assai ampio (un
libricino) dal titolo Stato e ideologia nel giovane Marx. Esso suscitò
l’attenzione di Bobbio e fu inserito nella breve bibliografia che conclude la
voce «Marxismo» da lui curata per il Dizionario di politica (Utet). Non ho più
dato alle stampe questo testo, che a tratti risente dell’influenza di
Althusser, un autore dal quale ho successivamente preso le distanze.
Gargani:
«La teoria della lotta
di classe si configura come una teoria generale del conflitto sociale» (LC,
53), questa sembra a tutti gli effetti la tesi centrale su cui è costruito
l’intero impianto de La lotta di classe. Prima di guardare più da vicino alla
specifica declinazione che Lei offre di questa tesi, vorrei chiederLe se la
«teoria della lotta di classe» rappresenta per Lei l’aspetto più importante del
pensiero di Marx e che relazione vede tra tale «teoria della lotta di classe» e
il maturo progetto marxiano di una Critica dell’economia politica?
Losurdo:
Il capitale, che come sottotitolo porta Critica
dell’economia politica, dedica ampio spazio alla lotta della classe operaia per
la riduzione dell’orario di lavoro, alle forme particolari e supplementari di
sfruttamento imposto alla forza-lavoro femminile, allo sterminio dei pellerossa
e alla «caccia ai pellenera» (ai neri da schiavizzare) che accompagnano
l’emergere e lo sviluppo del capitalismo. Sono dunque ben presenti i tre fronti
della lotta di classe di cui parlo nel mio libro. Per quanto riguarda più
propriamente la critica dell’economia politica, un punto dev’esser chiaro: in
Marx essa non ha nulla a che fare con la visione cara al giovane Ernst Bloch,
il quale nel 1918 invoca la fine di «ogni economia privata» e di ogni «economia
del denaro» nonché della «morale mercantile che consacra tutto quello che di
più malvagio vi è nell'uomo». Sono gli anni in cui la carneficina della prima
guerra mondiale viene messa sul conto sì del sistema
capitalisticoimperialistico e della gara per la conquista delle materie prime,
dei mercati e del massimo profitto, ma anche e soprattutto sul conto dell’auri
sacra fames. Sono anche gli anni in cui nella Russia sovietica si afferma il
«comunismo di guerra», letto e celebrato da un fervente cattolico (Pierre
Pascal) in quel momento a Mosca come l’avvento di una società all’insegna di
una compiuta eguaglianza, di una società dove c’è posto solo per «poveri e
poverissimi». Si tratta di motivi e di prese di posizione che, nel clima
ideologico del tempo, suscitano un’eco considerevole nell’ambito del partito
bolscevico e del movimento comunista internazionale. Conviene allora ricordare un
brano del Manifesto del partito comunista: non c’è «nulla di più facile che
dare all’ascetismo cristiano una mano di vernice socialista»; è così che si
atteggiano quanti invocano «un ascetismo universale e un rozzo egualitarismo».
In altre parole, in Marx la critica dell’economia politica non ha nulla a che
fare con la rivendicazione della distribuzione egualitaria della miseria o
della penuria o con la celebrazione populistica della miseria o della penuria
come luogo dell’eccellenza morale. Già nei Manoscritti economico-filosofici
possiamo leggere che il capitalismo pretende di trasformare il proletario in
uno «schiavo ascetico ma produttivo». La critica dell’economica politica non è
il culto dell’austerità o della «decrescita»; è invece la critica di un ordinamento
che con Smith promette la «ricchezza delle nazioni» ma che di fatto nelle
larghe masse popolari comporta l’ascetismo coatto (e la miseria spirituale
tendenzialmente connessa a tale condizione). Ed è tale ordinamento che la lotta
di classe è chiamata a rovesciare.
Gargani:
«La storia di ogni
società sinora esistita è la storia delle lotte di classe», con queste parole
si apre Il Manifesto del partito comunista. Lei commenta questa tesi
affermando: «Il passaggio dal singolare al plurale fa chiaramente intendere che
quella tra proletariato e borghesia è solo una delle lotte di classe e queste,
attraversando in profondità la storia universale, non sono affatto una
caratteristica esclusiva della società borghese e industriale» (LC, 7). Lei
riconosce una pluralità di forme della lotta di classe, esortando così a
sottrarsi a un’interpretazione binaria di essa, declinata cioè esclusivamente
nei termini della lotta borghesia-proletariato. Accanto a quest’ultima, Lei
individua essenzialmente altre due forme di lotta di classe, ossia quella per
l’emancipazione della donna e quelle per l’emancipazione dei popoli dalla
condizione coloniale prima e neo-coloniale poi. Sono però gli stessi Marx ed
Engels – a fronte di importanti prese di posizione ad esempio pro-unioniste
durante la Guerra di Secessione americana, così come per la liberazione
nazionale della Polonia nel 1863 o in difesa della rivolte irlandesi (lotte non
immediatamente leggibili attraverso lo schema binario di una lotta di classe
proletariato/borghesia) – a non aver dato una cornice teorica compiuta alla
propria lettura plurale delle lotte di classe, che tuttavia de facto hanno
dimostrato in più occasioni di seguire. Non è possibile interpretare questa
carenza teorica anche in ragione del permanere in Marx ed Engels di una certa
attrazione verso una dimensione di filosofia della storia intesa quale processo
finalistico? In altre parole, il fatto che Marx ed Engels privilegino la lotta
di classe tra proletariato e borghesia non dipende essenzialmente dal fatto che
questa lotta appare ai loro occhi come portatrice di una contraddizione
storicamente decisiva, nella cui soluzione è riposta una certa carica
messianica?
