*Da: contropiano.org/
Leggi anche: https://alganews.wordpress.com/2016/06/26/leditoriale-la-meravigliosa-vendetta-di-varoufakis/
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/e-la-rivolta-dei-deboli-anche-litalia-al-collasso/
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/e-la-rivolta-dei-deboli-anche-litalia-al-collasso/
1) Limitare
ulteriormente la democrazia allo scopo di ridurre al minimo i costi delle
transazioni internazionali senza tenere in considerazione la sferzata sociale
ed economica che l’economia globale di quando in quando produce
2) Limitare la
globalizzazione per ricostruire in patria una legittimità democratica
3) Globalizzare la
democrazia a scapito delle democrazie nazionali
IL “TRILEMMA” DI RODRIK: non è possibile avere contemporaneamente
iperglobalizzazione, democrazia e autodeterminazione nazionale.
Riportiamo qui la
traduzione di un articolo di Will Denayer, originariamente pubblicato su
Flassbeck Economic International. È un contributo interessante nel dibattito
all’interno della sinistra euro-critica che mette bene in luce le irrisolvibili
criticità del fronte che continua a sostenere la necessità di una maggiore
integrazione in senso democratico della UE e quindi la possibilità di una
riforma progressista di questo polo geo-politico-economico.
Entrando più a fondo nel campo della rottura della UE, Denayer pone degli attenti punti di analisi nella discussione tra chi insiste sulla priorità dell’uscita nazionale e chi invece predica un’utopistica “rivoluzione continentale”, mostrando come una così netta distinzione fra queste due prospettive manchi del senso di realtà di cui la lotta contro la UE necessita: la dimensione nazionale è ancora prevalente come contesto per l’organizzazione della lotta di classe e come base dell’affermazione di una alternativa politica, perché lo Stato è ancora il soggetto della sovranità e quindi della possibile rottura; ma senza un punto di vista e un piano di alleanze e di lavoro internazionale – nel caso specifico lavorando sull’anello debole, sul possibile punto di rottura, che nella Ue corrisponde alla faglia tra paesi dominanti e Piigs che lo stesso processo di integrazione e gerarchizzazione continentale ha generato – la rottura con l’Ue si ridurrebbe nella migliore delle ipotesi a un salto nel buio alla mercé della speculazione, dei mercati, degli apparati coercitivi dell’istituzione europea, nella peggiore in un ritorno a un nazionalismo che non può che essere, nel contesto attuale e dati gli attuali rapporti di forza, xenofobo, isolazionista e contrario agli interessi delle classi popolari. (Contropiano)
Entrando più a fondo nel campo della rottura della UE, Denayer pone degli attenti punti di analisi nella discussione tra chi insiste sulla priorità dell’uscita nazionale e chi invece predica un’utopistica “rivoluzione continentale”, mostrando come una così netta distinzione fra queste due prospettive manchi del senso di realtà di cui la lotta contro la UE necessita: la dimensione nazionale è ancora prevalente come contesto per l’organizzazione della lotta di classe e come base dell’affermazione di una alternativa politica, perché lo Stato è ancora il soggetto della sovranità e quindi della possibile rottura; ma senza un punto di vista e un piano di alleanze e di lavoro internazionale – nel caso specifico lavorando sull’anello debole, sul possibile punto di rottura, che nella Ue corrisponde alla faglia tra paesi dominanti e Piigs che lo stesso processo di integrazione e gerarchizzazione continentale ha generato – la rottura con l’Ue si ridurrebbe nella migliore delle ipotesi a un salto nel buio alla mercé della speculazione, dei mercati, degli apparati coercitivi dell’istituzione europea, nella peggiore in un ritorno a un nazionalismo che non può che essere, nel contesto attuale e dati gli attuali rapporti di forza, xenofobo, isolazionista e contrario agli interessi delle classi popolari. (Contropiano)
- Varoufakis
Questo testo si occupa di strategia, ma la strategia non può
essere considerata separatamente dalle persone e dalle loro storie e azioni.