Losurdo:
È da considerare indubbio «il fatto che Marx ed Engels
privilegino la lotta di classe tra proletariato e borghesia»? In realtà, nelle
loro opere amplissimo è lo spazio dedicato alla questione nazionale in Polonia
e in Irlanda e alla questione coloniale. E proprio la riflessione su tali
problematiche stimola conclusioni teoriche di grande rilievo: «Non è libero un
popolo che ne opprime un altro». E ancora: «La profonda ipocrisia, l’intrinseca
barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle
grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi
alle colonie, dove vanno in giro ignude». Giudicare un paese (e il suo
ordinamento politico) facendo astrazione dalla sua politica internazionale e
dalla sorte da esso riservata ai popoli coloniali o di origine coloniale, come
ancora oggi continua a fare l’ideologia dominante, significa mutilare la realtà
e non tener conto del grande detto di Hegel (ben noto a Marx e a Engels): «La
verità è l’intero».
Resta fermo, tuttavia, che Marx ed Engels non hanno «dato
una cornice teorica compiuta alla propria lettura plurale delle lotte di
classe»; non hanno pensato sino in fondo la rottura, che pure stavano operando,
con la lettura binaria del conflitto sociale; e dunque non hanno portato a
termine tale rottura. Lenin si è spinto più avanti in questa direzione, anche
se il clima apocalittico della prima guerra mondiale ha ostacolato anche in lui
una resa dei conti finale. Nella lettura binaria è insito il rischio del
messianismo. Devo però aggiungere che rompere con la lettura binaria e con il
messianismo non significa accettare la visione, già criticata da Hegel, secondo
cui non ci sarebbe nulla di nuovo sotto il sole e tutto si ridurrebbe a un
«mattatoio». Non si tratta di scegliere tra una visione che riduce il processo
storico a un incessante e insensato mattatoio e un finalismo nell’ambito del
quale la predeterminazione del risultato finale cancella di fatto la «serietà
del negativo».
Gargani:
La sua lettura plurale
delle lotte di classe parrebbe dal punto di vista teorico per alcuni versi
debitrice verso lo scritto del 1937 di Mao Zedong Sulla contraddizione.
L’attenzione di Mao nel distinguere tra la «contraddizione principale» e le
«secondarie» sembrerebbe presente al fondo della sua lettura plurale delle
lotte di classe, che ambisce a cogliere in profondità la natura specifica della
congiuntura. La sua teoria delle lotte di classe guarda pertanto alla
possibilità di “trascendere” la dimensione binaria della lotta di classe tra
borghesia e proletariato, cercando in tal modo di cogliere ove si colloca di
volta in volta nella situazione data la contraddizione decisiva. D’altronde, la
tesi di Mao del 1938 secondo cui nella resistenza anti-giapponese «la lotta di
classe assume la forma della lotta nazionale» (LC, 171) gioca un ruolo decisivo
nel modo in cui Lei legge il conflitto sociale a livello geopolitico. È
effettivamente così? Che peso riveste Mao nella sua interpretazione di Marx?
Losurdo:
Il mio debito nei confronti di Mao è indubbio, convinto e
credo anche dichiarato. Egli riflette sulla più grande rivoluzione
anticoloniale della storia, che si sviluppa mentre continuano ovviamente a
manifestarsi tensioni e conflitti di ogni genere all’interno del grande paese
asiatico e mentre a livello mondiale permane e anzi si acutizza lo scontro tra
le grandi potenze colonialiste e imperialiste che mirano a controllare la Cina:
nel 1937 il Giappone ha preso ormai il posto della Gran Bretagna e degli Stati
Uniti, per essere a sua volta soppiantato dagli USA otto anni dopo. Come
orientarsi in questo intreccio di contraddizioni? Qual è la contraddizione
principale? Come si manifesta la lotta di classe? Su quali alleati e sino a che
punto può contare il protagonista della lotta di classe emancipatrice (il
popolo impegnato a scuotersi di dosso il giogo colonialista)? Nello sforzo di
rispondere a tali domande Mao ha rotto definitivamente con la lettura binaria
del conflitto sociale e ha arricchito Marx ed Engels: in essi la questione
coloniale è ben presente ma i popoli coloniali non appaiono quali protagonisti
di un processo rivoluzionario che modifica profondamente il corso della storia
mondiale.
Gargani:
Un autore al
quale non lesina critiche è Louis Althusser. Di quest’ultimo non accetta la
tesi di una presunta «rottura epistemologica» tra un Marx umanistico pre-1845
(ancora carico di elementi etici di matrice prima liberali radicali poi
feuerbachiani) e un Marx scienziato, anzi fondatore di una «nuova scienza» come
«scienza della storia», lontana sia dall’etica che dall’umanismo, e depositata
ne Il Capitale. In proposito afferma: «Se le Tesi su Feuerbach si concludono
criticando i filosofi che si rivelano incapaci di “trasformare” un mondo nel
quale l’uomo è calpestato e umiliato, Il Capitale è una “critica dell’economia
politica” – come suona il sottotitolo – anche sul piano morale: “l’economista
politico” è criticato non solo per i suoi errori teorici ma anche per la sua
“stoica imperturbabilità” e cioè per la sua incapacità di indignazione morale
dinanzi alle tragedie provocate dalla società borghese; in questo medesimo
contesto va collocata la denuncia dei “farisei dell’economia politica”. In
breve, è difficile immaginare un testo più carico di indignazione morale del
primo libro del Capitale!» (LC, 91) Al di là di ciò, Althusser mi pare un
autore che per molti versi ha valorizzato due questioni che a Lei sembrano
care. Da un lato, penso al tema della pluralità delle contraddizioni, ossia
alla questione della contraddizione «surdeterminata». Quest’ultima è funzionale
in Althusser ad una messa in guardia verso una lettura riduzionistica della
contraddizione, che eviti per l’appunto la riduzione di essa solamente a quella
tra «forze produttive» e «rapporti di produzione». Dall’altro, penso
soprattutto ai saggi raccolti in Lenin e la filosofia e alle Risposte a John
Lewis, Althusser ha posto il massimo accento sulla lotta di classe fin dentro
la pratica filosofica, giungendo ad affermare che «la filosofia è, in ultima
istanza, lotta di classe nella teoria». È critico verso Althusser anche
rispetto a quest’ultimi due aspetti? Non pensa che le tesi anti-umanistiche
althusseriane siano, in fondo, rivolte contro una determinata lettura della
storia in chiave di filosofia della storia (legata cioè secondo Althusser alle
categoria di «fine» e «origine»), da cui Marx intende affrancarsi? Tali tesi
anti-umanistiche non hanno quindi più che altro a che fare con
un’interpretazione non messianica di Marx, verso la quale d’altronde anche Lei
sembrerebbe propendere?