Syriza è sempre stato un intricato conglomerato di gruppi di molte provenienze
politiche, ma da quando è salito al potere nel gennaio 2015, fino alla sua
capitolazione sette mesi più tardi, le due maggiori fazioni hanno combattuto
una lotta feroce. Da una parte c’era una sinistra eterogenea, che voleva
mantenere le promesse elettorali (il programma di Salonicco): non ci sarebbe
più stata l’austerità, la Grecia avrebbe negoziato un taglio del debito e, se
la Troika avesse spinto il paese oltre il limite, il gruppo avrebbe sostenuto
l’uscita dall’eurozona. Anche la leadership del partito, d’altro canto,
voleva porre fine all’austerità. Ma in nessun caso era disposta ad uscire
dall’eurozona.
Come spiega Lapavitsas, la leadership di Syriza si era
convinta che se avesse respinto un nuovo piano di salvataggio, i creditori
europei si sarebbero piegati di fronte al pericolo finanziario e politico. La
mente di questa strategia era Yanis Varoufakis. Ha negoziato con i creditori
per più di sei mesi. Ma la Grecia non poteva negoziare efficacemente senza un
piano alternativo, compresa la possibilità di uscire dall’eurozona. La
creazione di una propria liquidità era l’unico modo per evitare il cappio della
troika. Questo sarebbe stato tutt’altro che facile, naturalmente, ma almeno
avrebbe offerto la possibilità di resistere alle catastrofiche strategie di
salvataggio. Ma la leadership di Syriza non ne aveva nessuna intenzione.
‘Syriza ha fallito,’ scrive Lapavitsas, ‘non perché
l’austerità sia invincibile, né perché un cambiamento radicale sia impossibile,
ma perché, disastrosamente, non era né disposta né preparata ad impostare una
sfida diretta all’euro. Un cambiamento radicale e l’abbandono dell’austerità in
Europa richiedono un confronto diretto con l’unione monetaria stessa. Per i
paesi più piccoli questo significa prepararsi ad uscire, per i paesi principali
significa accettare cambiamenti decisivi rispetto agli accordi monetari
disfunzionali.
Oggi Varoufakis è tornato come l’iniziatore di DiEM2025
(Democrazia in Europa). L’ex primo ministro greco delle Finanze gode di molta
credibilità nella sinistra europea. Gran parte di questa credibilità si basa
sulla leggenda metropolitana che il governo di Syriza abbia messo in piedi una
lotta eroica conto le potenze non democratiche in Europa, le quali hanno
mostrato non avere alcuna comprensione economica, nessuna considerazione per il
destino del popolo greco e una palese mancanza di rispetto per la democrazia.
Lo stesso discorso sta venendo riproposto. Nel 2015 per il
governo greco non ci fu in ultima analisi nessuna scelta se non accettare le
condizioni della Troika. Oggi, DiEM2025 vuole riformare le istituzioni dell’UE.
Ancora una volta, non vi è nessuna scelta. Una lotta a livello nazionale è
impossibile, la sinistra si deve unire in tutta Europa e combattere le
istituzioni sostenute dalla UE. L’obiettivo di DiEM2025 è “democratizzare
l’Unione europea con la consapevolezza che altrimenti si disintegrerà ad un
costo terribile per tutti”. Rimangono solo altre due “opzioni terribili”:
rifugiarsi nell’ormai antiquato “bozzolo dello stato-nazione”’, o arrendersi
all’oligarchia europea. L’obiettivo di DiEM2025 è di “convocare una assemblea
costituente” in cui gli europei delibereranno su come portare avanti, entro il
2025, una democrazia europea a pieno titolo, con un “parlamento sovrano’ che
‘rispetti l’autodeterminazione nazionale e condivida il potere con i parlamenti
nazionali, assemblee regionali e consigli comunali’. Questo è, come Varoufakis
ammette al The Independent, sicuramente ‘utopico.’ Ma, continua, è ‘molto più
realistico che cercare di mantenere il sistema così com’è’ oppure ‘di
cercare di lasciarlo.’ Che tu sia greco o britannico, ‘scappare’ è impossibile.
Sentite suonare un campanello?
- Quali riforme?
Il sistema di ‘democrazia sovranazionale’ di DiEM2025 deve
poggiare su un ‘Parlamento europeo significativamente potenziato, che dovrebbe
essere l’unico promotore della legislazione europea’, insieme a ‘un ramo
esecutivo completamente ristrutturato, compreso un presidente europeo eletto
direttamente.’ Questo sistema garantirebbe che la Commissione attui politiche
che si basano sulla volontà del popolo. Tutto deve poggiare sui risultati
elettorali di nuovi partiti veramente transnazionali.
Qui sono da notare alcuni problemi. Per cominciare, la
proposta presume -stranamente- che esista un nesso causale tra l’autorizzazione
del parlamento e il cambiamento politico e ideologico. Ma come dovrebbe essere?
Gli Europei eleggeranno un parlamento più a sinistra nel momento in cui i
poteri di questa istituzione aumentino? Come avverrà questo potenziamento del
PE? Il PE non può attuarlo da solo, per cui è richiesto qualcos’altro. Perché
concentrarsi sul PE per cominciare? Un tale cambiamento può avvenire solo
quando i rapporti di forza all’interno della Commissione e i due Consigli
cambino. In effetti, ciò che è necessario è una revisione quasi completa di
tutte le istituzioni politiche europee. E questo può avvenire solo a
seguito di cambiamenti a livello nazionale. Perché allora concentrarsi sul
livello sovranazionale per iniziare?
DiEM2025 ha una strategia (per così dire) per ottenere un
cambiamento politico. La nuova democrazia sovranazionale europea deve andare a
braccetto con la creazione di un “elettorato post-nazionale o sovranazionale”.
Ma come funzionerebbe? Come Thomas Fazi fa notare giustamente, è evidente che
per la grande maggioranza dei cittadini europei le barriere linguistiche e le
differenze culturali compromettono la possibilità di partecipazione politica a
livello sovranazionale. Questo può sembrare un’ovvietà, ma è una preoccupazione
reale. Perché abbiamo bisogno di tali soggetti? Cosa possono ottenere che gli
altri non possono? Non vi è alcun straccio di prova che questo farebbe avanzare
le cose.
È vero il contrario. Una maggiore integrazione, anche se
accompagnata da un rafforzamento del parlamento, non è equivalente a un maggior
controllo popolare. Varoufakis ingenuamente pensa che una versione migliorata
del Parlamento europeo sarebbe sufficiente per un adeguato controllo
democratico sulle decisioni della UE. Come sostiene giustamente Fazi, questo
ignora completamente la questione della presa oligarchica. La ricerca dimostra
abbondantemente che i problemi relativi al lobbysmo portati ad un livello
sovranazionale peggiorano. I trasferimenti di sovranità a loci internazionali
contribuiscono all’indebolimento del controllo popolare. Questi loci sono,
in generale, fisicamente, culturalmente e linguisticamente più distanti dalla
popolazione rispetto a quelli nazionali. E questo porta ad una maggiore presa
oligarchica.
Nell’Unione Europea ci sono due fonti di legittimazione
democratica: il Parlamento Europeo, eletto direttamente dai cittadini
dell’Unione europea, e il Consiglio dell’Unione europea (Consiglio dei
Ministri), insieme con il Consiglio Europeo (i capi dei governi nazionali). La
Commissione Europea è nominata dai due organismi. Molto di negativo può essere
detto a proposito del PE, e con buone ragioni, ma la verità è anche che il PE è
profondamente diverso dai parlamenti nazionali. In teoria, i membri dei
parlamenti nazionali hanno il potere di legiferare. Questo non è il caso del
PE, il quale può solo emettere emendamenti che la Commissione successivamente
può accettare o rifiutare. Tuttavia, nei parlamenti nazionali, mediamente meno
del 15% delle iniziative legislative dei singoli membri del parlamento
diventano legge. Pochissimi membri del parlamento (o nessuno) potranno mai
proporre una normativa che non sia stata approvata in precedenza dal loro
partito e/o che non sia il prodotto di negoziati con i partner della
coalizione. Certo, il PE non lavora come un parlamento con pieni poteri
dovrebbe funzionare, ma non funziona così neanche la maggior parte dei
parlamenti nazionali. Questo significa anche che la lotta per la “democrazia in
Europa” deve essere svolta a livello nazionale. Non è solo una malattia a
livello delle istituzioni europee, è una malattia in tutta Europa.