Losurdo:
Avendo letto Lenin, teorico della rivoluzione (che scoppia
nell’anello debole della catena imperialista, là dove maggiormente di addensano
le contraddizioni del sistema) e avendo studiato il saggio di Mao Sulla
contraddizione (al quale Leggere il Capitale esplicitamente si richiama), trovo
interessanti e pertinenti, ma non particolarmente originali, le considerazioni
di Althusser sulla contraddizione «surdeterminata». È vero, nel mio scritto
giovanile sono stato influenzato anch’io dalla polemica contro l’umanismo. Ma è
proprio su questo punto che ora si concentra la mia critica. Non si tratta solo
o in primo luogo di una questione filologica. L’anti-umanismo preclude la
comprensione delle lotte di classe che, ben lungi dall’avere una dimensione
meramente economica, sono lotte per il riconoscimento. Ciò vale in particolare
per le lotte dei popoli coloniali o di origine coloniale, a danno dei quali la
carica di de-umanizzazione insita nel sistema capitalistico-imperialistico si
manifesta e opera in modo particolarmente brutale.
Ecco perché, nel corso della storia moderna e contemporanea,
le grandi prove di forza tra anticolonialismo e colonialismo, tra abolizionismo
e schiavismo (o semi-schiavismo), hanno visto tutte fronteggiarsi, sul piano
ideologico, il pathos del concetto universale di uomo da un lato e la sua
negazione o irrisione dall’altro, hanno visto fronteggiarsi l’umanismo e
l’anti-umanismo. Un manifesto celebre della campagna abolizionista mostra uno
schiavo nero in catene che esclama: «Non sono anch’io un uomo e un fratello?»
(Am I Not a Man and a Brother?). Alla fine del Settecento, Toussaint Louverture
dirige la grande rivoluzione degli schiavi neri invocando «l’adozione assoluta
del principio per cui nessun uomo, rosso [cioè mulatto], nero o bianco che sia,
può essere proprietà del suo simile»; per modesta che sia la loro condizione,
gli uomini non possono essere «confusi con gli animali», come avviene
nell’ambito del sistema schiavistico. Sul versante opposto, Napoleone, che si
propone di reintrodurre a Santo Domingo/Haiti dominio coloniale e schiavitù
nera, proclama: «Sono per i bianchi, perché sono bianco; non c’è altra ragione
oltre a questa, ma questa è quella buona». Circa un secolo dopo, mentre il
sistema colonialista è al suo apogeo, se dinanzi a certi parchi pubblici del
Sud degli Stati Uniti campeggia la scritta: «Vietato l’ingresso ai cani e ai
negri» (Niggers); a Shanghai, la concessione francese difende la sua purezza
mettendo bene in mostra il cartello: «Vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi».
Facciamo un altro salto nel tempo di un paio di decenni: con lo sguardo rivolto
in particolare ai neri e ai popoli coloniali, lo statunitense Lothrop Stoddard
elabora per la prima volta la categoria di Under man. Il termine viene subito
tradotto in tedesco: Untermensch diventa così la parola-chiave dell’ideologia
nazista e la bandiera che presiede alla gigantesca e barbara controrivoluzione
colonialista e schiavista scatenata dal Terzo Reich. Sul versante opposto,
vediamo i leader del movimento comunista denunciare indignati la dissoluzione
nominalistica del concetto universale di uomo. Lenin richiama l’attenzione sul
fatto che, agli occhi dell’Occidente, le vittime dell’espansionismo coloniale
«non meritano nemmeno l’appellativo di popoli (sono forse popoli gli asiatici e
gli africani?)»; in ultima analisi, esse vengono escluse dalla stessa comunità
umana. Ancora più esplicito è Gramsci, il quale denuncia i «bianchi
superuomini» e fa notare che, persino per un prestigioso filosofo (Bergson),
«in realtà “umanità” significa Occidente».