Le istituzioni della UE sono una scatola vuota se i governi
nazionali non eseguono un backup delle politiche europee. Votare nel Consiglio
avviene sia mediante votazione a maggioranza che all’unanimità. Tutte queste
decisioni sono prese da politici nazionali o rappresentanti nazionali. Lo
stesso vale per il Comitato esecutivo della Banca centrale europea. Ci sono un
presidente, un vicepresidente e altri quattro membri. Tutti questi componenti
sono nominati dal Consiglio europeo. Le decisioni della BCE sono fatte da
questi sei membri più i governatori delle banche nazionali dei 19 paesi della
zona euro. Il collegamento con il livello nazionale è sempre chiaro.
La situazione all’interno della Commissione è peggiore. La
Commissione ha un presidente che viene eletto dal PE. Questo significa molto
poco, perché l’ultima (e la prima) volta in cui questo è successo, il nome di
Juncker era l’unico sulla scheda elettorale. Gli altri 27 commissari sono
non-eletti, il che significa che la loro posizione è il risultato dei negoziati
tra i governi nazionali. Nel corso degli anni, è diventata un’abitudine
adottare una normativa in un’unica lettura. Nuovi pacchetti di governance
economica, come ad esempio il Fiscal Treaty, il Six-Pack, il Two-pack e il
Semestre Europeo sono state adottate in maniere che sono fondamentalmente
antidemocratiche. Questo è evidentemente molto sbagliato e ha certamente
bisogno di essere cambiato, ma in che modo è diverso dalla legislazione nella
maggior parte dei parlamenti nazionali in Europa? L’austerità e le riforme sono
in discussione nei parlamenti fino a quando la minoranza vota contro di esse e
la maggioranza le approva, con qualche dissidente qua e là. Nessun governo
nazionale in Europa è caduto in conseguenza all’introduzione di misure di
austerità. Questo dimostra che il problema non si trova esclusivamente a
livello europeo. Infatti, senza la macabra ossessione che comprende
ordoliberalismo, monetarismo, competitività, mercantilismo e “riforme
strutturali” a livello nazionale, l’UE sarebbe impotente nel suo portare avanti
questa agenda.
Allo stesso tempo, come scrive Wolfgang Kowalsky, le
ambizioni di politiche sociali sono state sostanzialmente abbassate verso gli
standard ILO che sono ben al di sotto gli attuali standard minimi europei.
Questo è, ancora una volta, molto sbagliato. Ma guardiamo a ciò che sta
accadendo a livello nazionale: non è affatto diverso da quello che accade in
Francia, Regno Unito o in Belgio o in molti paesi dove i governi conservatori
(di qualsiasi parte o colore) implementano (o cercano di implementare) una
pletora di leggi anti-sociali.
Invece di questo ‘façadism’, attività di facciata, come la
chiama Kowalsky (l’organizzazione di un “anno del cittadino UE”, etc.), ci sono
molte iniziative che l’UE potrebbe promuovere se fosse interessata alla
democrazia. Potrebbe, ad esempio, rendere reale la democrazia UE sul posto di
lavoro e lavorare per la democrazia industriale – termini che non si trovano
mai in nessun documento di politica europea (PE incluso). Invece le istituzioni
(PE compreso) stanno ora cercando di intromettersi nel territorio nazionale
riguardo alla contrattazione collettiva fissando limiti sull’evoluzione dei
salari – una chiara strategia per distruggere l’autonomia delle parti sociali.
Ma, ancora una volta, la stessa cosa è anche in atto, in una forma o
nell’altra, nella maggior parte dei paesi europei e così vediamo che anche
questa è una lotta che deve essere combattuta a livello nazionale, non dai
partiti transnazionali, ma dai partiti social-democratici e della sinistra
democratica.
- Il TINA (“there is no alternative”: non c’è alternativa) della sinistra
Il TINA di DiEM è molto peggio della analisi fallace che fa
delle istituzioni europee e della loro negazione dei rapporti di potere
nazionali. In esso non vi è nulla di accidentale. È la logica conseguenza della
loro sottostante diagnosi di ciò che è sbagliato nel mondo: se le nazioni sono
diventati impotenti di fronte alla globalizzazione, allora non ha senso avviare
una lotta politica a livello dello Stato nazionale. Che è la tesi di DiEM. Ma
lo Stato nazione non è diventato impotente di fronte alla globalizzazione.
Il pensiero che DiEM2025 e molti altri promuovono è che il
modello della politica basata sullo Stato nazione sia “finito” (Varoufakis). In
Europa, gli Stati-nazione hanno guadagnato “responsabilità senza potere”,
mentre il livello sovranazionale ha guadagnato “potere senza responsabilità”.
La sovranità dei parlamenti nazionali si è dissolta. Oggi i mandati elettorali
nazionali sono impossibili da soddisfare proprio per la loro stessa natura.
Quindi, la riforma delle istituzioni europee (o più precisamente il PE) è
l’unica opzione rimanente. Varoufakis è ben lungi dall’essere l’unico a vederla
in questo modo. Secondo Slavoj Zizek, la lezione che la sinistra deve imparare
dall’”episodio Syriza” è che è impossibile combattere il capitalismo globale in
un solo paese. Secondo Zizek, la “nuova tentazione socialdemocratica
neo-keynesiana” che è al momento in voga in alcuni ambienti e che mira ad
attivare una lotta a livello di Stato-nazione non è che una cortina di fumo
attuata dalla pseudo-sinistra incentrata sul nazionalismo e sul
populismo, creata per dare l’illusione alla popolazione di poter fare la
differenza. Ciò è messo in bella maniera, ma non è vero.
Come fanno a saperlo, e perché sono così sicuri? Alcuni anni
fa, Dani Rodrik ha presentato quello che lui chiama “il trilemma politico
dell’economia mondiale”. Nelle condizioni di “vera integrazione economica
internazionale” la democrazia, la sovranità nazionale e l’integrazione
economica globale diventano incompatibili fra loro. È possibile combinare due
qualsiasi delle tre, ma mai tutte e tre contemporaneamente e completamente. Se
si vuolee più globalizzazione, è necessario rinunciare a un po’ di democrazia o
di sovranità nazionale. Ad esempio, se una nazione sceglie di agganciare la sua
moneta e consentire ai flussi di capitale di entrare e uscire senza
restrizioni, non può anche impostare autonomamente il proprio tasso di
interesse. In questo contesto, l’aspetto politico dello Stato-nazione si
restringe.
Il trilemma di Rodrik è ovviamente famoso. Come scrive
giustamente Bill Mitchell, è stato abilmente venduto da tutte le forze
politiche in tutto il mondo. La dottrina è incredibilmente conveniente. Dì alla
popolazione che lo Stato-nazione è “finito”, che non è in grado di garantire la
piena occupazione (o di attuare politiche per arrivarci) e ti liberi dalla
responsabilità senza nemmeno doverci provare. Lo stesso vale per l’austerità o
qualsiasi altra cosa. Se lo Stato-nazione è “finito”, è inutile opporsi.
Chiedersi se questo è vero è, naturalmente, una domanda che non si pone quasi
mai – “tutti” sembrano conoscere la risposta. Ma non è quello che voleva
dire Rodrik. Il titolo del suo articolo “Quanto lontano andrà l’integrazione
economica?” dovrebbe fornire un suggerimento. Contrariamente alla visione
tradizionale, Rodrik ha scritto che l’integrazione economica internazionale non
è “vera”, cioè rimane notevolmente limitata, anche nel nostro presunto mondo
globalizzato. È vero che la data del paper di Rodrik risale al 2000, ma il
mondo non è cambiato molto nel frattempo. Come osserva Mitchell, ci sono ancora
i confini nazionali. C’è incertezza dei tassi di cambio, nonostante una
maggiore deregolamentazione. Ci sono grandi differenze culturali e linguistiche
che precludono una mobilitazione piena di risorse oltre i confini nazionali.