In conclusione: sono in gioco secoli di storia e di lotta di
classe; non possiamo comprenderli a partire dall’anti-umanismo. Mi rendo conto
che nella sua polemica Althusser prende di mira un «umanesimo» impegnato a
occultare la realtà dello sfruttamento e dell’oppressione. Sennonché, qui
interviene secondo me un secondo errore. Non ci sono termini ideologicamente e
politicamente «puri». Per fare solo un esempio: negli USA dell’Ottocento
«democratico» si definiva il partito impegnato a difendere prima la schiavitù
nera e poi il regime di white supremacy, ma questo non è un motivo per irridere
la rivendicazione della democrazia. La liquidazione della piattaforma teorica
che presiede a secoli di lotte di classe provoca due conseguenze assai
rilevanti e assai negative:
1) Marx ha più volte insistito sul fatto che la sua teoria è
l’espressione teorica di processi e movimenti reali. Con Althusser, invece, ha
luogo uno slittamento nell’idealismo. Il materialismo storico è visto come il
risultato della genialità di un singolo individuo: facendo seguito alla
scoperta del «continente matematico a opera dei greci» e del «continente fisico
a opera di Galilei e dei suoi successori», Marx si lancia alla scoperta del
«continente Storia». Dopo aver ripetutamente rimproverato all’umanismo di
occultare la lotta di classe, ora è proprio Althusser a far dileguare la lotta
di classe alle spalle dell’elaborazione del materialismo storico.
2) Lo slittamento nell’idealismo è al tempo stesso uno
slittamento nell’eurocentrismo. In Marx e in Engels (e in Lenin, Gramsci ecc.)
il materialismo ha alle spalle per un verso la rivoluzione industriale, per un
altro verso la rivoluzione politica, in primo luogo quella francese. Entrambe
queste rivoluzioni non hanno una dimensione esclusivamente europea. La prima
rinvia in qualche modo al processo di formazione del mercato mondiale,
all’espansionismo coloniale, all’accumulazione capitalistica originaria; la
seconda vede uno dei suoi momenti più alti nella sollevazione degli schiavi
neri di Santo Domingo e nell’abolizione della schiavitù coloniale decretata a
Parigi dalla Convenzione giacobina. Con Althusser, invece, l’elaborazione del
materialismo storico risulta essere il capitolo di una storia intellettuale che
si svolge esclusivamente in Europa.
Gargani:
Lei coglie in Marx una
«visione tragica del processo storico e della stessa lotta di classe», la quale
lo porta ad esempio ad ammettere come «le rivendicazioni nazionali dei cechi o
di altre nazionalità possono smarrire la loro legittimità, non perché in sé
prive di fondamento, ma in quanto assorbite da una realtà più potente, che
costituisce una minaccia ben più grave per la libertà e l’emancipazione delle
nazioni» (LC, 158). Riconosce poi l’importanza del gramsciano «momento
catartico» (LC, 232), quale presupposto per acquisire un’autentica coscienza di
classe che legittima l’accettazione di rinunce che coprono periodi storici
anche non brevi. Riporta il caso del proletariato come classe politicamente
dirigente, ma non economicamente dominante durante la NEP (LC, 227-228) e cita
qui Benjamin che vede nella NEP l’interruzione dell’«osmosi di denaro e potere»
(LC, 228). L’acquisizione di uno sguardo sinottico, capace quindi di
legittimare entro il quadro complesso della congiuntura rinunce che paiono nell’immediato
in aperto contrasto con gli interessi della classe che intendono rappresentare
costituisce una questione classica del leninismo (a dire il vero già in
Kautsky), ossia quella della coscienza di classe «portata dall’esterno». Lei
dice in proposito: «L’acquisizione della coscienza di classe e la
partecipazione alla lotta rivoluzionaria di classe presuppongono la
comprensione della totalità sociale in ogni suo aspetto» (LC, 150). Qui si apre
un problema che mi sembra un po’ in ombra nel suo La lotta di classe, ossia il
ruolo che il partito, o comunque una forza politica organizzata,
necessariamente riveste nel riconoscere, orientare e in ultima istanza plasmare
lotte di classe che altrimenti rimarrebbero allo stato incipiente e si
disperderebbero facilmente. Che ruolo e peso riveste il partito o più in
generale la forza politica organizzata nel riconoscimento, conduzione – e per
molti nella vera e propria “creazione” – delle lotte di classe?
Losurdo:
A partire dalla lettura che faccio del Manifesto del partito
comunista, il mio libro è anche una storia dei partiti che si sono richiamati
al socialismo. Particolare attenzione (due paragrafi) riservo al Che fare?,
cioè al testo in cui Lenin si impegna a fornire una fondazione teorica al
partito bolscevico. Il mio libro è altresì una storia del processo che conduce
dalla Prima alla Terza Internazionale (con qualche cenno critico anche alla
Quarta), cioè una storia delle Associazioni internazionali dei partiti di
orientamento socialista o comunista.
A tale proposito mi soffermo a lungo a dimostrare che non è
l’Internazionale il possibile protagonista della rivoluzione: in occasione
delle grandi crisi storiche, dalla guerra franco-prussiana ai due conflitti
mondiali, la Prima, la Seconda e la Terza Internazionale (per non parlare della
Quarta) si sono rivelate incapaci di essere all’altezza della situazione. È la
conferma che a guidare vittoriosamente il processo rivoluzionario (e di
edificazione dell’ordine nuovo) può essere solo il partito di un determinato
paese, un partito che, pur nel suo internazionalismo, respinge ogni forma di
«nichilismo nazionale» (per dirla con Dimitrov), riesce a radicarsi su un
terreno nazionale e finisce in qualche modo con il rappresentare
tendenzialmente, al di là della causa del proletariato, quella della nazione
nel suo complesso. Va comunque da sé che la teoria del partito può essere
sviluppata e approfondita ulteriormente.