Troviamo “home bias” nei portafogli di investimento. Vi è una forte
correlazione tra i tassi di investimento nazionali e tassi di risparmio
nazionali. I flussi di capitale tra paesi ricchi e poveri sono
notevolmente inferiori rispetto a quello che prevedono i modelli teorici. Ci
sono ancora forti restrizioni alla mobilità internazionale del lavoro. La
verità è che non viviamo in un mondo completamente globalizzato. Ergo, gli
Stati-nazione possono perseguire le proprie politiche. Questa è la conclusione
raggiunta da tutti coloro che approfondiscono il tema (vedi qui per uno studio
di Godar, Paetz e Truger sulle possibilità di politiche redistributive e di
sviluppo a livello nazionale nella UE e qui per
una panoramica della letteratura).
Non ci sono prove per il TINA di DiEM. La loro tesi secondo
la quale il capitale è diventato completamente sovranazionale e che “noi”, al
fine di combattere e avere una possibilità, abbiamo bisogno di seguire e
portare la lotta allo stesso livello sovranazionale stesso. Il carattere ‘senza
freni’ del capitale sarà combattuto a livello nazionale, che a sua volta
porterà alla cooperazione internazionale o non sarà combattuto. Se il capitale
è diventato completamente senza freni e lo Stato-nazione è “finito”, perché
Goldman-Sachs e altri pagano Hillary Clinton milioni di dollari per discorsi
che devono rimanere segreti? Perché le lobbies pompano miliardi di dollari
nelle istituzioni che regolamentano le nazioni, perché i think thank e le
agenzie di marketing non hanno altro obiettivo che indirizzare l’opinione degli
elettori che spuntano in tutto il mondo, perché il settore delle imprese è così
desideroso di comprare i media in modo che i suoi confini ideologici possano
essere strettamente salvaguardati? È forse perché lo Stato-nazione è “finito”?
Come Bill Mitchell ha scritto sul suo blog qualche tempo fa,
“la realtà attuale (è) che i politici hanno ancora la capacità legislativa per
limitare l’attività economica attraverso le frontiere (…) La sfida reale non è
quella di cedere la sovranità nazionale a un mitico stato di integrazione
economica internazionale, ma di resistere allo scivolare nelle tecnocrazie
durante il processo di elaborazione delle politiche nazionali, e di assicurare
che i sistemi di voto non siano corrotti dai lobbisti che lavorano
nell’interesse di specifiche elites di capitale”.
E perché questo non accade? Possiamo accusare la destra di
molte cose, ma certamente non del fatto di essere di destra. Sono quello che
sono. Ma lo stesso non è vero per la sinistra. Come Bill Mitchell scrive:
“Il problema è che la stupidità dei politici di sinistra ha
accettato il mito che l’integrazione economica internazionale è così avanzata e
inevitabile che hanno dovuto abbandonare i tradizionali obiettivi progressisti
e, invece, servire gli interessi del capitale. La loro logica è l’implausibile
affermazione che in qualche modo manterranno quella posizione politica volta a
fornire i risultati più giusti”.
Questo, in estrema sintesi, è ciò che è accaduto nel corso
degli ultimi trenta anni circa. Non è la finanziarizzazione che ha spezzato la
schiena della socialdemocrazia (come Varoufakis ha recentemente dichiarato alla
televisione olandese), ma la falsa ideologia che niente possa più essere fatto,
che il cambiamento strutturale sia impossibile, che la lotta politica a livello
dello Stato-nazione sia finita e che l’unica cosa che resta da fare sia gestire
lo Stato in una vena neoliberista, con un po’ di “correzioni sociali” qua e là,
correzioni che si rivelano del tutto insufficienti nella misura in cui la
socialdemocrazia (come il New Labour nel Regno Unito con Blair) non ha
accettato completamente l’ideologia neoliberista sugli “scrocconi di welfare”
ecc. e ha reso per i disoccupati e i poveri tutto ancora peggio di quanto già
non fosse.