Gargani:
La sua «teoria delle
lotte di classe» al plurale contiene alcuni aspetti che potrebbero suonare un
po’ impopolari e, a tratti, persino ruvidi alle orecchie di certi orientamenti
culturali odierni. Lei compie in generale un riconoscimento del ruolo centrale
del lavoro e della produzione quale strumenti imprescindibili in tutti i paesi
excoloniali o semi-coloniali che cercano di impostare una società socialista,
si richiama in tal senso al caso storico dell’Unione Sovietica della NEP e
sempre a quest’ultima quale modello a cui si ispira la stagione di riforme
economico-politiche introdotte da Deng Xiaoping in Cina sul finire degli anni
’70 (LC, 227). Tutto ciò presuppone teoricamente un ampio riconoscimento del
peso teorico di concetti quali individuo, lavoro e in ultima istanza
responsabilità. Tale sottolineatura si pone diametralmente controcorrente rispetto
alla critica alla soggettività che, a partire da Foucault, raccorda oggi uno
schieramento ampio del panorama filosofico. In tal senso Lei critica anche
l’attacco di Serge Latouche verso il «totalitarismo produttivista» e la
«società della crescita» (SA, 261). Se il suo discorso ci pare legittimo
rispetto ai paesi ex-coloniali o semi-coloniali in cui vince o ha vinto una
rivoluzione socialista, in cui la priorità diventa quindi in primo luogo quella
di colmare il gap economico con i paesi più avanzati per non ripiombare in una
condizione di nuova dipendenza economico-politica, dai suoi testi sembrerebbe
emergere meno il problema della conformazione della soggettività e della
specifica natura del lavoro nella società occidentale contemporanea. Quest’ultima
pare infatti presentare una soggettività costitutivamente passiva innanzi alle
dinamiche della riproduzione e anestetizzata rispetto all’idea non solo della
lotta di classe, ma del conflitto tout court. Al di là di molte accentuazioni
filosofiche improprie contenute nella critica alla soggettività – Lei definisce
polemicamente Foucault «una sorta di icona» per la «sinistra occidentale» (SA,
267) – non crede tuttavia che si presenti oggi nella società occidentale una
forma di soggettività per molti tratti nuova, di cui la «biopolitica» ha saputo
cogliere alcuni aspetti?
Losurdo:
Non mi convince molto la contrapposizione tra «Est» e
«Ovest» ovvero tra «Sud» e «Nord», e non solo perché anche (o forse
soprattutto) a «Ovest» e a «Nord») occorre combattere lo smantellamento dello
Stato sociale, la polarizzazione sociale e il ritorno della figura del working
poor. La ragione principale è un’altra. Neppure l’impegno ecologico in senso
stretto può fare a meno dell’appello all’«individuo» e al suo senso di «responsabilità»:
diversamente, che efficacia avrebbe la lotta contro l’inquinamento? S’impone
anche il «lavoro»: è pur sempre il lavoro, sia pure altamente qualificato, a
rendere possibile la riduzione di energia per unità di prodotto, il ricorso
alle energie rinnovabili, la progettazione e costruzione di abitazioni e città
che rendano più agevoli il risparmio di energia e di acqua, la promozione e la
diffusione del verde, la protezione dell’ambiente.
No, per comprendere il fenomeno ideologico cui Lei accenna,
occorre forse un approccio diverso. Ai giorni nostri, assai folta è la schiera
di coloro che con Nietzsche annunciano l’eclissi del soggetto e, più
enfaticamente, con Foucault, la morte dell’uomo; non meno folta è però la
schiera di coloro che, con Bobbio e numerosi altri autori, parlano dei diritti
dell’uomo come della religione civile del nostro tempo. Queste due analisi sono
tra loro difficilmente compatibili; eppure non mancano coloro che, soprattutto
a sinistra, si richiamano contemporaneamente a Nietzsche-Foucault e a Bobbio,
alla morte dell’uomo e alla religione dei diritti dell’uomo. Siamo immersi in
un clima ideologico in cui la musica delle parole ha il sopravvento sul rigore
concettuale: non invitava Giorgio Colli ad «ascoltare Nietzsche come si ascolta
la musica»? Tra le due visioni qui messe a confronto la seconda mi sembra
decisamente più attendibile: continuano a fiorire le organizzazioni,
governative o non-governative, impegnate a scoprire e denunciare ogni possibile
offesa all’uomo (e alla donna), al soggetto. Così diffusa e sentita è la
religione dei diritti dell’uomo (e della donna) che essa è regolarmente
strumentalizzata da quello che da più parti è stato definito l’«imperialismo
dei diritti dell’uomo». Resta tuttavia da spiegare la diffusione del motivo
dell’eclissi o della morte del soggetto e dell’uomo (ho cercato di farlo a
conclusione di un mio saggio dedicato a Sebastiano Timpanaro).
In sintesi e con il ricorso a un’analogia: dopo aver
celebrato da giovane (e nel clima di entusiasmo suscitato dalla rivoluzione
francese) il passaggio dalla «perdita di sé» (in un «mondo estraneo») alla
conquista della «soggettività», negli anni della Restaurazione Schelling
condanna la «filosofia negativa» (in primo luogo quella hegeliana), accusata di
aver preso le mosse dal cogito ergo sum, dalla soggettività cartesiana. Come
spiega Hegel, con il sopraggiungere della delusione e del disincanto, la
celebrazione della creatività del soggetto può agevolmente rovesciarsi nel suo
contrario. In modo analogo nel secondo dopoguerra, dopo essersi entusiasmata
per il pathos dell’engagement del soggetto e aver sottoscritto la polemica di
Sartre contro il materialismo storico (incapace di mostrare che «la realtà
dell’uomo è azione»), la sinistra occidentale è approdata all’heideggeriana
denuncia dell’oblio dell’essere ovvero alla presa d’atto, tutt’altro che
sofferta, della morte del soggetto e dell’uomo.