Resta il fatto che è possibile per i paesi che hanno una
propria valuta, seguire le proprie politiche economico-politiche che hanno, tra
gli altri, la piena occupazione come obiettivo. Questo è il vero problema. Non
si tratta della democratizzazione delle istituzioni. Non si tratta di necessità
di una politica europea transnazionale. Non si tratta di nulla di ciò che si
sente nell’aria, un modello di società che, come spiega Varoufakis, è
“allo stesso tempo libertaria, marxista e keynesiana”. Ciò di cui abbiamo bisogno
sono partiti di sinistra che siano in grado di vincere le elezioni nazionali.
- Perché dare la priorità a livello nazionale?
Se DiEM2025 vuole combattere per “istituzioni europee più
democratiche’, lasciamoli fare. Ma la lotta più importante si svolgerà a livello
nazionale.
Nulla può danneggiare l’oligarchia Europea più
dell’abbandono dell’MUE da parte delle nazioni (o la minaccia di farlo), del
riaggiustamento, del ritorno alla crescita e a un’azione politica migliore di
quella ultra-neoliberale e disfunzionale dell’eurozona.
Ovunque in Europa il capitale crea divisioni tra fittizie
linee di frattura etniche e culturali perseguendo una strategia “divide
et impera” nei confronti del lavoro. La sinistra deve combattere questa lotta
su ogni scala possibile. L’internazionalismo non ha mai significato rinunciare
alla lotta nazionale. È vero il contrario. Questo non ha assolutamente nulla a
che fare con il nazionalismo. Non si tratta di quello che gli inglesi o
tedeschi possono fare perché sono inglesi o tedeschi, ma del fatto che la
maggior parte del progresso può essere fatta su questi livelli. Gli irlandesi
hanno sconfitto la privatizzazione dell’acqua. Ciò non ha avuto bisogno di una
lotta europea. La privatizzazione dell’acqua è probabilmente impossibile da sconfiggere
a questo livello. Ma gli irlandesi lo hanno fatto nel loro paese. È
semplicemente, la strategia di compiere progressi laddove si possono ottenere i
maggiori risultati. Ciò non esclude la solidarietà internazionale. Al
contrario, è una condizione affinché tale solidarietà esista. Abbiamo bisogno
di autentici partiti socialdemocratici che vincano le elezioni a livello
nazionale, che inviino rappresentanti di sinistra al Parlamento europeo, al
Consiglio e alla Commissione e keynesiani alla BCE. La lotta per gli
investimenti, il recupero e contro l’austerità e le lobbies deve essere portata
all’interno di queste istituzioni. Come raggiungeranno questo obiettivo i
partiti politici transnazionali? È a livello nazionale (e locale) che le
persone si relazionano alla politica. È lì che esistono i principali punti di
forza.
Questo, naturalmente, non è come la vede Varoufakis. Come ha
spiegato a The Independent, quasi otto anni dopo lo scoppio della crisi
finanziaria la disoccupazione nell’UE è ancora a livelli di crisi, è due volte
più alta che negli Stati Uniti e nel Regno Unito – i quali stanno ora
raggiungendo ciò che gli economisti considerano la “piena occupazione”. Per
cominciare, nessuno crede a queste statistiche. Ci sono milioni di disoccupati
in questi paesi. “Se la disoccupazione fosse ancora stata al 10-11% nel Regno
Unito o negli Stati Uniti, l’amministrazione sarebbe crollata” Varoufakis dice
all’Independent. Come fa a saperlo? In Spagna, dove la disoccupazione è già
oltre il 20%, il governo è fallito? È fallito il governo irlandese? Il
principale partito di austerità dell’Irlanda è stato rieletto e il vecchio
primo ministro è tornato al potere. Nessun partito transnazionale può cambiare
questo. Ma possono farlo partiti socialdemocratici decenti, autentici ed etici,
se sorgono.
Nel testo originale sono presenti numerose note e rimandi
visibili al seguente link:
Traduzione di Angela Zaccheroni
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