Nel frattempo il clima ideologico e politico sta di nuovo
cambiando. La crisi economica da un lato e l’aggravarsi dei pericoli di guerra
dall’altro stanno provocando un certo risveglio, come dimostrano l’imponente
mobilitazione nel 2003 contro la seconda guerra del Golfo e le più recenti
manifestazioni contro «Wall Street e War Street». Quello che ancora manca è
un’analisi articolata e persuasiva del quadro mondiale emerso con la fine della
guerra fredda e, successivamente, con il delinearsi del declino dell’Impero
americano.
Gargani:
Lei afferma:
«Qualunque sia la conclusione che se ne voglia trarre, occorre prendere atto di
un’amara verità: se attuata in modo prematuro e in forme ingenue, la
democratizzazione di un paese può significare il via libera alle manovre
destabilizzatrici e golpiste e comportare il trionfo della dittatura planetaria
dell’imperialismo. È la conferma che non ha alcuna credibilità una professione
di fede democratica che non lotti in primo luogo per la democratizzazione dei
rapporti internazionali» (SA, 171). Richiama in proposito quello che definisce
il «sillogismo di guerra» che è alla base degli interventi cosiddetti
“umanitari” degli ultimi venticinque anni: «ci sono valori universali;
l’Occidente ne è l’interprete e il custode esclusivo e dunque è titolare del
diritto a esportare tali valori universali, eventualmente facendo ricorso anche
a una guerra sovranamente dichiarata» (SA, 156). Dice anche: «È evidente che,
arrogandosi il diritto di dichiarare superata la sovranità di altri Stati, i
paesi della NATO si attribuiscono una sovranità dilatata e imperiale, da
esercitare ben al di là del proprio territorio nazionale. In forme nuove si
riproduce la dicotomia (nazioni elette e realmente fornite di sovranità/popoli
indegni di costituirsi in Stato nazione autonomo) che è propria
dell’imperialismo» (SA, 186). Rispetto al concetto di sovranità, Lei ricorre a
quella che definisce la «classica» definizione weberiana di «sovranità statale»
come «monopolio della violenza legittima» e aggiunge «sul piano internazionale
gli USA si comportano già come se detenessero il monopolio della violenza
legittima riservando esclusivamente a se stessi (e ai suoi alleati e
subalterni) lo jus ad bellum e controllando di fatto la Corte penale
internazionale e l’esercizio della giustizia internazionale nel suo complesso»
(SA, 187). Se si guarda invece a una concezione schmittiana della sovranità,
quanto accade nei cosiddetti “interventi umanitari” non parrebbe più essere
qualcosa che viene sistematicamente violato, ma il manifestarsi dell’autentica
natura della sovranità medesima, ossia di un concetto giuridico
costitutivamente fondato sulla possibilità del “trascendimento” di quel piano
legale stesso, che tale sovranità è al tempo stesso chiamata a legittimare. Non
le sembra quindi che sia il concetto di sovranità pensato da Carl Schmitt nella
sua Teologia politica, ossia la tesi per cui «sovrano è chi decide sullo stato
d’eccezione», a manifestare l’autentica natura dellasovranità operante nelle
ripetute (e impunite) violazioni odierne del diritto internazionale compiute
attraverso gli “interventi umanitari”?
Losurdo:
Non vedo contraddizioni tra Weber e Schmitt; non a caso, il
secondo si è talvolta atteggiato a continuatore del primo. L’uno e l’altro
hanno il merito di aver formulato due illuminanti giudizi di fatto: a definire
lo Stato moderno ovvero uno Stato moderno ben funzionante è il monopolio della
violenza legittima; a definire il sovrano è la sua idoneità a decidere lo stato
d’eccezione (e di conseguenza a ristabilire il monopolio della violenza
legittima, messo in crisi dall’esplosione di una crisi devastante sul piano
politico o politico-costituzionale). Subito dopo il trionfo conseguito nella
guerra fredda, i presidenti statunitensi, che si sono succeduti a Washington,
si sono atteggiati a leader dello Stato mondiale in costruzione: le guerre da
loro scatenate erano per definizione operazioni di polizia internazionale
mentre coloro che resistevano erano fuorilegge da sottoporre a giudizio e da
condannare (era il tentativo di attribuire agli USA il monopolio della violenza
legittima); i presidenti statunitensi si avvalevano delle risoluzioni del
Consiglio di Sicurezza dell’ONU ma non esitavano ad agire anche in loro
assenza, allorché ai loro occhi si verificava una crisi umanitaria che esigeva
in ogni caso un intervento risolutore (l’inquilino della Casa Bianca pretendeva
di essere il sovrano che decideva lo stato d’eccezione). Significativamente, un
esponente di primo piano della «rivoluzione neoconservatrice» (Robert Kagan)
invitava gli USA ad abbandonare ogni esitazione e a comportarsi «davvero da
sceriffo internazionale, uno sceriffo che magari si è appuntato da solo la
stella sul petto, ma che comunque è gradito ai più e cerca di imporre un minimo
di pace e giustizia in un mondo selvaggio, in cui bisogna scoraggiare o
annientare i banditi, spesso con le armi». Era il 2003, l’anno della seconda
guerra del Golfo, che si scontrava all’ONU con l’opposizione non solo di Russia
e Cina ma anche di Francia e Germania, in Iraq con la resistenza armata di
settori importanti della popolazione, nelle piazze dell’Occidente e del mondo
intero con la protesta di grandi masse. Già in quel momento la pretesa del
presidente statunitense di svolgere il ruolo di sovrano planetario o di
sceriffo internazionale si rivelava velleitaria.
Ma c’è una considerazione più importante. I concetti di
monopolio della violenza legittima e di proclamazione dello stato d’eccezione a
opera del sovrano sono sempre stati declinati al plurale rispettivamente da
Weber e da Schmitt, i quali non hanno mai messo in discussione l’ordinamento
vestfaliano. Se si vuole analizzare l’atteggiamento degli USA alla luce della
lezione di Schmitt, piuttosto che a Teologia politica, conviene far riferimento
a un altro saggio: Völkerechtliche Formen des modernen Imperialimus.
Gargani:
Lei richiama in più
luoghi un celebre passaggio contenuto nel messaggio al Congresso sullo stato
dell’Unione del presidente Franklin Delano Roosevelt nel gennaio 1941, ossia
quello in cui vengono espresse le “quattro libertà” fondamentali su cui dovrà
essere fondato il mondo a venire: di parola, di culto, dal bisogno e dalla
paura. Nel legittimare determinate scelte politiche condotte dai governi cubano
e cinese, Lei introduce la possibilità di istituire una gerarchizzazione nel
rispetto di queste libertà. Tale gerarchizzazione viene giustificata in ragione
della differenza delle condizioni economiche di partenza e soprattutto della
particolare congiuntura internazionale entro cui si trovano ad operare tali nazioni.
Lei dice in proposito: «per secoli sottoposta prima al dominio coloniale
spagnolo e poi al protettorato statunitense, vittima nel 1961 di un tentativo
di invasione, assediata e minacciata da una superpotenza che in passato più
volte ha tentato di assassinare il leader dell’isola ribelle, Cuba è di fatto
costretta a fissare fra i diversi valori universali una scala di priorità, al
vertice della quale è ovviamente collocato il valore, esso stesso universale,
dell’indipendenza e dignità nazionale. Considerazioni analoghe si potrebbero
fare per altri paesi» (SA, 159-160). Rispetto ai dirigenti della Repubblica
popolare cinese, Lei afferma poco oltre: «essi hanno sinora messo l’accento sul
diritto alla vita e sulla liberazione dalla miseria di centinaia di milioni di
persone – valori di cui è difficile contestare l’universalità – piuttosto che
sulla democratizzazione, alla quale tuttavia dichiarano di non voler rinunciare
e alla quale non negano l’attributo dell’universalità, anche se si tratta ora
di una universalità chiamata a rispettare le peculiarità nazionali» (SA, 160).
È tuttavia Lei stesso a mostrarsi consapevole dell’estrema cautela con cui il
discorso sulla «gerarchizzazione» delle libertà va trattato e avverte:
«Ovviamente, se non le priorità fissate dai dirigenti cubani o cinesi (o
vietnamiti ecc.), i tempi di realizzazione dei diversi valori universali
possono essere messi in discussione, ma forse dovrebbero dar prova di minor
sicumera i campioni della Crociata democratica, che negli USA alla prima
occasione hanno largamente ridimensionato il principio e il valore universale
della rule of law, come dimostrano Guantánamo, la pratica della rendition e la
“kill list” settimanale di Obama» (SA, 160). Grosso modo, quindi, parrebbe
esserci una parte, il mondo occidentale, che antepone le libertà di parola e di
culto a quelle dal bisogno e dalla paura e un’altra parte che, per ragioni che Lei
giudica legittime, antepone quelle dal bisogno e dalla paura alle prime due.
Parrebbe qui trovarsi davanti a un vero e proprio caso di lotta di classe a
livello globale, in cui essenzialmente due parti del mondo cercano, a partire
da differenti condizioni di potere economico, politico e mediatico, allo stesso
modo di legittimare “ideologicamente” la propria condotta in tema di diritti e
di politica interna e internazionale. Ne Il Manifesto del partito comunista
Marx, parlando della lotta di classe come «battaglia», aggiunge che essa «si è
ogni volta conclusa con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società o
con il comune tramonto delle classi in conflitto». Se è vero che anche qui ci
troviamo di fronte ad un caso di lotta di classe a livello globale, che esito
prevede da questo conflitto?
Losurdo:
Se anche non l’ho mai sviluppato in modo sistematico, in più
occasioni nei miei libri evoco il tema del «conflitto delle libertà», che in
determinate circostanze può intervenire in questo o quel paese, qualunque sia
il suo regime politico-sociale. Nel gennaio 1941 Franklin Delano Roosevelt
poteva ben proclamare ed enumerare le «quattro libertà», ai suoi occhi tutte
essenziali e irrinunciabili; un anno dopo, però, mentre infuriava la guerra con
il Giappone, con un semplice ordine esecutivo egli decideva la deportazione e
l’internamento di tutti i cittadini americani di origine giapponese, compresi
donne e bambini. Possiamo e forse dobbiamo discutere sino a che punto fosse
reale e fondato il pericolo del formarsi di una quinta colonna sul territorio
statunitense, collocato a migliaia di chilometri di distanza dai teatri delle
operazioni belliche; più difficile è mettere in dubbio l’inevitabilità di una
gerarchizzazione delle libertà (con il primato accordato alla sicurezza
nazionale e alla «libertà dalla paura»), allorché interviene una grande guerra.
Non diversamente si era comportato Wilson in occasione del
primo conflitto mondiale. Che ne era delle tradizionali libertà liberali dopo
il varo, il 16 maggio 1918, dell’Espionage Act? In base a esso si poteva essere
condannati sino a venti anni di carcere per essersi espressi «in modo sleale,
irriverente, volgare o abusivo sulla forma di governo degli Stati Uniti, ovvero
sulla Costituzione degli Stati Uniti, ovvero sulle forze militari o navali
degli Stati Uniti, ovvero sulla bandiera [... ] ovvero sull’uniforme
dell'esercito o della marina degli Stati Uniti». È una regola: «pur protetta
dall’Atlantico e dal Pacifico, ogni volta che a ragione o a torto si è sentita
in pericolo, la repubblica nordamericana ha proceduto a un rafforzamento più o
meno drastico del potere esecutivo e a un restringimento più o meno pesante
delle libertà di associazione e di espressione. Ciò vale per gli anni
immediatamente successivi alla rivoluzione francese (allorché i suoi seguaci in
terra americana erano colpiti dalle dure misure previste dagli Alien and
Sedition Acts), per la Guerra di secessione, la prima guerra mondiale, la
Grande depressione, la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, la situazione
venutasi a creare dopo l’attacco alle Torri gemelle» (SA, 168). D’altro canto,
è un testo classico, anzi sacro, del costituzionalismo liberale statunitense ad
affermare a chiare lettere che in situazioni di crisi acuta il potere esecutivo
deve poter procedere «senza limiti» (without limitations) e senza «vincoli
costituzionali» (constitutional shackles) (Hamilton, «The Federalist», n. 23).
Come si vede, la tesi secondo cui sempre e in ogni caso gli
USA considererebbero irrinunciabili le libertà liberali è un mito o, per
l’esattezza, un’ideologia della guerra agitata contro i potenziali nemici. Per
lungo tempo la Repubblica popolare cinese è stata esclusa dall’ONU, è stata
assediata sul piano diplomatico, economico e militare, è stata il bersaglio di
minacce che non escludevano neppure il ricorso all’arma nucleare; tuttora essa
vede un gigantesco apparato di guerra minacciosamente dispiegato agli
immeditati confini del suo spazio marittimo e aereo. In queste circostanze, ci
si può stupire della grande attenzione, anzi della priorità riservata dal
grande paese asiatico alla sicurezza nazionale ovvero alla «libertà dalla
paura»?
Il conflitto delle libertà può manifestarsi anche tra
diritti liberali da un lato e diritti economicosociali dall’altro. La priorità
di questi ultimi è stata riconosciuta da grandissimi filosofi occidentali.
Secondo Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto, § 127), l’uomo che rischia
la morte per inedia subisce di fatto una «totale mancanza di diritti».
Agevolato anche da un forte potere esecutivo, che ha
impedito il deragliamento degli inevitabili conflitti politici, sociali e
nazionali, il prodigioso sviluppo economico della Cina ha liberato centinaia di
milioni di persone da quella situazione di «totale mancanza di mancanza» che,
almeno in parte, era il risultato dell’aggressione colonialista iniziata con le
guerre dell’oppio. Si può benissimo criticare il carattere lento e
contraddittorio del processo di democratizzazione nel grande paese asiatico, ma
il modo con cui esso affronta i due conflitti delle libertà qui analizzati e la
priorità accordata alla sicurezza nazionale e ai diritti economico-sociale ovvero
alla «libertà dalla paura» e alla «libertà dal bisogno», tutto ciò mi sembra
difficilmente contestabile. In ogni caso, l’Occidente liberale non ha alcun
titolo per ergersi a maestro e domino.
Gargani:
Lei è tra i firmatari
dell’Appello per la ricostruzione del partito comunista e ha preso attivamente
parte ad alcune iniziative nel quadro di questo progetto, ma ha intitolato il
suo libro La sinistra assente. Insomma, professor Losurdo, sinistra o
comunismo? In che termini vede queste due posizioni politiche, ne privilegia lo
iato o la continuità?
Losurdo:
L’ultimo capitoletto del Manifesto del partito comunista
porta il titolo: «La posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti
d’opposizione». Sono i partiti che, sia pure a partire da posizioni ideologiche
e politiche, intendono anche loro trasformare «le condizioni politiche e
sociali esistenti» e che più tardi Marx ed Engels, analizzando i dibattiti
dell’Assemblea di Francoforte, definiranno come la «sinistra». Rispetto a tale
«sinistra», i comunisti assumono un atteggiamento che è al tempo stesso di
unità e di lotta (di critica delle debolezze e inconseguenze a essa
rimproverate). Su tale linea si sono collocati i partiti socialisti e comunisti
più maturi ed è in tale tradizione che io mi riconosco. Non vedo alcuna
contraddizione tra l’impegno per «la ricostruzione del partito comunista» e
l’augurio e l’incoraggiamento per la ripresa della sinistra nel nostro paese (e
in Occidente).
Una volta superata la
lettura binaria del conflitto sociale, si comprende benissimo l’esistenza di
forze che, pur non sottoscrivendo in alcun modo il programma comunista di
rovesciamento dell’ordinamento capitalista-imperialista, si battono per la
difesa dello Stato sociale e per una politica di pace. Semmai, sono stati autori
quali Bobbio a ritenere che il rovesciamento del «campo socialista» in Europa
orientale e la dissoluzione dei partiti comunisti in Occidente avrebbe dato
slancio alla sinistra occidentale, finalmente liberata dal piombo nelle sue
ali. Com’è noto, è avvenuto il contrario. Su ciò richiama l’attenzione La
sinistra assente. A tale proposito il libro precisa che la ripresa della
sinistra in Occidente (che a tratti si delinea) implica la lotta sì contro
smantellamento dello Stato sociale ma anche contro guerre il cui carattere
neocoloniale e le cui conseguenze catastrofiche sono ormai sotto gli occhi di
tutti
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